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La famiglia di fronte all'handicap .
di   Enzo Magazzini

1. La famiglia di fronte all'handicap

Essere genitore di un bambino con handicap, non è un ruolo che una persona sceglie. Nessuno chiede di esserlo, né c’è chi è preparato ad una responsabilità così faticosa e impegnativa: è un compito difficile, che spesso atterrisce e demoralizza.

La nascita di un bambino disabile costituisce un evento fortemente destabilizzante per qualsiasi famiglia, sovente distrugge con violenza gli equilibri preesistenti, impone problemi complessi e per lo più sconosciuti ai genitori.

Per molto tempo l'handicap, nel suo impatto sulla famiglia, è stato esaminato come uno "stress", mentre gli atteggiamenti genitoriali sono stati prevalentemente inquadrati come una reazione a tale stress in termini di uso difensivo delle risorse psichiche individuali e di coppia. Senza dubbio lo stress gioca un ruolo basilare nella situazioni di handicap e nel determinare le reazioni dei genitori, ma vanno altresì richiamati altri concetti che servono per definire la complessa materia di cui stiamo parlando.

Preferibilmente la reazione familiare alla nascita di un bambino handicappato può essere assimilata ad un "dolore morale cronico", ma non è accettabile che le dinamiche familiari si cristallizzino in uno stato, irreparabile e irreversibile, di "disperazione controllata". Tra questa e le altre forme reattive, di rassegnazione, di negazione ecc., è possibile rintracciare una serie di reazioni positive, di "riparazione del vulnus" e di "adattamento maturativo”.

La storia degli studi riguardanti le dinamiche familiari collegate all'handicap di un figlio è abbastanza recente e l'esordio di tali ricerche può essere collocato agli anni '50; è impossibile rintracciare opere valide scientificamente che affrontano l'argomento prima di questa data.

Uno dei primi significativi studiosi dell'argomento fu Farber, autore di due importanti saggi del 1959 e del 1960, il quale ha il merito di aver prospettato la necessità di un approccio globale alla famiglia del bambino portatore di handicap.

Farber, nei suoi saggi, descrive le ripercussioni che la nascita di un bambino handicappato produce rispetto alla stabilità della famiglia. Egli ipotizza che le famiglie passino attraverso vari stadi: il ciclo inizia con il matrimonio e la nascita del primo figlio, il secondo periodo comprende gli anni della scuola materna, il terzo comincia quando il figlio più piccolo è preadolescente. La sequenza si esaurisce quando tutti i figli sono diventati adulti e giunti al matrimonio. Nel caso di un figlio handicappato, il ciclo si arresta o rimane incompiuto; indipendentemente dall'età, il bambino handicappato assume il ruolo sociale di figlio più piccolo. In questa maniera, secondo Farber, la famiglia non riesce a superare lo stadio della preadolescenza e pertanto il processo di integrazione familiare rimane incompleto.

Il primo approccio alle famiglie dei bambini portatori di handicap, si riassume nella tesi che "un bambino handicappato costituisce un fattore di stress di per sé ineliminabile, che non può non incidere negativamente sul benessere e sul funzionamento della famiglia."

Pertanto secondo questo approccio l'handicap è visto come una variabile il cui peso rimane immodificato; la famiglia ne risulta dunque danneggiata e penalizzata irrimediabilmente.

Più recentemente gli studi sulle famiglie dei bambini handicappati hanno posto maggiore attenzione non tanto allo stress costituito dalla situazione di handicap infantile, quanto alle modalità di reazione e di risposta messe in atto dalla famiglia. E' avvenuto così uno spostamento dell'analisi sull'adattamento, sulle dinamiche che la famiglia mette in atto per affrontare la situazione.

Un tale cambiamento di approccio si inserisce in una più vasta evoluzione culturale e sociale, espressa in Italia prima della Legge 118 del 1971, sull'inserimento dei minori handicappati, la cui applicazione fu parziale e conflittuale, ma più che altro dalla Legge-quadro n. 104 del 1992. Questa evoluzione culturale e sociale trova riscontro anche nella normativa di altri Paesi.

Negli Stati Uniti la Public Law 94-142, cioè l'Education for All Handicap Children Act del 1975, apportò novità significative. Con questa legge, che favoriva la scolarizzazione sistematica dei bambini portatori di handicap, furono introdotti i Programmi educativi individualizzati, dalla cui critica e revisione sono derivati i più recenti provvedimenti legislativi dell'America del nord, i quali chiedono che i genitori partecipino a pieno titolo alle decisioni prese in campo educativo sui loro figli. Viene così riconosciuto un ruolo prioritario alla famiglia del bambino handicappato, ruolo che è di mediazione e di controllo tra l'erogazione dei servizi e la loro utilizzazione da parte del bambino destinatario.

Nel 1986 una norma federale ha poi esteso alla fase prescolare la competenza assistenziale delle norme, vi sono inoltre incluse direttive affinché siano elaborati progetti individualizzati di servizio familiare. Disposizioni analoghe sono state introdotte nel Regno Unito, nello stesso anno, con la "Disabled Persons Tom Clark Act".

Il dato sicuramente più significativo delle tendenze recenti, è che l'handicap di un figlio non deve essere visto come l'handicap della famiglia, né dunque considerato un fattore di destrutturazione inevitabile. Si acquista inoltre consapevolezza della eterogeneità delle famiglie interessate e della necessità di evitare generalizzazioni improprie.

Avere un figlio con handicap può colpire i genitori in vari modi e le reazioni delle famiglie possono essere molto varie, ma è possibile, seppur molto difficile, prevederle. Come illustra Gargiulo: "In alcune famiglie avere un figlio handicappato è una tragedia; in altre è una crisi che può risolversi; per altre ancora non è un problema in sé, ma piuttosto un elemento nella lotta quotidiana per la sopravvivenza".

Questo contributo intende illustrare le varie fasi attraversate dalla famiglia di un bambino disabile dal momento in cui decide di avere un figlio, (scoprendo poi l'handicap del bambino), fino ad arrivare allo stadio della sua accettazione e del relativo adattamento.

E' importante precisare che, come scrive lo stesso Gargiulo: "non tutti i genitori passano attraverso la stessa sequenza di reazioni. Questi stadi dovrebbero essere visti come fluidi, in quanto i genitori passano e ripassano attraverso di essi secondo il proprio individuale processo di adattamento: alcuni possono rimanere in uno stadio di dolore e rabbia; altri non provano alcuna forma di rifiuto, altri ancora accettano e si adattano piuttosto rapidamente all'handicap del figlio. Inoltre non è detto che i genitori passino attraverso questi stadi. Ognuno reagisce in modo personale".

 

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