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La filosofia dell'educazione di John Dewey dalle lezioni del 1899 a Democrazia e Educazione
di  Maria Francesca Picella

2. Filosofia dell'educazione: elementi di continuità tra 1899 e 1916

2.1 Il nesso tra studi pratici ed intellettuali e la distinzione tra educazione formale ed informale

Nel 1963, Reginald D. Archambault[1], durante una sua ricerca su Dewey nella libreria del Grinnell College, venne a scoprire un manoscritto, contenente una raccolta di lezioni, tenute dal filosofo americano tra l’inverno del 1898 e l’inverno del 1899, presso l’Università di Chicago[2], sul tema filosofia dell’educazione.

Esse, pubblicate solo nel 1966 a New York, e tuttora non disponibili in traduzione italiana[3], ci mostrano il particolare punto di vista di Dewey su tutti gli aspetti dell’educazione, dai problemi più pratici, tecnici e pedagogici, approdando alle più teoretiche considerazioni filosofiche e psicologiche.

A mio avviso, è molto interessante vedere come in queste lezioni sia possibile già trovare alcune idee del giovane filosofo (che si sta costruendo la sua personale filosofia dell’educazione) che verranno poi riprese, con aggiunte, in Democrazia e Educazione (1916), opera di passaggio prima che Dewey approdi ad una completa maturazione delle sue posizioni filosofiche e pedagogiche.

Le lezioni di filosofia dell’educazione rappresentano a loro volta “il testo essenziale di passaggio dalle opere giovanili alle due grandi sistemazioni del pensiero pedagogico deweyano, Come pensiamo e Democrazia e educazione, delle quali rappresentano il nucleo originario”[4]. E’ come dire che nelle lezioni abbiamo già il “pilot study”[5] dell’opera del 1916.

I punti fondamentali delle lezioni vengono evidenziati dallo stesso Archambault, il quale aggiunge anche veri e propri riassunti schematici per ciascuna lezione.

La questione si apre subito con il discorso intorno alla natura dell’educazione, con l’importante distinzione tra educazione formale e informale (lezioni I-XIII).

Il secondo raggruppamento di lezioni è dedicato interamente al discorso intorno all’intrinseca organizzazione della cosiddetta scuola di vita, della quale vengono considerate sia il curriculum specifico del corso di studi, sia il metodo adottato (lezioni XIII-XVIII).

Nella terza parte del manoscritto troviamo, invece, quelle lezioni in cui Dewey si concentra su l’organizzazione delle materie di studio quali matematica, storia, scienze e geografia, ma anche arte e vere e proprie esercitazioni attraverso l’attività manuale (lezioni XVIII-XXX).

Le ultime lezioni riguardano, infine, l’organizzazione del metodo, basato su concetti come attenzione, interesse, gioco, ma soprattutto imparare ed apprendere attraverso l’esperienza (lezioni XXX-XXXIII).

Si arriva, dunque, un po’ a quello che nel 1916 sarà un learning by doing e che qui è già un learning by experience.

D’altra parte lo stesso anno in cui teneva queste lezioni[6], Dewey veniva a scrivere, nella sua prima grande opera pedagogica, che la scuola:

“può affiatarsi allora con la vita, diventare la dimora del ragazzo, dove egli impara vivendo, invece di ridursi ad un luogo dove si apprendono lezioni, che hanno un’astratta e remota relazione con qualche possibile vita che gli toccherà di vivere in futuro. Essa ha la possibilità di diventare una comunità in miniatura, una società embrionale”[7].

Nel 1899, Dewey è, dunque, già perfettamente consapevole del legame che deve esserci tra la scuola e la realtà del lavoro, in modo tale da rendere il bambino gradualmente partecipe della coscienza sociale, in vista di un sempre maggior progresso sociale.

A tal fine, la scuola dovrà innanzitutto cambiare volto e presentarsi come una vera e propria scuola-laboratorio in cui, accanto alle molteplici attività teoriche, siano anche presenti quelle produttive (come ad es. la tessitura e la falegnameria) e familiari (si pensi all’attività del cucinare).

Dewey sottolinea, infine, anche l’importanza che viene ad assumere in questo tipo di educazione il lavoro manuale, che rende i ragazzi:

“svegli e attivi, anziché passivi e ricettivi; li rende più utili, più capaci, e quindi maggiormente inclini ad aiutare in famiglia; li prepara quindi in qualche modo ai doveri pratici della vita”[8] .

Ed ancora prosegue Dewey:

“Dobbiamo concepire il lavoro in legno e in metallo, il tessere, il cucire, il cuocere come metodi di vita e di apprendimento, non come insegnamenti a sé.

Dobbiamo intendere il loro significato sociale, li dobbiamo considerare tipi di processi mediante i quali la società progredisce, operazioni con le quali si rendono familiari ai fanciulli certe primarie necessità della vita in comune e modi mediante i quali queste esigenze sono state soddisfatte dalla crescente penetrazione e ingegnosità dell’uomo; in breve li dobbiamo considerare strumenti mercé i quali la scuola è destinata a diventare una forma schietta di attiva vita in comune, anziché un luogo appartato dove si apprendono lezioni”[9] .

Per queste ragioni, Dewey arriva a concepire, già in questi anni, per la sua scuola laboratorio, un apposito curriculum, in stretta connessione con le problematiche della vita sociale.

Da quanto detto finora, traspare ormai con una certa evidenza il pragmatismo che sta alla base della pedagogia deweyana, soprattutto per quel che concerne il costante contatto che essa pone tra momento teorico e pratico, in modo tale che al centro dell’apprendimento si collochi il “fare” dell’educando, quell’ “imparare vivendo” di Scuola e società che va di pari passo con il learning by experience delle lezioni ed il learning by doing di Democrazia e educazione.

Arrivati a questo punto, urge, però, fare una precisazione. E’ certo che, per il filosofo americano, il semplice processo di vivere da solo già di per sé educa. Ma esiste ovviamente una profonda differenza tra questo tipo di educazione, che Dewey definisce semplicemente come accidentale o naturale, e l’educazione di cui sta, invece, ora parlando, quella diretta, intenzionale, anche detta educazione formale, e che viene impartita dalla scuola.

La prima, spiega Dewey nell’opera del 1916, s’innesca spontaneamente dalla relazione con gli altri: ciascuno di noi è, infatti, inserito fin da subito in una società in cui la presenza dell’altro è inevitabile. In questo rapporto costante con l’altro, il singolo individuo partecipa, dunque, ad un’esperienza più ampia, potremmo dire allargata, che produce in lui esperienza e, dunque, arricchimento. In Democrazia e educazione si legge, infatti:

“lo stesso processo della vita è insieme educativo. Esso allarga e illumina l’esperienza, stimola e arricchisce l’immaginazione”[10] .

La vita sociale, però, man mano che la civiltà avanza facendosi sempre più complessa e determinando così un sempre crescente divario tra capacità originali ed attuali, tra capacità dei giovani ed interessi degli adulti, esige un’educazione formale.

Quest’ultima, indispensabile perché si verifichi una completa trasmissione di tutti i risultati raggiunti fino ad un dato momento da una società complessa, è promossa da organismi o istituzioni ad hoc: le scuole.

Con questa importante differenza (da cui prenderà le mosse l’intero discorso di Dewey e la sua stessa filosofia dell’educazione) si apre, dunque, l’opera del 1916.

Ad essa, però, come ho già ricordato, Dewey aveva, per la verità, già dedicato alcune lezioni (1898), per la precisione le lezioni III-IX, contenute nella prima sezione del suddetto manoscritto, intitolata “La Natura e lo svolgimento dell’Educazione”.

In queste lezioni, il punto di partenza della filosofia dell’educazione di Dewey è rappresentato, in particolare, dallo studio della storia delle diverse forme di educazione.

Il discorso si apre subito con un esplicito richiamo al filosofo Platone. Per quest’ultimo, ci spiega Dewey, non esisteva alcuna distinzione tra l’educazione che i bambini apprendono nella vita in famiglia e la disciplina che vengono ad impartire loro gli adulti nella vita sociale, servendosi delle leggi dello Stato.

Platone, prosegue Dewey, era solito definire l’educazione come un continuo processo che dura tutta la vita, in cui gli insegnanti sono la madre, il tutore e le leggi dello Stato; discorso questo che trova una giustificazione se si considera il particolare contesto in cui visse ed agì Platone: la Grecia classica, caratterizzata da una popolazione sostanzialmente omogenea, con stesse tradizioni, credenze religiose ed una lingua comune.

La famiglia stessa, dunque, in una simile visione, veniva ad essere considerata come semplice mezzo per affermare i voleri dello Stato. In caso contrario, infatti, se cioè l’educazione fosse stata eterogenea già a partire dal contesto familiare, si sarebbe corso il rischio di rompere l’equilibrio sociale, arrivando a vere e proprie forme d’anarchia, che avrebbero a loro volta determinato una disintegrazione della società tutta.

All’interno, dunque, della visione tipicamente greca della vita come continuità, un posto centrale veniva ad essere ricoperto dalla famiglia, che comunque aveva soprattutto una funzione da svolgere: formare il cittadino.

Altro contesto educativo fondamentale, oltre la famiglia, è poi storicamente rappresentato dalle scuole filosofiche, inaugurate per primi dai Sofisti.

Esse erano scuole organizzate per l’istruzione, nelle quali si riunivano uomini che condividevano una comune dottrina filosofica.

In queste scuole, che avranno il merito di permettere la trasmissione delle idee e dei valori della Grecia classica attraverso i secoli, s’insegnavano la grammatica, la retorica, le matematiche, ma anche la musica e la filosofia.

Questo metodo d’insegnamento durerà per l’appunto anche in anni successivi, in periodi caratterizzati da una sostanziale eterogeneità a livello di stati sociali, dai quali emergerà la vita moderna.

Dopo la famiglia e la scuola, acquisterà, nel corso degli anni, una certa importanza sul piano educativo la Chiesa, centro di ideali, di morale e di principi spirituali, ma anche vera e propria istituzione politica (elemento quest’ultimo fondamentale, che le permetterà di perpetuarsi attraverso i secoli).

Il metodo che essa adotterà sarà molto diverso da quello delle scuole filosofiche. La Chiesa, infatti, al fine di allargare la sua educazione ad un maggior numero di persone, farà appello alla sfera dei sentimenti, delle emozioni e dell’immaginazione (e non più solo dell’intelletto), collegando così le idee filosofiche con l’elemento religioso.

Quarta istituzione educativa sarà, infine, lo Stato.

Col mutare delle condizioni sociali, il problema dell’educazione diventerà, infatti, di sua competenza perché esso assumerà su di sé ulteriori funzioni che meglio risponderanno alle esigenze di un individuo che si trova ormai a vivere all’interno di una società più evoluta. Questa forma educativa, non a caso, è la più recente.

Dopo questa considerazione storica, la filosofia deweyana dell’educazione (così come si sta organizzando nelle lezioni) passa poi, più nello specifico, a concentrarsi sul problema della relazione tra individuo e ambiente circostante.

Dewey ci parla allora dell’educazione come adattamento, a sua volta inteso come processo dinamico d’interazione tra il singolo individuo capace d’educazione e le varie condizioni sociali nelle quali egli si trova a vivere ed operare. E’ come dire che si tratta di un adattamento reciproco dell’individuo e dell’ambiente sociale, che determina una trasformazione, un cambiamento di entrambi. L’individuo trasforma, infatti, i suoi impulsi istintivi in vere e proprie abitudini, che una volta acquisite non restano però fisse per sempre. Col mutare delle condizioni ambientali, infatti, anche le abitudini si trasformano.

Il processo di adattamento, dunque, non va inteso in senso statico, ma dinamico, come un vero e proprio processo di cambiamento, che è già di per sé crescita, sviluppo. In altre parole, sia per l’organismo che per l’ambiente la norma (“standard”) si trova nel processo di crescita e di sviluppo.

Anche questo elemento lo ritroveremo in Democrazia e educazione, nel capitolo IV, intitolato “L’educazione come crescita”.

Qui Dewey, infatti, sottolineando la grande portata educativa del concetto di sviluppo, afferma:

“La nostra conclusione netta è che la vita è sviluppo, e che svilupparsi, crescere, è vita. Tradotto nei suoi equivalenti educativi, questo significa: a)che il processo educativo non ha altro scopo che se stesso: è il suo proprio scopo; e che: b) il processo educativo è processo di continua riorganizzazione, ricostruzione, trasformazione”[11].

Tornando alle lezioni, Dewey ci presenta poi la teoria dello stimolo-risposta, criticandola[12].

Per lui, infatti, non esiste stimolo puramente fisico-meccanico, cui corrisponde automaticamente una risposta da parte del bambino.

I più efficaci stimoli educativi per il bambino sono i significati che egli stesso assimila attraverso le relazioni sociali informali.

Questi stimoli socializzati (proprio perché il bambino li interpreta attraverso il contesto sociale) vengono da Dewey distinti nei seguenti processi: d’imitazione, di suggestione e di comunicazione.

L’imitazione non è per Dewey mera riproduzione, ma manifestazione di sé. Essa parte, infatti, sempre da un qualche impulso naturale del bambino. E’ come dire che egli imita solo ciò che innanzitutto ha suscitato in lui interesse.

Al proposito, sono comunque due i punti su cui pone l’accento Dewey: per prima cosa occorre vedere quali sono le tendenze naturali del bambino e quali i suoi interessi spontanei che soli lo portano a considerare l’azione di qualcuno come modello; questo modello, in ambito educativo, non è comunque una fixed copy (=copia fissa) che il bambino deve limitarsi semplicemente a seguire, riprodurre letteralmente, ma è per lui uno stimolo in una ben determinata direzione. In ogni caso:

“il bambino non sta cercando realmente di copiare un modello, lui sta semplicemente rispondendo ad uno stimolo”[13].

Il tutto avviene, precisa Dewey, secondo processi inconsci.

Qual è, però, la differenza tra l’imitazione vera e propria e la suggestione?

La prima è diretta e, dunque, lo stimolo è concretamente presente al bambino. Dice, infatti, Dewey:

“ l’intero stimolo è realmente presentato a lui concretamente”[14].

La seconda, invece, avviene per via indiretta e, dunque, non è necessario che lo stimolo sia presente:

“significa che un’immagine è lo stimolo piuttosto che una qualche diretta presentazione”[15], perché la suggestione avviene attraverso il linguaggio:

“ingiunzione e proibizioni attraverso il linguaggio sono una forma, la più diretta forma, di suggestione”[16].

Viene, infine, il processo di comunicazione, che è una forma di estensione della suggestione. Si tratta, in altre parole, di un genere di suggestione, ma ancora più indiretta:

“ E’ la suggestione fatta ancora più indiretta”[17].

Ci troviamo ora completamente sul piano del linguaggio, attraverso il quale ogni persona può presentare un suo parere, un suo pensiero o una sua idea ad un interlocutore, restando poi in attesa di una sua del tutto autonoma risposta.

Per quanto riguarda, invece, l’educazione formale, prosegue ancora Dewey nelle lezioni, si tratta di quel tipo di educazione che viene impartita a scuola, intesa come vera e propria istituzione organizzata.

Mentre, dunque, i processi alla base dell’educazione informale, lo abbiamo visto, erano fondamentalmente inconsci, l’educazione formale a scuola si organizza in modi del tutto consci e consapevoli.

“Esiste una specifica istituzione che deve avere la sua propria funzione (…). Significa che la scuola ha per sua funzione l’organizzazione in un modo più conscio e completo delle risorse e dei metodi e dei materiali. Quelli sono usati in maniera più inconscia e non ragionata all’esterno”[18].

Se la scuola non potrà mai sostituirsi all’educazione informale (anzi, per la verità, non sarebbe nemmeno mai esistita senza le idee trasmesse attraverso gli anni dai processi informali), è altrettanto vero che presenta, però, alcuni vantaggi rispetto ad essa, che si esprimono in termini di organizzazione.

La scuola trova, infatti:

“ i suoi vantaggi nel criterio dell’organizzazione”[19], che non può essere garantita dall’educazione informale in quanto tale, che per l’appunto non è “sufficently organized” o “comletely organized[20].

Ecco allora emergere tutta l’importanza della scuola in una società complessa. Suo compito primario sarà, infatti, di presentare al bambino la vita sociale in una forma semplificata, adatta alle sue capacità.

Oltre a semplificare la complessità della vita sociale, “seleziona o riduce la complessità delle forze operanti dal di fuori”[21],la scuola ricopre almeno altre due funzioni specifiche: idealizzare e generalizzare ciò che è veramente importante nella vita sociale e può essere interessante ed utile per il singolo individuo.

Facendo un ulteriore passo avanti, Dewey ci ricorda anche che la scuola viene generalmente considerata come il luogo dell’istruzione:

“sicuramente lo strumento che principalmente contraddistingue

l’educazione formale da quella informale è l’istruzione”[22].

Ma proprio per questo motivo si rischia di isolare la scuola stessa dalla vita reale. Denuncia, infatti, Dewey, nelle lezioni:

“c’è una tendenza per la scuola a diventare un’istituzione isolata”[23].

Si verrebbe così a creare una pericolosa dicotomia tra educazione formale ed informale, tra vita scolastica e vita sociale, tra attività puramente intellettuale ed esperienza.

La scuola, invece, dovrebbe essere considerata come un luogo in cui l’esperienza non sia separata dal puro apprendimento, ma si consolidi attraverso esso.

Nelle lezioni, dunque, dopo averci presentato la differenza tra educazione formale ed informale, Dewey ci prospetta anche, come abbiamo visto, gli eventuali pericoli che da essa possono derivare.

Proprio per evitare questi pericoli, Dewey perviene già nel 1899 ad una sua particolare concezione del curriculum scolastico. Esso, spiega il filosofo, deve garantire una continuità tra l’elemento informale e formale dell’educazione.

Solo così il bambino potrà apprendere a scuola non materie astratte, ma che siano intimamente connesse alla vita di tutti i giorni.

Questo punto verrà ripreso e ribadito anche in Democrazia e educazione, in cui Dewey teme proprio che si possa verificare una scissione tra ciò che si impara a scuola e l’esperienza diretta in ambito sociale.

“C’è costantemente il pericolo che il materiale dell’istruzione formale sia un mero argomento scolastico, isolato dal contenuto dell’esperienza della vita”[24].

Questo, conclude Dewey, rappresenta:

“uno dei problemi più gravi che deve affrontare la filosofia dell’educazione”[25].

In sintesi, dunque, sia nelle lezioni che in Democrazia e educazione Dewey ci dice che già il processo di vivere di per sé educa.

Esiste, però, una profonda differenza tra questo tipo di educazione (accidentale o informale) che avviene inconsciamente ed inconsapevolmente, e l’educazione scolastica (quella diretta, formale).

Questo divario cresce man mano che la civiltà si fa sempre più complessa.

Sia nel 1899 sia nel 1916, inoltre, Dewey mostra il pericolo di tutto questo discorso, evidenziato anche da Codignola con le seguenti parole:

“Il trapasso dall’educazione della vita a quella diretta della scuola implica già in sé gravi pericoli. L’educazione diretta e formale tende a staccarsi dalla sua matrice, dalla immediata e vissuta esperienza sociale, da cui è nata, per costituire un regno a sé, per farsi remota, astratta, libresca, tende a costituire simboli verbali alla pregnante esperienza individuale”[26].

In Democrazia e educazione, nel capitolo intitolato “Studi intellettuali e pratici”, Dewey fa addirittura diretto riferimento ai greci, in particolare alle concezioni dell’esperienza e della ragione che avevano Platone e Aristotele.

Essi contrapposero nettamente ragione ed esperienza. Quanto più esaltavano la prima, tanto più disprezzavano la seconda.

Per loro, infatti, la conoscenza vera aveva un’esistenza indipendente, in un luogo immateriale, i suoi interessi e fini erano puramente spirituali, il suo oggetto specifico era la verità eterna, e perciò era per sé stessa completamente autosufficiente. Di contro, la vita pratica, intesa come un continuo desiderio e bisogno, non era completa.

Non a caso Platone mise a capo della sua repubblica i filosofi, cioè l’intelligenza puramente razionale, che sola può garantire armonia tra tutte le cose, mentre dall’esperienza possono nascere solo opinioni.

Da qui la predilezione, presso i Greci, per materie puramente intellettuali, a discapito di quelle basate sull’attività, sul fare, sull’esperienza.

Si dovette aspettare l’avvento dell’età moderna (XVII-XVIII sec.) perché si arrivasse a fare appello all’importanza dell’esperienza.

Per primo, F. Bacone sentì la profonda esigenza di andare al di là di quelle concezioni classiche che “anticipavano la natura” imponendole opinioni semplicemente umane, e di fare finalmente ricorso all’esperienza, intesa però ancora solamente come ricezione passiva di “sensazioni” isolate. Commenta, infatti, Dewey:

“l’ideale era il massimo di ricettività”[27].

Siamo ormai nel pieno dell’empirismo e della dottrina sensistica.

Con l’avvento della psicologia e grazie al metodo sperimentale in ambito scientifico, l’esperienza cessa, finalmente, “di essere empirica e diventa sperimentale. La ragione cessa di essere una facoltà remota e ideale, e significa tutte le risorse con le quali l’attività è resa feconda di significato”[28].

Ciò determina la fine dell’antitesi tra razionalismo ed empirismo.

Per dirla con Dewey:

“il risultato logico è una nuova filosofia dell’esperienza e della conoscenza, una filosofia che non contrappone più l’esperienza alla conoscenza e alla spiegazione razionale”[29].

Per tutto ciò, quello della psicologia e soprattutto della scienza sperimentale, conclude Dewey, è senz’altro:

“il colpo più diretto che sia stato dato alla separazione tradizionale tra fare e sapere, e al prestigio tradizionale degli studi puramente intellettuali”[30].

Da quanto esposto finora, è possibile cogliere, dunque, una certa continuità nel pensiero di Dewey attraverso gli anni per ciò che concerne la distinzione tra educazione formale ed informale, il nesso tra studi pratici ed intellettuali, ed anche l’importanza che viene ad assumere l’esperienza nel processo educativo, ed il lavoro all’interno del corso di studi.

Altro punto fondamentale, comune sia alle lezioni che all’opera del 1916, e dal quale non è possibile prescindere, riguarda poi la visione “biologica” del filosofo americano, dalla quale scaturiranno i suoi personali concetti di “crescita”, “interesse” e “disciplina”.


[1] Si tratta dell’editore della raccolta definitiva dell’opera di Dewey sulla teoria educativa, John Dewey on Education, nonché autore della prefazione e dell’introduzione al manoscritto intitolato Lectures in the philosophy of education 1899, Random House, New york, 1966.

[2] L’azione di Dewey presso questa Università rese la stessa uno dei maggiori centri del funzionalismo americano.

[3] La traduzione dei passi tratti dalle Lectures deweyane è nostra.

[4] F. Pesci, Da Dewey a Kelly, cit., p. 35.

[5] R.D. Archambault, Lectures in the philosophy of education 1899, cit., p. XXXI.

[6] Va qui ricordato che le lezioni di Dewey risalgono allo stesso periodo delle sue prime opere pedagogiche e che esse sono vicine soprattutto a Scuola e società, di cui, come ha sottolineato Pesci nell’op. cit., ne rappresentano “l’espressione teoretica”.

[7] John Dewey, Scuola e società, trad. it. di Ernesto Codignola e Lamberto Borghi, La Nuova Italia, 1993, p.10.

[8] J.Dewey, Scuola e società, cit., p. 7.

[9] J. Dewey, Scuola e società, cit., p. 7.

[10] J. Dewey, Democrazia e educazione, trad. it. Enzo Enriques Agnoletti e Paolo Paduano, La Nuova Italia, Milano, 2000, p. 7.

[11] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit, p. 64.

[12] Va qui ricordato che nel 1896, Dewey pubblicò, su Phychological rewiew, il saggio The reflex arc concept in psychology (il concetto di arco riflesso in psicologia), suo ultimo contributo teorico alla psicologia, in cui già aveva criticato lo studio degli stimoli e delle risposte. Si trattava in realtà dell’atto di nascita del funzionalismo, anche perché Dewey non trascurava qui di sottolineare il significato adattivo di ogni atto comportamentale che l’individuo compie interagendo con l’ambiente.

[13] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 49: “the child is not really trying to copy a model, he is simply responding to a stimulus”.

[14] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 51: “the full stimulus is actually concretely presented to him”.

[15]J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 51: “means that an image is the stimulus rather than any direct presentation”.

[16] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 51: “ injunction and prohibitions through language are one form, the most direct form, of suggestion”.

[17] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, cit., p. 55: “It is the suggestion made still more indirect”.

[18] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., pp. 65-66: “There is a distinct institution which must have its own function….It does it mean that the school has for its function the organization in a more conscious and thoroughgoig way of the resources and the methods and materials. That are used in the more unconscious and haphazard way outside”.

[19] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 66: “its advantages in the line of organization”.

[20]J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 66.

[21] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 66: “it selects or reduces the complexity of the forces operating outside”.

[22] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 70: “of course the instrument that chiefly marks off formal from informal education is instruction”.

[23] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 70: “there is a tendency for the school to become an isolated institution”.

[24] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 11.

[25] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 11.

[26] E. Codignola, Le “scuole nuove” e i loro problemi, cit., p. 33.

[27] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 344.

[28] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 355.

[29] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 351.

[30] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 353.

 

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