3 agosto, lunedì



Masada, En Ghedi, Qumran e Gerico

Masada, l'ultima "fortezza"?

All'aurora ci arrampichiamo per il "sentiero del serpente", per poter vedere il sole sorgere da dietro le montagne di Moab e riflettersi nelle calme acque del Mar Morto. Arriviamo, sudati ma accarezzati dalla brezza mattutina, al recinto di un luogo archeologico chiamato ancor oggi con l'antico nome di Masada (matzadà = fortezza). Sappiamo che qui alcune reclute dell'esercito israeliano fanno il loro giuramento, urlando: "Mai più Masada!", a ricordo dell'antica sconfitta loro inflitta dai romani. Ma che capitò da queste parti duemila anni fa?
La storia di Masada (e quella parallela di Gamla, un'altra roccaforte zelota al nord, accanto al Lago di Galilea) ci è raccontata da Giuseppe Flavio. Comandante in capo in Galilea nella rivolta degli ebrei contro l'esercito romano, capitanato dal generale Vespasiano e da suo figlio Tito, nel 67 d.C. fu catturato dai romani. Venne in seguito liberato, allorché si avverò la sua predizione che Vespasiano sarebbe diventato imperatore: messo in libertà, investito di numerosi privilegi, passò dalla parte dei romani e finirà la sua esistenza a Roma, scrivendo le sue memorie e raccontando per l'impero la sua versione della storia giudaica (di lui ci sono rimaste quattro opere, fonti documentarie di prima importanza, soprattutto per conoscere la storia del I secolo d.C.).


Mai più Masada!? Nel libro della Guerra Giudaica c'è la descrizione accuratissima di ciò che accadde a Masada: a tutt'oggi Flavio Giuseppe resta la guida migliore anche per noi, per realizzare cosa rappresentò la caduta dell'ultima roccaforte giudaica di resistenza a Roma. Il nostro storico ci dà la particolareggiata descrizione della fortezza, con i due sentieri di accesso, uno da est, dalla sua tortuosa forma detto "del serpente", ripido e pericoloso; ed uno da ovest, più accessibile, da dove i romani decideranno di attaccare. I recinti quadrati di pietre, che vediamo al disotto della fortezza, sono le ricostruzioni degli accampamenti romani, che edificarono tutto all'intorno della rocca un recinto per non permettere agli zeloti asseragliati in Masada di scappare.
Solo qualche nota di carattere storico (rinviando al volantino che viene distribuito all'entrata o a eventuali guide, i particolari della storia passata e del recente intervento di scavo archeologico del sito). Furono gli Asmonei ad edificare questa fortezza, in seguito ingrandita da Erode il Grande, il quale ne fece la sua residenza di rifugio in caso di pericolo. Erode è figura di prima caratura e una personalità complessa, con cui ci troveremo spesso a fare i conti, viste le impressionanti vestigia architettoniche rimaste fino ai nostri giorni in tutto il paese. Di origine non ebrea, in quanto idumeo salito al potere grazie alla sconfitta inflitta ai Parti, si era ingraziato l'appoggio di Roma, ma sempre temeva di essere rigettato dal popolo ebraico, a cui, in un certo modo, tentò di appartenere grazie al matrimonio con una donna ebrea di stirpe sacerdotale. Ma sempre gli fu rinfacciata la sua identità "bastarda". Fece ingrandire questa grande fortezza appunto per potercisi rifugiare in caso di minaccia, con un suo palazzo di tre piani, con tutte le necessità e i conforts (pure un bagno termale romano, in pieno deserto e senza vicine sorgenti d'acqua!), ma pare che lui non l'abbia poi mai utilizzata.
Durante la prima rivolta giudaica, alcuni decenni dopo, se ne impossessarono dapprima i romani e in seguito un migliaio di zeloti, la fazione più irriducibile del complesso panorama dei movimenti giudaici allora esistenti. Gli zeloti raggiungono la roccaforte e ne fanno l'ultimo baluardo di difesa contro il nemico romano. All'interno l'imprendibile fortezza era fornita di abbondanti vettovaglie, ammassate nel corso degli anni e perfettamente conservate grazie al clima secco della zona. Ma i romani, temendo che da lì si potesse riattizzare un nuovo focolaio di rivolta, non vogliono dargliela per vinta e dopo tre anni di assedio riescono a neutralizzarli.
Ma chi erano questi zeloti, arrivati a difendere il paese fin qui? Giuseppe Flavio ce li dipinge come gente "impegnata", profondamente religiosa, convinta di avere una vocazione di Dio a cui rispondere nella fedeltà alla sua alleanza, chiamati a mobilitarsi per far arrivare la stagione messianica della liberazione per tutto il popolo ebraico. Se arrivarono anche alle armi, fu perché esasperati da una situazione che non si sbloccava (un po' come i guerriglieri sudamericani). Ci sono stati conservati i discorsi di Eleazaro, capo del gruppo zelota, rivolti al gruppo dei ribelli (che, certo, vanno letti come tutti i discorsi delle antiche fonti storiche, greche o romane: c'è molto dell'autore in questi discorsi!), e siamo colpiti dalla nobiltà dei sentimenti che li animano. Quando ormai era chiaro che la sconfitta era inevitabile, Eleazaro si rivolge ai suoi facendo appello alla fedeltà a Dio fino alla fine. I romani, dunque, attaccarono e gli zeloti fecero per resistere all'attacco un secondo muro di legna e terra, che prese fuoco sotto i dardi infuocati romani. In un primo tempo il vento diresse le fiamme contro i romani e gli zeloti esultarono, interpretando questo fatto come soccorso divino. Ma poi il vento cambiò direzione, il fuoco si piegò nella direzione opposta, contro gli zeloti, che entrarono in crisi: "Come mai il Signore è contro di noi?". I romani riuscirono ad aprirsi un varco. Ormai consci che non c'era più nulla da fare, gli zeloti decisero di togliersi la vita, ammazzandosi tra di loro in un suicidio collettivo (sopravissero solo due donne e cinque bambini che si erano nascosti), piuttosto che consegnarsi al nemico e venire profanati.
Di fronte a quel gesto forse si può provare quell'ammirazione che, secondo Giuseppe Flavio, provarono i romani constatando che non per fame essi furono vinti (trovarono infatti i depositi pieni di cibo), ma per essersi data da se stessi la morte, pur di non cadere in mano nemica. Si dice che coloro si salvarono raccontarono come si svolsero esattamente le cose (ma questo potrebbe essere un artificio letterario). Resta il fatto del suicidio di massa, come venne a Gamla (un racconto "doppio" di un evento unico?).
Questi eventi, raccontati in modo troppo sommario (varrebbe la pena rileggersi l'avvincente testo integrale delle pagine scritte dallo storico ebreo) suscitano non pochi interrogativi: Non c'era altra scelta per loro se non quella di togliersi la vita? Forse non si sarebbe dovuta imparare la lezione di Geremia, accettando di consegnarsi ai nemici? Cosa significò per loro sostenere che Dio era con loro? Cosa vuol dire essere fedeli all'alleanza, quando i nemici ci mettono addosso le mani? Dove sta la nostra "fortezza"?
Forse anche per loro ci fu dentro, bruciante, la domanda di sempre: "il Signore e in mezzo a noi sì o no?" (cf. Es 17,7); "se siamo stati fedeli, perché Lui non interviene?" (si leggano le battute del Sal 44,10-27, che fotografano bene i sentimenti che quegli zeloti possono aver provato). Ma alcune scelte partono da lontano: crediamo al "Dio-con-noi", nel senso che decidiamo noi dove Lui deve stare ed essere ("Got mit uns", stava scritto anche sui cinturoni delle SS naziste!); oppure crediamo al "noi-con-Dio", accettando di andare dove Lui, dentro i segni violenti e i peccati della storia, va? Se Dio si consegna al nemico, babilonese o romano che sia, noi che facciamo? Andiamo con lui in esilio o alla morte, o tiriamo dritti per la nostra strada, aspettando che Lui si adegui al nostro gioco?
Davvero la lezione di Masada ci interroga e lascia aperti molti percorsi interiori. Certo questa vicenda e questo gruppo di zeloti ci fanno riflettere sulla realtà dell'alleanza col Signore. Era, come si è detto, gente seria, autenticamente religiosa. Qui a Masada è stata individuata negli scavi una sinagoga (finora la più antica ritrovata) e dei frammenti del rotolo di Ezechiele, che contenevano la visione delle ossa aride che riprendono vita (Ez 37). Anche quel salmo 44, a cui si è fatto cenno - probabilmente scritto dopo la distruzione del primo Tempio - può bene attestare la coscienza di questa gente. Al v. 9 si parla della vergogna: il profano e idolatra mondo pagano entra nel Tempio. Qui non viene descritta semplicemente la cronaca di un momento, ma uno stato d'animo nel quale specchiarsi: dove sta Dio nell'inconsolabile desolazione del Tempio dissacrato? È il grido di disperazione di colui che si trova davanti ad una situazione di cui non capisce più niente.

La nascosta sapienza dell'alleanza. Anche la giornata di oggi è dedicata all'alleanza e per noi c'è l'occasione di coglierne alcune note capitali. L'alleanza non è come la creazione: "ciò che Dio fa per noi senza di noi", "prima di noi". Parlare di alleanza significa individuare "ciò che Dio fa per noi, ma non senza di noi": serve il nostro 'sì', la nostra libertà! Nell'alleanza si è in due: c'è il Signore, che incomincia, e ci siamo noi, che siamo chiamati a rispondergli, stando con Lui in modo che Lui possa stare con noi. Ma l'alleanza non è garanzia di vita facile: c'è un momento, anche nell'alleanza col Signore, in cui uno sperimenta il dolore, la morte, l'abbandono e l'ingiustizia presenti nel mondo. Stare nell'alleanza di Dio significa essere inserito in quel mistero pasquale di morte e risurrezione, che è il senso profondo di quanto alla fine ogni uomo e ogni donna di questo mondo sono chiamati a vivere, nonostante la diversità di lucidità di coscienza che ciascuno può avere di questo.
Anche con Giosia, esemplare re di Giuda, accadde questo: lui, che era il re giusto "secondo il cuore di Dio", viene trafitto nel 609 a.C. a Meghiddo dal faraone Necao. Come mai il re più santo d'Israele, il re fedele, promotore della straordinaria riforma religiosa deuteronomica, viene ucciso? Perché il Signore ha abbandonato il giusto Giosia? Qui Israele non capisce più, saltano i suoi "criteri religiosi", la sua spiritualità della "retribuzione": bene = vita; male = morte. Israele pensava che se uno conduce una vita santa, tutto gli andrà bene, mentre se uno è empio non può che aspettarsi il male e la morte. Secondo lo schema teologico di allora (ma che alberga ancora sempre in una parte del nostro cuore), Dio abbandona il peccatore alla sua strada, mentre premia col successo e con l'abbondanza di vita colui che fa il bene e vive secondo i suoi precetti. Ma qui siamo davanti al servo di Dio, rimasto fedele all'alleanza, a cui non solo semplicemente le cose non vanno bene, ma che viene ammazzato. Ecco la lezione che il popolo di Dio deve imparare, lasciandosi rovesciare la propria coscienza religiosa come un guanto: anche se sei "buono" ti può "andare male", puoi assaggiare la morte. L'alleanza col Signore non solo non ti preserva dalla negatività, ma anzi misteriosamente ti inserisce in essa, chiedendoti di portare quel male che incontri, in modo tale che si manifesti una forza più grande, la misericordia, capace di trarre vita dalla morte.
C'è una sapienza misteriosa, nascosta - sapientia crucis - che incomincia ad intravedersi. La vicenda di Giosia, come più tardi quella di Geremia, e ancora quella del popolo in esilio (il "servo sofferente"), quella di Giobbe... aiuteranno a realizzare quale "mistero" racchiuda l'alleanza del Signore, che si manifesterà ancor più "luminosamente" nell'alleanza del Messia crocifisso. Anche Gesù si pose la domanda: affrontare il nemico combattendolo o consegnarsi a lui? Ribellarsi e resistere alla morte o consegnarsi alla "ingiusta" morte? Questo è un discernimento che ha accompagnato lungamente la coscienza di Gesù, tanto che quando gli metteranno addosso le mani, lui sarà pronto a lasciarsi liberamente prendere. E proprio in questo "abbandono" al Padre e ai nemici, Gesù sperimenterà l'Amore e la Giustizia di Dio che sconfigge il nemico amandolo.
Nell'alleanza col Signore si presenta a noi un'alternativa. Da una parte sta la scelta degli zeloti, di non lasciarsi prendere e di non consegnarsi, in nome della fedeltà a Dio; dall'altra quella di Gesù che, sempre in nome della fedeltà a Dio, si fa prendere e si lascia ammazzare, per manifestare, proprio in quella consegna, la forza di amore più forte del male e della morte. La scelta del Messia Gesù ci condiziona, nel profondo della nostra coscienza. Quando le cose vanno "storte", forse è proprio allora che il Signore ci chiede di entrare in quell'esperienza negativa, per viverla con Lui, per riempire quella realtà di quell'amore che la Sua compagnia rende possibile, di quel perdono che risana ogni torto e restaura possibilità nuove di relazione. Lo scacco del male non significa dunque che l'alleanza si è incrinata, ma vuol dire piuttosto che si è invitati a percorrere la strada che fu di Giosia, di Geremia, del "servo sofferente" e... di Gesù. Questa è l'alleanza: Dio-sempre-con-noi, ma solo se noi siamo sempre con Lui, dietro il suo Messia, anche quando, per amore, va a morire. Questa è la follia della croce.


Nella freschissima oasi di En Ghedi

Entriamo nella riserva naturale di En Ghedi, la "sorgente del capretto" (cf. Gs 15,62). Nel refrigerio di quest'oasi, stremati dalla calura del mezzogiorno e tonificati dalle sue fresche acque, passiamo qualche ora insieme a Davide fuggiasco [1Sam 24], tra le pagine del Cantico dei Cantici e quelle della profezia di Ezechiele [Ez 47,1-12], "figure" anticipatrici del Messia davidico del Nuovo Testamento, sposo che muore offrendo un'acqua d'amore che risana la morte.
È sorprendente vedere come attorno al Mar Morto, in una zona di salsedine, che non consente vita alcuna, ci siano diverse verdi oasi, ricche di sorgenti di acqua dolce, le quali rendono possibile l'esistenza vegetale e animale. Qui troviamo numerosissimi ibex, stambecchi dalle lunghe corna, gazzelle e iraci (animali simili alle marmotte).

Davide grazia il re Saul, il "consacrato del Signore". Siamo in quella parte del deserto di Giuda che si affaccia sul Mar Morto. En Ghedi o nachal David (= il torrente di Davide) è il nome dato alla riserva naturale in cui ci troviamo. Perché questo rimando a Davide? Si fa riferimento ad un episodio della vita di Davide, proprio qui ambientato, di cui si parla in 1Sam 24. Davide - in fuga dal re Saul, che lo cercava per ammazzarlo - si rifugia da queste parti, «nel deserto di Engaddi». Venuto a conoscenza della cosa Saul, con ben tremila uomini, si muove da queste parti per rintracciare Davide. Il destino volle che, giunto sul posto, Saul si ritirasse a fare i suoi "bisogni naturali" proprio nella caverna dove Davide e i suoi compagni erano nascosti, in una di queste grotte. I compagni, cogliendo il momento favorevole per "far fuori" colui che li minacciava a morte, esortarono Davide ad avventarsi su Saul. Davide tagliò, senza farsene accorgere, un lembo del mantello, ma non levò la spada su quello che riteneva "il consacrato del Signore". Dice il testo che quando compì quel gesto, «si sentì battere il cuore» (v. 6): solo due volte (qui e nel "colpevole" censimento che farà alla fine della sua vita) si usa quest'espressione, che dice tutto un vissuto nel cuore di Davide. Egli coglie che non gli è lecito stendere la mano su Saul, che comunque rappresenta la "mediazione del Signore": chi tocca lui, tocca Dio stesso. Davide lo lascia uscire dalla grotta e gli rivolge la parola, con in mano il lembo tagliato del mantello di Saul, per dimostrargli che gli ha fatto grazia della vita, dando la prova che non gli è nemico, nonostante che il re lo stia ingiustamente perseguitando.
È una pagina molto toccante sulla relazione con "l'unto del Signore", per quanto inadeguato e corrotto egli sia. Fa riflettere sulla nostra relazione con le "mediazioni istituzionali", con coloro che dovrebbero rappresentarci il Signore e che ci deludono, ci fanno soffrire, ci urtano dentro. Il cuore di Davide coglie una dimensione che non è semplicemente "umana": dietro Saul c'è la misteriosa scelta insindacabile di Dio, che lo spinge a non usare violenza. Una nota di profonda misericordia attraversa questo episodio: anche "Saul alzò la voce e pianse" (v. 17). Sono le lacrime di chi scopre che colui verso cui si avventa come fosse il più terribile nemico, in realtà non gli è nemico ma gli fa grazia del suo perdono.

Il profumo dell'amore del Cantico dei cantici. Quelle del testo precedente sono le note di quell'amore che è anche il protagonista assoluto del rotolo del Cantico dei cantici: la "canzone più bella", che pare risuonare proprio qui, nel profumatissimo giardino di En Ghedi (cf. Ct 1,14), tra la donna innamorata e il suo amato . Il Cantico dei cantici è un po' come il cuore della Bibbia ebraica, parabola di un amore umano che lascia intuire quella forza di irresistibile attrazione che lega l'uomo con il suo sposo, il Signore.

La profezia di Ez 47,1-12 di un'acqua che risana la morte. Siamo a Gerusalemme, di fronte all'ingresso del tempio. Dal tempo esce un fiotto d'acqua che scendendo nella valle (si allude alla Valle del Cedron, che degrada nel deserto di Giuda verso est) diventa un torrente, si ingrossa fino a trasformarsi in un imponente fiume navigabile, che attraversa il deserto e scende nella depressione dell'Aravà e sfocia nel mare (è il Mar Morto). Il profeta vede sulle sue rive alberi da frutto che maturano ogni mese, le cui medicinali foglie non appassiscono mai (v. 12). Quel corso d'acqua è dotato di uno straordinario potere: non solo è in grado di fare fiorire il deserto, laddove è da lui lambito, ma le sue acque, entrate nel Mar Morto, sono capaci di risanarlo e di riempirlo di innumerevoli pesci (e pescatori). «Là dove giungerà il torrente tutto rivivrà» (v. 9). Il deserto, di terra e marino, è riempito di vita da questo fiotto d'acqua che sgorga dal tempio di Dio, potenza d'amore che può bonificare ciò che è stato reso morto. Solo ciò che viene dal Signore può operare l'impossibile: far diventare le acque del Mar Morto come quelle di Eilat, piene di coloratissimi pesci! Noi possiamo far diventare deserto un giardino, ma non abbiamo la possibilità, a partire dalle nostre sole forze, di fare diventare il deserto di nuovo un giardino. Questo può realizzarlo solo la grazia di Dio, la sua parola, il suo amore.
Questa pagina di Ezechiele è un bellissimo "saggio geografico" di cosa è la grazia di Dio: misericordia che si interessa e si prende a cuore di quel deserto che siamo diventati noi, presenza che ci raggiunge e attraversa con una forza di vita e di consolazione più potente della morte, capace di mettere la nostra morte a servizio di una vita che non muore più.
Questa pagina è venuta in mente al discepolo ed evangelista Giovanni, sotto la croce di Gesù (cf. Gv 19,31-37), quando, ormai morto, Gesù è trapassato dalla lancia di un soldato romano e dal suo fianco esce un fiotto di sangue ed acqua. Ebbene è proprio quell'acqua che sgorga dal Tempio di Dio, pensa Giovanni, di cui parlava Ezechiele, capace di raggiungere ogni uomo nella sua "zona di morte", per annunciargli la buona notizia di un amore gratuito. Un'acqua, quella che esce dal costato di Gesù, carica di un amore accogliente, impregnata di quella misericordia che sa raggiungere ogni uomo e farlo rivivere, risanando le sue ferite più profonde e disperanti. Quello che è incredibile è che Giovanni vede tutto questo guardando Gesù morto, ammazzato sull'impuro Golgota (che distanza dall'area pura del "santuario del Signore"), fuori dalle mura della città: egli si trova di fronte a un maledetto crocifisso. Eppure proprio in Lui il discepolo sa vedere il Tempio nuovo di Dio, dal cui cuore esce quell'acqua che tutti ci battezza nella comunione di una vita che è infinito amore.


Qumran: l'inattesa e controversa scoperta, capace di gettare nuovi fasci di luce sul passato

1) L'evento della scoperta. Dal 1947 ritrovamento di antichi manoscritti (e di resti archeologici) di una comunità (jahad) della "nuova alleanza", molto gerarchizzata al suo interno (diverse le designazioni dei suoi membri: la "congregazione", gli eletti, i santi, i poveri, i figli di Sadoq, i figli della luce, i venuti a Damasco, i convertiti dal peccato, etc.), dove la Torah di Mosè è praticata in tutto il suo rigore (la nota della "fedeltà" a Dio e alla sua volontà; il sabato, purità legale, amore del "prossimo"); ma alcune cose vengono modificate: no alla poligamia o divorzio; no alla liturgia "invalida" del Tempio di Gerusalemme; notevole sviluppo dell'angelologia (angeli e demoni influiscono sul cuore umano e sullo svolgimento degli eventi storici). Per i particolari delle turbolenti vicende legate all'evento della scoperta si può leggere il depliant che viene dato all'ingresso (anche in italiano!) o consultare la guida alla voce Qumran.
2) Altri tratti distintivi: a) stile "monastico" (comunione dei beni, lavoro e preghiera, ammissione progressiva, un certo "austero" stile cenobitico); b) forte polemica contro il Tempio di Gerusalemme, in quanto officiato da un sacerdozio "impuro"; c) contestuale adozione di un diverso calendario per le festività, solare e non lunare; d) esasperato antipaganesimo ed anche netta separazione dagli "altri" ebrei (esclusivismo); e) forte coscienza di essere la comunità della "nuova alleanza", con febbrile attesa escatologica e marcato dualismo.
3) Le diverse identificazioni della comunità proposte: esseni; sadducei; farisei, zeloti, giudeocristiani... Oggi si tende a designarli semplicemente come "qumraniti". Le fonti antiche sugli esseni: Filone (Quod Omis probus sit liber 75-91; Apologia degli Ebrei in: Eusebio di Cesarea Praeparatio evangelica ), Giuseppe Flavio (Bell. II, 119-161; Ant. XVIII,18-22; etc.), Plinio (Nat. hist. 5,15,73), Ippolito Romano (Refutatio IX,26-27); Solino.
4) Caratteristiche fondamentali della comunità. a) Elementi in continuità con Bibbia ebraica: amore per la Scrittura (soprattutto la Torah); l'alleanza elemento-chiave: la "nuova alleanza"; la dottrina comunitaria (con il rischio dell'esclusivismo/particolarismo di casta dei "perfetti"); il ruolo della profezia biblica e la credenza nello Spirito di Dio; l'attesa escatologica e l'avvento dei due messia; la fede nell'esistenza degli angeli. b) Elementi in discontinuità con la Bibbia ebraica: concezione dualistica: figli della luce/figli delle tenebre; il calendario delle feste; il pasto comunitario con carattere sacro; Beliar personificazione del male (come nel NT).
5) La classificazione dei testi ritrovati. Si potrebbero ripartire in 4 categorie:

1) Libri del canone ebraico dell'AT (eccetto Ester).
2) Frammenti nell'originale semitico di alcuni libri "deuterocanonici", come Sir e Tb.
3) Frammenti di "apocrifi", come 1 Enoch; Giubilei, Testamenti dei 12 Patriarchi, Test. di Levi, Test. di Neftali, etc.).
4) Scritti originali, che a loro volta possono essere classificati come:
  1. normativi (Regola della Comunità =1QS; Documento di Damasco = CD; Regola della Guerra = 1QM, Rotolo del Tempio = 11QTS; etc.)
  2. liturgici (Inni = 1QH; Benedizioni = 1QSb; etc.)
  3. esegetici (in forma di commento o pesher a vari libri biblici: 1QpAb; 4QpNah, etc.
  4. altri scritti (Libro dei misteri = 1Q27; Apocrifo della Genesi = 1QGenAp, etc.)

6) Conseguenze della scoperta. Oltre la particolareggiata conoscenza di una comunità che ha portato a comprendere in maniera diversa la ricca pluriformità del giudaismo del secondo tempio (e tutti i raffronti anche con il mondo del NT: il movimento religioso di Giovanni Battista, di Gesù...), la scoperta dei manoscritti biblici ha consentito di reimpostare lo studio della critica testuale della Sacra Scrittura. Si avevano per la prima volta tra le mani codici antichi del III/II secolo a.C.: si pensi al fatto che il codice biblico completo della Bibbia ebraica prima di questa scoperta era medievale, del IX-X secolo d.C.! Ebbene il confronto con i nuovi documenti ha confermato la sostanziale fedeltà di trasmissione dei testi, ma nello stesso tempo ha rilanciato la ricerca, per cercare di ricostruire con più precisione le varie fasi di questa trasmissione.

Gerico: varcare la soglia della Terra Promessa.

Attraversiamo, diretti al nord di Israele, la grande oasi della città di Gerico, facendo memoria dell'ingresso nella Terra promessa (Gs 6), che è sempre, allora ed oggi, un impasto di dono e conquista, di accoglienza di ciò che viene da Dio e di impegno da parte nostra, lasciando agire il dono nella nostra libertà.
Ben quattro sono le "Gerico" attualmente individuabili: l'antico insediamento denominato Tell es-Sultan, con accanto la cosiddetta "sorgente di Eliseo"; la Gerico asmoneo-erodiana, del tempo di Gesù, più ad ovest, all'uscita del wadi el-Qelt, irrigata dalla piccola oasi di Tulul Abu el'Alayid (qui sono ambientate alcune scene evangeliche: Zaccheo, Lc 19,1-10; la guarigione del cieco Bartimeo, Mc 10,46-52, e dell'altro cieco, Mt 20,29-34); la Gerico degli Omayyadi, col suo splendido Hisham's Palace, a 4 chilometri a nord di Tell es-Sultan; e, infine, l'attuale città araba, attualmente amministrata dall'Autonomia palestinese, che cerca di riscattarsi dal duro periodo legato all'Intifada.
Lasciata alle spalle Gerico, costeggiando il zizzangante Giordano e la frontiera giordana, la sera arriviamo a Nazareth, il villaggio di Gesù ed attualmente la più grande città araba dello stato israeliano, centro amministrativo della Galilea.

Leggiamo una scheda di Francesco Rossi de Gasperis e Antonella Carfagna sulla Gerico antica, per sfogliare alcune pagine bibliche che ancora oggi ci parlano:
«...Tell es-Sultan, ai cui piedi nasce la sorgente di Eliseo, e su cui sembra essere sorto il più antico insediamento umano, mesolitico (circa 8000 a.C.). La città conobbe un regresso impressionante di civilizzazione dal 7000 al 4000 a.C. e poi ancora verso il 2000. La Bibbia vede Gerico, prima di tutto, come l'ostacolo e lo sbarramento primo e capitale, al di qua del Giordano, e dunque già all'interno della terra promessa, contro la conquista israelitica del paese di Canaan; il luogo che riassume tutti i popoli cananei nemici di Israele (Gs 24,11), la città maledetta (Gs 6,26-27; cf. 1Re 16,34). Il passaggio del Giordano, presso Gerico, richiama il passaggio del Mar Rosso all'uscita dall'Egitto (Gs 3 - 4). La sua conquista da parte di Giosuè rimane esemplare delle "guerre di JHWH" (Sir 46,3), davanti a cui gli avversari crollano da soli e si auto-distruggono (Gs 5,13 - 6,26; cf. già Es 14,1 - 15,21; e Gdc 7; 2Cr 20,1-30; ecc.), come la menzogna si dissolve quando pretende di processare la verità (cf. Mt 26,59-61; Mc 14,59; Gv 11,45-53; 18,28 - 19,22; At 6,13-14). Le armi di Giosuè, al varcare la frontiera del Giordano, erano infatti la meditazione della Torah e la fedeltà a essa, senza deviare a destra né a sinistra (Gs 1,1-9). La maledizione di Gerico, "città delle palme", sembra prolungarsi nella storia di Eglon, re di Moab, oppressore degli israeliti per 18 anni, ucciso da Eud (Gdc 3,12-30). Gerico, che faceva parte del regno del Nord, vide pure, sul Giordano, l'avvicendamento tra Elia ed Eliseo nel ministero profetico per Israele (2Re 2,1-18). Nel giugno-luglio del 587/586 a.C., nelle steppe di Gerico, fu catturato dai soldati caldei il re Sedecia, l'ultimo discendente di Davide che si era seduto sul trono di Gerusalemme. Egli fu accecato dopo aver assistito all'uccisione dei suoi figli, a Ribla, e quindi condotto in catene a Babilonia (2Re 25,5-7; Ger 39,4-10; 52,6-11)».