9 agosto, Domenica



Jad wa-Shem e il Monte Sion Cristiano

Jad wa-Shem

Visita di Jad wa-Shem, il memoriale della sho'àh. Attraversato il "Viale dei giusti delle nazioni", dedicato a quei non-ebrei che hanno messo a rischio la propria esistenza per salvare la vita di un ebreo, si entra nella sezione storica del Museo: sale con fotografie, cartelli e didascalie che aiutano a ricostruire cronologicamente le diverse fasi della "soluzione finale". Segue una grande sala-archivio con tutti i nomi, dove è possibile ricercare i propri cari o fornire ulteriori notizie. Usciti dal padiglione storico (che racchiude anche mostre artistiche di quadri e disegni realizzati nei "campi", oltre che esposizioni temporanee), ci si incammina verso un grande edificio - "la Sala del ricordo" - con una fiamma perenne che arde su un pavimento sul quale è disegnata la mappa d'Europa con segnalati i luoghi dei campi di sterminio: lì in silenzio ci si può fermare a meditare o pregare. Il memoriale dei bambini, poco oltre nel parco, è una drammatica sorpresa: le foto all'ingresso, con i volti di bambini ebrei che ti fissano, danno immediatamente l'idea della diversità somatica del popolo ebraico, smentendo ogni mito della "razza". Ognuno di loro è stato una candela accesa barbaramente spenta. Ma avanzando nel buio del tunnel di morte ci si trova immersi in una galassia di luci di candele: in verità sono solo tre o quattro, ma, con un gioco di specchi che si rimandano la luce riflessa, sembrano migliaia. Nel sottofondo una voce pronuncia, alternativamente in ebraico e in inglese, i nomi e l'età dei bambini al momento del loro ingresso nel "forno". Avvolti dalla tenebra, la luce di questi bimbi ci interpella.
All'altra parte del parco, la valle è stata scavata formando sentieri dove, zigzagando nella viva roccia, ci si può rendere conto di quante comunità ebraiche, presenti nella diaspora europea prima della sho'àh, sono state cancellate.
Usciti da Jad wa-Shem abbiamo letto insieme Ez 37, il testo delle "ossa aride" del popolo d'Israele, che, riprendendo spirito e vita, si rialzano e si rimettono in cammino e tornano al loro paese... Superflui speciali commenti: bastava accostare questa pagina biblica a quanto visto del passato e colto del presente per percepire dove portava il senso di quel testo.

Di fronte all'orrore fissato nel ricordo di Jad wa-Shem. Nel mondo ebraico per designare la tragedia dello sterminio di sei milioni di ebrei da parte del nazismo non si ama usare il termine "olocausto", riservato al "sacrificio gradito a Dio", ma piuttosto quello di sho'àh, "catastrofe". Accadono ancora nel nostro mondo eventi tragici di una portata tale di male (pensiamo a ciò che è accaduto in Bosnia, o sta accadendo adesso nel cuore dell'Africa...), di cui non ci si rende conto fino in fondo. Un "Male" con la "M" maiuscola, che lascia sgomenti. Lo sterminio nazista degli ebrei non è qualcosa accaduto nel lontano Medioevo, ma è un evento di cui sono stati testimoni gli stessi nostri genitori, quando loro erano dei giovani come noi. Una realtà quindi, quella che oggi incontreremo, non distante, ma vicina a noi, sotto molti aspetti.
In questo museo-memoriale noi ripercorreremo un segmento di questa storia. Sarà un incontro che lascerà dentro di noi un segno profondo, se non ci difenderemo con la fretta o la superficialità. Non scappiamo davanti a immagini che possono impressionarci: sono le voci flebili di un dramma senza confini.
Può darsi che il nostro rapporto con questa vicenda sia vissuto in questi termini: "Beh, ma in fondo sono passati 50 anni... e noi non c'eravamo: basta con questa storia! Bisogna saper perdonare, dimenticare e guardare al futuro". Ma ancora una volta il popolo ebraico ci si presenta come il popolo dello zikkaron, del ricordo, della tenace memoria. Questo non significa affatto alimentare una psicosi di vendetta, ma sostenere nella vivacità della coscienza una vicenda, perché non abbia più a ripetersi. Tenerne viva la memoria è d'altra parte l'unica maniera che rende possibile l' "andare oltre", il perdonare. Forse abbiamo una concezione del perdono come operazione di cancellazione di ciò che è accaduto, come se quel peccato, in quanto passato, non esistesse più. Purtroppo nessun male viene inghiottito dal tempo o eliminato dallo spazio, ma resta indelebilmente conficcato nella carne di chi lo ha, in un modo o nell'altro, subito o fatto. È una realtà che non si può magicamente esorcizzare, ma che segretamente continua ad operare dentro e fuori di noi. Più che cancellarla, si tratta di affrontarla, di portarla. Chi è cristiano sa che il Signore stesso ci ama e ci fa grazia non rimuovendo il nostro peccato, ma ricordando il nostro male e perdonandolo assumendolo su di sé. Si perdona qualcosa che c'è stato realmente, non ciò che non si pensa non esista più solo perché si è perso nella dimenticanza. Perdonare è sostenere nell'amore il ricordo dolorosissimo del male subito.
Perché questo nome di Jad wa-Shem dato a questo luogo? Da dove viene fuori questa espressione?
Nel libro biblico chiamato del "profeta Isaia" ci sono almeno tre grandi sezioni, appartenenti a epoche diverse. Dal capitolo 40 al 55 è possibile individuarne una solitamente chiamata dagli studiosi "secondo Isaia". Composta con grande probabilità durante l'esilio Babilonese, il cuore di questa parte è rappresentato dalla figura del servo sofferente, che è Israele stesso. Dal capitolo 56 - inizio della terza sezione del libro - si parla del servo esiliato che torna in patria e in 56,3ss si fa riferimento a ciò che un eunuco mormora tra sé: lui è colui che non può generare, albero secco che non può produrre frutti, è il "senza-futuro". Ebbene proprio all'eunuco il Signore promette - dice Isaia - un Jad wa-Shem (cf. Is 56,5), vale a dire un memoriale (jad = mano, momumento, luogo...) e un nome (shem), il futuro concreto di un nome perpetuo. Si è di fronte all'impossibile e si realizza la "giustizia di Dio": dalla morte esce la vita, da un eunuco secco - dai pochi superstiti della sho'àh - il Signore genererà un popolo, una nazione. Avviene l'impossibile: l'eunuco genera...un popolo.
Tutto questo che abbiamo davanti e di cui siamo testimoni oggi è una parabola di resurrezione. Esci da questo museo-memoriale e vedi ebrei di fronte a te: bambini ebrei che giocano, grandi che lavorano. Un ciondolo pende spesso dalla catenina appesa al collo: è la lettera chet, prima consonante della parola chaj: "sono vivo/a"!
Hitler voleva allestire un "museo della razza estinta", in modo da parlare degli ebrei come parliamo, che so, dei Fenici, un popolo che una volta esisteva, ma poi è sparito dallo scacchiere dei popoli. Perché questa volontà di sterminio nei confronti del popolo ebraico? Israele è il popolo del "Dio Uno" ed Hitler voleva tornare al politeismo del paganesimo. Il "Dio Unico" è la più grande rivoluzione che ci sia stata nell'umanità nei confronti del rapporto con Dio: l'esperienza di una relazione nuova con un divino personale, che faceva giustizia di tutte le rappresentazioni idolatriche e alienanti prodotte dalle paure umane. L'intento di Hitler era di spazzar via col monoteismo anche tutta l'esperienza etica che da esso nasce: cancellare tutti i riferimenti morali e lasciar libero sfogo all'arbitrio di una libertà senza paracarri. Dopo lo sterminio del popolo ebraico - è stata ritrovata tutta una documentazione che attesta questa programmata seconda fase dell'intervento nazista - sarebbe toccato al cristianesimo il suo turno. Questo è significativo perché attesta ancora una volta quale inscindibile legame ci sia tra cristianesimo ed ebraismo: non puoi sterminare i cristiani senza aver prima sterminato la radice ebraica; e una volta strappata la radice svelli tutto ciò che su di essa è innestato.
Quello che sgomenta è come tutto ciò sia avvenuto nel cuore dell'Europa "cristiana". Certamente non si può dire che il nazismo sia figlio del cristianesimo, ma è indubbio che il nazismo abbia potuto servirsi di 2000 anni di tradizione antigiudaica, che i cristiani hanno alimentato. Basta ricordare che durante la preghiera del venerdì santo fino al Concilio Vaticano se ne pronunciava una "pro perfidis judeis": è vero che il latino non significa in questo caso "perfidi", ma così veniva capito dalla quasi totalità di chi ascoltava. Finalmente si eliminò l'espressione, accorgendosi che il primo passo falso è sempre uno... "sterminio linguistico".
Quello che fa pensare è la considerazione di come il nazismo sia andato al potere in maniera democratica (fare attenzione alle tabelle e ai grafici esposti nella prima sala della sezione storica del museo). Questo è un monito per noi, oggi. Ci chiama a stare con gli occhi aperti, responsabili del nostro presente.
Le sho'àh nella storia del mondo sono state innumerevoli. Cosa ha di diverso quella che è toccata al popolo ebraico rispetto alle altre? E qui, se permettete, mi sorge spontanea un'altra domanda: i romani hanno crocifisso migliaia di uomini, cosa c'era di diverso in quel Gesù di Nazareth crocifisso? Cerchiamo di reagire al primo interrogativo: il popolo ebraico è il "popolo di Dio". Il Signore comincia la sua alleanza con un popolo concreto per poi raggiungere tutti i confini della terra, coinvolgere l'intera famiglia umana. Questo è il suo progetto nella contingenza della storia degli uomini. Perché la sua scelta è caduta sul popolo ebraico? Non trovo una ragione sufficiente se non quella di colui che sceglie: Dio, nella sua libertà, nella sua giustizia e nel suo amore, così ha voluto. Ma torniamo alla domanda: cosa c'è di singolare nella "catastrofe ebraica"? Il dolore, l'indicibile sofferenza, è uguale per tutti coloro che patiscono la propria sho'àh, in Bosnia come in Africa. Ma qui si tocca qualcosa che ha a che fare in modo speciale con Dio: che ne è della elezione d'Israele da parte di Dio? Dove stava il Signore d'Israele quando il "suo popolo" - è Lui che nella Bibbia dice: "tu, mio popolo" - entra nelle camere a gas? Come tocca questa tragedia Dio stesso?
L'haskalà (il movimento dell'"illuminismo" ebraico) aveva parlato di "emancipazione": gli ebrei vogliono e devono sentirsi come gli tutti gli altri, nella stessa dignità e con medesimi diritti e doveri: inizia un processo di riconoscimento da parte delle diverse nazioni europee, che attribuiscono cittadinanza e nazionalità agli ebrei presenti nei rispettivi paesi. Ora, proprio al termine di questo processo di emancipazione (che per molti significò "assimilazione" e perdita di qualsiasi legame con l'"appartenenza ebraica") alla fine dell'800, riscattò ancora una volta il meccanismo "discriminatorio" delle leggi razziali: "non sei tedesco, francese, italiano... come noi: sei ebreo!". Proprio nei confronti di coloro che avevano fatto di tutto per omologarsi al costumi di vita del proprio paese (tra loro scienziati, letterati, filosofi, sociologi, medici...), veniva nuovamente contestata l'imperdonabile "diversità". E non era solo l'appartenenza religiosa, ma quella "razziale" che veniva condannata: la menzogna della razza ebraica era la "macchia" da cancellare. Non importava l'essere credenti o meno: tutti destinati allo sterminio, tra cui 1.500.000 bambini (vedremo qui lo struggente memoriale in loro ricordo). Non c'e mai stato nella storia un intervento programmatico di morte contro un popolo a tale livello, come quello a cui abbiamo assistito nel nostro progredito secolo ormai agli sgoccioli. Restano aperti gli interrogativi su come Dio ha vissuto tutto questo.

Al Cenacolo, sul Monte Sion cristiano

Saliamo al monte Sion Cristiano, dove oggi è edificata una chiesa benedettina in onore di Maria, la Dormitio Mariae, che ricorda la morte della madre di Gesù su questo colle, in seno alla comunità dei discepoli di suo figlio. Accanto alla Dormitio, c'è ancora l'edificio al cui interno c'è la "grande sala superiore", di cui parlano Mc 14,15 e Lc 22,12 (in greco c'è un termine - anagàion mèga - che significa "stanza alta", al "piano alto"), che per i vangeli è il luogo dell'Ultima Cena di Gesù e della lavanda dei piedi (cf. Gv 13). Ma quello che si vede è un "cenacolo"... crociato, con i segni di un uso della stanza come moschea, con tanto di michrab!
In verità questo luogo, che ha subito alterne vicende e trasformazioni architettoniche (qui si hanno i tre "anelli" della tradizione, che attestano l'attendibilità di questa localizzazione: l'anello giudeocristiano, quello bizantino e quello crociato), fu un luogo di ritrovo e di culto dei "discepoli ebrei di Gesù" fin dal I secolo d.C., cioè di quella chiesa giudeocristiana - la Chiesa madre di tutte le chiese - che fino al IV sec. ebbe sul Sion cristiano il suo centro. Questa fu realmente la chiesa che generò le chiese dei gentili, fu la comunità che presiedette alla stesura del Nuovo Testamento e che nel suo seno accolse i pagani che in forza della fede aderivano al Signore Gesù. Resistette fino al IV-V secolo quando venne "mangiata" dalla Chiesa bizantina e sparì dalla visibilità. È in questo luogo - testimone non solo dell'"ultima cena", ma probabilmente degli incontri di Gesù Risorto con i suoi discepoli - che è avvenuto, intorno al 48 d.C., quello che potremmo designare, forse un po' imprecisamente, come "Concilio di Gerusalemme", che aprì le porte della chiesa ai non-ebrei, cioè a tutti noi (cf. Atti 15 e Gal 2).
Qui Gesù celebrò la sua ultima Pasqua, istituendo quel memoriale dell'eucarestia, che ci rivela il senso della sua esistenza e della sua morte, che condiziona ancora oggi la vita di coloro che scelgono di diventare suoi discepoli.
È questa con grande probabilità anche la stanza dell'evento del dono dello Spirito, durante la Pentecoste successiva alla morte e resurrezione di Gesù.
Attualmente al piano inferiore dell'edificio, in quella che fu la sinagoga giudeocristiana più antica con la nicchia della Torah orientata in direzione del Calvario, vi è un cenotafio medievale che giudei ortodossi credono essere la "Tomba di Davide".

La morte di Gesù, evangelo per noi. Gesù non è semplicemente morto: è stato ucciso! Ma la sua morte non è stato un evento che gli è caduto addosso, che egli semplicemente ha dovuto subire passivamente. Gesù, secondo la testimonianza degli evangelisti che ci consegnano quella memoria, si è consegnato lui stesso ai suoi assassini, si è lasciato prendere: non si è fatto manipolare dagli uomini senza la sua libertà. In quelle "prese di morte" che si sono scatenate su di lui (il verbo greco del racconto della passione è paradìdomi, che si può tradurre sia "consegnare", che "tradire"), ognuna facendo il suo gioco, egli ha deciso di fare il "suo gioco", cioè consegnarsi nelle mani di ciascuno per rivelare un amore più grande: "Se ti serve la mia vita... prendila".
Perché la morte di quest'uomo è diversa da quella degli altri condannati a morte? Per il modo con cui la sua coscienza ha vissuto quella morte. La coscienza di Gesù - la cui vita manifestò come fosse totalmente estranea al male - accoglie questo male che gli si scarica addosso. Invece di resistere e rispondere al male, Gesù si consegna. Una vita donata, per ognuno e per tutti.
La pasqua per dei cristiani rappresenta il "memoriale" di quell'evento. "Memoriale" non è semplicemente un "ricordo", dove portiamo a noi interiormente il passato nel nostro presente, ma - come lo zikkaron ebraico - è la possibilità di riagganciarci nella fede a quel passato rivivendolo nel nostro presente. È come se, con i passi della fede, ci fosse possibile ritornare al giorno irripetibile dell'evento ed essere a lui contemporanei, come se quell'evento coinvolgesse anche noi in prima persona. L'eucarestia per dei cristiani è appunto "memoriale" della cena del Signore Gesù.
Leggiamo Mc 14,1-25, mettendolo nella cornice della "cena pasquale ebraica" e cercando di cogliere i due momenti di quella sera ricordati dall'evangelista. Leggiamo anche At 2,1-13, per capire la portata di quel giorno in cui gli amici di Gesù hanno fatto esperienza della "forza" del suo Spirito.