Alcyone

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D'Annunzio Gabriele

Alcyone

 

La tregua

Dèspota, andammo e combattemmo, sempre

fedeli al tuo comandamento. Vedi

che l'armi e i polsi eran di buone tempre.

O magnanimo Dèspota, concedi

al buon combattitor l'ombra del lauro,

ch'ei senta l'erba sotto i nudi piedi,

ch'ei consacri il suo bel cavallo sauro

alla forza dei Fiumi e in su l'aurora

ei conosca la gioia del Centauro.

O Dèspota, ei sarà giovine ancóra!

Dàgli le rive i boschi i prati i monti

i cieli, ed ei sarà giovine ancóra

Deterso d'ogni umano lezzo in fonti

gelidi, ei chiederà per la sua festa

sol l'anello degli ultimi orizzonti

I vènti e i raggi tesseran la vesta

nova, e la carne scevra d'ogni male

éntrovi balzerà leggera e presta.

Tu 'l sai: per t'obbedire, o Trionfale,

sí lungamente fummo a oste, franchi

e duri; né il cor disse mai "Che vale?"

disperato di vincere; né stanchi

mai apparimmo, né mai tristi o incerti,

ché il tuo volere ci fasciava i fianchi.

O Maestro, tu 'l sai: fu per piacerti.

Ma greve era l'umano lezzo ed era

vile talor come di mandre inerti;

e la turba faceva una Chimera

opaca e obesa che putiva forte

sí che stretta era all'afa la gorgiera.

Gli aspetti della Vita e della Morte

invano balenavan sul carname

folto, e gli enimmi dell'oscura sorte.

Non era pane a quella bassa fame

la bellezza terribile; onde il tardo

bruto mugghiava irato sul suo strame.

Pur, lieta maraviglia, se alcun dardo

tutt'oro gli giungea diritto insino

ai precordii, oh il suo fremito gagliardo!

E tu dicevi in noi: "Quel ch'è divino

si sveglierà nel faticoso mostro.

Bàttigli in fronte il novo suo destino".

E noi perseverammo, col cuor nostro

ardente, per piacerti, o Imperatore;

e su noi non potè ugna nè rostro.

Ma ne sorse per mezzo al chiuso ardore

la vena inestinguibile e gioconda

del riso, che sonò come clangore.

E ad ogni ingiuria della bestia immonda

scaturiva più vivido e più schietto

tal cristallo dall'anima profonda.

Erma allegrezza! Fin lo schiavo abietto,

sfumato con le miche del convito,

lungi rauco latrava il suo dispetto;

e l'obliqio lenone, imputridito

nel vizio suo, dal lubrico angiporto

con abominio ci segnava a dito.

O Dèspota, tu dài questo conforto

al cuor possente, cui l'oltraggio èlode

e assillo di virtù ricever torto.

Ei nella solitudine si gode

sentendo sé come inesausto fonte

Dedica l'opre al Tempo; e ciò non ode.

Ammonisti l'alunno: "Se hai man pronte,

non iscegliere i vermini nel fimo

ma strozza i serpi di Laocoonte".

Ed ei seguì l'ammonimento primo;

restò fedele ai tuoi comandamenti;

fiso fu ne' tuoi segni a sommo e ad imo.

Dèspota, or tu concedigli che allenti

il nervo ed abbandoni gli ebri spirti

alle voraci melodíe dei vènti!

Assai si travagliò per obbedirti.

Scorse gli Eroi su i prati d'asfodelo.

Or ode i Fauni ridere tra i mirti.

l'Estate ignuda ardendo a mezzo il cielo.

(Romena, 10 luglio 1902)

 

IL FANCIULLO

I.

Figlio della Cicala e dell'Olivo,

nell'orto di quel Fauno

tu cogliesti la canna pel tuo flauto,

pel tuo sufolo doppio a sette fóri?

In quel che ha il nume agresto entro un'antica

villa di Camerata

deserta per la morte di Pampínea?

O forse lungo l'Affrico che riga

la pallida contrada

ove i campi il cipresso han per confine?

Più presso, nella Mensola che ride

sotto il ponte selvaggia?

Più lungi, ove l'Ombron segue la traccia

d'Ambra e Lorenzo canta i vani ardori?

Ma il mio pensier mi finge che tu colta

l'abbia tra quelle mura

che Arno parte, negli Orti Oricellari,

ove dalla barbarie fu sepolta

ahi sì trista, la Musa

Fiorenza che cantò ne' dì lontani

ai lauri insigni, ai chiari

fonti, all'eco dell'inclite caverne,

quando di Grecia le Sirene eterne

venner con Plato alla Città dei Fiori.

Te certo vide Luca della Robbia,

ti mirò Donatello,

operando le belle cantoríe.

Tutte le frutta della Cornucopia

per forza di scalpello

fecero onuste le ghirlande pie.

E tu danzavi le tue melodie,

nudo fanciul pagano,

àlacre nel divin marmo apuano

come nell'aria, conducendo i cori.

Figlio della Cicala e dell'Olivo,

or col tuo sufoletto

incanti la lucertola verdognola

a cui sopra la selce il fianco vivo

palpita pel diletto

in misura seguendo il dolce suono.

Non tu conosci il sogno

forse della silente creatura?

Ver lei ti pieghi: in lei non è paura:

tu moduli secondo i suoi colori.

Tu moduli secondo l'aura e l'ombra

e l'acqua e il ramoscello

e la spica e la man dell'uom che falcia,

secondo il bianco vol della colomba,

la grazia del torello

che di repente pavido s'inarca,

la nuvola che varca

il colle qual pensier che seren volto

muti, l'amore della vite all'olmo

l'arte dell'ape, il flutto degli odori.

Ogni voce in tuo suono si ritrova

e in ogni voce sei

sparso, quando apri e chiudi i fóri alterni.

Par quasi che tu sol le cose muova

mentre solo ti bei

nell'obbedire ai movimenti eterni.

Tutto ignori, e discerni

tutte le verità che l'ombra asconde.

Se interroghi la terra, il ciel risponde;

se favelli con l'acque, odono i fiori.

O fiore innumerevole di tutta

la vita bella, umano

fiore della divina arte innocente,

preghiamo che la nostra anima nuda

si miri in te, preghiamo

che assempri te maravigliosamente!

L'immensa plenitudine vivente

trema nel lieve suono

creato dal virgineo tuo soffio,

e l'uom cò suoi fervori e i suoi dolori.

II.

Or la tua melodia

tutta la valle come un bel pensiere

di pace crea, le due canne leggiere

versando una la luce ed una l'ombra.

La spiga che s'inclina

per offerirsi all'uomo

e il monte che gli dà pietre del grembo,

se ben l'una vicina

e l'altro sia rimoto

e l'una esigua e l'altro ingente, sembra

si giungano per l'aere sereno

come i tuoi labbri e le tue dolci canne,

come su letto d'erbe amato e amante,

come i tuoi diti snelli e i sette fóri,

come il mare e le foci,

come nell'ala chiare e negre penne,

come il fior del leandro e le tue tempie,

come il pampino e l'uva,

come la fonte e l'urna,

come la gronda e il nido della rondine,

come l'argilla e il pollice,

come ne' fiari tuoi la cera e il miele,

come il fuoco e la stipula stridente,

come il sentier e l'orma,

come la luce ovunque tocca l'ombra.

III.

Sopor mi colse presso la fontana.

Lo sciame era discorde:

avea due re; pendea come due poppe

fulve. E il rame s'udia come campana.

Ti vidi nel mio sogno, o lene aulente.

Lottato avevi ignudo

contro il torrente folle di rapina.

Raccolto avevi piuma di sparviere

che a sommo del ciel muto

in sue rote feria l'aer di strida.

Ahi, lungi dalle tue musiche dita

gittato avevi i calami forati.

Chino con sopraccigli corrugati

eri, fanciul pugnace,

intento a farti archi da saettare

col legno della flèssile avellana.

IV.

Eleggere sapesti il re splendente

nello sciame diviso,

ridere d'un tuo bel selvaggio riso

spegnendo il fuco sterile e sonoro.

Con la man tinta in mele di sosillo

traesti fuor la troppa

signoria. Cauto e fermo le calcavi.

Sporgeva a modo d'uvero di poppa

il buon sire tranquillo

che fu re delle artefici soavi.

Poi franco te n'andavi

sonando per le prata di trifoglio,

incoronato d'ellera e d'orgoglio,

entro la nube delle pecchie d'oro.

V.

L'acqua sorgiva fra i tuoi neri cigli

fecesi occhio che vede e che sorride;

fecesi chioma su la tua cervice

il crespo capelvenere.

Fatto sei di segreto e di freschezza.

Fatte son di làtice

fluido e d'umide fibre le tue membra.

Il tuo spirto, dal fonte come il salice

ma senza l'amarezza

nato, le amiche naiadi rimembra;

tutte le polle sembra

trarre per le invisibili sue stirpi.

E se gli occhi tuoi cesii han neri cigli,

ha neri gambi il verde capelvenere.

Converse le tue canne sono in chiari

vetri, onde lenti i suoni

stillano come gocce da clessidre.

S'appressano i colúbri maculosi,

gli aspidi i cencri e gli angui

e le ceraste e le verdissime idre.

Taciti, senza spire,

eretti i serpi bevono l'incanto.

Sol le bífide lingue a quando a quando

tremano come trema il capelvenere.

Sino ai ginocchi immerso nella cupa

linfa, alla venenata

greggia tu moduli il tuo lento carme.

Par che da' piedi tuoi torta sia nata

radice e di natura

erbida par ti sien fatte le gambe.

Ma il fior della tua carne

suso come il nénufaro s'ingiglia.

E se gli occhi tuoi cesii han nere ciglia,

neri ha gli steli il verde capelvenere.

VI.

Se t'è l'acqua visibile negli occhi

e se il làtice nudre le tue carni,

viver puoi anco ne' perfetti marmi

e la colonna dorica abitare.

Natura ed Arte sono un dio bifronte

che conduce il tuo passo armonioso

per tutti i campi della Terra pura.

Tu non distingui l'un dall'altro volto

ma pulsare odi il cuor che si nasconde

unico nella duplice figura.

O ignuda creatura,

teco salir la rupe veneranda

voglio, teco offerire una ghirlanda

del nostro ulivo a quell'eterno altare.

Torna con me nell'Ellade scolpita

ove la pietra è figlia della luce

e sostanza dell'aere è il pensiere.

Navigando nell'alta notte illune,

noi vedremo rilucere la riva

del diurno fulgor ch'ella ritiene.

Stamperai nelle arene

del Fàlero orme ardenti. Ospiti soli

presso Colòno udremo gli usignuoli

di Sofocle ad Antigone cantare.

Vedremo nei Propílei le porte

del Giorno aperte, nell'intercolumnio

tutto il cielo dell'Attica gioire;

nel tempio d'Erettèo, coro notturno

dai negricanti pepli le sopposte

vergini stare come urne votive;

la potenza sublime

della Citta, transfusa in ogni vena

del vital marmo ov'è presente Atena,

regnar col ritmo il ciel la terra il mare.

Alcun arbore mai non t'avrà dato

gioia sì come la colonna intatta

che serba i raggi ne' suoi solchi eguali.

All'ora quando l'ombra sua trapassa

i gradi, tu t'assiderai sul grado

più alto, cò tuoi calami toscani.

La Vittoria senz'ali

forse t'udrà, spoglia d'avorio e d'oro;

e quella alata che raffrèna il toro;

e quella che dislaccia il suo calzare.

Taci! La cima della gioia è attinta.

Guarda il Parnete al ciel, come leggiero!

Guarda l'Imetto roscido di miele!

Flessibile m'appar come l'efebo,

vestito della clamide succinta,

che cavalcò nelle Panatenee.

Sorse dall'acque egee

il bel monte dell'api e fu vivente.

Or tuttavia nella sua forma ei sente

la vita delle belle acque ondeggiare.

Seno d'Egina! Oh isola nutrice

di colombe e d'eroi! Pallida via

d'Eleusi coi vestigi di Demetra!

Splendore della duplice ferita

nel fianco del Pentelico! Armonie

del glauco olivo e della bianca pietra!

Ogni golfo è una cetra.

Tu taci, aulete, e ascolti. Per l'Imetto

l'ombra si spande. Il monte violetto

mormora e odora come un alveare.

VII.

L'odo fuggir tra gli arcipressi foschi,

e l'ansia il cor mi punge.

Ei mi chiama di lunge

solo negli alti boschi, e s'allontana.

Mutato è il suon delle sue dolci canne.

Trèmane il cor che l'ode,

balza se sotto il pièstrida l'arbusto;

pavido è fatto al rombo del suo sangue,

ed altro più non ode

il cor presàgo di remoto lutto.

Prego: "O fanciul venusto,

non esser sì veloce

ch'io non ti giunga!" E' vana la mia voce.

Melodiosamente ei s'allontana.

Elci nereggian dopo gli arcipressi,

antiqui arbori cavi.

Pascono suso in ciel nuvole bianche.

A quando a quando tra gli intrichi spessi

le nuvole soavi

son come prede tra selvagge branche.

E sempre odo le canne

gemere d'ombra in ombra

roche quasi richiamo di colomba

che va di ramo in ramo e s'allontana.

"O fanciullo fuggevole, t'arresta!

Tu non sai com'io t'ami,

intimo fiore dell'anima mia.

Una sol volta almen volgi la testa,

se te la inghirlandai,

bel figlio della mia melancolia!

Con la tua melodia

fugge quel che divino

era venuto in me, quasi improvviso

ritorno dell'infanzia più lontana.

Fa che l'ultima volta io t'incoroni,

pur di negro cipresso,

e teco io sia nella dolente sera!"

Ei nell'onda volubile dei suoni

con un gentil suo gesto,

simile a un spirto della primavera,

volgesi; alla preghiera

sorride, e non l'esaude.

L'ansia mia vana odo sol tra le pause,

mentre che d'ombra in ombra ei s'alontana.

Ad un fonte m'abbatto che s'accoglie

entro conca profonda

per aver pace, e un elce gli fa notte.

"O figlio, sosta! Imiterai le foglie

e l'acque anche una volta

e i silenzii del dì con le tue note.

Sediamo in su le prode.

Fa ch'io veda l'imagine

puerile di te presso l'imagine

di me nel cupo speglio!" Ei s'allontana.

S'allontana melodiosamente

nè più mi volge il viso,

emulo di Favonio ei nel suo volo.

Sol calando, la plaga d'occidente

s'infiamma; e d'improvviso

tutta la selva è fatta un vasto rogo.

Le nuvole di foco

ardono gli elci forti,

aerie vergini al disio dei mostri.

Giunge clangor di buccina lontana.

E un tempio ecco apparire, alte ruine

cui scindon le radici

errabonde. Gli antichi iddii son vinti.

Giaccion tronche le statue divine

cadute dai fastigi;

dormono in bruni pepli di corimbi.

Lentischi e terebinti

l'odor dei timiami

fan loro intorno. "O figlio, se tu m'ami,

sosta nel luogo santo!" Ei s'allontana.

"Rialzerò le candide colonne,

rialzerò l'altare

e tu l'abiterai unico dio.

M'odi: te l'ornerò con arti nuove.

E non avrà l'eguale.

Maraviglioso artefice son io.

T'adorerò nel mio

petto e nel tempio. M'odi,

figlio! Che immortalmente io t'incoroni!"

Nel gran fuoco del vespro ei s'allontana.

Si dilegua ne' fiammei orizzonti

Forse è fratel degli astri.

O forse nel mio sogno s'è converso?

"Ti cercherò, ti cercherò ne' monti,

ti cercherò per gli aspri

torrenti dove ti sarai deterso.

E ti vedrò diverso!

Gittato avrai le canne,

intento a farti archi da saettare

col legno della flèssile avellana".

(Romena, tra il 13 e il 19 luglio 1902)

 

LUNGO L'AFFRICO

Grazia del ciel, come soavemente

ti miri ne la terra abbeverata,

anima fatta bella dal suo pianto!

O in mille e mille specchi sorridente

grazia, che da nuvola sei nata

come la voluttà nasce dal pianto,

musica nel mio canto

ota t'effondi, che non è fugace,

per me trasfigurata in alta pace

a chi l'ascolti.

Nascente Luna, in cielo esigua come

il sopracciglio de la giovinetta

e la midolla de la nova canna,

sì che il più lieve ramo ti nasconde

e l'occhio mio, se ti smarrisce, a pena

ti ritrova, pel sogno che l'appanna,

Luna, il rio che s'avvalla

senza parola erboso anche ti vide;

e per ogni fil d'erba ti sorride,

solo a te sola.

O nere e bianche rondini, tra notte

e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere

ospiti lungo l'Affrico notturno!

Volan elle sì basso che la molle

erba sfioran coi petti, e dal piacere

il loro volo sembra fatto azzurro.

Sopra non ha sussurro

l'arbore grande, se ben trema sempre.

Non tesse il volo intorno a le mie tempie

fresche ghirlande?

E non promette ogni lor breve grido

un ben che forse il cuore ignora e forse

indovina se udendo ne trasale?

S'attardan quasi immemori del nido,

e sul margine dove son trascorse

par si prolunghi il fremito dell'ale.

Tutta la terra pare

argilla offerta all'opera d'amore,

un nunzio il grido, e il vespero che muore

un'alba certa.

(Settignano, fine giugno 1902)

 

LA SERA FIESOLANA

Fresche le mie parole ne la sera

ti sien come il fruscío che fan le foglie

del gelso ne la man di chi le coglie

silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta

su l'alta scala che s'annera

contro il fusto che s'inargenta

con le sue rame spoglie

mentre la Luna è prossima a le soglie

cerule e par che innanzi a sé distenda un velo

ove il nostro sogno si giace

e par che la campagna già si senta

da lei sommersa nel notturno gelo

e da lei beva la sperata pace

senza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla,

o Sera, e pè tuoi grandi umidi occhi ove si tace

l'acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera

ti sien come la pioggia che bruiva

tepida e fuggitiva,

commiato lacrimoso de la primavera,

su i gelsi e su gli olmi e su le viti

e su i pini dai novelli rosei diti

che giocano con l'aura che si perde,

e su 'l grano che non è biondo ancóra

e non è verde,

e su 'l fieno che già patì la falce

e trascolora,

e su gli olivi, su i fratelli olivi

che fan di santità pallidi i clivi

e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti,

o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce

il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami

d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti

eterne e l'ombra de gli antichi rami

parlano nel mistero sacro dei monti;

e ti dirò per qual segreto

le colline su i limpidi orizzonti

s'incúrvino come labbra che un divieto

chiuda, e perché la volontà di dire

le faccia belle

oltre ogni uman desire

e nel silenzio lor sempre novelle

consolatrici, sì che pare

che ogni sera l'anima le possa amare

d'amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte

o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare

le prime stelle!

(Capponcina di Settignano, 17 giugno 1899)

 

L'ULIVO

Laudato sia l'ulivo nel mattino!

Una ghirlanda semplice, una bianca

tunica, una preghiera armoniosa

a noi son festa.

Chiaro leggero è l'arbore nell'aria

E perché l'imo cor la sua bellezza

ci tocchi, tu non sai, noi non sappiamo,

non sa l'ulivo.

Esili foglie, magri rami, cavo

tronco, distorte barbe, piccol frutto,

ecco, e un nume ineffabile risplende

nel suo pallore!

O sorella, comandano gli Ellèni

quando piantar vuolsi l'ulivo, o côrre,

che 'l facciano i fanciulli della terra

vergini e mondi,

imperocché la castitate sia

prelata di quell'arbore palladio

e assai gli noccia mano impura e tristo

alito il perda.

Tu nel tuo sonno hai valicato l'acque

lustrali, inceduto hai su l'asfodelo

senza piegarlo; e degna al casto ulivo

ora t'appressi.

Biancovestita come la Vittoria,

alto raccolta intorno al capo il crine,

premendo con piede àlacre la gleba,

a lui t'appressi.

L'aura move la tunica fluente

che numerosa ferve, come schiume

su la marina cui l'ulivo arride

senza vederla.

Nuda le braccia come la Vittoria,

sul flessibile sandalo ti levi

a giugnere il men folto ramoscello

per la ghirlanda.

Tenue serto a noi,di poca fronda,

è bastevole: tal che d'alcun peso

non gravi i bei pensieri mattutini

e d'alcuna ombra.

O dolce Luce, gioventù dell'aria,

giustizia incorruttibile, divina

nudità delle cose, o Animatrice,

in noi discendi!

Tocca l'anima nostra come tocchi

il casto ulivo in tutte le sue foglie;

e non sia parte in lei che tu non veda,

Onniveggente!

(Romena, 20 luglio 1902)

 

LA SPICA

Laudata sia la spica nel meriggio!

Ella s'inclina al Sole che la cuoce,

verso la terra onde umida erba nacque;

s'inclina e più s'inclinerà domane

verso la terra ove sarà colcata

col gioglio ch'è il malvagio suo fratello,

con la vena selvaggia

col cíano cilestro

col papavero ardente

cui l'uom non seminò, in un mannello.

E' di tal purità che pare immune,

sol nata perché l'occhio uman la miri;

di sì bella ordinanza che par forte.

Le sue granella sono ripartite

con la bella ordinanza che c'insegna

il velo della nostra madre Vesta.

Tre son per banda alterne;

minore è il granel medio;

ciascuno ha la sua pula;

d'una squammetta nasce la sua resta.

Matura anco non è. Verde è la resta

dove ha il suo nascimento dalla squamma,

però tutt'oro ha la pungente cima.

E verdi lembi ha la già secca spoglia

ove il granello a poco a poco indura

ed assume il color della focaia.

E verdeggia il fistuco

di pallido verdore

ma la stípula è bionda.

S'odon le bestie rassodare l'aia.

Dice il veglio: "Nè luoghi maremmani

già gli uomini cominciano segare.

E in alcuna contrada hanno abbicato.

Tu non comincerai, se tu non veda

tutto il popolo eguale della mèsse

egualmente risplender di rossore".

E la spica s'arrossa.

Brilla il fil della falce,

negreggia il rimanente,

di stoppia incenerita è il suo colore.

E prima la sudata mano e poi

il ferro sentirànel suo fistuco

la spica; e in lei saran le sue granella,

in lei saràla candida farina

che la pasta farà molto tegnente

e farà pane che molto ricresce.

Ma la vena selvaggia

ma il cíano cilestro

ma il papavero ardente

con lei cadranno, ahi, vani su le secce.

E la vena pilosa, or quasi bianca,

è tutta lume e levità di grazia;

e il cíano rassembra santamente

gli occhi cesii di Palla madre nostra;

e il papavero è come il giovenile

sangue che per ispada spiccia forte;

e tutti sono belli

belli sono e felici

e nel giorno innocenti;

e l'uom non si dorrà di loro sorte.

E saranno calpesti e della dolce

suora, che tanto amarono vicina,

che sonar per le reste quasi esigua

cítara al vento udirono, disgiunti;

e sparsi moriran senza compianto

perché non danno il pane che nutrica.

Ma la vena selvaggia

e il cíano cilestro

e il papavero ardente

laudati sien da noi come la spica!

(Romena, 25 luglio 1902)

 

L'OPERE E I GIORNI

O sposo della Terra venerando,

è bello a sera noverare l'opre

della dimane e misurar nel cuore

meditabondo la durabil forza.

Veglio, la tua parola su me piove

candida come il fior del melo allora

che già comincia ad allegare il frutto.

Parlami, e dimmi quali sieno l'opre.

"Di questo mese m'apparecchio l'aia.

La mondo e sarchiellata lievemente

la concio con la pula e con la morchia

sicché difenda la biada da topi

e da formiche e d'altra gente infesta.

E poi la piano con la pietra tonda,

o con legno; o pur suvvi spargo l'acqua

e suvvi metto le mie bestie, e bene

cò piedi lor la faccio rassodare;

e poi si secca al sole" il veglio dice.

E sta su la sua soglia rinnovata

di quella pietra ch'è detta serena

(nasce del Monte Céceri in gran copia)

schietta pietra, pendente nell'azzurro

alquanto, di color d'acqua piovana

ove cotta la foglia sia del glastro.

E dietro la sua faccia, che la grande

etade arò con invisibil vomere

sì che raggia di curvi e retti solchi

qual iugero già pronto alla sementa,

sale su per lo stipite di pietra

il bianco gelsomin grato alle pecchie,

eguale di candore al crin canuto.

"Di questo mese nel solstizio, quando

il Sol non puote più salire, semino

le brasche; le quà poi di mezzo agosto

trapiantar mi bisogna in luogo irriguo.

E la bietola e l'appio e il coriandro

e la lattuga semino, ed innacquo.

Colgo la veccia, e sego per pastura

il fien greco. La fava anzi la luce

vello, scemante la luna; la fava,

anzi che compia lo scemar la luna,

batto; e refrigerata la ripongo.

Di questo mese inocchio il pesco, impiastro

il fico, vòto l'arnia, il condottiero

eleggo nel gomitolo dell'api.

E prossima si fa la mietitura

dell'orzo, la qual compiere mi giova

anzi che mi comincino a cascare

le spighe, imperocché non son vestite

sue granella di foglie, come il grano.

Da giovine sei moggia il dì potei

segarne!" sorridendo il veglio dice.

Ancora armata è la gengiva, salda

nel suo sorriso e nella sua favella.

E non pur gli vacillano i ginocchi,

se ben la falce nell'oprare gli abbia

a simiglianza sel suo ferro istesso

curve le gambe. E sopra il santo petto

il lin rude, che l'indaco fè quasi

celeste, crea misteriosamente

l'imagine di Pan duce degli astri,

cui nel torace si rispecchia il Cielo.

(Collocabile tra il 10 e il 16 luglio 1902)

 

L'AEDO SENZA LIRA

Meco ragiona il veglio

d'una spezie di pomi.

E dice: "Nasce in arbore

di mezzana statura, e fior bianchetto.

La dolcezza del frutto

è mista con asprezza.

Non ricusa qualunque terra. I luoghi

allegri ama bensì,dolce temperie.

Dilettasi del mare.

Il vento e il gelo teme.

Innestar non si puote.

Piccola etade dura.

Serbansi i pomi in orci unti di pece.

Anco serbansi in cave

dell'oppio arbore; ovver tra la vinaccia

in pentole, assai bene e lungamente".

Così ragiona il veglio; ed in sue lente

parole il cor si spazia

come in un canto aonio.

Risplende un'antichissima virtude,

come nel prisco aedo

che canta un fato illustre,

o Terra, nel tuo bianco testimonio.

Il soffio del suo petto

paterno è come la bontà dell'aria

che fa buona ogni cosa.

La vita fruttuosa

dell'arbore s'agguaglia

alle sorti magnifiche dei regni.

Ei parla, e tra due legni

tesse la chiara paglia

come l'aedo tende le sue corde,

create cò minugi degli agnelli,

tra i bracci della lira.

Vento asolando, spira

odor di meliloto il miel dall'ombra,

colato nei mondissimi vaselli

ove la man spremette i fiali pregni.

Ei ragiona e travaglia;

e il flavescente culmo non si spezza.

A quando a quando mira

come chi attenda segni.

Ode sciame che romba.

Ei parla di battaglia

che han l'api in loro ostelli

per signorie lor nuove.

Gli luce nella barba e ne' capelli

alcun filo di paglia

che il suo parlar commuove.

Al sole oro non è che tanto luca.

Appesa alla sua bocca che s'immézza,

presso l'aroma della sua saggezza,

l'anima nostra è come la festuca.

(Romena, 16 luglio 1902)

 

BEATITUDINE

"Color di perla quasi informa, quale

conviene a donna aver, non fuor misura".

Non è, Dante, tua donna che in figura

della rorida Sera a noi discende?

Non è non è dal ciel Betarice

discesa in terra a noi

bagnata il viso di pianto d'amore?

Ella col lacrimar degli occhi suoi

tocca tutte le spiche

a una a una e cangia lor colore.

Stanno come persone

inginocchiate elle dinanzi a lei,

a capo chino, umíli; e par si bei

ciascuna del martiro che l'attende.

Vince il silenzio i movimenti umani.

Nell'aerea chiostra

dei poggi l'Arno pallido s'inciela.

Ascosa la Città di sé non mostra

se non due steli alzati,

torre d'imperio e torre di preghiera,

a noi dolce com'era

al cittadin suo prima dell'esiglio

quand'ei tenendo nella mano un giglio

chinava il viso tra le rosse bende.

Color di perla per ovunque spazia

e il ciel tanto è vicino

che ogni pensier vi nasce come un'ala.

La terra sciolta s'è nell'infinito

sorriso che la sazia,

e da noi lentamente s'allontana

mentre l'Angelo chiama

e dice:"Sire, nel mondo si vede

meraviglia nell'atto, che procede

da un'anima, che fin quassù risplende".

(Romena, 28 luglio 1902)

 

FURIT AESTUS

Un falco stride nel color di perla:

tutto il cielo si squarcia come un velo.

O brivido su i mari taciturni,

o soffio, indizio del súbito nembo!

O sangue mio come i mari d'estate!

La forza annoda tutte le radici:

sotto la terra sta, nascosta e immensa.

La pietra brilla più d'ogni altra inerzia.

La luce copre abissi di silenzio,

simile ad occhio immobile che celi

moltitudini folli di desiri.

L'Ignoto viene a me, l'Ignoto attendo!

Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano.

Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento.

T'amo, o tagliente pietra che su l'erta

brilli pronta a ferire il nudo piede.

Mia dira sete, tu mi sei più cara

che tutte le dolci acque dei ruscelli.

Abita nella mia selvaggia pace

la febbre come dentro le paludi.

Pieno di grida è il riposato petto.

L'ora è giunta, o mia Mèsse, l'ora è giunta!

Terribile nel cuore del meriggio

pesa, o Mèsse, la tua maturità.

(Circa metà agosto 1902)

 

DITIRAMBO I - ROMAE FRUGIFERAE DIC.

Ove sono i cavalli del Sole

criniti di furia e di fiamma?

le code prolisse

annodate con liste

di porpora, l'ugne

adorne di lampi

su l'aride ariste?

Ove l'aie come circhi

te trebbie come pugne,

come atleti la rustica prole?

Ove sono i cavalli del Sole

disgiunti dal carro celeste?

Ove le sferze sonanti,

le rèdine lunghe sbandite,

il tinnir dei metalli,

il brillar delle madide groppe?

Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?

Ove la femmina bella

coperta di loppe e di reste

come d'ori e di gemme?

Ove gli scherni, le risse,

le nude coltella,

il sangue che fuma e che bolle,

il giovine ucciso che cade

nelle sue biade

asperse del suo ricco sange

e del vin suo vermiglio?

Ove il tuo nume, o Dioníso,

e il tuo riso e il tuo furore

e il tuo periglio?

Qui scarsa mèsse

per piccole vite,

aia angusta, fatica molle,

mani prudenti, fievoli gole.

O Maremme, o Maremme,

bellezza immite

nata dalla Febbre e dal Sole,

o regni diurni di Dite,

voi l'anima mia sogna!

O Roma, o Roma, la prima

davanti alla faccia del Sole,

incombustibile forza,

semenza di gloria,

unica nata dal solco

del violento

ardua spica opima,

te l'anima mia sogna ed agogna

in un mar di frumento,

dal Cimino solitario

ai vitiferi colli dei Volsci,

fino a Minturno ov'erra

nel limo l'ombra di Mario,

fino a Sinuessa

ebra di Massico forte,

fino alle auree porte

della Campania promessa,

in un mar di frumento

innumerevole

come le trionfate stirpi

dalla tua guerra!

O arce della Terra,

nel dipartirmi

da te, al cospetto dell'Agro

ebbi presagio cruento

che m'infiammò d'amore

più novo e gagliardo

per tutte le tue are

e per tutte le tue tombe.

Vidi campo di rossi

papaveri vasto al mio sguardo

come letto di strage,

come flutto ancor caldo

sgorgato da una ecatombe.

Non mai più fervente rossore

veduto avean gli occhi miei grandi,

e tutta la mia vita tremava

dalle radici

come s'io mi svenassi

sul sacro tuo suolo

con vene giganti.

E l'anima, che si dipartiva,

impetuosamente

verso di te si rivolse, incesa

da dolor rovente

ch'ella udì stridere come

tizzo in piaga viva;

e tutta verso di te protesa

era, gridando il tuo nome

al fulgor vermiglio,

dal carro strepitoso

che la traeva in esiglio.

E intollerabile male

tra tutti i suoi mali

a lei parve la sua dipartita;

sentì la sua vita

spoglia d'ogni forza e senz'ali,

pallida e senza riposo

piegata su l'acre ferita,

ahi, mirò sé stessa lontana.

O Toscana, o Toscana,

dolce tu sei ne' tuoi orti

che lo spino ti chiude

e il cipresso ti guarda;

dolce sei nelle tue colline

che il ruscello ti riga

e l'ulivo t'inghirlanda.

E una dura virtude

certo nelle tue torri commise

e murò per la guerra civile

le pietre forti;

e carca di grandi morti

tu sei ne' tuoi sculti sepolcri,

o Fiorenza, o Fiorenza,

giglio di potenza,

virgulto primaverile;

e certo non è grazia alcuna

che vinca tua grazia d'aprile

quando la valle è una cuna

di fiori di sogni e di pace

ove Simonetta si giace.

Ma cuna dell'anima mia

è il solco del carro stridente

nella pietra dell'Appia via.

A piè del Celio infrequente,

sotto la Porta Capena

gemere udì l'Acqua Marcia

che abbevera l'Urbe affocata.

Si mosse di là fra le tombe

e i lauri, fra la Morte che guata

e la Gloria che perde le frondi,

ai colli d'Alba giocondi.

Lasciò dietro sé le molli ombre;

più non vide la lunga catena

rosseggiar degli acquedutti;

non vide la fresca Preneste;

sdegnò di Tuscolo i frutti,

d'Aricia la selva serena;

s'affrettò alla spiaggia tirrena

ove dura fervente

la bava delle tempeste,

alle reggie di Circe funeste

ove urtò d'Odisseo la carena.

Anelante al deserto di luce

ove fuma vapor che avvelena

e rapisce gli spirti errabondi,

scoperse la candida rupe

onde Anxur pendente

nella truce canicola incombe

allo stagno mortifero e al Mare.

Appia via, cammino solare

incontro all'Austro rapido-ardente,

Appia via, dalla Porta Capena

cui la recondita vena

geme l'assidua stilla,

ove condurrai tu la mia

anima inpaziente

che d'avidità risfavilla?

Non qui la mia messe è mietuta.

A mietere l'alta mia mèsse

mille falci idefesse

travagliarono solco per solco,

dall'aurora al tramonto,

per nove aurore

e per nove tramonti,

in terra sconosciuta.

E s'udiva in ogni meriggio

venir dagli orizzonti

infiammati la voce

e il tuono di Pan sopra a noi.

E ululava la torma feroce:

"O Pan, aiuta, aiuta!"

E per la stoppia i buoi

candidi, aggiogati ai plaustri

contra le biche manomesse,

mugghiavano di spavento.

O Pan, dammi il mio frumento,

dammi l'oro della mia mèsse

australe e la furia degli Austri

libici e la furia dei cavalli

dall'ugne adorne di lampi!

Non qui non qui ebbi i miei campi,

non qui ebbi i miei plaustri,

ma nel grande Lazio tirreno,

fino a Minturno,

fino a Sinuessa,

nella terra ebra di Massico

nella terra ebra di Cècubo,

a Fondi lacustre,

ad Amicle marina,

ad Ardea danaèia

ov'arde il sangue di Turno,

e su la curva spiaggia nomata

dalla nutrice eneia,

di qua dal rapace Volturno,

e presso lo stagno taciturno

pingue di calami e d'ulve

ove il Latino il lauro vige

tra le spiche fatte più fulve,

e ad Anzio amor del pirata

e della Fortuna crudeli

e del crudele Imperatore,

e a Ostia, nella sacra bocca

del Tevere irta di prore

gonfia di vele

ingombra dè lunghi granai.

Ovunque falciai e trebbiai

nel grande Lazio tirreno,

alle porte dell'Urbe e al confine

estremo, fra il Tevere e il Liri,

in ogni più fertile plaga.

Ma a te vanno i miei sospiri,

a te, ombra del Monte Circèo

letifera come il veleno

e il carme dell'avida maga

che tenne l'insonne

piloto re d'Itaca Odisseo

nel letto dall'alte colonne.

Quivi ancor regna nel Monte

l'Iddia callida, figlia del Sole;

e spia dal palagio rupestro,

tra sue stellate pantere

e sue tazze attoscate di suchi.

Gemon prigioni i suoi drudi,

bestiame del suo piecere,

cui ella tocca la fronte

con cerga e susurra parole.

E i suoi pastori astati, prole

dell'Evia e del Centauro

generata nell'ora dell'estro,

di bronzea pelle, di pel sauro,

prole furibonda,

quivi sotto gettano rauco

ululo su la palude

e pungono il negro armento

dalle code nude,

i bufali, irosi mostri

profondati nel lutulento

pascolo che s'inselva di corna.

E, quando aggiorna,

tutta la palude ansa e soffia

per le froge e per le fauci emerse,

occhiuta di mille occhi torvi;

e l'acqua putre gorgoglia

e bulica occlusa dall'erbe

cui sradica il piè bisulco,

mentre nube di corvi

sinistra offusca e assorda l'aria

ove passa in silenzio mortale

la Febbre velata di nebbia.

Quivi io farò la mia trebbia,

quivi batterò la mia mèsse

in un'area vasta

come campo per oste schierata.

Ove sono i cavalli del Sole

criniti di furia e di fiamma?

le code prolisse

annodate con liste

di porpora, l'ugne

adorne di lampi

su l'aride ariste?

Ove le sferze sonanti,

le rédine lunghe sbandite,

il tinnir dei metalli,

il brillar delle madide groppe?

Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?

Ecco, al tripudio, ecco i cavalli!

Chi li conduce?

Ecco le sferze, ecco i crotali,

i cimbali cavi-sonori

che vince il rombo dei cuori,

le femmine scalze-succinte

ebre di luce,

i giovini possa-di-tori

ebri di strepito.

Ecco il fiore del sangue latino.

Ecco gli otri gonfi di vino.

Ecco la sapa dolce a mescere.

Ecco l'arido pane che asseta.

Ecco la tazza di creta,

foggia antica e ne' secoli bella,

ampia come bucranio,

rosea come mammella.

Ecco tutto il tripudio!

Versate i manipoli

sul suol vulcanio,

versate dal plaustro

accline i manipoli

come da cornucopia.

Tutta la terra è roggia

più che sinopia

agli occhi torbidi.

Il vento turbina,

suscita polvere in vortici.

Versano i plaustri

nell'aia l'oro stridulo.

L'oro s'accumula.

Dispare il suolo igneo

sotto la congerie

innumerevole.

Sola una bica, solo un aureo

monte è la grande area.

Tutto il Lazio è una stoppia

che arde e solvesi in cenere

sa Sinuessa massica

fino a Roma romúlea.

Sola una bica, solo un aureo

monte è la grande area;

e i cavalli l'ascendono.

Scalpita, scalpita!

O Roma, questo è il monte di Cerere

madre di Prosèrpina,

questo è il monte della Magna Madre

che navigò pel Tevere.

I cavalli terribili

erti su l'unghia solida

l'ascendono, l'assaltano.

Scalpita, scalpita!

Crollano i manipoli

sotto l'urto, si spezzano

i culmi, si sgranano

le spiche, le ariste stridono,

le loppe volano.

Scalpita, scalpita!

Le sferze schioccano,

per l'aere guizzano

come le folgori.

Come le gòmene

della nave in pericolo

sotto la ràffica,

si tendono le rédine.

Gli umani polsi battono,

tremano i muscoli,

si gonfiano le arterie.

chi osa reggere

la forza degli Alipedi?

Balzano, s'impennano

le fiere, vèrberano

l'aere, col ferro quadruplice

i cumuli dirompono.

Le code intonse inarcansi,

le criniere svèntolano

come vessilli vividi,

le nari spirano

fiamma, gli occhi si rigano

di sangue, i fianchi pulsano,

le vene si palesano,

per l'ampie groppe rivoli

di sudore fluiscono,

nella schiuma dei difficili

freni brilla l'iride.

Scalpita, scalpita!

Tutto il fuoco dell'anima

ferina esalasi

nell'impeto e nell'ànsito

par circonfondere

gli acri corpi madidi,

sul sudor fremere

come un'ala invisibile.

Svegliasi nei rapidi

cuori l'anelito di Pègaso

verso il cammin sidereo?

Scalpita, scalpita!

Il vento turbina,

agita in nugoli

vani le spoglie spícee.

Tutto l'aere è volatile

oro, per ove le candide

e negre e saure

e maculate groppe splendono,

per ove passano

i gridi rauchi,

gli schiocchi, i sibili,

l'urto dei crotali,

il tintinnío dei cimbali,

il mugghio delle bufale,

il riso delle femmine

umane che Libero èccita.

Ma il cielo dilatasi

muto e solenne sul tripudio;

lungi si tace il Mare Infero

ove il figlio di Venere

dall'alta prora iliaca

gridò: "Italia! Italia!"

E l'ombra del re d'Itaca,

l'ombra dell'antico nauta

esperto degli uomini e dei pelaghi,

guata dalla magica

rupe se il Fato ferreo

lui anco chiami a vincere

un più grande pericolo.

O Forza, o Abondanza, o Vittoria,

voi all'opera terrestre auspici

siete e testimonii!

Tutto di voi s'illumina

il grande Lazio. In purpureo

lume il giorno cangiasi.

Il vento chiude i suoi turbini.

L'aere la terra pènetra.

Par nelle cose nascere

una vita indicibile,

però che i prischi numi italici,

subitamente reduci

dall'ombra delle Origini,

nella gleba rivivano,

nell'acqua nell'erba nella silice,

e laggiù, entro la reggia

del re Latino figlio

di Marica e di Fauno,

rinverdiscasi il Lauro

che fu sacro ad Apolline

Febo pria che il vedovo

di Creusa da Ilio

venisse per congiugnersi

con Lavinia vergine fertile.

O prodigio! O metamorfosi!

Su la grande area,

quadrata come la saturnia

Urbe nel nascere,

la calpesta messe al par d'occidua

nuvola s'imporpora.

Scalpita, scalpita!

E i cavalli son rosei

spslendenti, come se nell'intimo

sangue una súbita

aurora accendasi

e per i fumidi

fianchi trasparir veggasi.

S'ergono e di roseo

fuoco il petto e il ventre splendono,

ove s'intrecciano le tumide

vene come d'edera

intrichi per iperborei còrtici.

Fiammei spiriti

dalle narici esalano.

Scalpita, scalpita!

Or senton gli uomini

che un divin numero

modera l'impeto

dei solidunguli.

O prodigio! O metamorfosi!

Ecco, le ali titanie,

le solari penne, le lucifere

piume, infaticabili

flagelli dell'Etere

diurno, atefici

della rapidità precípite,

cui le trame dei muscoli

contro le dure scapule

parean constringere,

ecco, ecco, si liberano

si spiegano s'allargano.

Nell'oro e nella porpora

aperte palpitano

le ali, le ali apollinee.

Il vento ch'elle muovono

solleva il cuor degli uomini

come un peàn che càntino

per sacri intercolumnii

cetere a miriadi.

Io Peàn! Io Peàn! Gloria

al Maestro dell'Opere,

allo Specchio degli Uomini,

al Titan dalla rutila chioma,

al Re delle alate parole,

al Duce dei cori eliconii!

O Forza, Abbondanza, Vittoria,

e tu, Genio che mai non si doma,

voi siatemi qui testimonii.

Calpestano i cavalli del Sole

il rinato frumento di Roma.

(Romena,1 agosto 1902)

 

PACE

Pace, pace! La bella Simonetta

adorna del fugace emerocàllide

vagola senza scorta per le pallide

ripe cantando nova ballatetta.

Le colline s'incurvano leggiere

come le onde del vento nella sabbia

del mare e non fanno ombra, quasi d'aria.

L'Arno favella con la bianca ghiaia,

recando alle Nereidi tirrene

il vel che vi bagnò forse la Grazia,

forse il velo onde fascia

la Grazia questa terra di Toscana

escita della casalinga lana

che fu l'arte sua prima.

Pace, pace! Richiama la tua rima

nel cor tuo come l'ape nel tuo bugno.

Odi tenzon che in su l'estremo giugno

ha la cicala con la lodoletta!

(Metàluglio-metàagosto 1902)

 

LA TENZONE

O Marina di Pisa, quando folgora

il solleone!

Le lodolette cantan su le pratora

di San Rossore

e le cicale cantano su i platani

d'Arno a tenzone.

Come l'Estate porta l'oro in bocca,

l'Arno porta il silenzio alla sua foce.

Tutto il mattino per la dolce landa

quinci è un cantare e quindi altro cantare;

tace l'acqua tra l'una e l'altra voce.

E l'Estate or si china da una banda

or dall'altra si piega ad ascoltare.

E' lento il fiume, il naviglio è veloce.

La riva è pura come una ghirlanda.

Tu ridi tuttavia cò raggi in bocca,

come l'Estate a me, come l'Estate!

Sopra di noi sono le vele bianche

sopra di noi le vele immacolate.

Il vento che le tocca

tocca anche le tue palpebre un po' stanche,

tocca anche le tue vene delicate;

e un divino sopor ti persuade,

fresco ne' cigli tuoi come rugiade

in erbe all'albeggiare.

S'inazzurra il tuo sangue come il mare.

L'anima tua di pace s'inghirlanda.

L'Arno porta il silenzio alla sua foce

come l'Estate porta l'oro in bocca.

Stormi d'augelli varcano la foce,

poi tutte l'ali bagnano nel mare!

Ogni passato mal nell'oblio cade.

S'estingue ogni desio vano e feroce.

Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce;

quello che mi toccò, più non mi tocca.

E' paga nel mio cuore ogni dimanda,

come l'acqua tra l'una e l'altra voce.

Così discendo al mare;

così veleggio. E per la dolce landa

quinci è un cantare e quindi altro cantare.

Le lodolette cantan su le pratora

di San Rossore

e le cicale cantano su i platani

d'Arno a tenzone.

(Marina di Pisa, 5 luglio 1899)

 

BOCCA D'ARNO

Bocca di donna mai mi fu di tanta

soavità nell'amorosa via

(se non la tua, se non la tua, presente)

come la bocca pallida e silente

del fiumicel che nasce in Falterona.

Qual donna s'abbandona

(se non tu, se non tu) sì dolcemente

come questa placata correntía?

Ella non canta,

e pur fluisce quasi melodia

all'amarezza.

Qual sia la sua bellezza

io non so dire,

come colui che ode

suoni dormendo e virtudi ignote

entran nel suo dormire.

Le saltano all'incontro i verdi flutti,

schiumanti di baldanza,

con la grazia dei giovini animali.

In catena di putti

non mise tanta gioia Donatello,

fervendo il marmo sotto lo scalpello,

quando ornava le bianche cattedrali.

Sotto ghirlande di fiori e di frutti

svolgeasi intorno ai pergami la danza

infantile, ma non sì fiera danza

come quest'una.

V'è creatura alcuna

che in tanta grazia

viva ed in sì perfetta

gioia, se non quella lodoletta

che in aere si spazia?<7p>

Forse l'anima mia, quando profonda

sè nel suo canto e vede la sua gloria;

forse l'anima tua, quando profonda

sè nell'amore e perde la memoria

degli inganni fugaci in che s'illuse

ed anela con me l'alta vittoria.

Forse conosceremo noi la piena

felicità dell'onda

libera e delle forti ali dischiuse

e dell'inno selvaggio che si frena.

Adora e attendi!

Adora, adora, e attendi!

Vedi? I tuoi piedi

nudi lascian vestigi

di luce, ed à tuoi occhi prodigi

sorgon dall'acque. Vedi?

Grandi calici sorgono dall'acque,

di non so qual leggiere oro intessuti.

Le nubi i monti i boschi i lidi l'acque

trasparire per le corolle immani

vedi, lontani e vani

come in sogno paesi sconosciuti.

Farfelle d'oro come le tue mani

volando a coppia scoprono su l'acque

con meraviglia i fiori grandi e strani,

mentre tu fiuti

l'odor salino.

Fa un suo gioco divino

l'Ora solare,

mutevole e gioconda

come la gola d'una colomba

alzata per cantare.

Sono le reti pensili. Talune

pendon come bilance dalle antenne

cui sostengono i ponti alti e protesi

ove l'uom veglia a volgere la fune;

altre pendono a prua dei palischermi

trascorrendo il perenne

specchio che le rifrange; e quando il sole

batte a poppa i navigli, stando fermi

i remi, un gran fulgor le trasfigura:

grandi calici sorgono dall'acque,

gigli di foco.

Fa un suo divino gioco

la giovine Ora

che è breve come il canto

della colomba. Godi l'incanto,

anima nostra, e adora!

(Marina di Pisa, 6 luglio 1899)

 

INTRA DU' ARNI

Ecco l'isola di Progne

ove sorridi

ai gridi

della rondine trace

che per le molli crete

ripete

le antiche rampogne

al re fallace,

e senza pace,

appena aggiorna,

va e torna

vigile all'opra

nidace,

nè si posa nè si tace

se non si copra

d'ombra la riviera

a sera

circa l'isola leggiera

di canne e di crete,

che all'aulete

dà flauti,

alla migrante nidi

e, se sorridi, lauti

giacigli all'amor folle.

Ecco l'isola molle.

Ecco l'isola molle

intra dù Arni,

cuna di carmi,

ove cantano l'Estate

le canne virenti

ai vènti

in varii modi,

non odi?,

quasi di nodi

prive e di midolle,

quasi inspirate

da volubili bocche

e tocche

da dita sapienti,

quasi con arte elette

e giunte insieme

a schiera,

su l'esempio divino,

con lino

attorto e con cera

sapida di miele,

a sette a sette,

quasi perfette

sampogne.

Ecco l'isola di Progne.

(Data di componimento ignota)

 

LA PIOGGIA NEL PINETO

Taci. Su le soglie

del bosco non odo

parole che dici

umane; ma odo

parole più nuove

che parlano gocciole e foglie

lontane.

Ascolta. Piove

dalle nuvole sparse.

Piove su le tamerici

salmastre ed arse,

piove su i pini

scagliosi ed irti,

piove su i mirti

divini,

su le ginestre fulgenti

di fiori accolti,

su i ginepri folti

di coccole aulenti,

piove su i nostri volti

silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggieri,

su i freschi pensieri

che l'anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

t'illuse, che oggi m'illude,

o Ermione.

Odi? La pioggia cade

su la solitaria

verdura

con un crepitío che dura

e varia nell'aria

secondo le fronde

più rade, men rade.

Ascolta. Risponde

al pianto il canto

delle cicale

che il pianto australe

non impaura,

nè il ciel cinerino.

E il pino

ha un suono, e il mirto

altro suono, e il ginepro

altro ancóra, stromenti

diversi

sotto innumerevoli dita.

E immersi

noi siam nello spirto

silvestre,

d'arborea vita viventi;

e il tuo volto ebro

è molle di pioggia

come una foglia,

e le tue chiome

auliscono come

le chiare ginestre,

o creatura terrestre

che hai nome

Ermione.

Ascolta, ascolta. L'accordo

delle aeree cicale

a poco a poco

più sordo

si fa sotto il pianto

che cresce;

ma un canto vi si mesce

più roco

che di laggiù sale,

dall'umida ombra remota.

Più sordo e più fioco

s'allenta, si spegne.

Sola una nota

ancor trema, si spegne,

risorge, trema, si spegne.

Non s'ode voce del mare.

Or s'ode su tutta la fronda

crosciare

l'argentea pioggia

che monda,

il croscio che varia

secondo la fronda

più folta, men folta.

Ascolta.

La figlia dell'aria

è muta; ma la figlia

del limo lontana,

la rana,

canta nell'ombra più fonda,

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su le tue ciglia,

Ermione.

Piove su le tue ciglia nere

sìche par tu pianga

ma di piacere; non bianca

ma quasi fatta virente,

par da scorza tu esca.

E tutta la vita è in noi fresca

aulente,

il cuor nel petto è come pesca

intatta,

tra le pàlpebre gli occhi

son come polle tra l'erbe,

i denti negli alvèoli

con come mandorle acerbe.

E andiam di fratta in fratta,

or congiunti or disciolti

(e il verde vigor rude

ci allaccia i mallèoli

c'intrica i ginocchi)

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su i nostri vólti

silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggieri,

su i freschi pensieri

che l'anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

m'illuse, che oggi t'illude,

o Ermione.

(Data di composizione ignota. Probabile fra la metà di luglio

1902 e la meta dell'agosto dell'anno sucessivo)

 

LE STIRPI CANORE

I miei carmi son prole

delle foreste,

altri dell'onde,

altri delle arene,

altri del Sole,

altri del vento Argeste.

Le mie parole

sono profonde

come la redici

terrene,

altre serene

come i firmamenti,

fervide come le vene

degli adolescenti,

ispide come i dumi,

confuse come i fumi

confusi,

nette come i cristalli

del monte,

tremule come le fronde

del pioppo,

tumide come la nerici

dei cavalli

a galoppo,

labili come i profumi

diffusi,

vergini come i calici

appena schiusi,

notturne come le rugiade

dei cieli,

funebri come gli asfodeli

dell'Ade,

pieghevoli come i salici

dello stagno,

tenui come i teli

che fra due steli

tesse il ragno.

(Metà luglio-metà agosto 1902)

 

IL NOME

Donna, ebbe il tuo nome

una città murata

della pulverulenta

Argolide. E quivi era,

dicesi, un sentier breve

per discendere all'Ade

avaro, alle tenarie

fauci; sì che i natii

non ponean nella bocca

dei loro morti il prezzo

del tragitto infernale,

l'obolo tenebroso

pel nocchier dello Stige.

Ed ebbe anco il tuo nome

la figlia della grande

Elena, il fior di Sparta

bianco, il sangue di Leda

splendido come l'oro,

la nata di colei

che brillò su la terra

come un'altra Stagione,

delizia innumerevole,

face e specchio di Venere,

piaga del combattente.

Ermione, Ermione

dalla voce sorgevole

e talora virente

quasi tra capelvenere

acqua ombrosa, dagli occhi

nutriti di bellezza

e di frescura, nat

gemelli della Grazia

e del Sogno, Ermione

cara all'aedo, esperta

in tesser la ghirlanda

e la lode pel fertile

aedo che ti sazia

di melodia selvaggia,

il tuo nome mi piace

tuttavia come un grappolo,

come quel flauto roco

che a sera è nel cespuglio,

mi piace come un grappolo

d'uva nera il tuo nome,

come il fiore del croco

e la pioggia di luglio.

(data di composizione ignota)

 

INNANZI L'ALBA

Coglierai sul nudo lito,

infinito

di notturna melodia,

il maritimo narcisso

per le tue nuove corone,

tramontando nell'abisso

le Vergilie,

le sorelle oceanine

che ancor piangono per Ia

lacerato dal leone.

Andrem pel lito silenti;

sentiremo la rugiada

lene e pura

piovere dagli occhi lenti

della notte moritura,

tramontando nel pallore

le Vergilie,

le sorelle oceanine

minacciate dalla spada

del feroce cacciatore.

Forse volgerò la faccia

in dietro talvolta io solo

per vedere la tua traccia

luminosa,

e starem muti in ascolto,

tramontando in tema e in duolo

le Vergilie,

le sorelle oceanine

a cui l'Alba asciuga il volto

col suo bianco vel di sposa.

(Data di composizione ignota)

 

VERGILIA ANCEPS

Nella pupilla tua,

nel disco

dell'occhio aurino

la prua,

l'acuta prua

del navil prisco,

come nella medaglia

della Tessaglia

risplende,

come nelle stupende

monete del potere

marino,

come nello statère

del porto licio

dal pirata fenicio

nominato Fasèla.

Alla vela! alla vela!

E nell'altra pupilla

scintilla

il grano a fiamma

come nel tetradramma

di Leontini

sul fiume Lisso

ubertà di Sicilia

dai fromenti divini.

E, s'io m'affisso

in te, la duplice arte

il cor mi parte.

O duro suol discisso!

Lungo solco navale!

E in una e in altra parte

la mia virtù si esilia,

o mia Vergilia

nautica e cereale.

 

I TRIBUTARII

Questa è la bella foce

che oggi ha il color del miele,

sì lene che l'Amore

te l'accosta alle labbra

come una tazza colma.

Lodata io l'ho con arte.

Ma quante acque in quest'acqua,

ma quante acque correnti,

quanta forza rapace,

o Fluviale, in questa tarda pace!

E non è dato a noi

votar la colma tazza,

distinguerne i sapori.

Chi loderà l'Ombrone

cui Lorenzo già vide

rompere dallo speco

dietro le trecce d'Ambra?

Ancóra ei grida all'Arno:

"In te mia speme è sola.

Soccorri presto, ché la ninfa vola".

Chi loderà il Bisenzio

sì caro a quell'antico

favolatore ornato

che lodò la bellezza

della donna perfetta?

E chi la Pescia e l'Era?

E chi la Pesa e l'Elsa?

Chi la Greve e la Sieve?

e i rivi freddi e molli

del Casentino giù pè verdi colli?

Strepiti freschi in sassi

politi, argille chiare,

argini d'erba, file

di pioppi alti, vivai

di salci giovinetti,

cupe conche pescose,

ombre che il quadrel d'oro

fiede, ambigui meandri,

or chi di voi si gode

e tempra nel cor suo la vostra lode?

Questa è la foce; e quanto

paese l'acqua corre,

che non godiamo immoti!

Le valli sono cave

come la man che beve,

i monti gonfii come

mammella non premuta.

Il gregge passa il guado.

Il mulino rintrona.

Solingo è un fonte nella Falterona.

Cade la sera.Nasce

la luna dalla Verna

cruda, roseo nimbo

di tal ch'effonde pace

senza parole dire.

Pace hanno tutti i gioghi.

Si fa più dolce il lungo

dorso del Pratomagno

come se blandimento

d'amica man l'induca a sopor lento.

Su i pianori selvosi

ardon le carbonaie,

solenni fuochi in vista.

L'Arno luce fra i pioppi.

Stormire grande, ad ogni

soffio, vince il corale

ploro dè flauti alati

che la gramigna asconde.

E non s'ode altra voce.

Dai monti l'acqua corre a questa foce.

(Romena, 16 agosto 1902)

 

I CAMELLI

Nostra spiaggia pisana,

amor di nostro sangue,

vita di sabbie e d'acque

silvana e litorana,

o ferma creatura

nella qual si compiacque

un'arte che non langue

non trema e non s'offusca,

terra lieve e robusta

che lineata pare

dalla mano sicura

del figulo onde nacque

il purissimo vaso

che vale e non corusca

nè pesa, specie pura,

l'orgoglio della mensa

e della tomba etrusca,

il fiore delle forme

nel cielo senza occaso,

or qual mai novo caso

fece che dall'immensa

Asia o dall'Africa usta

sen venisse il deforme

somiero a stampar l'orme

su la tua levità

divina e, come fa

il giumento crinito

dal tranquillo occhio amico

dell'uomo, a someggiare

con la sua gobba onusta

le spoglie dell'augusta

selva tra l'Arno e il Mare?

Passano per la macchia,

vanno verso la ripa,

tra i mucchi di legname,

tra i cumuli di stipa,

i camelli gibbuti,

carichi di fascine

di ramaglia e di strame,

sì gravi e tristi e muti!

Sotto i lor piè distorti

scricchiolano le pine

aride, gli aghi morti.

Ròtea la mulacchia

nel cielo ingombro d'afa;

e a quando a quando gracchia.

Cola e odora la ragia.

S'odono su le Lame

di Fuore le cavalle

nitrire a quando a qiando;

e più sottil nitrito

e più tremulo s'ode

rispondere e più fresco,

dei puledri novelli.

Passano per la macchia

gravi e tristi i camelli.

Non il lor Barbaresco

li guida ma il bifolco

toscano, con l'antica

voce che i padri suoi

usarono pel solco

ad incitare i buoi

tardi nella fatica.

Vanno i callosi cuoi.

Giungono alla radura

per deporre i lor fasci.

Ecco, subitamente

ciascun par che s'accasci

per esalare il fiato,

per quivi infracidire.

Si piegan su i ginocchi

con un grido sommesso.

Poi sbadigliano al sole.

Appar la gialla chiostra

dei denti aspri, il palato

violaceo. S'ode

salire nelle gole

serpentine e lanose

un gorgóglio intermesso.

Treman le labbra molli

e lacrimano i bruni occhi

esanimi, gli specchi

inerti dei deserti

e dei palmeti. Vecchi

sembran della vecchiezza

del Mondo questi grandi

esuli, oppressi e affranti

da tutta la stanchezza

che addolora la carne

viva sopra la faccia

della Terra discorde.

S'alzano senza il peso.

Lunghe dal fianco spoglio

trascinano le corde

giù per la traccia. E s'ode

quel lor triste gorgóglio.

Tali forse li vide

in lor piagge natali,

e n'ebbe orrore, il buono

mercatante pisano

che fu predato e tratto

prigione dai corsali

in paese lontano.

Volle la mala sorte

ch'egli incappasse in una

fusta di Barbareschi,

che armava ventidue

remi per banda, forte

e veloce a saetta.

E per le mani ladre

perse le robe sue,

la cocca a vele quadre

e la mercatanzia.

E fu messo in ritorte.

E schiavo in Barberia

gran tempo si rimase.

E macinava il grano

a braccia, tratto tratto

udendo il grido vano

del camello percosso,

triste sino alla morte.

Poi tornò, per riscatto,

a Pisa, alle sue case.

E fecesi un palagio

novo a specchio dell'Arno.

Memore del malvagio

servire, ALLA GIORNATA

scrisse nell'architrave.

E l'Arno era soave.

(Romena, 18 agosto 1902)

 

MERIGGIO

A mezzo il giorno

sul Mare etrusco

pallido verdicante

come il dissepolto

bronzo dagli ipogei, grava

la bonaccia. Non bava

di vento intorno

alita. Non trema canna

su la solitaria

spiaggia aspra di rusco,

di ginepri arsi. Non suona

voce, se acolto.

Riga di vele in panna

verso Livorno

biancica. Pel chiaro

silenzio il Capo Corvo

l'isola del Faro

scorgo; e più lontane,

forme d'aria nell'aria,

l'isole del tuo sdegno,

o padre Dante,

la Capraia e la Gorgona.

Marmorea corona

di minaccevoli punte,

le grandi Alpi Apuane

regnano il regno amaro,

dal loro orgoglio assunte.

La foce è come salso

stagno. Del marin colore,

per mezzo alle capanne,

per entro alle reti

che pendono dalla croce

degli staggi, si tace.

Come il bronzo sepolcrale

pallida verdica in pace

quella che sorridea.

Quasi letèa,

obliviosa, eguale,

segno non mostra

di corrente, non ruga

d'aura.La fuga

delle due rive

si chiude come in un cerchio

di canne, che circonscrive

l'oblío silente; e le canne

non han susurri. Più foschi

i boschi di San Rossore

fan di sé cupa chiostra;

ma i più lontani,

verso il Gombo, verso il Serchio,

son quasi azzurri.

Dormono i Monti Pisani

coperti da inerti

cumuli di vapore.

Bonaccia, calura,

per ovunque silenzio.

L'Estate si matura

sul mio capo come un pomo

che promesso mi sia,

che cogliere io debba

con la mia mano,

che suggere io debba

con le mie labbra solo.

Perduta è ogni traccia

dell'uomo. Voce non suona,

se ascolto. Ogni duolo

umano m'abbandona.

Non ho più nome.

E sento che il mio vólto

s'indora dell'oro

meridiano,

e che la mia bionda

barba riluce

come la paglia marina;

sento che il lido rigato

con sì delicato

lavoro dell'onda

e dal vento è come

il mio palato, è come

il cavo della mia mano

ove il tatto s'affina.

E la mia forza supina

si stampa nell'arena,

diffondesi nel mare;

e il fiume è la mia vena,

il monte è la mia fronte,

la selva è la mia pube,

la nube è il mio sudore.

E io sono nel fiore

della stiancia, nella scaglia

della pina, nella bacca,

del ginepro: io son nel fuco,

nella paglia marina,

in ogni cosa esigua,

in ogni cosa immane,

nella sabbia contigua,

nelle vette lontane.

Ardo, riluco.

E non ho più nome.

E l'alpi e l'isole e i golfi

e i capi e i fari e i boschi

e le foci ch'io nomai

non han più l'usato nome

che suona in labbra umane.

Non ho più nome nè sorte

tra gli uomini; ma il mio nome

è Meriggio. In tutto io vivo

tacito come la Morte.

E la mia vita è divina.

(Composta probabilmente tra la metà di luglio e la metà di agosto 1902)

 

LE MADRI

Su le Lame di Fuore,

nel salso strame,

nelle brune giuncaie,

nell'erbe gialle,

oziano a branchi

le saure e baie

cavalle

di San Rossore.

Altre su i banchi

di sabbia, altre nell'acqua

immerse fino al ventre,

s'ammusano; mentre

le groppe al sole

rilucono, chiare, scure,

d'oro, di rame.

Su le Lame, cui adduce

anatre il verno,

oziano nella luce

pura le feconde,

coi gravidi fianchi

immote in una massa

placida. Sole

su l'acqua bassa

le lunghe code

con moto eterno

ondeggiano. S'ode

a quando a quando

fremito delle froge

umide, sbuffare

ansare leggero,

tremulo nitrito,

nella foce silente;

cui dal lito risponde

fievole risucchio

del mare. Taluna

esce del mucchio, annusa

l'acqua, s'abbevera lenta;

poi guata verso il monte

su cui s'aduna

fumoso il nembo;

poi si rivolge e ammusa.

E ondeggiano le code

lente sul riposo

della mandra ferace.

Teco, o Luce pura,

teco attendono in pace

la genitura

le Madri.

Lunge per l'aria chiara

appar grande e soave

cerula e bianca

l'Alpe di Carrara,

cerula d'ombre

bianca di cave.

Ma ingombre del muto

nembo che si prepara

son le cime ov'hanno

con l'aquile nido

le folgori corusche.

Odor di lunge acuto,

dalle pinete

verdi e fulve, nelle bave

rare del vento giunge

alla quiete.

Ed ecco una nave,

ecco le vele etrusche

partitesi dal lito

di Luni lunato

e niveo di marmi.

Ecco una nave in vista

tra il Serchio e il Gombo.

E' carica di marmi,

è carica di sogni

dormenti nel profondo

candore ignoti e soli.

E il mio spirito evòca

il tuo folle Evangelista,

o Buonarroti,

il figlio della Terra

e del Genio che l'affoca;

vede la gran persona

che si torce nell'angoscia

del masso che lo serra,

onde si sprigiona a guerra

l'aspro ginocchio, e la coscia

d'osso e di muscoli enorme.

Nella carena dorme

l'incarco fecondo

di forme,

tratto dall'erme cave,

rapito al grembo dell'Alpe.

Nel grembo della nave

dormono le bianche moli.

Attendon dai sogni soli

la genitura

le Madri.

(Composta fra il 17 luglio e la metà di agosto 1902)

 

ALBASIA

O mattin nuziale

tra il Mar pisano

e l'Alpe lunense!

O nozze immense

e brevi!

La nube formosa

disposa

il monte che a lei sale,

l'ombra d'entrambi il piano,

la dolce acqua il sale,

la canna il tralcio,

il salcio

la florida stiancia,

l'argano la bilancia

su la foce pescosa,

la mia rima il mio giòlito,

l'algosa

arena i tuoi piè lievi,

o Ermione.

E il cielo è nivale

come su la tua guancia

ondata il velo

insolito.

Il mare è d'opale

con vene di crisòlito,

come i mari dell'Asia,

immoto albore

di gemme fuse.

Brillano le meduse

a fiore

dell'immerso banco.

E tutto è bianco,

presso e lontano.

E' grande albàsia

da lido a lido,

come allor che fa il nido

sul Mar sicano

la sposa Alcyone.

(Composta tra la metà di luglio e la metà di agosto 1902)

 

L'ALPE SUBLIME

Svégliati, Ermione,

sorgi dal tuo letto d'ulva,

o donna di liti.

Mira spettacolo novo,

gli Iddii appariti

su l'Alpe di Luni

sublime!

Occidue nubi, corone

caduche su cime

eterne.

Ma par che s'aduni

concilio di numi

grande e solenne

tra il Sagro e il Giovo,

tra la Pania e la Tambura,

e che l'aquila fulva

del Tonante

su le sante

sedi apra tutte le penne.

Oh silenzii tirrenii

nel destero Gombo!

Solitudine pura,

senz'orme!

Candore dei marmi lontani,

statua non nata,

la più bella!

Dormono i Monti Pisani,

grevi, di cerulo piombo,

su la pianura

che dorme.

Altra stirpe di monti.

Non han numi, non genii,

non aruspici in lor caverne,

non impeti d'ardore

verso i tramonti,

non insania, non dolore;

ma dormono su la pianura

che dorme.

Oh Alpe di Luni,

davanti alla faccia del Mare

la più bella,

rupe che s'infutura,

oh Segno che l'anima cerne,

grande anelito terrestro

verso il Maestro

che crea,

materia prometèa,

altitudine insonne,

alata,

Inno senza favella,

carne delle statue chiare,

gloria dei templi immuni,

forza delle colonne

alzata,

sostanza delle forme

eterne!

(Composizione collocabile nella terza decade di giugno 1902)

 

IL GOMBO

L'immensità del duolo,

del lutto immedicabile senza

fine, terrestre fatta

qual Niobe nell'umida rupe,

quivi abitava sembra

nel lito deserto, nell'alpe

ardua, nella selva

che piange il suo pianto aromale.

Tutto è quivi alto e puro

e funebre come le plaghe

ove duran nel Tempo

i grandi castighi che inflisse

il rifor degli iddii

agli uomini obliosi del sacro

limite imposto all'ansia

del lor desiderio immortale.

Tre disse quivi immense

parole il Mistero del Mondo,

pel Mare pel Lito per l'Alpe,

visibile enigma divino

che inebria di spavento

e d'estasi l'anima umana

cui travagliano il peso

del corpo e lo sforzo dell'ale.

Poi che non val la possa

della Vita a comprendere tanta

bellezza, ecco la Morte

che braccia più vaste possiede

e silenzii più intenti

e rapidità più sicura;

ecco la Morte, e l'Arte

che è la sua sorella eternale:

quella che anco rapisce

la Vita e la toglie per sempre

all'inganno del Tempo

e nuda s'inalza tra l'Ombra

e la Luce, e le dona

col ritmo il novello respiro:

ecco la Morte e l'Arte

apparsemi nel cerchio fatale.

O Niobe, l'antico

tuo grido odo alzarsi repente

al cospetto del Mare,

e il tuo disperato dolore

chiamar le figlie e i figli

per l'inesorabile chiostra,

e stridere odo l'arco

forte e sibilare lo strale.

"Tera, Ftia, Cleodossa,

Astíoche, Pelòpia, Fedímo!"

Tu chiami; e i dolci nomi,

i nomi che furono il miele

della tua bocca, o Madre,

si frangon nell'ululo crudo

come pel míssile oro

l'incolpevole fior filiale.

Procombono sul petto

sul fianco, procombono i corpi

floridi, i giovinetti

venusti, le vergini leni;

copron la sabbia amara,

mescono le chiome alle spume

non il sangue: incruenta

è la piaga dell'oro letale.

Procombono, stanno

ai tuoi piedi,o Madre demente!

Poi tutto è marmo, immota

bellezza, effigiato silenzio.

L'immensità del duolo

è fatta terrestre e marina.

Il Mare il Lito l'Alpe

sono il tuo simulacro ferale.

O Tantalide audace,

io veggio il tuo bellissimo volto

impietrato e il tuo pianto

nella solitudine esangue,

e il sacrilego orgoglio

che feceti chiedere altari

per la generatirce

virtù del tuo grembo mortale.

Tutto è quivi alto e puro

e funebre e ai cieli superbo,

memore dell'umane

grandezze e dei castighi divini.

Ed in nessuna plaga

con più guerra, ahi, l'anima audace

travagliarono il peso

del corpo e lo sforzo dell'ale.

(Romena, 13 agosto 1902)

 

ANNIVERSARIO ORFICO - P.B.S. VIII Luglio MDCCCXXII

Udimmo in sogno sul deserto Gombo

sonar la vasta búccina tritonia

e da Luni diffondersi il rimbombo

a Populonia.

Dalle schiume canute ai gorghi intorti

fremere udimmo tutto il Mare nostro

come quando lo vèrberan le forti

ale dell'Ostro.

E trasalendo "Odi, sorella" io dissi

"odi l'annuncio dell'enfiata conca?

Forse per noi risale dagli abissi

la testa tronca,

la testa esangue del treicio Orfeo

che, rapita dal freddo Ebro alla furia

bassàrica, sen venne dell'Egeo

al mar d'Etruria".

Quasi fucina il vespro ardea di cupi

fuochi; gridavan l'aquile nell'alto

cielo, brillando il crine delle rupi

qual roggio smalto.

Come profusi fuor dell'urne infrante

parean ruggir nell'affocato cerchio

i fiumi, l'Arno del selvaggio Dante,

la Magra, il Serchio.

Ed ella disse: "Non l'Orfeo treicio,

non su la lira la divina testa,

ma colui che si diede in sacrificio

alla Tempesta.

Oggi è il suo giorno. Il nàufrago risale,

che venne a noi dagli Angli fuggitivo,

colui che amava Antigone immortale

e il nostro ulivo".

Dissi: "O veggente, che faremo noi

per celebrar l'approdo spaventoso?

Invocheremo il coro degli Eroi?

Tremo, non oso.

Questo naufrago ha forse gli occhi aperti

e negli occhi l'imagine d'un mondo

ineffabile. Ei vide negli incerti

gorghi profondo.

E tolto avea Prometèo dal rostro

del vúlture, nel sen della Cagione

svegliato avea l'originario mostro

Demogorgóne!"

Disse ella: "Gli versavan le melodi

i Vénti dai lor carri di cristallo,

il silenzio gli Spiriti custodi

bui del metallo,

il miel solare nella boccha schiusa

le musiche api che nudrito aveano

Sofocle, il gelo gli occhi d'Aretusa

fiore d'Oceano".

Dissi: "Ei ghermì la nuvola negli atrii

di Giove, su l'acroceraunio giogo

la folgore. Non odi i boschi patrii

offrirgli il rogo?

Mira funebre letto che s'appresta,

estrutto rogo senza la bipenne!

Vengono i rami e i tronchi alla congesta

ara solenne.

E caduto dal ciel l'arde il divino

fuoco. Scrosciano e colano le gomme.

Spazia l'odor del limite marino

all'Alpi somme".

Ella disse: "A noi vien per aver pace

il nàufrago che il Mar di gorgo in gorgo

travolse. Altra nel cielo che si tace

anima scorgo.

Placa te stesso e l'ospite! Il mortale,

ch'evocò la gran Niobe di pietra

su dal silenzio e trarre udì lo strale

dalla faretra,

èvochi presso il naufrago silente

la lacrimata figlia di Giocasta,

la regia virgo nelle pieghe lente

del peplo casta,

Antigone dall'anima di luce,

Antigone dagli occhi di viola,

l'Ombra che solo nell'esilio truce

egli amò sola.

Ecco il giglio per quelle morte chiome,

il fiore inespugnabile del nudo

Gombo, il tirreno fior che ha il greco nome

del doppio ludo,

ecco il pancrazio". Io dissi: "No, 'l corremo.

intatto sia tra l'uno e l'altro il fiore.

Vegli con noi quest'Ombre ed il supremo

lor sacro amore".

(Romena, giorno di ferragosto del 1902)

 

TERRA, VALE!

Tutto il Cielo precipita nel Mare.

S'intenebrano i liti e si fan cavi,

talami dell'Eumenidi avernali.

Nubi opache sul limite marino

alzano in contro mura di basalte.

Solo tra le due notti il Mar risplende.

presa e constretta negli intorti gorghi,

come una preda pallida, è la luce.

La tempesta ha divelto con furore

i pascoli nettunii dalle salse

valli ove agguatano i ritrosi mostri.

Alghe livide, fuchi ferrugigni,

nere ulve di radici multiformi

fanno grande alla morta foce ingombro,

natante prato cui nessuna greggia

morderà, calcherà nessun pastore.

Virtù si cela forse nelle fibre

sterili, che trasmuta il petto umano?

O mito del mortale fatto nume

cerulo, rinnovèllati nel mio

desiderio del flutto infaticato!

Tutto il Cielo precipita nel Mare.

Preda è la luce dei viventi gorghi,

forse immolata per l'eternità.

(Composta tra la metà di luglio e la metà di agosto 1902)

 

DITIRAMBO II

Io fui Glauco, fui Glauco, quel d'Antèdone.

Trepidar ne' precordii

sentii la deità, sentii nell'intime

midolla il freddo fremito

della potenza equorea trascorrere

di repente, io terrígena,

io mortal nato di sostanza efimera,

io prole della polvere!

Memore sono della metamorfosi.

L'anima si fa pelago

nel rimembrare, s'inazzurra ed èstua,

e le foci vi sboccano

dei mille fiumi che mi confluirono

sul capo: nel rigúrgito

immenso novamente par dissolversi

quest'ossea compagine.

O Iddii profondi, richiamate l'esule,

però ch'ei sia miserrimo

nella sua carne d'acro sangue irrigua,

lasso ne' suoi piè debili

che per lotosi tramiti s'attardano,

dopo ch'ei fu l'indomita

forza del flutto convertita in muscoli

tòrtili per attorcere,

dopo che le correnti dell'Oceano

gli furon giogo a tessere

le divine di sé vicissitudini

come su trama vitrea.

O Iddii profondi, richiamate l'esule

triste, puruficatelo

sotto i fiumi lustrali ínferi e súperi,

la deità rendetegli!

Memore sono. Era già fatto il vespero

su l'acque; ma i cieli ultimi

ardevano d'un foco inestinguibile,

e i golfi e i promontorii

e l'isole di contro negreggiavano

come are senza vittime

già notturni, allorché sostai nel pascolo

nettunio, presso il limite

marino. Onusto di gran preda, súbito

votai su l'erbe i nèssili

miei lini a noverar la mia dovizia.

Poi del confuso cumulo

feci schiere ordinate. E in cor godevami

tante squame rilucere

veggendo per quel bruno intrico; "I nèssili

miei lini e i piombi e i sugheri

t'appenderò nel tempio, o dio propizio"

in cor disse il grato animo.

E allor vidi i pesci più risplendere,

vidi le pinne battere

e le branchie alitare e per le scaglie

lampi di forza correre.

E, come quando il nume di Diòniso

invade le Bassaridi

e si disfrena giù pè monti il Tíaso,

la muta gente parvemi

infuriare, cedere a un'incognita

virtù, di sacra fervere

insania. "Qual prodigio è questo? Ahi misero

mè!" gridai per grandissimo

spavento; ché la preda mia fuggivasi

a gara con viperèa

rapidità, balzando e dileguandosi.

"Mè misero! Un dio fecemi

questo? e nell'erba è la possanza?" Attonito

mi rimasi. Il silenzio

era divino nella solitudine.

Era già fatto il vespero,

ma lungamente i cieli ultimi ardevano.

Udir parvemi búccina

cupa sonar lungh'essi i promontorii

selvosi; udire parvemi

canti fatali spandersi dall'isole.

E quasi inconsapevole

la man correami per quell'erba strania,

meditando io nell'animo

il prodigio. Divelsi dalle radiche

gli steli foschi; e, simile

a capra di virgulti avida, mordere

incominciai, discerpere

e mordere. Rigavami le fauci

il suco, ne' precordii

scendeami, tutto il petto conturbandomi.

"O terra!" gridai. Fumida

era la terra intorno come nuvola

che fosse per dissolversi

nè cieli, sotto i piedi miei fuggevole.

E un amore terribile

sorgeva in me, dell'infinito pelago,

dell'amara salsedine,

degli abissi, dei vortici e dei turbini.

La mia carne era libera

della gravezza terrestre. Nascevami

dall'imo cor l'imagine

d'un'onda ismisurata e per le palpebre

mi si svelava il cerulo

splendor del sangue novo, e il collo e gli òmeri

dilatarsi parevano

e le ginocchia giugnersi, le scaglie

su per la pelle crescere,

gelidi guizzi correre pei muscoli.

"Terra, vale!" Precipite

caddi nel gorgo, mi sommersi, l'infima

toccai valle oceanica,

uomo non più, non anco dio, ma immemore

della terra e degli uomini.

Fiumi correnti, odo il sublime sònito

di voi sempre nell'anima,

fiumi sgorganti d'ogni scaturigine,

leni di pace o rauchi

di violenza, caldi come l'aure

nove che v'arrecarono

l'alluvione copiosa o frigidi

come i nivali vertici

onde scendeste inviolati, d'auree

sabbie flavi o sanguinei

d'argille, pingui di limo o più limpidi

che l'etere sidereo!

Cento e cento passarono passarono

sul mio capo. La fluida

vita dell'orbe mi fluì su gli òmeri

proni, con ineffabile

melodía. L'Acheronte, il gran tartareo

pianto, anche sentii volvere

su me nel cieco suo pallore i petali

rapiti al prato asfòdelo.

Tutte l'acque rombarono crosciarono

su me sommerso, tolsero

ogni terrestrità dal corpo immemore

della sua dura nascita.

E mi risollevai dio verso l'etere

santo; spirai grande alito

che una nave d'eroi sospinse. Io auspice

apparvi agli Argonauti!

Di su la prora chino il cantor tracio

raccolse il vaticinio.

E presso lui, d'oro chiomato, florido

della prima lanugine,

(sentendo l'immortalità, saltavagli

il cuore sotto il bàlteo

splendido) presso Orfeo figlio d'Apolline

era il fratello d'Elena.

O Iddii profondi, richiamate l'esule,

la deità rendetegli!

Io fui Glauco, fui Glauco, quel d'Antèdone.

La terra m'è supplizio.

Ecco, tutta la luce è nel Mare Infero,

e per ovunque è tenebra.

O nunzia di prodigi Alba oceanica!

Nel gorgo mi precipito.

(Data di composizione ignota - anno 1902)

 

L'OLEANDRO

I.

Erigone, Aretusa, Berenice,

quale di voi accompagnò la notte

d'estate con più dolce melodia

tra gli oleandri lungo il bianco mare?

Sedean con noi le donne presso il mare

e avea ciascuna la sua melodia

entro il suo cuore per l'amica notte;

e ciascuna di lor parea contenta.

E sedevamo su la riva, esciti

dalle chiare acque, con beato il sangue

del fresco sale; e gli oleandri ambigui

intrecciavan le rose al regio alloro

su 'l nostro capo; e il giorno di sì grandi

beni ci avea ricolmi che noi paghi

sorridevamo di riconoscenza

indicibile al suo divin morire.

"Il giorno" disse pianamente Erigone

verso la luce "non potrà morire.

Mai la sua faccia parve tanto pura,

non ebbe mai tanta soavità".

Era la sua parola come il vento

d'estate quando ci disseta a sorsi

e nella pausa noi pensiamo i fonti

dei remoti giardini ov'egli errò.

L'udii come s'io fossi ancor sommerso

e la sua voce avesse umido velo.

Ma reclinai la gota, e d'improvviso

tiepida come sangue dalla conca

dell'udito sgorgò l'acqua marina.

Pur, profondando nella sabbia i nudi

piedi, io sentia partirsi lentamente

il buon calor del tramontato sole.

E chi recise all'oleandro un ramo?

Io non mi volsi, ma l'amarulenta

fragranza della linfa della fresca

piaga mi giunse alle narici, vinse

l'odor muschiato dei vermigli fiori.

"O Glauco" disse Berenice "ho sete".

Ed Aretusa disse: "O Derbe, quando

fiorì di rose il lauro trionfale?"

Ella ben sapea quando, ma non Derbe

inesperto in foggiar lucidi miti.

Ed il cuore profondo mi tremò,

tremò della divina poesia.

Ond'io pregava: "O desiderii miei,

stirpe vorace e vigile, dormite!

E voi lasciate che nel vostro sonno

io mi cinga del lauro trionfale!"

Tutto allora fu grande, anche il mio cuore.

Oh poesia, divina libertà!

Ergevasi con mille cime l'Alpe

grande, quasi con volo di mille aquile,

per il salir d'impetuosa forza

dalle sue dure viscere di marmo

onde l'uom che non volle umana prole

trasse i suoi muti figli imperituri.

E le curve propaggini dell'Alpe

si protendeano ad abbracciare il mare;

ed il mare splendeva di candore

meraviglioso nel lunato golfo

con la bellezza delle donne nostre.

E quella luce un rinascente mito

fece di voi sull'irraggiato mondo,

Erigone, Aretusa, Berenice!

Così ci parve riudire il canto

delle Sirene, dalla nave concava

di prora azzurra, fornita di ponti,

veloce, in un doloroso ritorno

spinta dal vento al frangente del mare,

nè ci difese Odisseo dal periglio

con la sua cera; ma il cuore, non più

libero, novellamente anelava.

II.

"O Glauco", disse Berenice "ho sete.

Dov'è la fonte? dove sono i frutti?

Dov'è Cyane azzurra come l'aria?

Dove coglierai tu con le tue mani

l'arancia aurata nella cupa fronda?

Come ci dissetammo! E tanto era soave

il dissetarsi che desiderammo

l'ardente sete. Al par di noi chi seppe

distinguere il sapore d'ogni frutto

e la maturità dal suo colore?

distinguere d'ogni acqua la freschezza

e ritrovar la sua più fredda vena?

e regolar le labbra al vario bere

e il sorso modular come una nota?

L'imagine di me nell'acque amavi.

Dell'amore di me arsi inclinata,

si ' bella nel ninfale specchio fui.

Io fui Cyane azzurra come l'aria.

Tu mi ghermisti fra natanti foglie.

L'ombra divina mi trasfigurò.

Un fiore subitaneo s'aperse

tra i miei ginocchi. Vincolata fui

da verdi intrichi, fra radici pallide

come i miei piedi, con segreto gelo.

Il sol divino mi trasfigurò.

Anelli innumerevoli alle dita

furommi i raggi, pettini ai capelli,

monili al collo, e veste tutta d'oro.

O Aretusa, perché non ho il tuo nome?

Nascesti tu nell'isola di Ortigia

come l'amor del violento fiume?

La sirena scagliosa abbeveravi,

già fatto il vespero, al tacer dei flauti.

Diedi io le canne ai flauti dei pastori.

Io fui Cyane azzurra come l'aria.

L'acqua sorgiva mi resto negli occhi;

la lenta correntia mi levigò.

O Glauco, ti sovvien della Sicilia

bella?" Ed io più non vidi la grande Alpe,

il bianco mare. Io dissi: "Andiamo, andiamo!"

"Ti sovvien della bella Doriese

nomata Siracusa nell'effigie

d'oro cò suoi delfini e i suoi cavalli,

serto del mare? Noi scoprimmo un giorno,

stando su l'Acradina, la triere

che recava da Ceo l'Ode novella

di Bacchilide al re vittorioso.

Udivasi nel vento il suon del flauto

che regolava l'impeto dei remi,

or sì or no s'udiva il canto roco

del celeúste; ma silenziosa

l'Ode, foggiata di parole eterne,

più lieve che corona d'oleastro,

onerava di gloria la carena.

Scendemmo al porto. Ti sovvien dell'ora?

Un rogo era l'Acropoli in Ortigia;

ardevano le nubi su 'l Plemmirio

belle come le statue su 'l fronte

dei templi; parea teso dalla forza

di Siracusa il grande arco marino.

E noi gridammo, e un súbito clamore

corse lungo le stoe quando la nave

piena d'eternità giunse all'approdo.

Portatrice di gloria, ella vivea

magnanima, sublime. Giù pè trasti

anelava l'anelito servile;

s'intravedean sù banchi sovrapposti

i remiganti ignudi unti d'oliva:

la lor fatica ansava dai portelli;

il giglione del remo ai raggi obliqui

lucea come la scapula; un ferigno

odore si spandea, quasi di belve.

E non di quell'anelito servile

era viva la nave, non del sangue

e dell'ossa pesanti nè suoi fianchi;

ma sì vivea divinamente d'una

cosa ch'ella recava d'oltremare,

più lieve che corona d'oleastro:

l'Ode, foggiata di parole eterne".

"E' vero, è vero!" io dissi. "Mi sovviene".

Ed il cuore profondo mi tremò,

tremò della divina poesia.

"Mi sovviene. Era l'Ode trionfale:

Canta Demetra che regna i feraci

campi siciliani, e la sua figlia

cinta di violette! Canto, o Clio,

dispensatrice della dolce fama,

la corsa dei cavalli di Ierone!

Nike ed Aglaia eran con essi quando

trasvolavano..." E l'anima invelata

di sogni andava per le lontananze

dei tempi verso i gloriosi approdi

piena d'eternità come la nave

di Ceo. Passammo gli ellesponti, i golfi,

l'isole, gli arcipelaghi, le sirti:

riverimmo le foci dei paterni

fiumi, pregammo i promontorii sacri,

salutammo le bianche cittadelle

custodite da Pallade rupestri;

varcammo l'Istmo pel diolco. Quivi

eroi vedemmo e Pindaro con loro.

Ed obliammo l'usignuol di Ceo

per l'aquila tebana. Era la tua

mitica luce sul Tirreno, o madre

Ellade, ed era bella come i tuoi

monti la nuda Alpe di Luni, o madre

Ellade, come i tuoi monti bellissima

era, onde a te discesero le stirpi

degli Immortali che incedeano al fianco

degli Efimeri sopra il dominato

dolore, e quelli e questi erano eguali,

e tutti erano Ellèni ed una lingua

parlavano divina, uomini e iddii".

In silenzio guardammo i grandi miti

come le nubi sorgere dall'Alpe

ed inclinarsi verso il bianco mare.

Io vidi allora Pègaso pontare

su gli altissimi marmi i piè di vento

e balzar nell'azzurro con aperte

le immense penne, senza cavaliere;

e per il petto e per il ventre vasti

trasparia come fiamma palpitante

la potenza del sangue gorgonèo.

Ardi gridò: "Ecco il teschio d'Orfeo,

che vien dall'Ebro!" Ed il solenne lido

parve attendere il fato dopo il grido.

La sua bellezza s'aggradì d'orrore.

Il flutto nell'insolito splendore

era meravigliosamente puro.

Splendea sul mondo un giorno imperituro.

III.

Ma non sostenne il nostro cuor mortale

quel silenzio sublime. Si piegò

verso il sorriso delle donne nostre.

E Derbe disse ad Aretusa: "Quando

fiorì di rose il lauro trionfale?".

Era la donna giovinetta alzata,

mutevole onda con un viso d'oro,

tra gli oleandri; ed il reciso ramo

per la capellatura umida effusa,

che fingevale intorno al chiaro viso

l'avvolgimento dell'antica fonte,

intrecciava le rose al regio alloro.

Disse Aretusa: "Bene io te 'l dirò"

mutevole onda con un viso d'oro.

Disse: "Inseguiva il re Apollo Dafne

lungh'esso il fiume, come si racconta.

La figlia di Peneo correva ansante

chiamando il padre suo dall'erma sponda.

Correva, e ad ora ad or le snelle gambe

le s'intricavan nella chioma bionda.

Ben così la poledra di Tessaglia

galoppa nella sua criniera falba

che fino a terra la corsa le ingombra.

Rapido il re Apollo più l'incalza,

infiammato desio, per lei predare.

All'alito del dio doventa fiamma

la chioma della ninfa fluvïale.

"O padre, o padre" grida "tu mi scampa!"

Chiama ella il padre suo con grida vane.

"Padre, un veloce fuoco mi ghermisce!"

E corre, ed ansa, e le sue gambe lisce

crescon la furia del desio predace.

"O gran padre Penèo, perduta sono,

che ' mi si rompono i ginocchi. Salva-

mi dalla brama del veloce fuoco

cho ora mi giunge, ecco, ecco, ora m'abbranca!"

Ma il dolce sangue suo in altro suono,

la sua bellezza in altro suono parla.

Balzale il cuor, si piegano i ginocchi.

Ed ecco ella s'arresta, chiude gli occhi

e trema e dice: "Or ecco m'abbandono".

Una gioia s'aggiunge al suo terrore

ignota che il divin periglio affretta.

Tremante e nuda dentro la chioma ode

la vergine il tinnir della faretra,

sente la forza del perseguitore,

vede l'ardor pè chiusi cigli e aspetta

d'essere ghermita, e più non chiama il padre.

Ma il dio la chiama: "Dafne, Dafne, Dafne!"

Ed ella non udì voce più bella.

Il dio la chiama: "Dafne, Dafne!" Ed osa

ella aprir gli occhi: la rutila faccia

vede da presso e la bocca bramosa

mentre il dio con le due braccia l'allaccia.

Rapita dalla forza luminosa

gitta ella un grido che per la selvaggia

sponda ultimo risuona, e l'ode il padre.

Avido il dio districa la soave

nudità dalla chioma che la fascia.

Bianca midolla in cortice lucente,

in folti pampini uva delicata!

Tenera e nuda il dio la piega, e sente

ch'ella resiste come se combatta.

Tenera cede il seno; ma dal ventre

in giuso, quasi fosse radicata,

ella sta rigida ed immota in terra.

Attonito, l'amante la disserra.

"Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei fatta!"

Subitamente Dafne s'impaura:

le copre il volto e il seno un pallor verde.

Ella sembra cader, ma la giuntura

dei ginocchi riman dura ed inerte.

S'agita invano. L'atto della fuga

invan le torce il fianco. Si disperde

il senso di sua vita nella terra.

E l'amante deluso ancor la serra.

"Ahi lassa, Dafne, chi ti trasfigura?"

Ma non il suo melodioso duolo

giova a trarre colei dalla sua sorte.

Nell'umidore del selvaggio suolo

i piedi farsi radiche contorte

ella sente e da lor sorgere un tronco

che le gambe su fino alle cosce

include e della pelle scorza fa

e dov'è il fiore di verginità

un nodo inviolabile compone.

"O Apollo" geme tal novo dolore

"prendimi! Dov'è dunque il tuo disio?

O Febo, non sei tu figlio di Giove?

Arco-d'-argento, non sei dunque un dio?

Prendimi, strappami alla terra atroce

che mi prende e beve il sangue mio!

Tutto furente m'hai perseguitata

ed or più non mi vuoi? Me sciagurata!

Salva mio grembo per lo tuo desio!

Salvami, Cintio, per la tua pietà!

Se i miei capelli, che m'avvinsero, ami,

dè miei capelli corda all'arco fa!

Prendimi, Apollo! " E tendegli le mani,

che son fogliute; e il verde sale; e già

le braccia sino ai cubiti son rami;

e il verde e il bruno salgon per la pelle;

e su per l'imbelico alle mammelle

già il duro tronco arriva; e i lai son vani.

"Aita, aita! Il cuore mi si serra.

Vedi atra scorza che il petto m'opprime!

O Apollo Febo, strappami da terra!

Tanto furent, non sia più ghermire?

Nuda mi prenderai su la dolce erba,

su la dolce erba e su 'l mio dolce crine.

Ardo di te come tu di me ardi.

O Apollo, o re Apollo, perché tardi?

Già tutta quanta sentomi inverdire".

Il dolce crine è già novella fronda

intorno al viso che si trascolora.

La figlia di Peneo non è più bionda;

non è più ninfa e non è lauro ancora.

Sola è rossa la bocca gemebonda

che del novello aroma s'insapora.

Escon parole e lacrime odorate

dall'ultima doglianza. O fior d'estate,

prima rosa del lauro che s'infiora!

Tutto è gia verde linfa, e sola è sangue

la bocca che querelasi interrotta-

mente. In pallide fibre il cor si sface

ma il suo rossore è in sommo della bocca.

Desioso dolor preme l'amante.

Guarda ei l'arbore sua ma non la tocca;

l'ode implorare ma non ha virtù.

E chiama: "Dafne, Dafne!" Ella non più

implora, non più geme. "Dafne, Dafne!"

Ella non più risponde: è senza voce.

Pur la gola sonora è fatta legno.

Le palpebre son due tremule foglie;

li occhi gocciole son d'umor silvestro;

bruni margini inasprano le gote;

delle tenui nari è appena il segno.

Ma nell'ombra la bocca è ancora sangue,

sola nel lauro la bocca di Dafne

arde e al dio s'offre, virginal mistero.

Curvasi Apollo verso quella ardente,

la bacia con impetuosa brama.

Ne freme tutta l'arbore; s'accende

l'ombra intorno alla fronte sovrana;

ogni ramo in corona si protende,

e la fronte d'Apollo è laureata.

Pean! O gloria! Ma sotto i suoi baci

or più non sente che foglie vivaci,

amare bacche. E Dafne Dafne chiama.

"Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei tutta!

Ahi chi ti fece al mio desio diversa?

In durissimo tronco e in fronda cupa

la dolce carne tua or s'è conversa.

La tua bocca vermiglia s'è distrutta,

che pareva di fiamma ardere eterna.

Come leggieri i piedi tuoi su l'erba,

or radicati nella negra terra!

M'odi tu? M'odi tu? Dafne, sei muta?

Rispondi! " Abbrividiscono le frondi

sino alla vetta. Nel silenzio un breve

murmure spira. "M'odi tu? Rispondi!"

Move la vetta un fremito più lieve.

Poi tutto tace e sta. Sotto i profondi

cieli le rive alto silenzio tiene.

Il bellissimo lauro è senza pianto;

il dolore del dio s'inalza in canto.

Odono i monti e le valli serene.

Odono i monti e le valli e le selve

e i fonti e i fiumi e l'isole del mare.

Spandesi il canto dall'anima ardente

e per tutte le cose generare.

La bellezza di Dafne ecco riveste

la terra; le sue membra delicate

son monti e valli e selve e fiumi e fonti,

il suo sguardo inzaffira gli orizzonti,

la sua chioma fa l'oro dell'estate.

O Dafne, sempre il dio e l'uom cantando

non vorranno altro onor che un ramoscello

di te! Così l'Arco-d'-argento, quando

ha placato il suo cuore nell'immenso

inno, pago si giace sotto il sacro

lauro ad attendere il suo dì novello.

Cade la notte. Sul sonno divino

l'arbore luce d'un baglior sanguigno,

qual bronzo che si vada arroventando.

Scorre la notte. Tra l'Olimpo e l'Ossa

una stella tramonta e l'altra sale.

Misteriosa l'arbore s'arrossa

ma sul suo fuoco piovon le rugiade.

Sogna il Cintio la desiata bocca

di Dafne, e balza il suo cuore immortale.

E' l'alba, è l'alba. Il dio si desta: un grido

di meraviglia irraggia tutti il lido.

Brilla di rose il lauro trionfale!"

IV.

E così della rosa e dell'alloro

parlò quell'Aretusa fiorentina,

mutevole onda con un viso d'oro.

la sua voce era come acqua argentina

che recasse lavandula o pur menta

o salvia o altra fresca erba mattutina.

Tutto rigato dalla schietta vena

"Sol d'oleandro voglio laurearmi"

io dissi. Ed Aretusa era contenta;

e recise per me altri due rami

e fè l'atto di cingermi le tempie

dicendomi: "Pè tuoi novelli carmi!

Che la cerula e fulva Estate sempre

abbia tu nel tuo cuore e in te le rime

nascano come le sue rose scempie!"

E il giorno estivo non potea morire,

ma sorrideva sopra il bianco mare

silenziosamente senza fine;

e la notte, che avea parte ineguale,

spiava il bel nemico dalle chiostre

dei monti azzurra come te, Cyane.

Ebri e tristi d'aver bevuto a troppe

fonti e incantato il cor per tutte guise,

cercammo il grembo delle donne nostre.

Ma la Melancolia venne e s'assise

in mezzo a noi tra gli oleandri, muta

guatando noi con le pupille fise.

Ed Erigone, ch'ebbe conosciuta

la taciturna amica del pensiero,

chinò la fronte come chi saluta.

E poi disse la Notte e il suo mistero.

V.

"Il Giorno" disse "non potrà morire.

Il suo sangue non tinge il bianco mare.

Mai la sua faccia parve tanto pura,

non ebbe mai tanta soavità.

Giace supino sopra il bianco mare,

sorride al cielo ch'ei regnava, attende

ei non sa quale morte o voluttà.

Pur tanto è dolce che la Notte oscura

non già lo spegne ma di lui s'accende,

e lui aurato nelle braccia prende,

lui cela nella sua capellatura,

ma non così che quelle membra d'oro

non veggansi pel fosco trasparire

e illuminare la serenità.

Caldi soffiano i venti al bianco mare,

calde passano e lente le riviere

in cuore alle terribili città,

passano e vanno per ignoti piani,

cingono ignoti boschi: i cervi a bere

scendono ansanti nella gran caldura;

lunghi bràmiti ascoltano lontani;

bevono: in qualche tacita radura

poi fino a morte si combatterà.

O Notte, o Notte, invano tu nascondi

nè tuoi capelli il dolce tuo nemico!

Non sono i tuoi capelli sì profondi

che non veggasi dai nostri occhi umani

fiammeggiarvi per entro il tuo piacere.

La terra oppressa respiro non ha.

Arde l'ombra. La vigna è come il vino:

il grappolo sul tralcio si matura

poi che il raggio nell'uva è prigioniere.

La terra soffre nell'ebrietà.

Arde come una glauca vampa l'ombra.

Aduna e vita e morte il bianco mare,

immensa cuna il mare, immensa tomba.

A lui dal monte la sorgente va.

Impallidisce sotto il pianto il coro

delle Pleiadi e l'una d'elle è occulta,

l'una che seppe la felicità.

Orione si slaccia l'armatura,

e Boote si volge, e Cinosura

vacilla; e l'Orsa anche impallidirà.

Oblia la Notte tutte le sue stelle

e il duolo antico degli amanti umani.

Che con lei piangeremo ella non sa.

O Notte, piangi tutte le tue stelle!

il grido dell'allodola domani

dall'amor nostro ci disgiungerà".

Un'altra era con noi, ma restò muta,

tra gli oleandri lungo il bianco mare.

(Composta nella notte del 2 agosto1900)

 

BOCCA DI SERCHIO

ARDI

Glauco, Glauco, ove sei? Più non ti veggo.

Ho perduto il sentiere, e il mio cavallo

s'arresta. I Pini, i pini d'ogni parte

mi serrano. Agrio affonda nella massa

degli aghi, come nella sabbia, fino

ai garetti. Ove sei, Glauco? Mi vedi?

Ho le gambe che sanguinano. Folli

fummo entrando nel bosco ignudi come

nel mare. I rovi, le schegge, le scaglie

feriscono, e i ginepri aspri. Non sanguini

anche tu? Oh profumo! Sale a un tratto

come una vampa. Il vino dell'Estate!

N'ho bevuto una piena coppa, e un'altra

ne bevo, e un'altra anche più calda, e un'altra

bollente che mi brucia il cuore e fino

alla gola mi sazia, fino agli occhi.

O Glauco, Glauco, il vino dell'Estate

misto di oro di rèsina e di miele!

GLAUCO

Io ti veggo, ti veggo, Ardi. Sei bello

sul tuo cavallo bianco. Tu non puoi

portar clamide, come i cavalieri

d'Atene, ma ti giova essere ignudo.

Su, spingi Agrio! Non v'è sentiere. I fusti

sono fragili come aride canne.

Odi? Folo li rompe col suo petto.

Dunque or teme le scaglie e i rovi il marmo

delle tue gambe? E' splendido il tuo sangue,

Ardi. Poiché ciascuna cosa in torno

le più ricche virtudi e più segrete

esprime per farti ebro, non ti dolga

di sanguinare come il pino stilla,

come il ginepro odora. Avanti, avanti

per la boscaglia che rosseggia e cede!

Vedesti mai più fulva chioma e spessa?

I bei sogni vi restano come api

prese nella criniera d'un leone.

ARDI

Preso per i capegli sono. Ah, il ramo

si rompe e gli aghi piovonmi sul collo,

su gli omeri, già coprono la groppa

d'Agrio. Vedi? A miriadi, a miriadi!

Carichi tutti i rami biforcuti.

In ogni congiuntura accumulati

a fasci gli aghi morti. Morta sembra

tutta la selva, inaridita e cieca.

Rompesi come vetro. Il verde è al sommo,

invisibile, e fa prigione i raggi

nell'intrico; ma l'ombra sua mi cuoce

la fronte e mi dissecca la narice.

Entreremo nel fiume coi cavalli!

Diguazzeremo in mezzo alla corrente!

E ancor lontano il Serchio? Tutta l'ombra

respira aridità. L'acqua è lontana.

E sento che lo zòccolo a traverso

gli aghi morti non trova se non sabbia

torrida. I coni vacui son neri

come carboni spenti, come tizzi

consunti. O Glauco, dove mi conduci?

GLAUCO

Chiudi gli occhi. Odi il vento? Navigare

ti sembra, veleggiar per il deserto

mare. Odi il vento tra le sàrtie? Odi

il gemito degli alberi allo sforzo

delle vele? Si naviga per acque

infide verso l'isola di Circe.

Negli orciuoli d'argilla non rimane

goccia di fonte. Beveremo il sale.

Apri gli occhi! Ecco l'atrio della maga

tutto riscintillante di prodigi.

Larve di stelle adornano la reggia

della donna solare, vedi?, simili

a foglie macerate dagli autunni

che serban lor sottili nervature

con la tenuità dei bissi intesti

d'aria e di lume. Fili palpitanti

le congiungono, l'iride le cangia,

indicibile tremito le muove.

Circe incantò le stelle eccelse, e l'ebbe,

e le votò di lor sostanza igníta;

e qui raduna le lor dolci larve.

ARDI

Opre di ragni, arte divina, tele

stellari! O Glauco, io n'ho già lacerata

una col viso, e un'altra ancóra. Guarda!

Per ovunque tessute son le stelle.

Siam presi in una rete innumerevole.

Férmati! Non distruggere l'incanto.

GLAUCO

La radura è vicina. Il sole pènetra

fra i rami. Tutto tremola e scintilla.

La rèsina sul tronco è come l'ambra.

Di polito metallo è il mirto chiuso.

La tamerice sembra quasi azzurra

tra i rossi pini. E il tuo volto s'imperla.

ARDI

Oh com'è bello Folo che dall'ombra

trapassa, maculato di sudore,

nella banda del sole! Anche tu sànguini.

Non vedesti le vipere fuggire?

Qual nome hanno quei lunghi fili d'erba

che portano una spiga nera in cima?

GLAUCO

Il nome che le labbra ti diletta.

Abbandona le redini sul collo

d'Agrio. Ascolta il cavallo nel silenzio

sbuffare. Vola la sua bava e imbianca

il mentastro. Perché, Ardi, sol questo

empie il mio petto di felicità?

ARDI

Forse già fummo i figli della Nuvola.

Già l'erba calpestammo con gli zòccoli,

cogliemmo il fiore con le dita umane.

Un dì, volgendo indietro il torso ignudo,

con la concava scorza detergemmo

dal pelo della groppa calorosa

il sudore che in rivoli colava.

Lo spazio immenso era la nostra ebrezza.

Senz'ansia il nostro fianco infaticato

vinse in numero i palpiti del vento.

Tanto di terra in un sol dì varcammo

quanto varcava Pègaso di cielo.

GLAUCO

Rapidità, Rapidità, gioiosa

vittoria sopra il triste peso, aerea

febbre, sete di vento e di splendore,

moltiplicato spirito nell'òssea

mole, Rapidità, la prima nata

dall'arco teso che si chiama Vita!

Vivere noi vogliamo, Ardi, correndo:

passare tutti i fiumi, discoprirli

dalle fonti alle foci, lungo i lidi

marini l'orma imprimere nel segno

sinuoso, nell'argentina traccia

che di sé lascia il flutto più recente.

ARDI

Dato ci fosse correre senz'ansia

l'Universo! Ma troppo il nostro petto

è angusto pel respiro della nostra

anima. O Glauco, a chi t'ascolta, sei

come l'estro implacabile che incíta

i tori. E l'orizzonte è come anello

vitreo che tu spezzi per disdegno.

GLAUCO

Taci, Beviamo il vino dell'Estate,

sol dediti all'amore del bel fiume.

Verso tutte le selve della Terra

sospiro; ma, se in una solitario

vivere dovessi, in questa, Ardi, vorrei

vivere, in questa calda selva australe,

in quest'aridità d'ombre estuose.

ARDI

E' come un rogo pronto a conflagrare.

La potenza del fuoco in lei si chiude.

Soavemente mormora nell'aura,

ma la sua voce vera in lei si tace.

Parlerà con le lingue dell'incendio

quando la nube nata dal Tirreno

le scaglierà la folgore notturna.

GLAUCO

Il respiro non passa per le fauci

ma per tutte le membra, fino al pollice

del piede scalzo; e passano gli aromi

per tutti i pori. E sento respirare

il mio cavallo, e sento la ferina

sua allegrezza, come se nel duplice

corpo fervesse l'unico mio cuore.

ARDI

Ecco l'erba, ecco il verde, ecco una canna.

Ecco un sentiere erboso. Guarda, al fondo,

guarda i monti Pisani corrucciati

sotto le vaste nuvole di nembo.

GLAUCO

Ardi, non odi gracidío di corvi

là verso il mare? Scendono alla foce

del Serchio a branchi, e tesa v'è la rete,

dissemi il cacciatore di Vecchiano.

ARDI

Il Serchio è presso? Volgiti all'indizio.

Ecco la sabbia tra i ginepri rari,

vergine d'orme come nei deserti.

Si nasconde la foce intra i canneti?

La scopriremo forse all'improvviso?

Ci parrà bella? No, non t'affrettare!

Lascia il cavallo al passo. E' dolce l'ansia,

e viene a noi dal più remoto oblio,

vien dall'antica santità dell'acque.

Liberi siamo nella selva, ignudi

su i corsieri pieghevoli, in attesa

che il dio ci sveli una bellezza eterna.

Non t'affrettare, poi che il cuore e ' colmo.

GLAUCO

Bocche delle fiumane venerande!

Lungo le pietre d'Ostia è più divino

il Tevere. Soave è nei miei modi

l'Arno. Il natale Aterno, imporporato

di vele, splende come sangue ostile.

E l'Erídano vidi, e l'Achelòo,

e il gran Delta, e le foci senza nome

ove attardarsi volle invano il sogno

del pellegrino. Ma che questa, o Ardi,

sia la più bella mi conceda il dio;

perché non mai fu tanto armonioso

il mio petto, nè mai tanto fu degno

di rispecchiare una bellezza eterna.

ARDI

Oh, mistero! La verde chiostra accoglie

i vóti, qual vestibolo di tempio

silvano. I pini alzan colonne d'ombra

intorno al sacro stagno liminare

che ha per suo letto un prato di smeraldi.

Nel silenzio l'imagine del cielo

si profonda: non ride nè sorride,

ma dal profondo intentamente guarda.

GLAUCO

Odi la melodia del Mar Tirreno?

Tra le voci dei più lontani mari,

nell'estrema vecchiezza, nell'orrore

del gelo, il sangue mio l'imiterà.

E la cerula e fulva Estate sempre

io m'avrò nel mio cuore. Odi sommesso

carme che ci accompagna per l'esiguo

istmo sembiante al giogo d'una lira.

ARDI

Tutto è divina musica e strumento

docile all'infinito soffio. Guarda

per la sabbia le rotte canne, guarda

le radici divelte, ancor frementi

di labbra curve e di leggiere dita!

I musici fuggevoli con elle

modulavano il carme fluviale.

GLAUCO

Scendi dal tuo cavallo, Ardi. Ecco il fiume,

ecco il nato dei monti. Oh meraviglia!

Ei porta in bocca l'adunata sabbia

fatta come la foglia dell'alloro.

T'offriamo questi giovani cavalli,

o Serchio, anche t'offriamo i nostri corpi

ov'è chiuso il calor meridiano.

ARDI

Anelammo d'amore per trovarti!

Sgorgar parea che tu dovessi, o fiume,

dal nostro petto come un súbito inno.

GLAUCO

Dio tu sei, dio tu sei; noi siam mortali.

Ma fenderemo la tua forza pura.

La più gran gioia è sempre all'altra riva.

(Composta presumibilmente netta terza decade di giugno 1902)

 

IL CERVO

Non odi cupi bràmiti interrotti

di là del Serchio? Il cervo d'unghia nera

si sépara dal branco delle femmine

e si rinselva. Dormirà fra breve

nel letto verde, entro la macchia folta,

soffiando dalle crespe froge il fiato

violento che di mentastro odora.

Le vestigia ch'ei lascia hanno la forma,

sai tu?, del cor purpureo balzante.

Ei di tal forma stampa il terren grasso;

e la stampata zolla, ch'ei solleva

con ciascun piede, lascia poi cadere.

Ben questa chiama "gran sigillo" il cauto

cacciatore che lèggevi per entro

i segni; e mai giudizio non gli falla,

oh beato che capo di gran sangue

persegue al tramontare delle stelle,

e l'uccide in sul nascere del sole,

e vede palpitare il vasto corpo

azzannato dai cani e gli alti palchi

della fronte agitar l'estrema lite!

Ma invano invano udiamo i cupi bràmiti

noi tra le canne fluviali assisi.

Tu non ti scaglierai nel Serchio a nuoto

per seguitar la pesta, o Derbe; e il freddo

fiume non solcherà suplice solco

del tuo braccio e del tuo predace riso,

fieri guizzando i muscoli nel gelo.

Inermi siamo e sazii di bellezza,

chini a spiare il cuor nostro ove rugge,

più lontano che il bràmito del cervo,

l'antico desiderio delle prede.

Or lascia quello il branco e si rinselva.

Forse è d'insigni lombi, e assai ramoso.

Ei più non vessa col nascente corno

le scorze. Già la sua corona è dura;

e il suo collo s'infosca e mette barba,

e fra breve sarà gonfio del molto

bramire. Udremo a notte le sue lunghe

muglia, udremo la voce sua di toro;

sorgere il grido della sua lussuria

udremo nei silenzii della Luna.

(Romena, 20 agosto 1902)

 

L'IPPOCAMPO

Vimine svelto,

pieghevole Musa

furtivamente

fuggita del Coro

lasciando l'alloro

pel leandro crinale,

mutevole Aretusa

dal viso d'oro,

offri in ristoro

il tuo sal lucente

al mio cavallo Folo

dagli occhi d'elettro,

dal ventre di veltro,

ch'è solo l'eguale

del sangue di Medusa

ahi, ma senz'ale!

Offrigli il sale,

sonoro al dente,

o Aretusa,

nella palma dischiusa

e nuda, senza spavento

ché, per prendere il dono,

ha labbra più leggiere

delle sue gambe

di vento.

Appena ti lambe,

come per bere!

Del suo piacere

ti bagna; e la tua palma

appena sente, dietro

le labbra, il fresco

suo dente di puledro,

che brucar l'erba calma

può sì dolcemente

e rodere il ferro

difficile quando serro

la rapidità focace

pè solitarii

lidi io senza pace.

Come per te, furace

fauna dei pomarii,

un bugno

di miel rodolente

non vale

simiana acerba,

così per lui biada opima

non vale un pugno

di sale mordace.

Troppo gli piace,

Aretusa. Ingordo

n'è come capra sima.

Forse ha un ricordo

marino il sangue di Folo.

Egli è forse figliuolo

degli Ippocampi

dalla coda di squamme.

Ora è fiamme e lampi,

ma prima

era forse argentino

o cerulo o verdastro

come il flutto, gagliardo

come il flutto decumano.

E nel vespero tardo,

all'apparir dell'astro

che cresce,

al levar della brezza,

tutto acquoso e salmastro

venuto in su la proda,

mansuefatto,

battendo con la coda

di pesce l'arena

per la dolcezza,

sogguardando in atto

d'amore, gocciando bava,

prono la schiena,

mangiava piano

l'aliga nella mano

cava della Sirena.

(Romena, 21 agosto 1902)

 

L'ONDA

Nella cala tranquilla

scintilla,

intesto di scaglia

come l'antica

lorica

del catafratto,

il Mare.

Sembra trascolorare.

S'argenta? s'oscura?

A un tratto

come colpo dismaglia

l'arme, la forza

del vento l'intacca.

Non dura.

Nasce l'onda fiacca,

súbito s'ammorza.

Il vento rinforza.

Altra onda nasce,

si perde,

come agnello che pasce

pel verde:

un fiocco di spuma

che balza!

Ma il vento riviene,

rincalza, ridonda.

Altra onda s'alza,

nel suo nascimento

più lene

che ventre virginale!

Palpita, sale,

si gonfia, s'incurva,

s'alluma, propende.

Il dorso ampio splende

come cristallo;

la cima leggiera

s'aruffa

come criniera

nivea di cavallo.

Il vento la scavezza.

L'onda si spezza,

precipita nel cavo

del solco sonora;

spumeggia, biancheggia,

s'infiora, odora,

travolge la cuora,

trae l'alga e l'ulva;

s'allunga,

rotola, galoppa;

intoppa

in altra cui 'l vento

diè tempra diversa;

l'avversa,

l'assalta, la sormonta,

vi si mesce, s'accresce.

Di spruzzi, di sprazzi,

di fiocchi, d'iridi

ferve nella risacca;

par che di crisopazzi

scintilli

e di berilli

viridi a sacca.

O sua favella!

Sciacqua, sciaborda,

scroscia, schiocca, schianta,

romba, ride, canta,

accorda, discorda,

tutte accoglie e fonde

le dissonanze acute

nelle sue volute

profonde,

libera e bella,

numerosa e folle,

possente e molle,

creatura viva

che gode

del suo mistero

fugace.

E per la riva l'ode

la sua sorella scalza

dal passo leggero

e dalle gambe lisce,

Aretusa rapace

che rapisce le frutta

ond'ha colmo suo grembo.

Súbito le balza

il cor, le raggia

il viso d'oro.

Lascia ella il lembo,

s'inclina

al richiamo canoro;

e la selvaggia

rapina,

l'acerbo suo tesoro

oblía nella melode.

E anch'ella si gode

come l'onda, l'asciutta

fura, quasi che tutta

la freschezza marina

a nembo

entro le giunga!

Musa, cantai la lode

della mia Strofe Lunga.

(Romena, 22 agosto 1902)

 

LA CORONA DI CLAUCO

MELITTA

Fulge, dai maculosi leopardi

vigilata, una rupe bianca e sola

onde il miele silentemente cola

quasi fontana pingue che s'attardi.

Quivi in segreto sono i miei lavacri

dove il mio corpo ignudo s'insapora

e di rosarii e di pomarii odora

e si colora come i marmi sacri.

Io son flava, dal pollice del piede

alla cervice. Inganno l'ape artefice.

Porto negli occhi mie le arene lidie.

Per entro i variati ori la lieve

anima mia sta come un fiore semplice.

Melitta è il nome della mia flavizie.

L'ACERBA

Non io del grasso fiale mi nutrico.

Lascio la cera e il miele nel lor bugno.

Ma spicco la susina afra dal prugno

semiano, e mi piace l'orichico.

E il latte agresto piacemi del fico

primaticcio che nérica nel giugno.

Ti do due labbra fresche per un pugno

di verdi fave, e il picciol cuore amico!

Vieni, monta pè rami. Eccoti il braccio.

Odoro come il cedro bergamotto

se tu mi strizzi un poco la cintura.

Quanto soffii! Tropp'alto? Non ti piaccio?

Ah, ah, mi sembri quel volpone ghiotto

che disse all'uva: Tu non sei matura.

NICO

I tuoi piè bianchi sono i miei trastulli

nella gracile sabbia ove t'accosci,

bianchi e piccoli come gli aliossi

levigati dal gioco dei fanciulli.

- Ahi, ahi, misera Nico, i miei piè brulli!

Su la sabbia di foco i piè mi cossi.

Tu ridi, costassù, tu ridi a scrosci!

Ma, s'io ti giungo, vedi come frulli.

- Ingrata, ingrata, con che arte il foco

ti rilieva le vene in pelle in pelle

e il pollice t'imporpora e il tallone!

- Bada; Non aliossi pel tuo gioco

ma ho in serbo per te, schiavo ribelle,

una sferza di cuoio paflagone.

NICARETE

Glauco di Serchio, m'odi. Io, Nicarete

le canne con le lenze e gli ami sgombri

che non preser già mai barbi nè scombri

t'appendo alla tua candida parete.

E t'appendo le nasse anco, e la rete

fallace con suoi sugheri e suoi piombi

che non pescò già mai mulli nè rombi

ma qualche fuco e l'alghe consuete.

Amaro e avaro è il sale. O Glauco, m'odi.

Prendimi teco; Evvi una bocca, parmi,

sinuosa nell'ombra dè miei búccoli.

Teco andare vorrei tra lenti biodi

e coglier teco per incoronarmi

l'ibisco che fiorisce a Massaciúccoli

A NICARETE

Nicarete dal monte di Quiesa

a Montramito i colli sono lenti

come i tuoi biodi, all'aria obbedienti,

fatti anch'elli d'un oro che non pesa.

E quella lor soavità, sospesa

tra i chiari cieli e l'acque trasparenti,

tu non la vedi quasi mai la senti

come una gioia che non si palesa.

Sorge, splendore del silenzio, il disco

lunare. O Nicarete, ecco, e s'adempie

mentre nel lago la ninfea si chiude.

Prima è rosato come il fior d'ibisco

che t'inghirlanda le tue dolci tempie

ma dopo assempra le tue spalle ignude.

GORGO

Ospite sempre memore, io son Gorgo

e l'odor delle Cicladi vien meco.

Tutte l'uve e le spezie, ecco, ti reco

in questo lino aereo d'Amorgo.

Glauco, e ti reco il vin di Chio nell'otro,

quel che bevesti un dì sul tuo fasèlo,

quel che in argilla si facea di gelo

pendula a soffio di ponente o d'ostro.

E una corona d'ellera e di gàttice

ti reco, per un'ode che mi piacque

di te, che canta l'isola di Progne.

Io voglio, nuda nell'odor del màstice,

danzar per te sul limite dell'acque

l'ode fiumale al suon delle sampogne.

A GORGO

Gorgo, più nuda sei nel lin seguace.

La tua veste ti segue e non ti chiude.

Fra l'ombelico e il depilato pube

il ventre appare quasi onda che nasce.

Ombra non è su le tue membra caste:

dall'ínguine all'ascella albeggi immune.

Polita come il ciòttolo del fiume

sei, snella come l'ode che ti piacque.

Danzami la tua molle danza ionia

mentre che l'Apuana Alpe s'inostra

e il Mar Tirreno palpita e corusca.

L'Ellade sta fra Luni e Populonia!

E il cor mi gode come se tu m'offra

il vin tuo greco in una tazza etrusca.

L'AULETRIDE

Io rinvenni la pelle dell'incauto

Frigio nomato Marsia appesa a un pino,

sul suol roggio il coltello del divino

castigatore e, presso, il doppio flauto.

Questo raccolsi trepidando, o Glauco.

E, immemore del flebile destino,

io son osa talor nel mio giardino

chiuso carmi dedurre sotto il lauro.

Rivolgomi sovente e guardo s'Egli

non apparisca a un tratto, l'Immortale.

Ma non mi trema il mio labbro fasciato.

Vivon nell'orror sacro i miei capegli

ma per l'angustia del mio petto sale

il superbo di Marsia antico afflato.

BACCHIA

Ah, chi mi chiama? Ah, chi m'afferra? Un tirso

io sono, un tirso crinito di fronda,

squassato da una forza furibonda.

Mi scapiglio, mi scalzo, mi discingo.

Trascinami alla nube o nell'abisso!

Sii tu dio, sii tu mostro, eccomi pronta.

Centauro, son la tua cavalla bionda.

Fammi pregna di te. Schiumo, nitrisco.

Tritone, son la tua femmina azzurra:

salsa com'alga è la mia lingua; entrambe

le gambe squamma sonora mi serra.

Chi mi chiama? La búccina notturna?

il nitrito del Tessalo? il tonante

Pan? Son nuda. Ardo, gelo. Ah, chi m'afferra?

(Composti presumibilmente nel settembre 1903)

 

STABAT NUDA ÆSTAS

Primamente intravidi il suo piè stretto

scorrere su per gli aghi arsi dei pini

ove estuava l'aere con grande

tremito, quasi bianca vampa effusa.

Le cicale si tacquero. Più rochi

si fecero i ruscelli. Copiosa

la rèsina gemette giù pè fusti.

Riconobbi il colúbro dal sentore.

Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.

Scorse l'ombre cerulee dei rami

su la schiena falcata, e i capei fulvi

nell'argento pallàdio trasvolare

senza suono. Più lungi, nella stoppia,

l'allodola balzò dal solco raso,

la chiamò, la chiamò per nome in cielo.

Allora anch'io per nome la chiamai.

Tra i leandri la vidi che si volse.

Come in bronzea mèsse nel falasco

entrò, che richiudeasi strepitoso.

Più lungi, verso il lido, tra la paglia

marina il piede le si torse in fallo.

Distesa cadde tra le sabbie e l'acque.

Il ponente schiumò ne' suoi capegli.

Immensa apparve, immensa nudità.

(Data di composizione ignota)

 

DITIRAMBO III

O grande Estate, delizia grande tra l'alpe e il mare,

tra così candidi marmi ed acque così soavi

nuda le aeree membra che riga il tuo sangue d'oro

odorate di aliga di rèsina e di alloro,

laudata sii,

o voluttà grande nel cielo nella terra e nel mare

e nei fianchi del fauno, o Estate, e nel mio cantare,

laudata sii

tu che colmasti dè tuoi più ricchi doni il nostro giorno

e prolunghi su gli oleandri la luce del tramonto

a miracol mostrare!

Ardevi col tuo piede le silenti erbe marine,

struggevi col tuo respiro le piogge pellegrine,

tra così candidi marmi ed acque così soavi

alzata; e grande eri, e pur delle più tenui vite

gioiva la tua gioia, e tutto vedeva la tua pupilla

grande: le frondi delle selve e i fusti delle navi,

e la ragia colare, maturarsi nelle pine

le chiuse mandorlette e la scaglia che le sigilla

pender nel fulvo, e l'orme degli uccelli nell'argilla

dei fiumi, l'ombre dei voli su le sabbie saline

vedea, le sabbie rigarsi come i palati cavi,

al vento e all'onda farsi dolci come l'inguine e il pube

amorosamente,

imitar l'opre dell'api,

disporsi a mò dei favi

in alveoli senza miele,

e l'osso della seppia tra le brune carrube

biancheggiar sul lido, tra le meduse morte

brillar la lisca nitida, la valva

tra il sughero ed il vimine variar la sua iri,

pallida di desiri la nube

languir di rupe in rupe

lungh'essi gli aspri capi

qual molle donna che si giaccia cò suoi schiavi,

scorrere la gòmena nella rossa

cúbia, sorgere la negossa

viva di palpitanti pinne, curvarsi al peso vivo

la pertica, la possa

dei muscoli, gonfiarsi nelle braccia vellute,

una man rude

tendere la scotta,

al garrir della vela forte

piegarsi il bordo, come la gota del nuotatore,

la scía mutar colore,

tutto il Tirreno in fiore

tremolar come alti paschi al fiato di ponente.

O Estate, Estate ardente,

quanto t'amammo noi per t'assomigliare,

per gioir teco nel cielo nella terra e nel mare,

per teco ardere di gioia su la faccia del mondo,

selvaggia Estate

dal respiro profondo,

figlia di Pan diletta, amor del titan Sole,

armoniosa,

melodiosa,

che accordi il curvo golfo sonoro

come la citareda

accorda la sua cetra,

dolore di Demetra

che di te si duole

nè solstizii sereni

per Proserpina sua perduta primavera!

O fulva fiera,

o infiammata leonessa dell'Etra,

grande Estate selvaggia,

libidinosa,

vertiginosa,

tu che affochi le reni,

che incrudisci la sete,

che infurii gli estri,

Musa, Gorgóne,

tu che sciogli le zone,

che succingi le vesti,

che sfreni le danze,

Grazia, Baccante,

tu ch'esprimi gli aromi,

tu che afforzi i veleni,

tu che aguzzi le spine,

Esperide, Erine,

deità diversa,

innumerevole gioco dei vènti

dei flutti e delle sabbie,

bella nelle tue rabbie

silenziose, acre ne' tuoi torpori,

o tutta bella ed acre in mille nomi,

fatta per me dei sogni che dalla febbre del mondo

trae Pan quando su le canne sacre

delira (delira il sogno umano),

divina nella schiuma del mare e dei cavalli,

nel sudor dei piaceri,

nel pianto aulente delle selve assetate,

o Estate, Estate,

io ti dirò divina in mille nomi,

in mille laudi

ti loderò se m'esaudi,

se soffri che un mortal ti domi,

che in carne io ti veda,

ch'io mortal ti goda sul letto dell'immensa piaggia

tra l'alpe e il mare,

nuda le fervide membra che riga il suo sangue d'oro

odorate di aliga di rèsina e di alloro!

(Composta al Secco Motrone in Versilia il 20 luglio 1900)

 

VERSILIA

Non temere, o uomo dagli occhi

glauchi! Erompo dalla corteccia

fragile io ninfa boschereccia

Versilia, perché tu mi tocchi.

Tu mondi la persica dolce

e della sua polpa ti godi.

Passò per le scaglie e pè nodi

l'odore che il cuore ti molce.

Mi giunse alle nari; e la mia

lingua come tenera foglia,

bagnata di súbita voglia,

contra i denti forti languía.

Sapevi tu tanto sagaci

nari, o uomo, in legno sì grezzo?

Inconsapevole eri, e del rezzo

gioivi e dè frutti spiccaci

e dell'ombre cui fànnoti gli aghi

del pino, seguendo il piacere

dè vènti, su gli occhi leggiere

come ombre di voli su laghi.

Io ti spiava dal mio fusto

scaglioso; ma tu non sentivi,

o uomo, battere i miei vivi

cigli presso il tuo collo adusto.

Talora la scaglia del pino

è come una palpebra rude

che subitamente si chiude,

nell'ombra, a uno sguardo divino.

Io sono divina; e tu forse

mi piaci. Non piacquemi l'irto

Satiro su 'l letto di mirto,

e il panisco invan mi rincorse.

Ma tu forse mi piaci. Aulisce

d'acqua marina la tua pelle

che il Sol feceti fosca. Snelle

hai gambe come bronzo lisce.

Offrimi il canestro di giunco

ricolmo di persiche bionde!

Poiché non mi giovano monde,

riponi il tuo coltello adunco.

Io so come si morda il pomo

senza perdere stilla di suco.

Poi cò miei labbri umidi induco

il miele nel cuore dell'uomo.

Riponi il ferro acre che attosca

ogni sapore. Tu non pregi

i tuoi frutti. I peschi, i ciriegi,

i peri, i fichi in terra tosca

son di dolcezza carchi, e i meli,

gli albricocchi, i nespoli ancora!

E tu li spogli in su l'aurora

velati dei notturni geli.

Da tempo in cuor mio non è gaudio

di tal copia. Ahimè, sono scarsi

i doni. E tu vedi curvarsi

i rami del susino claudio!

Ma io non ho se non la terra

pigna dal suggellato seme.

E a romper la scaglia che il preme

non giovami pur una pietra.

O uomo occhicèrulo, m'odi!

Lascia che alfine io mi satolli

di queste tue persiche molli

che hai nel cesto intesto di biodi.

Ti priego! La pigna malvagia

mi vale sol per iscagliarla

contro la ghiandaia che ciarla

rauca. Non s'inghiotte la ragia.

Ma se le mastichi negli ozii,

quantunque ha sapore amarogno,

allor che il tuo cuore nel sogno

si bea lungi ai vili negozii,

certo ti piace, o uomo; ed io

te ne darò della più ricca.

Tu la persica che si spicca,

e ne cola il suco giulío,

dammi, ch'io mi muoio di voglia

e da tempo non ebbi a provarne.

Non temere! Io sono di carne,

se ben fresca come una foglia.

Toccami. Non vello, non ugne

ricurve han le tue mani come

quelle ch'io so. Guarda: ho le chiome

violette come le prugne.

Guarda: ho i denti eguali, più bianchi

che appena sbucciati pinocchi.

Non temere, o uomo dagli occhi

glauchi! Rido, se tu m'abbranchi.

Abbrancami come il bicorne

villoso. La frasca ci copra,

i mirti sien letto, di sopra

ci pendano l'albe viorne.

Ma come, Occhiazzurro, sei cauto!

Forse amico sei di Diana?

Ora scende da Pietrapana

il lesto Settembre co 'l flauto,

se cruenta nel corniolo

rosseggi la cornia afra e lazza.

Odo tra il gridío della gazza

il richiamo del cavriuolo.

Sei tu cacciatore? Sei destro

ad arco, esperto a cerbottana?

Ora scende da Pietrapana

Settembre. Tu dammi il canestro.

Eh, veduto n'ho del pel baio

verso il Serchio correre il bosco!

Tu dammi il canestro. Conosco

la pesta se ben non abbaio.

Accomanda il nervo alla cocca.

Ne avrai della preda, s'io t'amo!

Imito qualunque richiamo

con un filo d'erba alla bocca.

(Composta il 2 giugno 1902)

 

LA MORTE DEL CERVO

Quasi era vespro. Atteso avea soverchio

alla posta del cervo, quatto quatto

fra le canne; e vinceami l'uggia. A un tratto

vidi l'uom che natava in mezzo al Serchio.

Un uomo egli era, e pur sentii la pelle

aggricciarmisi come a odor ferigno.

Di capegli e di barba era rossigno

come saggina, folte avea le ascelle;

ma pél diverso da quel delle gote

sotto il ventre parea che gli cominciasse,

bestial pelo, e che le parti basse

fossero enormi, cosce gambe piote,

come di mostro, tanto era il volume

dell'acqua che movea il natatore

se ben tenesse ambe le braccia fuore

con tutto il busto eretto in su le spume.

Un uom era. A una frotta d'anitroccoli

sbigottita egli rise. Intesi il croscio.

Repente si gittò su per lo scroscio

della ripa, saltò su quattro zoccoli!

Lo conobbi tremando a foglia a foglia.

Ben era il generato dalla Nube

acro e bimembre, uom fin quasi al pube,

stallone il resto dalla grossa coglia.

Il Centauro! Di manto sagginato

era, ma nella groppa rabicano

e nella coda, di due piè balzàno,

l'equine schiene e le virili arcato.

Ritondo il capo avea, tutto di ricci

folto come la vite di racimoli;

e l'inclinava a mordicare i cimoli

dei ramicelli, i teneri viticci

con la gran bocca usa alla vettovaglia

sanguinolenta, a tritar gli ossi, a bere

d'un fiato il vin fumoso nel cratère

ampio, sopra le mense di Tessaglia.

Levava il braccio umano, dal bicipite

guizzante, a côrre il ramicel d'un pioppo.

Repente trasaltò, di gran galoppo

sparì per mezzo agli arbori precipite.

Il cor m'urtava il petto, in ogni nervo

io tremando. Ma, nella mia latèbra

umida verde, l'anima erami erba

d'antiche forze. E udii bramire il cervo!

L'udii bramir di furia e di dolore

come s'ei fosse lacero da zanne

leonine. Balzai di tra le canne,

vincendo a un tratto il corporale orrore,

agile divenuto come un veltro

pè gineprai, per gli sterpeti rossi,

con silenzio veloce, quasi fossi

in sogno, quasi avessi i piè di feltro.

O Derbe, la potenza che desidero

è nei metalli che il gran fuoco ha vinto.

Eternato nel bronzo di Corinto

ti darò quel che i lucidi occhi videro?

Il Centauro afferrato avea pei palchi

delle corna il gran cervo nella zuffa,

come l'uom pè capei di retro acciuffa

il nemico e lo trae, finché lo calchi

a terra per dirompergli la schiena

e la cervice sotto il suo tallone,

o come nella foia lo stallone

la sua giumenta assal per farla piena.

Erto alla presa della cornea chioma,

con le due zampe attanagliava il dorso

cervino, superandolo del torso,

premendolo con tutta la sua soma.

Furente il cervo si divincolava

sotto, gli occhi riverso, il bruno collo

gonfio d'ira e di mugghio, in ogni crollo

crudo spargendo al suol fiocchi di bava.

Era del più vetusto sangue regio,

di quelli che ammansiva il suon del sufolo,

vasto e robusto il corpo come bufolo,

di vénti punte in ogni stanga egregio.

Quanti rivali, oh lune di Settembre,

cacciati avea dà freschi suoi ricoveri

e infissi nella scorza delle roveri,

pria d'abbattersi al Tassalo bimembre!

Si scrollò, si squassò, si svincolò.

E le muglia sonavan d'ogni intorno.

In pugno al mostro un ramo del suo corno

lasciando, corse un tratto; e si voltò.

Si voltò per combattere, le vampe

delle froge soffiando e le vendette.

Il Tassalo gittò la scheggia; e stette

guardingo, fermo su le quattro zampe.

Un fil di sangue gli colava giù

pel viril petto, giù per il pelame

cavallino il sudore. Come rame

gli brillava la groppa or meno or più

al sole obliquo che fería lontano

pè tronchi, variato dalle frondi.

S'era fatto silenzio nei profondi

boschi. Il soffio s'udia ferino e umano.

Gli aghi dei pini ardere come bragia

parean sul campo del combattimento.

E l'aspro lezzo bestial nel vento

si mesceva all'odore della ragia.

Pontata a terra la sua forza avversa,

il cervo, come fa nel cozzo il tauro,

bassò l'arme. La coda del Centauro

tre volte battè l'aria come fersa.

Una rapidità fulva e ramosa

si scagliò con un bràmito di morte.

O Derbe, ancor ne freme per la sorte

del petto umano l'anima ansiosa.

Credetti udire il gemito dell'uomo

su l'impennarsi del caval selvaggio.

Ma il Tessalo con inuman coraggio

il cervo avea pur quella volta dómo!

Preso l'avea di fronte, alle radici

delle corna, e gli avea riverso il muso.

Entrambi inalberati, l'un confuso

con l'altro in un viluppo, i due nemici,

tra luci ed ombre, sotto il muto cielo

saettato da sprazzi porporini,

lottavano; e su i due corpi ferini,

se le zampe le punte il fitto pelo

il crino irsuto il prepotente sesso,

io vedea con angoscia il capo alzarsi

di mia specie, agitare i ricci sparsi

quel vento d'ira sul mio capo istesso.

E, gonfio il cor fraterno, d'un antico

rimorso, tesi l'arco dell'agguato.

Ma l'uom cò pugni avea divaricato

e divelto le corna del nemico.

Udii lo schianto strudulo dell'osso

infranto, aperto sino alla mascella.

Fumide giù dal cranio le cervella

sgorgarono commiste al sangue rosso.

L'erto corpo piombò nel gran riposo

son urto sordo; sanguinò silente;

senza palpito stette; del cocente

flutto bagnò l'arsiccio suol pinoso.

Rise il Centauro come a quella frotta

lieve natante giù pel verde Serchio.

Poi levò, grande nel silvano cerchio,

il duplice trofeo della sua lotta.

Fiutò il vento. Ma prima di partirsi

colse tre rami carichi di pine;

e due n'avvolse attorno alle cervine

corna, e sì n'ebbe due notturni tirsi.

Del terzo incurvo fece un serto sacro

e se ne inghirlandò le tempie umane

ove le vene, enfiate dall'immane

sforzo, ancor cupe ardeangli di sangue acro.

Precinto, armato dei due tirsi foschi,

sollevò la gran bocca a respirare

verso il Cielo. S'udia remoto il Mare

seguir col rombo il murmure dei boschi.

Sola una Nube era nell'alte zone

dell'Etere qual dea scinta che dorma.

Venerava il Nubigena la forma

cui fecondò l'audacia d'Issone.

Bellissimo m'apparve. In ogni muscolo

gli fremeva una vita inimitabile.

repente s'impennò. Sparve Ombra labile

verso il Mito nell'ombre del crepuscolo.

(Composta a Romena il 24 agosto 1902)

 

L'ASFODELO

GLAUCO

O Derbe, approda un fiore d'asfodelo!

Chi mai lo colse e chi l'offerse al mare?

Vagò sul flutto come un fior salino.

O Derbe, quanti fiori fioriranno

che non vedremo, su pè fulvi monti!

Quanti lungh'essi i curvi fiumi rochi!

Quanti per mille incognite contrade

che pur hanno lor nomi come i fiori,

selvaggi nomi ed aspri e freschi e molli

onde il cuore dell'esule s'appena

poi che il suon noto per rendergli odore

come foglia di salvia a chi la morde!

DERBE

Io so dove fiorisce l'asfodelo.

Là nel chiaro Mugello, presso il Giogo

di Scarperia, lo vidi fiorir bianco.

Anche lo vidi, o Glauco, anche lo colsi

in quell'Alpe che ha nome Catenaia

e all'Uccellina presso l'Alberese

nella Maremma pallida ove forse

ei sorride all'imagine dell'Ade

morendo sotto l'unghia dei cavalli.

GLAUCO

O Derbe, anch'io errando su i vestigi

della donna letèa, vidi fiorire

tra Populonia e l'Argentaro il fiore

della viorna. Tutto le sorelle

bianche il bosco aspro nelle delicate

braccia tenean tacendo, e i negri lecci

e i sóveri nocchiuti al sol di giugno

dormivan come venerandi eroi

entro veli di spose giovinette.

DERBE

In Populonia ricca di sambuchi

io conobbi il marrubbio che rapisce

l'odor muschiato al serpe maculoso

e l'ebbio che colora il vin novello

di sue bacche e lo scirpo che riveste

il gonfio vetro dove il vin matura.

GLAUCO

La madreselva come la viorna

intenerire del suo fiato i tronchi

vidi a Tereglio lungo la Fegana,

e il giunco aggentilir la Marinella

di Luni, e su pè monti della Verna

l'avornio tesser ghirlandette al maggio.

DERBE

I gigli rossi e crocei ne' monti,

alla Frattetta sotto il Sangro, io vidi;

anche alla Cisa in Lunigiana, e all'Alpe

di Mommio dove udii nel ciel remoto

gridar l'aquila. Spiriti immortali

pareano i gigli nell'eterna chiostra.

La bellezza dei luoghi era sì cruda

che come spada mi fendeva il petto.

Con un giglio toccai la grande rupe,

che non s'aperse e non tremò. Mi parve

tuttavia che un prodigio si compiesse,

o Glauco, e andando mi sentii divino.

GLAUCO

Nella Bocca del Serchio, ove la piana

sabbia vergano oscuramente l'orme

dei corvi come segni di sibille,

il narcisso marino io colsi, mentre

l'ostro premea le salse tamerici,

i cipressetti dell'amaro sale.

Lo smílace conobbi attico; e al Gombo

anche conobbi il giglio ch'è nomato

pancrazio, nome caro ai greci efèbi;

e tanto parve ai miei pensieri ardente

di purità, che ai Mani dell'Orfeo

cerulo io lo sacrai, al Cuor dei cuori.

DERBE

O Glauco, noi facemmo della Terra

la nostra donna ed ogni più segreta

grazia n'avemmo per virtù d'amore.

Come il Sole entri nella Libra eguale,

ti condurrò sui monti della Pieve

di Camaiore, e alla Tambura, e ai fonti

del Frigido, e lungh'essa la Freddana

dietro Forci, e nell'Alpe di Soraggio,

ché tu veda fiorir la genziana.

GLAUCO

Bella è la Terra o Derbe, e molto a noi

cara. Ma quanti fiori fioriranno

che non vedremo, nelle salse valli!

Le Oceanine ornavan di ghirlande

i lembi della tunica a Demetra

piangente per il colchico apparito.

Com'entri nello Scòrpio il Sole, o Derbe,

ti condurrò su i pascoli del Giovo

in mezzo ai greggi delle pingui nubi,

perché tu veda il colchico fiorire.

(Composta il 4 giugno 1902)

 

MADRIGALI DELL'ESTATE

IMPLORAZIONE

Estate, Estate mia, non declinare!

Fa che prima nel petto il cor mi scoppi

come pomo granato a troppo ardore.

Estate, Estate, indugia a maturare

i grappoli dei tralci su per gli oppi.

Fa che il colchico dia più tardo il fiore

Forte comprimi sul tuo sen rubesto

il fin Settembre, che non sia sì lesto.

Sòffoca, Estate, fra le tue mammelle

il fabro di canestre e di tinelle.

LA SABBIA DEL TEMPO

Come scorrea la calda sabbia lieve

per entro il cavo della mano in ozio

il cor sentì che il giorno era più breve.

E un'ansia repentina il cor m'assale

per l'appressar dell'umido equinozio

che offusca l'oro delle piagge salse.

Alla sabbia del Tempo urna la mano

era, clessidra il cor mio palpitante,

l'ombra crescente di ogni stelo vano

quasi ombra d'ago in tacito quadrante.

L'ORMA

Sol calando, lungh'essa la marina

giunsi alla pigra foce del Motrone

e mi scalzai per trapassare a guado.

Da stuol migrante un suono di chiarina

venía per l'aria, e il mar tenea bordone.

Nitrí di fra lo sparto un caval brado.

Ristetti. Strana era nel limo un'orma.

Però dall'alpe già scendeva l'ombra.

ALL'ALBA

All'alba ritrovai l'orma sul posto,

selvatica qual pesta di cerbiatto;

ma v'era il segno delle cinque dita.

Era il pollice alquanto più discosto

dall'altre dita e il mignolo ritratto

come ugnello di gàzzera marina.

La foce ingombra di tritume negro

odorava di sale e di ginepro.

Seguitai l'orma esigua, come bracco

che tracci e fiuti il baio capriuolo.

Giunsi al canneto e mi scontrai col riccio.

Livido si fuggì per folto il biacco.

Si levarono due tre quattro a volo

migliarini già tinti di gialliccio.

Vidi un che bianco; e un velo era dell'alba.

Per guatar l'alba disamarrii la traccia.

A MEZZODI'

A mezzodì scopersi tra le canne

del Motrone argiglioso l'aspra ninfa

nericiglia, sorella di Siringa.

L'ebbi sù miei ginocchi di silvano;

e nella sua saliva amarulenta

assaporai l'orígano e la menta.

Per entro al rombo della nostra ardenza

udimmo crepitar sopra le canne

pioggia d'agosto calda come sangue.

Fremere udimmo nelle arsicce crete

le mille bocche della nostra sete.

IN SUL VESPERO

In sul vespero, scendo alla radura.

Prendo col laccio la puledra brada

che ancor tra i denti ha schiuma di pastura.

Tanaglio il dorso nudo, alle difese;

e per le ascelle afferro la naiàda,

la sollevo, la pianto sul garrese.

Schizzan di sotto all'ugne nel galoppo

gli aghi i rami le pigne le cortecce.

Di là dai fossi, ecco il triforme groppo

su per le vampe delle fulve secce!

L'INCANTO CIRCEO

Tra i due porti, tra l'uno e l'altro faro,

bonaccia senza vele e senza nubi

dolce venata come le tue tempie.

Assai lungi, di là dall'Argentaro,

assai lungi le rupi e le paludi

di Circe, dell'iddía dalle molt'erbe.

E c'incantò con una stilla d'erbe

tutto il Tirreno, come un suo lebete!

IL VENTO SCRIVE

Su la docile sabbia il vento scrive

con le penne dell'ala; e in sua favella

parlano i segni per le bianche rive.

Ma, quando il sol declina, d'ogni nota

ombra lene si crea, d'ogni ondicella,

quasi di ciglia su soave gota.

E par che nell'immenso arido viso

della pioggia s'immilli il tuo sorriso.

LE LAMPADE MARINE

Lucono le meduse come stanche

lampade sul cammin della Sirena

sparso d'ulve e di pallide radici.

Bonaccia spira su le rive bianche

ove il nascente plenilunio appena

segna l'ombra alle amare tamerici.

Sugger di labbra fievole fa l'acqua

ch'empie l'orma del piè tuo delicata.

NELLA BELLETTA

Nella belletta i giunchi hanno l'odore

delle persiche mézze e delle rose

passe, del miele guasto e della morte.

Or tutta la palude è come un fiore

lutulento che il sol d'agosto cuoce,

con non so che dolcigna afa di morte.

Ammutisce la rana, se m'appresso.

Le bolle d'aria salgono in silenzio.

L'UVA GRECA

Or laggiù, nelle vigne dell'Acaia,

l'uva simile ai ricci di Giacinto

si cuoce; e già comincia a esser vaia.

Si cuoce al sole, e detta è passolina,

anche laggiù su l'istmo, anche a Corinto,

e nella bianca di colombe Egina.

In Onchesto il mio grappolo era azzurro

come forca di rondine che vola.

All'ombra della tomba di Nettuno

l'assaporai, guardando l'Elicona.

(Data di composizione non precisata)

 

FERIA D'AGOSTO

Espero sgorga, e tremola sul lento

vapor che fuma dalla Val di Magra.

Un vertice laggiù, nel cielo spento

ultimo flagra.

Emulo della stella e della vetta,

arde il Faro nell'isola di Tino.

Dóppiano il Capo Corvo una goletta

e un brigantino.

Or sì or no la ragia con la cuora

si mescola nel vento diforàno.

Dell'agrore salmastro s'insapora

l'odor silvano.

Albica il mar, di cristalline strisce

varia, su i liti ansare odesi appena.

Ed ecco, il promontorio s'addolcisce

come l'arena.

Ogni cosa più gran dolcezza impetra.

Tutto avvolve l'immensa pace urania.

Fin, nell'aere tenue, si spetra

la cruda Pania.

O fanciullo, inghirlanda l'architrave;

salda la cera ai tuoi calami arguti;

rinfondi nella lampada il soave

olio di Buti.

Fa grido e aduna i tuoi compagni auleti,

che rechino le fístole sonore

composte con le canne dei canneti

di Camaiore.

Sette di pino belle faci olenti

e sette di ginepro irsuto appresta,

a rischiarare gli ospiti vegnenti

per la foresta.

Fresche delizie avranno elli da scerre

bene accordate su la stoia monda:

l'uva sugosa delle Cinque Terre

e nera e bionda,

l'uva con i suoi pampani e i suoi tralci,

le pèsche e i fichi su la chiara stoia,

e le ulive dolcissime di Calci

in salamoia.

Infra l'ombrína e il dèntice la triglia

grassa di scoglio veggan rosseggiare,

e il vino di Vernazza e di Corniglia

nelle inguistare.

Anche avremo di miele e di friscello

la focaccia che fu grata a Priapo,

e ghirlanda di cúnzia e d'alberello

per ogni capo.

O fanciulli, e per voi saremo lauti.

Io farò sì che ognun di voi ricordi

la mia feria d'agosto, ma se i flauti

non sien discordi.

Accendete le faci, e andiam nel bosco

a rischiarare l'ospite che viene.

Odo tinnire un riso ch'io conosco,

ch'io mi so bene.

E' di quella che fústiga i miei spirti,

d'una che acerba ride e dolce parla.

Accendete le faci e andiam tra i mirti

ad incontrarla.

Non vi stupite già che la crocòta

sia guisa d'oggidì tra Serchio e Magra.

Quest'ospite è d'origine beota,

vien di Tanagra.

Ma ben la grazia onde succinge il giallo

bisso e i sandali scopre è maraviglia

(porta anelli d'elettro e di cristallo

alla caviglia)

mentre il suo capo sottilmente ordito

piega, ove ferma un lungo ago l'intreccio,

fulvo come i ginepri che sul lito

morde il libeccio.

Rugge e odora il ginepro nella teda.

Or configgete in terra acceso il fusto.

Flauti silvestri, e il nume vi conceda

il tono giusto.

Fanciulli, attenti! Fate un bel concerto.

Pan vi guardi da nota roca o agra.

Quest'ospite che v'ode ha orecchio esperto;

vien di Tanagra.

(Data di composizione sconosciuta)

 

IL POLICEFALO

Spezzate i flauti. Il lino che connette

le canne è quel medesmo degli astuti

lacci, e la cera troppo sa di miele.

Il suono puerile è breve oblio

pel cor prestante che non ama il gioco

facile nè cattare il sonno lieve.

Nè tu sei cittadino d'Agrigento

nomato Mida, vincitore in Delfo.

Nè t'insegnò la Cèsia il grande carme.

Pallade Atena dai fermi occhi chiari

prima inventò tal melodia, nel giorno

in cui Medusa tronca fu dall'arpe.

Udì le grida e i pianti ch'Euriàle

mettea tra il sibilare dei serpenti

verso la strage; udì l'orrendo ploro.

I gemiti di Steno come dardi

fendeano l'etra, e tutti gli angui eretti

minacciavan l'eroe nato dall'oro.

Così la Melodía di Mille Teste

nacque in giorno sanguigno; e la raccolse

Pallade Atena e modulò per l'uomo.

Le canne dei canneti d'Orcomèno

ella guarnì con làmine di brinzo

e sì ne fece più possente il tuono.

Spezzate i flauti esigui, auleti imberbi,

poi che non han potenza al grande carme.

Cercatemi nel mare i nicchi intorti.

V'insegnerò davanti alle tempeste

dedurre dalle búccine profonde

la melodia delle mie mille sorti.

(Data di composizione ignota)

 

IL TRITONE

Il Tritone squammoso mi fu mastro.

S'accoscia su la sabbia ove la schiuma

bulica; e al sole la sua squamma fuma.

Giúngogli ov'è tra il pesce e il dio l'incastro.

Ha il gran torace azzurro come il glastro

ma l'argento sul dorso gli s'alluma.

Sceglie tra l'alghe la più verde, e ruma

e gli cola il rigurgito salmastro.

Con la vasta sua man palmata afferra

la sua conca, v'insuffla ogni sua possa,

gonfio il collo le gote gli occhi istrambi.

Va il rimbombo pel mare e per la terra.

L'Alpe di Luni cròllasi percossa.

Bàlzano nel mio petto i ditirambi.

(Data di composizione sconosciuta)

 

L'ARCA ROMANA

Alpe di Luni, e dove son le statue?

I miei spirti désian perpetuarsi

oggi sul cielo in grandi simulacri.

O antichi marmi in grandi orti romani!

Stan per logge e scalèe di balaustri,

con le lor verdi tuniche di muschi.

Negreggiano i cipressi i lecci i bussi

intorno alla fontana ove il Silenzio

col dito su le labbra è chino a specchio.

Vede apparire dal profondo il teschio

dell'eterna Medusa, la Gorgóne

vede sé fiso nel divino orrore.

Lamenta i fati il grido del paone.

Tutto è immobilità di pietra, vita

che fu, memoria grave, ombra infinita.

Un sarcofago eleggo, ov'è scolpita

in tre facce una pugna d'Alessandro;

pieno è di terra, e porta un oleandro.

Quivi masticherò la foglia amara

del mio lauro, seduto su quell'arca.

Quivi disfoglierò la rosa vana

dell'amor mio, seduto su quell'arca.

(Data di composizione sconosciuta)

 

L'ALLORO OCEANICO

Oleandro d'Apollo, ambiguo arbusto

che d'ambra aulisci nell'ardente sera;

melagrano, e il tuo rosso balausto

quasi fiammella in calice di cera;

nautico pino, e il tuo scoglioso fusto

e i coni entro la chioma tua leggera;

olivo intorto da dolor vetusto,

e l'oliva tua dolce che s'annera;

ginepro irsuto, mirto caloroso,

lentisco, terebinto, caprifoglio,

cento corone dell'Estate ausonia;

ma te, sargasso, re del Marerboso,

vasto alloro del gorgo, anche te voglio,

che bacche fai come la fronda aonia.

(Data di composizione sconosciuta)

 

IL PRIGIONIERO

Ardi, sei triste come il Prigioniero

ignudo che il titano Buonarroto

cavò da quel che or splende àvio e rimoto

Sagro, per il pontefice guerriero.

Constretto anche tu sei del tuo mistero,

vittima consacrata al Mare Ignoto;

e la bocca tua bella grida a vòto

contra il fato che tolseti l'impero.

Tiranno fosti in Gela, trionfale

nell'ode pitia re? Traesti schiavi

da Tespe uomini e marmi alla tua Tebe?

O sul cavallo bianco eri a Micale,

presso il padre di Pericle, e pugnavi

con l'altra gioventù nel nome d'Ebe?

(Data di composizione sconosciuta)

 

LA VITTORIA NAVALE

Se quella ch'arma di sue grandi penne

la prua della trière samotrace

venir dee verso me che senza pace

persèvero lo sforzo mio ventenne,

non altrove ma fra le vive antenne

di questa selva nata dal focace

lito, in vista dell'Alpe che si tace

gloriosa di suo candor perenne,

l'attenderò dicendo: "Ben mi vieni

dalla piaggia che i Càbiri nutrica,

dall'isola che sta di contro all'Ebro.

Io son l'ultimo figlio degli Elleni:

m'abbeverai alla mammella antica;

ma d'un igneo dèmone son ebro".

(Data di composizione sconosciuta)

 

IL PEPLO RUPESTRE

Mutila dea, tronca le braccia e il collo,

la cima dell'Altissimo t'è ligia.

E' tua la rupe onde alla notte stigia

discese il bianco aruspice d'Apollo.

La cruda rupe che non dà mai crollo,

o Nike, il tuo ventoso peplo effigia!

La violenza delle tue vestigia

eternalmente anima il sasso brollo.

Quando sul mar di Luni arde la pompa

del vespro e la Ceràgiola è cruenta

sotto il monte maggior che la soggióga,

sembra che dispetrata a volo irrompa

tu negli ardori e sul mio capo io senta

crosciar la gioia dell'immensa foga.

(Data di composizione sconosciuta)

 

IL VULTURE DEL SOLE

S'io pensi o sogni, se tal volta io veda

quasi vampa tremar l'aria salina,

se nel silenzio oda piombar la pina

sorda, strider la ragia nella teda,

sonar sul loto la palustre auleda,

istrepire il falasco e la saggina,

subitamente del mio cor rapina

tu fai, di me che palpito fai preda,

o Gloria, o Gloria, vulture del Sole,

che su me ti precipiti e m'artigli

sin nel focace lito ove m'ascondo!

Levo la faccia, mentre il cor mi duole,

e pel rossore dè miei chiusi cigli

veggo del sangue mio splendere il mondo.

(Data di composizione sconosciuta)

 

L'ALA SUL MARE

Ardi, un'ala sul mare è solitaria.

Ondeggia come pallido rottame.

E le sue penne, senza più legame,

sparse tremano ad ogni soffio d'aria.

Ardi, veggo la cera! E' l'ala icaria,

quella che il fabro della vacca infame

foggiò quando fu servo nel reame

del re gnòssio per l'opera nefaria.

Chi la raccoglierà? Chi con più forte

lega saprà rigiugnere le penne

sparse per ritentare il folle volo?

Oh del figlio di Dedalo alta sorte!

Lungi dal medio limite si tenne

il prode, e ruinò nei gorghi solo.

(Data di composizione sconosciuta)

 

ALTIUS EGIT ITER

L'ombra d'Icaro ancor pè caldi seni

del Mar Mediterraneo si spazia.

Segue di nave solco che più ferva.

Ogni rapidità di vènti agguaglia.

Voce d'uom che comandi ama nel turbine.

Ode clamor di nàufraghi iterato

e n'ha disdegno, ché silenzioso

fu quel rimoto suo precipitare.

Io la vidi laggiù, verso l'occaso.

Era nel palischermo io cò miei due

remi. A prora il mio Dèspota seduto

era, e guatava fiso la mia cura.

Tra quegli e me subitamente vidi

ignuda l'ombra d'Icaro apparire.

Quasi il color marino aveano assunto

le sue membra, ma gli occhi eran solari.

Sul petto giovenile intraversate

ancor gli stavan le due rosse zone,

già per gli òmeri vincoli dell'ale,

simili a inermi bàltei di porpora.

"O Dèspota, costui" disse "è l'antico

fratel mio. Le sue prove amo innovare

io nell'ignoto. Indulgi, o Invitto, a questa

mia d'altezze e d'abissi avidita!".

(Data di composizione sconosciuta)

 

DITIRAMBO IV

Icaro disse: "La figlia del Sole

a me poggiata come ad un virgulto

sul limite dei paschi

guatava il candido armento dei buoi

pascere lungo il Cèrato rupestro.

Mi si piegava il destro

òmero sotto la mano regale

umida di sudor gelido; e, dentro

me, tremavano tutte le midolle,

negli orecchi fragore

sonavami sì forte ch'io temeva

udir dal sacro Dicte i Coribanti

atroci e il rombo del bronzo percosso.

E la città di Cnosso

splendea di mura còttili e di blocchi

oltre l'irto canneto atto a far dardi.

"O Pasife, che guardi?"

chiese il Re sopraggiunto. Ed anelava

nella sua barba violetta come

l'uva cidònia; ché membruto egli era

e gravato di giallo adipe il fianco.

"Io guardo il toro bianco,

quello che tu non désti a Posidone"

la figlia di Perseide rispose.

E le vette nevose

dell'Ida biancheggiavan men del toro

niveo diniegato al dio profondo.

"Perché sì tremebondo

sei tu, figlio di Dedalo?" il Re chiese.

E allor Pasife: "Questo ateniese

giovinetto somiglia ad Androgèo

che non torna d'Atene;

e per ciò mi sostiene,

il cor triste mi folce;

per ciò tanto m'è dolce

le dita porre nel suo crin prolisso".

Io rividi l'Ilisso,

i platani gli allori gli oleandri

che l'adombrano, e il bosco degli ulivi

presso Colono caro all'usignuolo.

Rividi il patrio suolo

entro l'anima mia subitamente,

come colui ch'è presso alla sua fine;

perocché nel mio crine

ponea le dita la donna solare,

e l'ossa mie flagrare

parean nel suo sorriso accosto accosto

siccome rami cui fiamma s'appicchi

quando i legni sien ricchi

d'aroma e inariditi dall'Estate.

E le navi lunate

coi rematori seduti agli scalmi

in fila a battere il flutto diviso,

e l'Eracleo, l'Amniso,

i due porti ricurvi, e il fiume, e i monti

e tutta quanta l'isola selvosa

con le vigne col díttamo e col miele

ardere in quel sorriso

vidi per mezzo ai cigli miei morenti.

E il sire degli armenti

udii mugghiare in quel foco sonoro,

mugghiare il bianco toro

diniegato al gran Padre enosigèo".

Icaro disse: "Poi che l'ombra cadde

(il vertive dell'Ida solitario

nell'etra rosseggiava

come il fiore del díttamo crinito)

nascostamente ritornai sù paschi,

gonfio d'odio il cuor tacito; e scagliai

contra il toro le selci acuminate

dell'àlveo del Cèrato divulse

e imposse alla mia frombola cretese.

Il boaro m'intese

e mi rincorse ratto su per l'erbe

con la verga di còrilo a minaccia.

Ma perse la mia traccia

nell'ombra che cadea; nè mi conobbe,

nè l'erbe verdi tenner le vestigia.

L'infanda cupidigia

per ovunque era sparsa! Palpitare

parea pur anco nelle stelle vaghe!

Il vento perea piaghe

súbite aprire nel mio corpo nudo

acerbe sì che non saríami valso

a medicarle il díttamo dell'Ida.

E piena era di grida

compresse la mia gola nell'arsura,

quando giunsi elle mura

del Labirinto ove il mio padre aveva

ambage innumerevole di vie

riempiuta d'error laborioso.

Quivi ristetti ascoso

perocché vidi il duro fabro alzato

su la soglia difficile in silenzio

e la figlia del Sole in gran segreto

favellare con lui senza sorriso,

marmorea nel viso,

come chi chieda all'arte del mortale

una cosa tremenda e non ne tremi".

Icaro disse: "L'officina arcana

era in un orto a vista del recurvo

porto Eracleo frequente

di ben costrutte navi dalla prora

dipinta; e gli utensíli erano acuti,

e la fronte del fabbro era contratta.

Sorgea la forma esatta

della falsa giovenca nella luce

del dí, quasi che sazia di pastura

spirasse dalle froge il fiato olente

di cítiso, tranquilla sù piè fessi.

Con tale arte commessi

eran gli sculti legni e ricoperti

di fresca pelle, che parean felici

d'ubertà non fallibile i bei fianchi

e le mamme in sul punto di gonfiarsi

all'affluir d'un latte repentino.

Furtiva nel giardino

vénia Pasife senza le sue donne

a rimirar l'opera fabrile

ch'ella infiammava della sua lussuria

impaziente; e seco avea l'irsuto

boaro come giudice perfetto.

Costui rise: il difetto

scorse nella giogaia. Il grande artiere

fu docile al consiglio dell'uom rude.

Pasife con le nude

braccia premette gli òmeri miei nudi,

s'abbandonò su me come su fulcro

insensibile, assorta nel suo sogno

inumano, perduta nel portento.

Saliva un violento

foco dal suolo ov'eran le radici

della mia forza, e tutto m'avvolgea,

e tutto come arbusto resinoso

parea vi crepitassi e vi splendessi.

Oh giardino di spessi

aromi, carco di cera e di miele,

carco di gomma e d'ambra,

ove s'udia scoppiar la melagrana

come un riso che scrosci e qiasi mosto

si liquefaccia in una bocca d'oro!

Recava l'Austro il coro

delle femmine ancelle dal palagio

remoto, che sedevano ai telai

o tingevan di porpora le lane

o i semplici isceglieano al beveraggio

o di carni ammannivan la vivanda

per la figlia del Sole,

ignare ch'ella fosse innanzi al Sole

preda schiumosa d'Afrodite infanda".

Icaro disse: "La figlia del Sole

amai, che per libidine soggiacque

alla bestia di nerbo più potente.

Splendea divinamente

la sua carne quand'ella penetrava

nel simulacro per imbestiarsi.

Io chiuso in me riarsi.

Io, quando vidi il callido boaro

la prima volta addurre

alla falsa giovenca il toro bianco

che si battea il fianco

sonoro con la fersa della coda

adorno i corni brevi d'una lista

di porpora, balzai gridando: "O Sole,

a te consacrerò, sopra la rupe

inconcussa, oggi un'aquila sublime!"

E andai verso le cime

con la bipenne l'arco e le saette,

ben coturnato, a far le mie vendette".

Disse: "Da prima vidi l'ombra vasta

palpitar su la torrida petraia.

Fulvo il macigno, cerula era l'ombra.

E dopo udii la romba

delle penne per l'aer verberato.

Gridò verso il suo fato

ella repente, ferma su le penne;

la corda mia nel tendersi stridette;

il grido parve lacerare il cielo

e lo stridor fu lieve qual garrito

di rondine ma il tèlo

che si partì fu forte e fu cruento.

Sentii sul viso il vento

del volo che fece impeto a salire,

poi si fiaccò, girò come in un turbo,

piombò verso lo scrímolo del monte.

Mi cadde su la fronte

una goccia di sangue larga e calda

come goccia di nuvolo d'agosto

quando lampeggia e tuona.

L'aquila s'abbattè sul sasso prona

il petto, aperta l'ali

crude che strepitarono sul sasso,

erta súbito il rostro alla difesa.

La roccia discoscesa

ardeva nel meriggio come il ferro

nella fucina, sotto i miei coturni.

La fronda dei viburni

era come la scoria dei metalli

liquefatti, e la fronda degli avorni.

S'udiano i capricorni

belare in mezzo al díttamo crinito,

e l'odore dell'erba vulneraria

mescevasi nell'aria

tremula con l'odor dell'aquilino

sangue che d'ogni sangue è più vermiglio.

Col rostro e con l'artiglio

fu pronta la satellite di Giove

a combattere contra il feditore

su la rupe inconcussa.

Allora io dissi: "Augusta,

se tu sei senza volo, io sia senz'armi".

E disdegnai ritrarmi

qual uomo a saettarla di lontano.

Ma gittai l'arco; e mi fasciai la mano

con il corame della mia faretra,

mi fascia la man destra

a difesa degli occhi minacciati

dal becco adunco. Feci impeto, entrai

in un selvaggio fremito di penne;

in un orrendo strepito di penne

come in un nembo fulvo preso fui

dalla possa grifagna;

sentii fuggirmi sotto le calcagna

la rupe e gridai forte.

Combattemmo nel rombo della morte.

Io con la destra le afferrai la strozza

robusta come tronco di serpente,

e strinsi e strinsi; e con la manca trassi

dalla ferita fresca il dardo primo,

più volte e più nell'imo

fegato lo confissi.

Combattemmo sul ciglio degli abissi,

in cospetto del Sole, a mezzo il giorno.

Gloria d'Icaro! Intorno

alla zuffa ogni bàttito di penne

sprizzava mille stille

di sangue come porpora in faville

accesa ed isvolata via per festa.

A gloria la mia testa

pareva di faville incoronarsi.

E le piume dei tarsi

e del petto e del collo e delle ascelle

isvolavan su l'Ostro.

E un rivolo purpureo dal rostro

colava sul mio braccio imporporato

fino al cúbito. E làcera dai colpi

delle rampe la destra coscia m'era

sí che la messaggera

Nike, se mai sostò sul solitario

vertice andando verso Atene mia

a recar le corone

dell'oleastro, fece il paragone

tra l'aquilino sangue e il sangue icario.

Ah, non temetti il suo giudicio, o Sole.

Parvemi, quando apersi il pugno ostile

e la nemica ricoprì la rupe

alfine spenta, parvemi che tutta

la sua virtute aligera mi fosse

nelle braccia e negli òmeri trasfusa

e m'agitasse i fragili precordii

una immortale avidità di volo.

L'alto vertice solo

e l'esanime preda eran con meco,

e il dio della lucifera quadriga.

Pregai: "Divino auriga,

questa vittima t'offro in olocausto

perché tu mi sii fausto

se dato mi sarà tentar le vie

dove agiti le tue criniere bianche.

Il torace le viscere le branche

e il gran capo rostrato

in un fuoco di sterpi e d'erbe io t'ardo

e la canna del dardo.

Concedi, o dio magnifico, se m'odi,

concedimi che immuni dalla brace

io dell'aquila serbi l'ali forti

e con meco le porti

perché le veda entrambe il padre mio

Dedalo d'Eupalàmo

ateniese, artefice sagace,

perché due me ne foggi a simiglianza

l'uomo di molti ingegni, ma più forti,

ma con più grande numero di penne".

E tolsi la bipenne

che al cinto appesa avea dietro le reni:

con ella diedi nelle congiunture,

di muscoli e di tendini gagliarde

così che che resisteano al doppio taglio.

"Ahi che l'incudine e il maglio

e l'industria paterna non varranno

a radicarmi la virtù dell'ala

nella scapula somma" io mi pensai

considerando, come il citarista

inchino su le corde,

la tenacia del nesso tendinoso

che biancheggiava di color di perla

nel cruore. E la mente ne fu trista.

E trista fu la mozza ala, a vederla.

E, nel fuoco di sterpi fumigando

la residua carne offerta al Sole,

io mi pensai: "Si duole

il dio solingo sul suo carro ardente

e non cura l'insolito libame.

La figlia sua nel simulacro infame

ei vide, onniveggente;

e dell'arte di Dedalo si cruccia

e mi scopre nel cor la piaga acerba,

nel cor che non si lagna,

cui díttamo nè stebe non mi vale".

Mi gravai d'ambo l'ale

congiunte con la stringa del mio cinto;

e l'alta volontà fu la compagna

della doglia fatale

quando, scorto dal dio, di sangue tinto,

scesi dal monte verso il Labirinto".

Icaro disse: "L'officina arcana

era in una caverna del dirupo,

dietro il porto d'Amniso

a levante di Cnosso, erma sul mare.

S'udiva starnazzare

e stridere d'uccelli senza tregua,

pè fóri dello scoglio ferrugigno.

Il suolo di macigno

consparso era d'antichi dolii rotti

e di fimo biancastro.

Rimbombavano al Giàpice salmastro

le concave pareti

come le curve targhe dei Cureti

all'urto delle picche furibonde.

Sotto, il fragor dell'onde

avea lunga eco per ambagi ignote

quando l'Apeliote

enfiava i verdazzurri otri del sale.

Quivi all'innaturale

opera intento era il mio padre, quivi

i congegni del volo

oprava senza incude e senza maglio.

Ben gli diedi travaglio

e affanno, ché pareami troppo tarda

la sua fatica per il mio desío

e sempre poche mi parean le penne

adunate dinanzi a lui che oprava.

Per lui la cera flava,

stretta in pani, col pollice e col fiato

ammollii; dispennai la copiosa

cacciagione; sollecito le penne

separai dalle piume.

Il sangue onde imperlavasi l'acume

d'ogni fusto divulso

vertudioso parvemi; e mi piacque

a stilla a stilla suggerlo, accosciato

presso il fabro mirabile che oprava

seduto su la pietra.

Quante volte votai la mia faretra,

infaticato sagittario errante

per le rupi lontane!

I falchi gli sparvieri e le poiane

caddero, e gli avvoltoi

calvi gravati di carni lugúbri,

e gli astori cò resti dei colúbri,

ancor ne' becchi adunchi, e i gru strimonii

gambuti dai lunghi ossi

accòmodi al tibícine, ogni specie

pennipotente altivolante cadde

per la forza degli archi miei cidonii

e dè miei dardi gnossi.

E mi tornava io carico di preda

celeste alla caverna;

e pur sempre pareva al mio desío

che fosse tarda l'opera paterna.

Era quivi l'odore della cera

e della ragia, ché l'operatore

mescolava le lacrime del pino

chiare al dono trattabile dell'ape,

acciocché questo fosse più tegnente.

Escluso avea dall'opera i metalli

come gravi ch'ei sono; e l'armatura

composto avea con le vergelle ferme

del còrilo e pieghevoli, congiunte

da bene intorto stame in ciechi nodi,

e sópravi disteso avea l'omento,

la grassa rete che le interiora

degli animali include, ben dissecco.

E sul congegno solido e leggero

ei disponea per ordine le penne,

dalla più breve alla più lunga elette

acutamente, come nella fistola

di Pan le avene díspari disgradano

per la natura dei diversi numeri.

E lino e cera usava a collegarle,

cera immista di ragia, come dissi.

E le sapeva inflettere con tanta

arte, per imitar la curvatura

della vita, che l'ala su la pietra

inerte parea trepida e tepente

e penetrata d'aere, ventosa

come fosse per rompere dal nido

o per posarsi dopo lungo volo".

Icaro disse: "Non veduto, vidi.

Misi gli occhi per entro ad un rosaio,

ove all'alito mio silentemente

si sfogliarono due tre rose passe.

Parve che si sfogliasse

con elle e si sfacesse il cuor mio caro.

E senza fine amaro

mi fu tutto che vidi non veduto,

in quel giardino muto

ove non più s'udia la pingue gomma

gemere nè scoppiar pomo granato

come riso puníceo che scrosci.

Fracidi i frutti, flosci

erano, grinzi come cuoi risecchi

gli arbori, crudi stecchi;

le cellette soavi, aride spugne,

senza la melodia laboriosa.

Rotta al suolo, corrosa,

informe fatta come vil carcame

era la vacca infame

offerta dalla frode al toro bianco

perché l'inclito fianco

alla figlia del Sole

empiesse di semenza bestiale.

E la donna regale,

figlia del Sole e dell'Oceanina,

Pasife di Perseide, il cui volto

m'era apparito come il penetrale

della luce nel tempio dell'iddio

splendido, la reina

dell'isola che fu cuna al Croníde

ricca in díttamo in uve in miele e in dardi,

l'adultera dei pascoli era quivi

sola col suo spavento.

Bocca anelante, nari acri, occhio intento

avea, pallido volto come l'erbe

aride, consumato dai sudori

e dalle schiume della sua lussuria.

Discita era, e l'incuria

della sua chioma la facea selvaggia

qual femmina del Tíaso tebano

che defessa dall'orgia ansi in un botro

del Citerone, esangue

fra il tirso spoglio della fronda e l'otro

voto del vino, al gelo antelucano.

Sentiva nel suo ventre, abbrividendo,

vivere il mostro orrendo,

fremere il figlio suo bovino e umano".

Icaro disse: "Era stellato il cielo,

era pacato il mare,

nella vigilia mia meravigliosa.

La roggia stella ascosa

nel mio cor vigile era la più grande.

Le cose miserande

eran lungi da me come da un dio

beverato di nèttare novello.

Parea dal corpo snello

dileguarmisi il triste peso come

dal cielo eòo si dileguava l'ombra,

e nella carne sgombra

un aereo sangue irradiarsi.

Nel cielo eòo comparsi

i pallidi crepuscoli, il messaggio

della Titània fece su per l'acque

un infinito tremito tremare.

Subitamente il giubilo del mare

si converse in desío tumultuoso,

irto le innumerevoli sue squamme.

Allor tutte le fiamme

del giorno dal mio cor parvero nate,

per sempre tramontate

dietro di me le stelle della notte,

l'ali della mia sorte

già nel periglio glorioso aperte.

Ahi, su la pietra inerte

si giacevan gli esànimi congegni,

e le mie braccia umane erano spoglie

della virtù pennata

che la mia scure avea tronca sul monte

in giorno di vittoria.

E súbito mi fu nella memoria

la tenacia del nesso tendinoso

che biancheggiava di color di perla

nel cruore vermiglio.

"Aquila vinta" dissi "Icaro, figlio

di Dedalo d'Atene,

ai tuoi mani consacra i ligamenti

arteficiati e fragili dell'ali

che sono opera d'uomo;

perché, come ti vinse combattendo

lungi e presso, così nel tuo dominio

vincerti vuole d'impeto e d'ardire".

E il mio padre destai dal sonno. Dissi:

"Padre, è l'ora". Non altro dissi. Muto

stetti mentr'ei m'accomodava l'ali

agli òmeri, mentr'ei gli ammonimenti

iterava con voce mal sicura.

"Giova nel medio limite volare;

ché, se tu voli basso, l'acqua aggreva

le penne, se alto voli, te le incende

il fuoco. Tieni sempre il giusto mezzo.

Abbimi duce, séguita il mio solco.

Deh, figliuol mio, non esser tropp'oso.

Io ti segno la via. Sii buon seguace".

E le mani perite gli tremavano.

Il mirabile artiere ebbi in dispregio

silenziosamente. "Al primo volo

io con te lotterò, per superarti.

Fin dal battito primo, io sarò l'emulo

tuo, la mia forza intenderò per vincerti.

E la mia via sarà dovunque, ad imo,

a sommo, in acqua, in fuoco, in gorgo, in nuvola,

sarà dovunque e non nel medio limite,

non nel tuo solco, s'io pur debba perdermi"

risposegli il mio cor silenzioso.

E gli sovvenne della grande frode

(difficile all'oblío questo mio cuore

sì che l'acqua del Lete non ci valse:

furon pur tre le tazze tracannate)

e del dolo fabrile gli sovvenne.

Fra le mani perite che tremavano

riveder seppe gli utensíli acuti

intesi a compiacer la trista voglia.

"Icaro figlio, m'odi? Io m'alzo primo.

Volerò senza foga, e tu mi segui".

Ma con l'arte dell'aquila io spiccai

dal limitar della caverna un volo

sì veemente che diseparato

fui súbito. Gli stormi isbigottirono

su per le rosse rupi, in fuga striduli

temendo la rapina dileguarono.

Oh libertà! Pel corpo nudo l'aere

matutino sentii crosciarmi, gelido

tutto rigarmi di chiarezza irrigua:

non i torrenti ove uso fui detergere

dopo le cacce la sanguigna polvere

m'avean rigato di sì grande giòlito.

Oh nel cor mio rapidità del palpito

ond'era impulso il volo, in egual numero!

Pareami già gli intaversati bàltei

esser conversi in vincoli tendínei,

tutto l'azzurro entrar per gli spiracoli

del mio pulmone, il firmamento splendere

sul mio torace come sul terribile

petto di Pan. Gridava "Icaro! Icaro!"

il mio padre lontano. "Icaro! Icaro!"

Nel vento e nella romba or sì or no

mi giungeva il suo grido, or sì or no

il mio nome nomato dal timore

giungeva alla mia gioia impetuosa.

"Icaro!" E fu più fievole il richiamo.

"Icaro!" E fu l'estrema volta. Solo

fui, solo e alato nell'immensità.

Passai per entro al grembo d'una nuvola:

un tepore un odore dolce e strano

eravi, quasi l'alito di Nèfele

madre d'Elle che diede nome al ponto.

Il vento del remeggio i veli tenui

sconvolse, un che di roseo svelò,

un che di biondo. Odore dolce e strano

m'illanguidiva, inumidiva l'ali.

Il vol decadde. Vidi undici navi

di prora azzurra fornite di tolda,

che flagellavano il mar con la palma

dei remi in lunga eguaglianza concordi,

andando a impresa lontana. Sul ponte

pelte lunate luceano e di bronzo

clípei tondi, aste lunghe. Mi giunse

l'urlo dei nàuti. Veloce volai,

oltre passai. Qual fu dunque la mente

dei nàuti rudi mirando il prodigio?

Come di me favellarono? Dissero

forse: "In un campo di strage la màscula

Nike, nell'ombra d'un cumulo grande

dai carri estrutto riversi e dirotti,

o a piè d'un grande trofeo d'armi illustri,

sul suol cruento cedette all'eroe

che l'afferrò per la chioma; e fu pregna.

E quei che rema lassù con tant'ala

è certo il figlio di lei giovinetto".

Di queste l'alto cor mio si conpiacque

imaginate parole, ché stirpe

di Nike avrebbe ei voluto infierire.

E vidi poi sotto fulgere in Paro

iscalpellata il candor del Marpesso.

E vidi poi dall'erratica Delo

salir vapore di caste ecatombi.

Poi non vidi altro più, se non il Sole.

Poi non volli altro più, se non da presso

mirarlo eretto sul suo carro igníto,

giugnerlo, farmi ardito

di prendere pei freni il suo cavallo

sinistro, Etonte dalle rosse nari.

Il pètaso e i talari

d'Erme Cillenio avea conquisi il mio

sogno meridiano, il mio delirio.

Congiunto era con Sirio

altissimo nel medio orbe, nell'arce

somma dei cieli Elio d'Eurifaessa.

E l'altezza inaccessa

e l'ardore terribile agognai

ed offerirgli l'ali che sul monte

crètico escluse avea dall'olocausto.

Mi sembrava inesausto

il valor mio ché l'animo agitava

le morte penne, l'animo immortale

e non il braccio breve.

Ed ecco, vidi come un'ombra lieve

sotto di me nella profonda luce

ove non appariva segno alcuno

del mare cieco e dell'opaca terra;

ancóra un'ombra vidi, un'altra ancóra.

E dissi: "Icaro, è l'ora".

Ma il cor non mi mancò. Non misi grido

verso il mio fato, come la devota

alla saetta aquila moritura;

nè rimpiansi il paterno ammonimento.

Guatai senza spavento

in giuso; e l'ombre lievi eran le penne

dell'ali, che cadeano tremolando

dalla cera ammollita.

Mi sollevai con impeto di vita

verso il Titano: udii rombar le ruote

del carro sul mio capo alzato; udii

lo scàlpito quadruplice; il baleno

scorsi dell'asse d'oro, il fuoco anelo

dei cavalli. Piròe dalla criniera

sublime, Etonte dalle rosse nari.

E i cavalli solari

annitrirono. Il ventre di Flegonte

brillò come crisòlito; la bava

d'Eòo fu come il velo d'Iri effuso.

E vidi il pugno chiuso

che teneva le rèdini, la fersa

garrir sul fuoco udii. Tesi le braccia.

"O Titano!" E la faccia

indicibile, sotto la gran chioma

ambrosia, verso me si volse china;

e i raggi le cingean mille corone.

"Elio d'Iperione,

t'offre quest'ali d'uomo Icaro, t'offre

quest'ali d'uomo ignote

che seppero salire fino a Te!"

Si disperse nel rombo delle ruote

la mia voce che non chiedea mercè

al dio ma lode etarna.

E roteando per la luce eterna

precipitai nel mio profondo Mare".

Icaro, Icaro, anch'io nel profondo

Mare precipitai, anch'io v'inabissi

la mia virtù, ma in eterno in eterno

il nome mio resti al Mare profondo!

(Composta a Nettuno del Lazio il 13 ottobre 1903)

 

TRISTEZZA

Tristezza, tu discendi oggi dal Sole.

La tua specie mutevole è la nube

del cielo, e son le spume

del mare gli orli del tuo lino lungo.

Sembri Ermione, sola come lei

che pel silenzio vienti incontro sola

traendo in guisa d'ala il bianco lembo.

Sì le somigli, ch'io m'ingannerei

se non vedessi ciocca di viola

su la sua gota umida ancor del nembo.

Ha tante rose in grembo

che la spina dell'ultima le punge

il mento e glie l'ingemma d'un granato.

Come fauno barbato

accosto accosto mòrdica le rose

il capricorno sordido e bisulco.

(Data di composizione sconosciuta)

 

LE ORE MARINE

Quale delle Ore

che mi conducesti

viventi e furon larve

cinerine

quando il sole disparve

nella triste sera,

o Ermione,

quale delle Ore marine

ch'ebbero il tuo volto

e le tue mani e le tue vesti

e la tua movenza leggiera

e ciascuno dè tuoi gesti

e ogni grazia che tu avesti,

o Ermione,

quale delle vergini Ore

che mansuefecero col solo

silenzio il mar selvaggio

quasi che accolto

se l'avessero in grembo

come un fanciullo torvo

per blandire il suo duolo

sorridendo,

o Ermione,

quale delle Ore divine,

con gli occulti beni

che tu le désti,

t'accompagna nel viaggio

di là dai fiumi sereni,

di là dalle verdi colline,

di là dai monti cilestri?

Quella che raccoglie

su la sterile sabbia

le negre foglie

della querce sacra,

o Ermione,

creature dei monti

macere dal sale amaro,

cui rapì dalla balza

il vento e diede al flutto amaro

che le travaglia

e le rifiuta?

Quella che guarda il faro

lontano su la rupe nuda

ove il flutto si frange,

o Ermione,

l'insonne occhio ardente

che già volge i suoi fochi

per il deserto specchio

infaticabilmente?

Quella che inclina

pensosa l'orecchio

su la conca marina

e ascolta la romba

della voluta

e odevi la tromba

del Tritone che chiama

la Sirena perduta,

o Ermione,

e odevi il mar che piange

la sua Sirena perduta?

Quale delle Ore,

quale delle Ore marine,

con gli occulti beni

che tu le désti,

col segreto linguaggio

che le apprendesti,

o Ermione,

t'accompagna nel viaggio

di là dai fiumi sereni,

di là dalle verdi colline,

di la dai monti cilestri,

o Ermione,

di là dalle chiare cascine,

di là dai boschi di querci,

di là dà bei monti cilestri?

(Composta il 15 agosto 1900)

 

LITOREA DEA

Estate, bella quando primamente

nella tua bocca il mite oro portavi

come l'Arno i silenzii soavi

porta seco alla foce sua silente!

Ma più bella oggi mentre sei morente

e abbandonata ne' tuoi cieli blavi,

che col cúbito languido t'aggravi

su la nuvola incesa all'occidente.

T'arda Ermione sul tuo letto roggio

gli àcini d'ambra dove si sublima

il pianto delle tue pinete australi.

Io della tua bellezza ultima foggio

una divinità che su la cima

del cuore mi danza: Undulna dai piè d'ali.

(Data di composizione sconosciuta)

 

UNDULNA

Ai piedi ho quattro ali d'alcèdine,

ne ho due per mallèolo, azzurre

e verdi, che per la salsèdine

curvi sanno errori dedurre.

Pellúcide son le mie gambe

come la medusa errabonda,

che il puro pancrazio e la crambe

difforme sorvolano e l'onda.

Io l'onda in misura conduco

perché su la riva si spanda

con l'alga con l'ulva e col fuco

che fànnole amara ghirlanda.

Io règolo il segno lucente

che lascian le spume degli orli:

l'antico il men novo e il recente

io so con bell'arte comporli.

I musici umani hanno modi

lor varii, dal dorico al frigio:

divine infinite melodi

io creo nell'esiguo vestigio.

Le tempre dell'onda trascrivo

su l'umida sabbia correndo;

nel tràmite mio fuggitivo

gli accordi e le pause avvincendo.

O sabbia mia melodiosa,

non un tuo granello di sílice

darei per la pómice ascosa

della fonte all'ombra dell'ílice.

Brilli innumerevole e immensa

alla mia lunata scrittura;

e l'acqua che bevi t'addensa,

lo sterile sale t'indura.

Il rilievo t'è tanto sottile,

dedotto con arte sì parca,

che men gracile in puerile

fronte sopracciglio s'inarca.

A quando a quando orma trisulca

il lineamento intercide;

pesta umana, se ti conculca,

s'impregna di luce e sorride.

Figure di nèumi elle sono

in questa concordia discorde.

O cètera curva ch'io suono,

nè dito nè plettro ti morde.

Io trascorro; e il grande concento

in me taciturna s'adempie,

dall'unghie dè miei piè d'argento

alle vene delle mie tempie.

Scerno con orecchia tranquilla

i toni dell'onda che viene,

indago con chiara pupilla

più oltre ogni segno più lene;

così che la musica traccia

m'è suono, e ne' righi leggeri,

mentre oggi odo ansar la bonaccia,

leggo la tempesta di ieri.

Che è questo insolito albore

che per le piagge si spande?

Teti offre alla madre di Core

dogliosa le salse ghirlande?

L'albàsia dè giorni alcionii

anzi il verno giunge precoce

e dagli arcipelaghi ionii

attinge del Serchio la foce?

Il molle Settembre, il tibícine

dei pomarii, che ha violetti

gli occhi come il fiore del glícine

tra i riccioli suoi giovinetti,

fa tanta chiaría con due ossi

di gru modulando un partènio

mentre sotto l'ombra dei rossi

corbézzoli indulge al suo genio.

Respira securo il mar dolce

qual pargolo in grembo materno.

La pace alcionia lo molce

quasi aureo latte, anzi il verno.

Onda non si leva; non s'ode

risucchio, non s'ode sciacquío.

Di luce beata si gode

la riva su mare d'oblío.

La sabbia scintilla infinita,

quasi in ogni granello gioisca.

Lúccica la valva polita,

la morta medusa, la lisca.

In ogni sostanza si tace

la luce e il silenzio risplende.

La Pania di marmi ferace

alza in gloria le arci stupende.

Tra il Serchio e la Magra, su l'ozio

del mare deserto di vele,

sospeso è l'incanto. Equinozio

d'autunno, già sento il tuo miele.

Già sento l'odore del mosto

fumar dalla vigna arenosa.

All'alba la luna d'agosto

era come una falce corrosa.

Di Vergine valica in Libra

l'amico dell'opere, il Sole;

e già le quadrella ch'ei vibra

han meno pennute asticciuole.

Silenzio di morte divina

per le chiarità solitarie!

Trapassa l'Estate, supina

nel grande oro della cesarie.

Mi soffermo, intenta al trapasso.

Onda non si leva. L'albèdine

è immota. Odo fremere in basso,

à miei piedi, l'ali d'alcèdine.

Bianche si dilungan le rive,

tra l'acque e le sabbie dilegua

la zona che l'arte mia scrive

fugace. Sorrido alla tregua.

A' miei piedi il segno d'un'onda

gravato di nero tritume

s'incurva, una màcera fronda

di rovere sta tra due piume,

un'arida pigna dischiusa

che pesò nel pino sonoro

sta tra l'orbe d'una medusa

dispersa e una bacca d'alloro.

Vengono farfalle di neve

tremolando a coppie ed a sciami:

nella luce assemprano lieve

spuma fatta alata che ami.

Azzurre son l'ombre sul mare

come sparti fiori d'acònito.

Il lor tremolío fa tremare

l'Infinito al mio sguardo attonito.

(Composta alla Capponcina di Settignao il 4 novembre 1903)

 

IL TESSALO

Tra i fusti ove le radiche fan groppo

e già si gonfia venenato il fungo,

odo incognito piede solidungo

come bronzo sonar contra l'intoppo.

Caval brado non è; però che troppo

forte suoni lo scàlpito ed a lungo

per la selva selvaggia ove no l'giungo

duri l'irrefrenabile galoppo.

Certo è l'ugna del Tessalo bimembre

contra i rigidi coni e l'aspre stirpi

sonante, l'ugna del Centauro illeso.

Ei vuole, mentre il giovine Settembre

circa il fragile vetro intesse scirpi

bevere il nero vino all'otre obeso.

(Data di composizione sconosciuta)

 

L'OTRE

I.

Pelle del becco sordido e bisulco

fui, prima che mi traesser le coltella.

Deh come olente alla stagion novella

egli era e tra le capre sue petulco,

o uom che m'odi, e ben barbato e torvo

e di téttole dure ornato il gozzo

e d'aspre corna il fronte invitto al cozzo,

negli occhi súlfure atro come corvo!

Sagliente egli era, e mogli in abbondanza

ebbe, e feroce fu nelle sue pugne;

ma al suon d'un sufoletto, erto su l'ugne

fésse, imitava il satiro che danza.

Occiso penzolò sanguinolente

dall'uncino; e squarciato fumigava,

nudi ostentando in sua ventraia cava

l'argnon focoso e il fegato possente.

Tratta gli fui di dosso umida e floscia.

Pelo e carniccio poi tolsemi il ferro.

Ghianda di gallonèa, scorza di cerro

fecermi bona concia nella troscia.

Rasciutta nelle cieche stíe, premuta

dai macigni, distesa dall'orbello,

per sorte un dì cucita fui del bello

con fil d'accia da femmina saputa.

Otre divenni e principe degli otri

obeso appresso i pozzi e le cisterne.

Acqua di cieli, acqua di fonti eterne

contenni, acqua di rivoli e di botri,

dolci acque e fresche ma di odor caprigno

sapide tuttavia, sì che talvolta

le femmine entro me chiusero molta

menta e il seme dell'ànace fortigno.

O uomo, l'otre invidia le tue seti!

Pianure arsicce, livide petraie,

pigre maremme fabbricose, ghiaie

e sabbie in foco per deserti greti,

Stridor di carri, ànsito di giumenti

io conobbi, e il guatar del sitibondo.

Io valsi più che l'universo mondo

al desiderio delle fauci ardenti!

O uomo, da benigni iddii tu hai

le tue seti. Il garòfolo e il papavero

non così vividi ardere mi parvero

come la bocca tua che dissetai.

Non il capro, onde tratta fui sua spoglia,

mai si precipitò come chi volle

bere da me. Tutto lo feci molle.

Oh gaudio della gola che gorgoglia!

Mani cupide premono i miei fianchi

turgidi (sembra che gli arsi occhi bevano

prima che i labbri) mani mi sollevano

su arsi volti, di polvere bianchi.

Va da me per le vene al cor profondo

la mia liquida gioia, al più remoto

viscere. Oh bene immenso! Eccomi vòto.

In dieci gole ho dissetato il mondo.

II.

E vòto fratel fui della bisaccia

grinzuta ch'ebbe la cipolla e il tozzo

in coniugio. E non più rempiuto al pozzo

fui, non udii crosciar la secchia diaccia,

ma dalla mamma copiosa udii

crosciare emunto il latte nel presepio

occluso. Per indúlgere al mio tedio

nova sorte mi fecero gli iddii.

Gonfio di latte, anch'io ubero parvi

più capace e men roseo. Notturno

pendevo nel presepio taciturno,

come gli uberi sotto i materni alvi.

Ma non mai tanto l'otre ebbesi amica

la pace come allor che, in su lo scorcio

dell'autunno, s'apparentò con l'orcio

per favore di Pallade pudica.

Pacifera è l'oliva e tarda e pingue.

da poi che gemuto ha sotto la mola,

si raddolcisce e più non fa parola;

mentre la garrula acqua ha mille lingue.

Or pieno fui di castità palladia

e di silenzio. Tacito ascoltava

pulsar la tempia fievole dell'ava

e il pane lievitare nella madia.

D'improvviso, una notte, mentre vòto

giacea sul palco fra i minori otrelli,

venne un bifolco tutto irto di velli

e seco trassemi a un officio ignoto.

Duro il suo pugno parvemi qual sasso

e l'ugna adunca qual branca di belva.

Tramontavano l'Orse. Ad una selva

orrida, in riva al fiume, arrestò il passo.

Quivi nel sangue prono era disteso

il suo nimico. Gli troncò la testa

con una falce; e quella mozza testa

prese à capegli, e me carcò del peso.

Subitamente mi rempiei del nero

sangue. E disse il falcato al teschio: "Avevi

tu sete? Orbè, se t'arde sete, bevi,

nell'otro che t'ho acconcio, il vin tuo mero".

E il teschio e il sangue dentro ei mi serrò.

Gonfio ero fatto, ed ei mi sollevò.

Su la riva del fiume ei mi portò.

In mezzo alla corrente ei mi scagliò.

Fervido era anco il buon licor doglioso.

O uom che m'odi, acqua di fonte, bianco

latte, olio lene, quanto ebbi nel fianco,

non vale il sangue tuo meraviglioso!

Entro di me fu breve e immensa guerra,

ismisurata e rapida tempesta.

Non parvemi serrar la tronca testa

ma contener l'orbe della Terra.

Poi nel gel fluviale in grumo e in sanie

si converse quel peso; e la corrente

mi voltò per le ripe, oscuramente

trassemi verso le contrade estranie.

III.

Era l'aurora quando in mezzo ai salici

mi rinvenne l'Egípane biforme.

Uom che m'odi, il tuo spirito che dorme

più non vede gli antichi numi italici!

Vivon eglino pieni di possanza:

hanno il fiato dei boschi entro le nari;

i gioghi venerandi han per altari,

e di sé fanvi testimonianza.

Più non li vedi, o uomo. Nel tuo petto

il cor si sface come frutto putre.

E la Terra materna invan ti nutre

dè suoi beni. Tu plori al suo cospetto!

Mi rinvenne l'Egípane divino.

Possentemente rise in suo pél falbo;

poi tolsemi per trarmi di fra gli àlbori

umidi: mi credea gonfio di vino.

Dava schiocchi la lingua sua salace

mentr'ei m'apria. Ma pél non gli tremò

quando scoperse il teschio e il grumo; "Tò"

disse "nell'otro il capo del gran Trace!"

E sopra l'erba mi sgravò del reo

peso, mi scosse. Poi raccolse il teschio,

lo rotò, lo scagliò forte nel Serchio

gridando: "Tu non sei capo d'Orfeo!"

Tal era il riso dè suoi denti scabri

quale un rio lapidoso. Allor nell'acque

chiare mi terse; m'asciugò. Gli piacque

anco d'enfiarmi cò suoi curvi labri.

Pieno fui del divino afflato, pieno

fui del selvaggio spirito terrestro!

Venne allora il Panisco, che mal destro

era nel nuoto, al bel fiume sereno.

E il nume padre a lui mi diede; ed io

tenerlo a galla seppi, io lo sorressi

nel nuoto quando i piccoli piè féssi

troppo agitava celere disio.

Molto l'amai. Dall'ombelico in giuso

di pél biondiccio qual cavriuoletto

era ma liscio il rimanente, eretto

il codínzolo, un po' lusco e camuso.

Tenérmigli solea sotto l'ascella

ove appena fioría qualche peluzzo

rossigno; e avea del suo cornetto aguzzo

tema non mi bucasse per rovella,

sì rapido era il pueril corruccio

s'ei districava il piè dall'erba acquatica

o alzar vedeva l'anatra selvatica

o sentiva guizzar da presso il luccio.

Viride Serchio in tra due selve basse!

Mattini estivi, quando il bel Panisco

biondetto sen venía, cinto d'ibisco

roseo, con suoi lacci e con sue nasse!

Troppo, ahimè, destro erasi fatto al nuoto.

Omai fendeva le più rapide acque;

sì che più giorni e più l'otre si giacque

solo nel limo, e alfin rimase vòto.

IV.

Ma gli alti iddii anco mi fur benigni.

Un bel pastore dalla barba d'oro

mi raccolse. Ed all'ombra d'un alloro

mi lavorò con suoi sottili ordigni.

Quattro di bosso ei fecemi cannelle

ineguali, e assai bene le polì.

La più corta alla spalla m'inserì

e strinse con cerate funicelle.

In bocca tre l'artiere me ne messe,

l'una più lunga, l'altre due minori;

nella più lunga numerosi fóri

praticò, che diverse voci desse.

Le due brevi, di largo cerchio e stretto,

aperte in giuso a mò di padiglione,

servir di grande e piccolo bordone

dovean come le frondi all'augelletto.

Oh meraviglia, quando per la corta

canna eglio enfiò la nova cornamusa!

Tutta di pia felicità soffusa

giovine donna venne in su la porta,

nuda le belle braccia, e disse: "O caro

marito, o barbadoro, ecco che nasce

ricchezza ingente nelle nostre case;

ed i granai si rempiono di grano,

gli alveari si rempiono di miele,

d'aurei pomi si rempiono i frutteti,

di rose citerèe tutti i verzieri,

e di cervi e di damme le mie selve;

e avrò tra i muri miei variodipinti

un talamo con quattro alte colonne

e vestimenta avrò d'ogni colore

e per cignermi d'ogni sorta cinti;

e avrò e avrò nelle mie veglie ancora

per filar la mia lana mille ancelle

mariterò le mie dolci sorelle

ai satrapi dell'Asia spaziosa!"

Questo fecero grande incantamento

l'otre e il pastore con un poco d'aria,

o uom che m'odi, con un poco d'aria

e col nume di Cintio arco-d'-argento;

però che il faretrato Citaredo,

il qual pur trasse Marsia di vagina,

sia largo della sua virtù divina

all'inculto pastore e al dotto aedo,

al calamo forato e alla testudine

tricorde se lui prieghi un puro cuore.

Noi come greggi i vesperi e l'aurore

pascemmo nella verde solitudine.

Il pino irsuto diede il molle fico,

i narcissi fioriron su i ginepri,

danzò il veltro armillato con le lepri,

e l'antico fu novo e il novo antico.

Oh maraviglia! Come l'elitropio

al Sol, volgeasi al suono la soave

donna dalla sua porta. E l'architrave

parea sculto da Dedalo il Cecropio

e lo stipite rozzo una colonna

del Palagio di Pelope l'Eburno,

quando il pastor dicea: "Come l'alburno,

intorno al cuore mi biancheggi, o donna!"

Divenuta più candida nel suono

ell'era, come il lin nell'acqua infuso.

Sorridea sempre. E la conocchia e il fuso,

la spola e i licci erano in abbandono.

Pè capegli repente l'abbrancò,

pè suoi capegli come l'uva nera,

come il folto giacinto a primavera,

come dell'edera il corimbo forte,

pè capegli repente l'abbrancò

la Morte, l'abbattè, pel calle oscuro

la trascinò: di là dal fiume curvo,

nel regno buio la portò la Morte.

E nessuno e nessuno più la scorse.

Cupo silenzio fu dentro le case.

L'ombra lunga occupò la soglia, invase

il talamo. E l'aurora più non sorse.

Ma pianto non sonò dentro le case:

erano il cuore e gli occhi opache selci.

E fuggì la lucertola dall'embrice,

anche fuggì la rondine, anche l'ape.

Io pendea tristo, presso il focolare.

Ed infine il pastore si sovvenne

dell'otre. Mi guatò gran tratto. Venne,

mi tolse, muto, senza lacrimare.

Io mi credeva ancora esser premuto

contra il fianco dal cubito leggero

e disciogliere in me, rivolto al nero

Ade, l'ingombro del dolore muto.

"Sposa, ch'io venga su le tue vestigia!"

E da me svelse i calami con cruda

mano, li infranse. L'anima sua nuda

e noi profferse alla gran Notte stigia.

V.

O uom che m'odi, fu labiorosa

la mia sorte. Non fecero grandi ozii

a me gli iddii. Solstizii ed equinozii

passano; passa il colchico, e la rosa.

Tutto ritorna; e la saggezza è vana.

La saggezza non val legno ficulno

nè zàccaro caprino. Io voglio, alunno

di Libero, finir di fine insana.

Se bene obeso, molto vidi e udii

però che amico fui dè viatori

insonni, esperto di molti sapori,

a servigio di efimeri e d'iddii.

Molto contenni, puro o adulterato.

Il falso e il vero son le foglie alterne

d'un ramoscello: il savio non discerne

l'una dall'altra, l'un dall'altro lato.

E la virtù si tigne come lana,

e la felicità come Vertunno

tramuta la sua specie. Io voglio, alunno

di Libero, finir di fine insana.

So nelle loro generazioni

diverse l'acqua, il latte, l'olio tacito;

so il sangue umano e so l'afflato pànico

e so le metamorfosi dei suoni.

Ma il licor rubicondo che ti rende

simile ai numi, o uom che m'odi, ignoro:

quello onde gonfio mi credette il buono

Egípane, e il gran riso ancor mi splende!

Tu m'hai raccolto, o uomo nello speco

ove per ruzzo trassemi il lupatto.

Che valgo? Vedi tu come son fatto!

Piacciati dunque d'insanire meco.

Desio d'altre fortune non mi tocca.

Più lungamente vivere non posso.

Ricucimi la spalla ov'ebbi il bosso

animato e ristringimi la bocca.

Tu vedi: sono vecchio e non ti giovo.

Ma è larga alla tua sete e alla tua fame

la Terra, e tu le devi il tuo libame.

nell'otre vecchio or poni il vino nuovo!

Vendemmierai con cantici di gioia.

Farai del mosto mite il vin possente.

Della giovine forza, alla nascente

luna, tu m'empirai queste mie cuoia,

che me le schianti almen la giovinezza

terribile! E coronami di fiori

selvaggi, ed al più folto degli allori

tuoi sospendimi. Oh ultima bellezza!

Discisso tonerò nel gran meriggio.

Lungi s'udrà nell'alta luce il tuono.

E tu dirai, la pura fronte prono:

"Bevi l'offerta, o Terra. Io son tuo figlio".

(Data di composizione sconosciuta)

 

GLI INDIZII

Ahimè, la vigna è piena di languore

come una bella donna sul suo letto

di porpora, che attenda l'amadore.

Ahimè, di bacche il frútice s'affoca,

la viorna s'incénera, più lieve

che la prima lanugine dell'oca.

Ahimè, già qualche canna ha la pannocchia,

nella belletta il cípero si schiude,

fa sue querele antiche la ranocchia.

Ahimè, fiore travidi gridellino

che di gruogo salvatico mi parve,

e tinto di gialliccio il migliarino.

In uno m'abbattei lungo il canale

ove tra lente imagini di nubi

s'infràcida la dolce carne erbale.

Villoso ergli era. Intento io lo guatai;

e la morte di quella che mi piacque

seppi negli occhi suoi distrambi e vai.

(Data di composizione sconosciuta)

 

SOGNI DI TERRE LONTANE

I PASTORI

Settembre, andiamo. E' tempo di migrare.

Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori

lascian gli stazzi e vanno verso il mare:

scendono all'Adriatico selvaggio

che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti

alpestri, che sapor d'acqua natía

rimanga ne' cuori esuli a conforto,

che lungo illuda la lor sete in via.

Rinnovato hanno verga d'avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,

quasi per un erbal fiume silente,

su le vestigia degli antichi padri.

O voce di colui che primamente

conosce il tremolar della marina!

Ora lungh'esso il litoral cammina

la greggia. Senza mutamento è l'aria.

il sole imbionda sì la viva lana

che quasi dalla sabbia non divaria.

Isciacquío, calpestío, dolci romori.

Ah perché non son io cò miei pastori?

LE TERME

Settembre, oggi veder vorrei l'azzurro

del tuo cielo riempiere la bocca

rotonda della maschera di pietra

in cima alla colonna che si sfalda

nei secoli, convolta dal rosaio

che si sfoglia nell'ora, entro quel chiostro

quadrato che di biondo travertino

chiarisce il cotto delle antiche Terme.

Forse d'Orfeo ragionerei con Erme

sul margine del fonte ove i delfini

reggon la tazza in su le code erette;

o forse udrei l'ammonimento grave

dei due neri superstiti cipressi

ai due lor verdi cipressetti alunni

che crescono ove caddero i maggiori

percossi dalla folgore di luglio.

O forse mi parrebbe, oltre il cespuglio

soave, udire l'ànsito del servo

alla stanga appaiato col giumento

circa la mola cònica di lava;

e più dè nudi torsi, e più dè busti

e più dè cippi mi sarebbe cara

l'ombra delle farfalle su pè dolii

risarciti con piombo dal colono.

Settembre, là, sul fianco del bel Trono

d'Afrodite, l'aulètride dagli occhi

a mandorla e dal seno di cotogna

sta, sovrapposta l'una all'altra coscia,

adagiata sonando le due tibie

con i frammenti dell'esperte dita;

e il Re Pastore immoto nel basalte

figge all'Eternità gli occhi corrosi.

Ronzano l'api ne' silenziosi

orti dei bianchi monaci defunti;

e nelle celle àbitano gli iddii,

làcerano le Menadi la vittima,

Anassimandro medita, dal muro

svégliasi il carme dei fratelli Arvali.

"Enos Lases iuvate". Un'ape or entra,

per la chioma di Iulia che l'illude.

Nell'àlveo d'un ricciolo si chiude.

LO STORMO E IL GREGGE

Settembre, teco io sia sul Loricino

che fece blandi gli ozii del pretore:

in sabbia quasi rosea fluisce

scabra di rughe e sparsa di negrore

come il palato del mio dolce veltro.

Sorvolano le rondini quel vetro

lieve cui godon rompere coi bianchi

petti: una piuma cade e corre al mare.

E di là dalle verdi canne i monti

di Cori son cilestri come il mare.

Forza del Lazio quanto sei soave!

Obliate città dei re vetusti,

atrii del Citaredo imperiale,

un bel fanciullo vien con le sue capre

e regna i lidi, impube re latino!

Il suo gregge è di numero divino,

nero e bianco a sembianza delle frotte

alate che sorvolano il bel rivo,

pari olocausto al Giorno ed alla Notte.

Quasi fiore l'esigua foce s'apre.

Equa ride alle rondini e alle capre.

LACUS IUTURNAE

Settembre, chiare fresche e dolci l'acque

ove il tuo delicato viso miri;

e dolce m'è nella memoria il mio

natale Aterno in letto d'erbe lente,

e l'Amaseno quando muor domato

presso l'Appia col fratel suo l'Uffente,

e la Cyane ascosa tra i papíri,

e la Vella sì cara alla vitalba.

E pien di deità dai colli d'Alba

lo specchio di Diana ancor mi luce.

Ma un'altr'acqua al mio sogno è più divina.

Quella m'attingi e ne riempi l'urna.

Sotto la roggia mole palatina

presso il Tempio di Castore e Polluce,

occhio di Roma è il Fonte di Iuturna.

Deh mio misterioso amor lontano!

Alte sul Fòro nel meridiano

silenzio stan le tre colonne parie

come d'argento cui salsezza infoschi.

Gli elci neri sul colle imperiale

sembran ruine dei primevi boschi.

Di ferrigno basalte arde la Via

Sacra tra gli oleandri giovinetti

e i sepolcreti dei Latini prisci.

Si tace il Fonte ne' suoi marmi lisci

come quando Tarpeia la Vestale

vi discendea con l'anfora d'argilla.

Tremola il capelvenere sul tufo

e sul mattone, l'acqua è glauca, tinge

il suo letto lunense; una lucerta

su l'ara dei Diòscuri tranquilla

gode in grembo alla dea di lunga face.

Ombre delle farfalle in quella pace!

Poc'acqua accolta, santità dell'Urbe!

Le custodi del Fuoco sempiterno

scendono alla marmorea piscina?

o i Tindàridi rossi di latina

strage, per beverare i due cavalli?

Deh lauri nuovi! Presso il puteale

crescono, nel sacrario di Iuturna.

Li veglia la Speranza taciturna.

LA LOGGIA

Settembre, il tuo minor fratello Aprile

fioriva le vestigia di San Marco

a Capodistria, quando navigammo

il patrio mare cui Trieste addenta

cò i forti moli per tenace amore.

Capodistria, succiso adriaco fiore!

Io vidi nella loggia d'un palagio

nidi di balestrucci appesi a travi

fosche, tra mazzi penduli di sorbe.

Cinericcio era il tempo, umido e dolco.

Or laggiù, pel remaggio senza solco,

tu certo aduni i neribianchi stormi,

e quelli di Pirano e di Parenzo,

che si rincontreranno in alto mare

con l'altra compagnia che vien di Chioggia.

E son deserti i nidi nella loggia,

e dei mazzi di sorbe son rimase

forse le canne appese pel lor cappio.

S'ode nell'ombra quella parlatura

che ricorda Rialto e Cannaregio.

Una colomba tuba dal bel fregio.

LA MUTA

Settembre, ora nel pian di Lombardia

è già pronta la muta dei segugi,

dè bei segugi falbi e maculati

dall'orecchie biondette e molli come

foglie del fiore di magnolia passe.

La muta dei segugi a volpe e a damma

or già tracciando va per scope e sterpi.

Erta ogni coda in bianca punta splende.

Presso il gran ponte sta Sesto Calende.

Corre il Ticino tra selvette rare,

verso diga di roseo granito

corre, spumeggia su la china eguale,

come labile tela su telaio

cèlere intesta di nevosi fiori.

Chiudon le grandi conche antichi ingegni,

opere del divino Leonardo.

Il sorriso tu sei del pian lombardo,

o Ticino, il sorriso onde fu pieno

l'artefice che t'ebbe in signoria;

e il diè constretto alle sue chiuse donne.

Oh radure tra l'oro che rosseggia

dello sterpame, tiepide e soavi

come grembi di donne desiate,

si 'che al calcar repugna il cavaliere!

Vanno i cani tra l'èriche leggiere

con alzate le code e i musi bassi,

davanti il capocaccia che gli allena

per mezz'ottobre ai lunghi inseguimenti.

S'ode chiaro squittire in què silenzii.

Il suon del corno chiama chi si sbanda

e chi s'attarda e trae la lingua ed ansa.

Già la virtù si mostra del più prode.

Il buon maestro dell'arte sua si gode:

talor gli ultimi aneliti esalare

sembra l'Estate aulenti sotto l'ugne

del palafren che nel galoppo falca.

E, fornito il lavoro, ei torna al passo

per la carraia ingombra di fascine:

con la sua muta va verso il canile,

va verso Oleggio ricca di filande.

Vapora il fiume le sterpose lande.

LE CARRUBE

Settembre, son mature le carrube.

Or tu pel caldo mare di Cilicia

conduci dalla riva cipriota

la sàica a scafo tondo e a vele quadre.

Bonaccia, e nel saffiro non è nube.

Germa con sue maggiori quattro vele,

garbo o schirazzo, legni levantini

carichi di baccelli dolci e bruni

conduci verso l'isola dei Sardi.

E vien teco un odor di tetro miele.

La siliqua, che ingrassa la muletta

dall'ambio lene e in carestía disfama

la plebe dalla bianca dentatura,

lustra come i capelli tuoi castagni

mentre stai su la coffa alla vedetta.

Certo, d'olio di sésamo son unte

quelle tue ciocche in forma di corimbi.

Certo, ritrovi or tu nel gran dolciore

del Mar Cilicio l'obliato carme

che alla Cipride piacque in Amatunte.

Settembre, teco esser voremmo ovunque!

 

IL NOVILUNIO

Novilunio di settembre!

Nell'aria lontana

il viso della creatura

celeste che ha nome

Luna, trasparente come

la medusa marina,

come la brina nell'alba,

labile come

la neve su l'acqua,

la schiuma su la sabbia,

pallido come

il piacere

su l'origliere,

pallido s'inclina

e smuore e langue

con una collana

sotto il mento sì chiara

che l'oscura:

silenzioso viso esangue

della creatura

celeste che ha nome Luna,

cui sotto il mento s'incurva

una collana

sì chiara che l'offusca,

nell'aria lontana

ov'ebbe nome Diana

tra le ninfe eterne,

ov'ebbe nome Selene

dalle bianche braccia

quando amava quel pastore

giovinetto Endimione

che tra le bianche braccia

dormiva sempre.

Novilunio di settembre!

Sotto l'ambiguo lume,

tra il giorno senza fiamme

e la notte senza ombre,

il mare, più soave

del cielo nel suo volume

lento, più molle

della nube

lattea che la montagna

esprime dalle sue mamme

delicate,

il mare accompagna

la melodia

della terra, la melodia

che i flauti dei grilli

fan nei campi tranquilli

roca assiduamente,

la melodia

che le rane

fan nelle pantane

morte, nel fiume che stagna

tra i salci e le canne

lutulente,

la melodia

che fan tra i vinchi

che fan tra i giunchi

delle ripe rimote

uomini solinghi

tessendo le vermene

in canestre,

con sì lunghi

indugi su quelle parole

che ritornano sempre.

Novilunio di settembre!

Tal chiaritate

il giorno e la notte commisti

sul letto del mare

non lieti non tristi

effondono ancora,

che tu vedi ancora

nella sabbia le onde

del vento, le orme

dei fanciulli, le conche

vacue, le alghe

argentine,

gli ossi delle seppie,

le guaine

delle carrube,

e vedi nella siepe

rosseggiar le nude

bacche delle rose canine

e nel campo la pannocchia

dalla barba d'oro

lucere, che al plenilunio

su l'aia il coro

agreste monderà con canti,

e nella vigna

il grappolo d'oro

che già fu sonoro d'api,

e nel verziere il fico

che dall'ombelico stilla

il suo miele,

e su la soglia del tugurio

biancheggiar la conocchia

dell'antica madre che fila,

che fila sempre.

Novilunio di settembre,

dolce come il viso

della creatura

terrestre che ha nome

Ermione, tiepido come

le sue chiome,

umido come il sorriso

della sua bocca

umida ancora

della prima uva matura,

breve come la sua cintura

nel cielo verde

come la sua veste!

Ha tremato

nella sua veste

verde che odora

ad ogni passo

come un cespo ad ogni fiato,

ha tremato

al primo gelo notturno

ella che a mezzo il giorno

dormì con la guancia

sul braccio curvo

e si svegliò con le tempie

madide, con imperlato

il labbro, nella calura,

vermiglia come un'aurora

aspersa di calda rugiada

e sorridente.

E io le dico: "O Ermione,

tu hai tremato.

Anche agosto, anche agosto

andato è per sempre!

Guarda il cielo di settembre.

Nell'aria lontana

il viso della creatura

celeste che ha nome

Luna, con una collana

sotto il mento sì chiara

che l'oscura,

pallido s'inclina e muore..."

Ma dice Ermione,

non lieta non triste:

"T'inganni. Quella ch'è sì chiara

è la falce

dell'Estate, è la falce

che l'Estate abbandona

morendo, è la falce

che falciò le ariste

e il papapevo e il cíano

quando fioríano

per la mia corona

vincendo in lume il cielo e il sangue;

ed è la faccia dell'Estate

quella che langue

nell'aria lontana, che muore

nella sua chiaritate

sopra le acque

tra il giorno senza fiamme

e la notte senza ombre,

dopo che tanto l'amammo,

dopo che tanto ci piacque;

e la sua canzone

di foglie di ali di aure di ombre

di aromi di silenzii e di acque

si tace per sempre;

e la melodia di settembre,

che fanno i flauti campestri

ed accompagna il mare

col suo lento ploro,

non s'ode lassù nell'aria

lontana ov'ella spira

solitaria

il suo spirto odorato

di alga di rèsina e di alloro;

e l'uomo che s'attarda

in tessere vermene

già fece del grano mannelle

ed or fa canestri

per l'uva, con un canto eguale,

e tutto è obliato;

obliato anche agosto

sarà nell'odor del mosto,

nel murmure delle api d'oro;

per tutto sarà l'oblio,

per tutto sarà l'oblio;

e niuno più saprà

quanto sien dolci

l'ombre dei voli

su le sabbie saline,

l'orme degli uccelli

nell'argilla dei fiumi,

se non io, se non io,

se non quella che andrà

di là dai fiumi sereni,

di là dalle verdi colline,

di là dai monti cilestri,

se non quella che andrà

che andrà lungi per sempre,

e non con le tue rondini, o Settembre!"

(Composta al Secco Motrone la sera del 31 agosto 1900)

 

IL COMMIATO

L'Alpe di Mommio un pallido velame

d'ulivi effonde al cielo di giacinto,

come un colle dell'isola di Same

o di Zacinto.

Il Monte Magno di più cupo argento

fascia la sua piramide; il Matanna

è porpora e viola come il lento

fior della canna.

O canneti lungh'essi i fiumicelli

di Camaiore, appreso ho il vostro carme.

Vedess'io rosseggiare gli albatrelli

sul Monte Darme!

Dal Capo Corvo ricco di viburni

i pini vedess'io della Palmaria

che col lutto dè marmi suoi notturni

sta solitaria!

Potess'io sostenerti nella mano,

terra di Luni, come un vaso etrusco!

In te amo il divin marmo apuano,

l'umile rusco;

amo la tua materia prometèa,

la sabbia delle tue selve aromali,

l'aquila dei tuoi picchi, la ninfea

dè tuoi canali.

Potesse l'arte mia, da Val di Serchio

a Val di Magra e per le Pànie al Vara

e al Golfo, tutta stringerti in un cerchio

con l'alpe a gara!

Troppo è grave al mio cor la dipartenza.

Come dal corpo, l'anima si esilia

dal marmo che biancheggia tra l'Avenza

e la Versilia.

Tempo è di morte. In qualche acqua torpente

or perisce la dolce carne erbale.

Strider non s'ode falce ma si sente

odor letale.

Díruta la Ceràgiola rosseggia,

là dove Serravezza è cò due fiumi,

quasi che fero sangue in ogni scheggia

grondi e s'aggrumi.

Sta nella cruda nudità rupestre

il Gàbberi irto qual ferrato casco.

Ecco, e su i carri per le vie maestre

passa il falasco.

Metuto fu dalla più grande falce

nella palude all'ombra del Quiesa,

ove raggiato di vermène il salce

par chioma accesa

tra cannelle di stridulo oro secco,

tra pigro sparto di pallor bronzino.

Su l'acqua un lampo di smeraldo, e il becco

tuffa il piombino.

Deh foss'io sopra un burchio per la cuora

navigando, e di tifa e di sparganio

carico ei fosse, e fossèvi alla prora

fitto un bucranio

o un nibbio con aperte ali, e vi fosse

odore di garofalo nel mucchio

per qualche cunzia dalle barbe rosse

onde il suo succhio

sì caro all'arte dell'aromatario

stillasse fra l'erbame, e resupino

vi giacessi io mirando il solitario

ciel iacintino;

e scendessi così, tra l'acqua e il cielo

con l'alzaia la Fossa Burlamacca

albicando qual prato d'asfodèlo

la morta lacca;

e traesse il bardotto la sua fune

senza canto per l'argine; ed io, corco

sul mucchio, mi credessi andare immune

di morte all'Orco!

Ma cade il vespro, e tempo è d'esulare;

e di sogni obliosi in van mi pasco.

Si i gravi carri lungo le vie chiare

passa il falasco.

Sono sì vasti i cumuli spioventi

che il timone soperchiano dinnanzi

e il giogo cèlano e le corna e i lenti

corpi dei manzi,

onde sembran di lungi per sé mossi

e tra la polve aspetto hanno di strani

animali dai gran lanosi dossi,

dai ventri immani.

In fila vanno verso Pietrasanta,

strame ai presepi, ai campi aridi ingrasso.

L'un carrettiere vócia e l'altro canta

a passo a passo.

E tutta la Versilia, ecco, s'indora

d'una soavità che il cor dilania.

Mai fosti bella, ahimè, come in quest'ora

ultima, o Pania!

O Tirreno, Mare Infero, s'accende

sul tuo specchio l'insonne occhio del Faro;

ti veglia e guarda con le sue tremende

navi d'acciaro

la Città Forte dietro il Caprione

sacro agli Itali come ai Greci il Sunio;

t'è scheggia della spada d'Orione

il novilunio;

come sia fatta l'ombra, alla tua pace

verseranno lor lacrime le Atlàntidi,

ti condurrà l'ignavo Artofilace

l'Orse erimàntidi;

s'udrà pè curvi lidi il tuo respiro

solo nell'ombra senza mutamento;

solo rispecchierai l'immenso giro

del firmamento.

O Mare, o Alpe, ed io sarò lontano

con nel mio cuor la torbida mia cura!

Splende la cima del mio cuore umano

nell'ode pura.

Ode, innanzi ch'io parta per l'esilio,

risali il Serchio, ascendi la collina

ove l'ultimo figlio di Vergilio,

prole divina,

quei che intende i linguaggi degli alati,

strida di falchi, pianti di colombe,

ch'eguale offre il cor candido ai rinati

fiori e alle tombe,

quei che fiso guatare osò nel cèsio

occhio e nel nero l'aquila di Pella

e udì nova cantar sul vento etèsio

Saffo la bella,

il figlio di Vergilio ad un cipresso

tacito siede, e non t'aspetta. Vola!

Te non reca la femmina d'Eresso,

ma va pur sola;

ché ben t'accoglierà nella man larga

ei che forse era intento al suono alterno

dei licci o all'ape o all'alta ora di Barga

o al verso eterno.

Forse il libro del suo divin parente

sarà con lui, sù suoi ginocchi (ei coglie

ora il trifoglio aruspice virente

di quattro foglie

e ne fa segno del volume intonso,

dove Títiro canta? o dove Enea

pè meati del monte ode il responso

della Cumea?).

Forse la suora dalle chiome lisce,

se i ferri ella abbandoni ora ch'è tardi

e chiuda nel forziere il lin che aulisce

di spicanardi,

sarà con lui, trista perché concilio

vide folto di rondini su gronda.

E tu gli parla: "Figlio di Vergilio,

ecco la fronda.

Ospite immacolato, a te mi manda

il fratel tuo diletto che si parte.

Pel tuo nobile capo una ghirlanda

curvò con arte.

E chi coronerà oggi l'aedo

se non l'aedo re di solitudini?

Il crasso Scita ed il fucato Medo

la Gloria ha drudi;

e, se barbarie genera nel vento

nuovi mostri, non più contra l'orrore

discende Febo Apollo arco-d'-argento

castigatore.

Ma tu custode sei delle più pure

forme, Ospite. Col polso che non langue

il prisco vige nelle tue figure

gentile sangue.

Gli uomini il tuo pensier nutre ed irradia,

come l'ulivo placido produce

agli uomini la sua bacca palladia

ch'è cibo e luce.

Per ciò dal fratel tuo questa fraterna

ghirlanda ch'io ti reco messaggera

prendi: non pesa: ell'è di fronda eterna

ma sì leggera.

Fatta è d'un ramo tenue che crebbe

tra l'Alpe e il Mare, ov'ebbe il Cuor dè cuori

selvaggio rogo e il Buonarroti v'ebbe

i suoi furori.

L'artefice nel flettere lo stelo

vedea sul Sagro le ferite antiche

splendere e su l'Altissimo l'anelo

peplo di Nike.

Altro è il Monte invisibile ch'ei sale

e che tu sali per l'opposta balza.

Soli e discosti, entrambi una immortale

ansia v'incalza.

Or dove i cuori prodi hanno promesso

di rincontrarsi un dì, se non in cima?

Quel dì voi canterete un inno istesso

di su la cima".

Ode, così gli parla. Ed alla suora,

che vedrai di dolcezza lacrimare,

dà l'ultimo ch'io colsi in su l'aurora

giglio del mare.

(Data di composizione sconosciuta)

F I N E