Anna

di
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D'Annunzio Gabriele

La vergine Anna

 

I

Luca Minella, nato nel 1789 a Ortona in una delle case di Porta Caldara, fu marinaio. Nella prima giovinezza navigò per qualche tempo sul trabaccolo Santa Liberata, dalla rada di Ortona ai porti della Dalmazia, caricando legnami, frumento e frutta secche. Poi, per vaghezza di cambiar padrone, si mise al servizio di Don Rocco Panzavacante, e su una tanecca nuova fece molti viaggi in commercio d'agrumi al promontorio di Roto, che è una grande e dilettosa altura su la costa italica, tutta coperta da una selva di aranci e di limoni.

Su i ventisette anni egli si accese d'amore per Francesca Nobile; e dopo alcuni mesi strinse le nozze.

Luca, uomo di statura bassa e fortissimo, aveva una dolce barba bionda intorno al viso colorito; e, come le femmine, agli orecchi portava due cerchietti d'oro. Amava il vino ed il tabacco; professava una devozione ardente per il santo apostolo Tommaso; e, poiché era di natura superstizioso e inchinevole allo stupore, raccontava singolari avventure e meraviglie dei paesi d'oltremare e novellava delle genti dàlmate e delle isole adriatiche come di tribù e di terre prossime al polo.

Francesca, donna di gioventù già schiusa, aveva della razza ortonese la floridissima carne e i lineamenti molli. Ella amava la chiesa, le funzioni religiose, le pompe sacre, le musiche dei tridui; viveva in gran semplicità di costumi; e, poiché la sua intelligenza era fievole, credeva le più incredibili cose e lodava in ogni suo atto il Signore.

Dal congiungimento nacque Anna; e fu nel mese di giugno del 1817. Siccome il parto veniva difficile e si temeva di qualche sventura, il sacramento del battesimo fu amministrato sul ventre della madre, prima che uscisse alla luce l'infante. Dopo molto travaglio il parto si compì. La creatura bevve il latte dalle mammelle materne e crebbe in salute e in letizia. Francesca scendeva verso sera alla marina, con la poppante su le braccia, quando la tanecca doveva tornare carica da Roto; e Luca sbarcando aveva la camicia tutta odorosa dei frutti meridionali. Risalendo insieme verso le case alte, si fermavano allora un momento alla chiesa e s'inginocchiavano. Nelle cappelle già ardevano le lampade votive; e in fondo, a traverso i sette cancelli di bronzo, il busto dell'Apostolo luccicava come un tesoro. Le preghiere invocavano la benedizione celeste sul capo della figliuola. Nell'uscire, quando la madre bagnava la fronte di Anna con l'acqua della pila, gli strilli infantili echeggiavano a lungo per quelle navate sonanti come grandi conche di metallo puro.

L'infanzia di Anna passava pianamente, senza alcuno avvenimento notevole. Nel maggio del 1823 ella fu vestita da cherubino, con una corona di rose e un velo bianco; e, confusa in mezzo allo stuolo angelico, seguì la processione tenendo in mano un cero sottile. La madre nella chiesa volle sollevarla su le braccia per farle baciare il Santo protettore. Ma, come le altri madri sorreggenti gli altri cherubini spingevano in folla, uno dei ceri appiccò il fuoco al velo di Anna e d'improvviso la fiamma avvolse il corpo tenerello. Un moto di paura si propagò allora nella moltitudine, e ciascuno tentava d'essere primo ad uscire. Francesca, se bene aveva le mani quasi impedite dal terrore, riuscì a strappare la veste ardente; si strinse contro il petto la figliuola nuda e tramortita; gittandosi dietro ai fuggenti, invocava Gesù con alte grida.

Per le ustioni Anna stette inferma lungo tempo in pericolo. Ella giaceva nel letto, con l'esile faccia esangue, senza parlare, come fosse diventata muta; e aveva negli occhi aperti e fissi un'espressione di stupore immemore più che di dolore. Nell'autunno guarì; e andò ad appendere un vóto.

Quando la temperie era dolce, la famiglia scendeva nella barca pel pasto della sera. Sotto la tenda, Francesca accendeva il fuoco e sul fuoco metteva i pesci: l'odor cordiale degli alimenti si spandeva lungo il Molo mescendosi al profumo derivante dai verzieri della Villa Onofria. Il mare dinanzi era così tranquillo che si udiva a pena tra gli scogli il risucchio, e l'aria così limpida che la punta di San Vito si vedeva in lontananza emergere con tutto il cumulo delle case. Luca si metteva a cantare insieme con gli altri uomini; Anna faceva atto di aiutare la madre. Dopo il pasto, come la luna saliva il cielo, i marinai apprestavano la tanecca per salpare. Intanto Luca, nel calore del vino e del cibo, preso da quella sua naturale avidità di narrazioni mirabili, cominciava a parlare dei litorali lontani. - C'era, più in là di Roto, una montagna tutta abitata dalle scimmie e da uomini dell'India, altissima, con piante che producevano le pietre preziose... - La moglie e la figlia ascoltavano, in silenzio, attonite. Poi le vele si spiegavano lungo gli alberi lentamente, tutte segnate di figure nere e di simboli cattolici, come vecchi gonfaloni della patria. E Luca partiva.

Nel febbraio del 1826 Francesca si sgravò d'un bimbo morto. Nella primavera del 1830 Luca volle condurre Anna al promontorio. Anna era allora su l'adolescenza. Il viaggio fu felice. Nell'alto mare incontrarono una nave di mercanti, una gran nave che faceva cammino per forza di immense vele bianche. I delfini nuotavano nella scia; l'acqua si moveva dolcemente intorno, scintillando, come se sopra vi galleggiassero tappeti di penne di paone. Anna seguì a lungo con gli occhi mai sazii la nave in lontananza. Poi una specie di nuvola azzurra sorse su la linea dell'orizzonte; ed era la montagna fruttifera. Le coste della Puglia si designavano a poco a poco sotto il sole. Il profumo degli agrumi veniva spandendosi nell'aria gioviale. Quando Anna discese su la riva, fu presa da un senso di letizia; e stette curiosa a guardare le piantagioni e gli uomini nativi del luogo. Il Padre la condusse nella casa di una donna non giovane che parlava con una lieve balbuzie. Restarono là due giorni. Anna vide una volta il padre baciare la donna ospite su la bocca; ma non comprese. Al ritorno la tanecca era carica di aranci; e il mare era ancóra mite.

Anna conservò di quel viaggio un ricordo come di sogno; e, poiché per natura era taciturna, raccontò non molte cose alle coetanee che la incalzavano di interrogazioni.

 

II

Nel maggio seguente, alle feste dell'Apostolo intervenne l'Arcivescovo di Orsogna. La chiesa era tutta parata di drappi rossi e di fogliami d'oro; dinanzi ai cancelli di bronzo ardevano undici lampade d'argento lavorate dagli orefici per religione; e tutte le sere l'orchestra sonava un oratorio solenne con un bel coro di voci bianche. Il sabato si doveva esporre il busto dell'Apostolo. I devoti peregrinavano da tutti i paesi marittimi e interni; salivano la costa cantando e portando in mano i voti, nel conspetto del mare.

Anna il venerdì fece la prima comunione. L'Arcivescovo era un vecchio venerando e mite; quando sollevava la mano per benedire, la gemma dell'anello risplendeva simile ad un occhio divino. Anna, appena sentì su la lingua l'ostia eucaristica, smarrì la vista per un'improvvisa onda di gaudio che le irrigò i capelli con la dolcezza d'un bagno tiepido e odoroso. Dietro di lei un susurro correva nella moltitudine; allato, altre verginelle prendevano il sacramento e chinavano la faccia sul gradino, in gran compunzione.

La sera Francesca volle dormire, com'è costume dei fedeli, sul pavimento della basilica, aspettando l'ostensione mattutina del Santo. Ella era incinta da sette mesi, e molto l'affaticava il peso del ventre. Sul pavimento i pellegrini giacevano accumulati; dai loro corpi esalava il calore e montava nell'aria. Alcune voci confuse uscivano a tratti da qualche bocca inconscia nel sonno; le fiammelle tremolavano e si riflettevano su l'olio nei bicchieri sospesi tra gli archi; e nei vani delle larghe porte aperte scintillavano le stelle alla notte primaverile.

Francesca vegliò per due ore in travaglio, poiché l'esalazione dei dormienti le dava la nausea. Ma, determinata a resistere e a soffrire pel bene dell'anima, vinta dalla stanchezza, piegò alfine il capo. Su l'alba si destò. L'aspettazione cresceva negli animi degli astanti e altra gente sopraggiungeva: in ciascuno ardeva il desiderio d'essere primo a vedere l'Apostolo. Fu aperto il cancello esterno; e il romore dei cardini risonò nitidamente nel silenzio, si ripercosse in tutti i cuori. Fu aperto il secondo cancello, poi il terzo, poi il quarto, il quinto, il sesto, l'ultimo. Parve allora come una tromba d'uragano investisse la moltitudine. La massa degli uomini si precipitò verso il tabernacolo; grida acute squillarono nell'aria mossa da quell'impeto; dieci, quindici persone rimasero, schiacciate e soffocate; una preghiera tumultuaria si levò.

I morti furono tratti fuori all'aperto. Il corpo di Francesca, tutto contuso e livido, fu portato alla famiglia. Molti curiosi in torno si accalcarono; e i parenti gemevano compassionevolmente.

Anna, quando vide la madre distesa sul letto tutta violacea nella faccia e macchiata di sangue, cadde a terra senza conoscenza. Poi, per molti mesi, fu tormentata dal mal caduco.

 

III

Nell'estate del 1835 Luca partiva per un porto della Grecia sul trabaccolo Trinità di Don Giovanni Camaccione. Siccome egli aveva nell'animo un segreto pensiero, prima di navigare vendé le masserizie e pregò i parenti d'accogliere Anna nella casa fin che egli non tornasse. Di là a qualche tempo il trabaccolo tornò carico di fichi secchi e d'uva di Corinto, dopo aver toccata la spiaggia di Roto. Luca non era tra la ciurma; e si vociferò poi ch'egli fosse rimasto nel paese dei portogalli con una femmina amorosa.

Anna si ricordava dell'antica ospite balbuziente. Una gran tristezza allora discese nella sua vita. La casa dei parenti era sotto la strada Orientale in vicinanza del Molo. I marinai venivano a bere il vino in una stanza bassa, ove quasi tutto il giorno le canzoni sonavano tra il fumo delle pipe. Anna passava in mezzo ai bevitori portando i boccali colmi; e il primo istinto de' suoi pudori si risvegliava a quel contatto assiduo, a quell'assidua comunione di vita con uomini bestiali. Ad ogni momento ella doveva soffrire i motti inverecondi, le risa crudeli, i gesti ambigui, la malvagità delle ciurme inasprite dalle fatiche della navigazione. Ella non osava lamentarsi, poiché mangiava il pane nella casa degli altri. Ma quel supplizio di tutte le ore la rendeva ebete: una imbecillità grave le opprimeva a poco a poco l'intelligenza indebolita.

Per una naturale inclinazione affettiva dell'animo, ella poneva amore agli animali. Un asino di molta età era ricoverato sotto una tettoia di paglia e di argilla, dietro la casa. Il quadrupede mansueto portava cotidianamente some di vino da Sant'Apollinare alla tavernella; e, se bene i suoi denti cominciavano a ingiallire e le sue unghie a sfaldarsi, se bene il suo cuoio era già secco e non aveva quasi più pelo, talvolta al conspetto di una fiorita di cardi ridirizzava le orecchie e si metteva a ragliare vivacemente in un'attitudine giovenile.

Anna empiva di profenda la greppia e di acqua l'abbeveratoio. Quando il calore era grande, ella veniva sotto la tettoia a meriggiare. L'asino triturava i fili di paglia tra le mandibole laboriose, ed ella con un ramo fronzuto faceva opera di pietà liberandogli la schiena dalla molestia degli insetti. Di tanto in tanto l'asino volgeva la testa orecchiuta, per un increspamento delle labbra flosce mostrando le gengive quasi in un rossastro riso animalesco di gratitudine e mostrando per un moto obliquo dell'occhio nell'orbita il globo giallognolo e venato di paonazzo come una vescica di fiele. Gli insetti turbinavano con un ronzio pesante su 'l fimo; non dalla terra né dal mare venivano romori o voci; e un senso infinito di pace occupava allora l'animo della donna.

Nell'aprile del 1842 Pantaleo, l'uomo che guidava il somiere al viaggio cotidiano, morì di coltello. Da quel tempo ad Anna fu commesso l'ufficio. Ed ella partiva su l'alba e tornava sul mezzogiorno o partiva sul mezzogiorno e tornava su la sera. La strada volgeva per una collina solatìa piantata d'olivi, discendeva per una terra irrigua messa a pasture, e risalendo tra i vigneti giungeva alle fattorie di Sant'Apollinare. L'asino camminava innanzi, con le orecchie basse, a fatica: una frangia verde tutta logora e stinta gli batteva le coste e i lombi; nel basto luccicavano alcuni frammenti di làmine d'ottone.

Quando l'animale si soffermava per riprender fiato, Anna gli dava qualche piccolo urto carezzevole sul collo e l'eccitava con la voce; poiché ella aveva misericordia di quella decrepitezza. Ogni tanto strappando dalle siepi un pugno di foglie, le porgeva in ristoro; e s'inteneriva sentendo su la palma il movimento molle delle labbra che ricevevano l'offerta. Le siepi erano fiorite; e i fiori del biancospino avevano un sapore di mandorle amare.

Sul confine dell'oliveto stava una gran cisterna, e accanto alla cisterna un lungo canale di pietra dove le vacche venivano ad abbeverarsi. Tutti i giorni Anna faceva sosta in quel luogo; ed ella e l'asino si dissetavano prima di seguire il cammino. Una volta ella s'incontrò col custode dell'armento, che era nativo di Tollo e aveva la guardatura un poco losca e il labbro leporino. L'uomo le volse il saluto; e ambedue cominciarono a ragionare dei pascoli e dell'acqua, e poi dei santuarii e dei miracoli. Anna ascoltava con benignità e con frequenza di sorriso. Ella era macilente e bianca; aveva gli occhi chiarissimi e la bocca stragrande, e i capelli castanei pieganti indietro tutti senza spartizione. Nel collo le si vedevano le cicatrici rossicce delle bruciature e le si vedevano le arterie battere d'un palpito incessante.

Da allora i colloquii si reiterarono. Per l'erba le vacche stavano sparse; e giacevano ruminando o pascolavano in piedi. Quelle moventi forme pacifiche aumentavano la tranquillità della solitudine pastorale. Anna, seduta su l'orlo della cisterna, ragionava semplicemente; e l'uomo dal labbro fesso pareva preso d'amore. Un giorno ella, per un improvviso spontaneo rifiorir del ricordo, narrò la navigazione alla montagna di Roto. E, poiché la lontananza del tempo le ingannava la memoria, ella diceva con accento di verità cose meravigliose. L'uomo stupefatto ascoltava senza batter le palpebre. Quando Anna tacque, ad ambedue il silenzio e la solitudine d'intorno parvero più grandi; ed ambedue restarono in pensiero. Venivano le vacche, tratte dalla consuetudine, all'abbeveratoio; e a tutte penzolava fra le gambe il gruppo delle mammelle rifornite di latte dalla pastura. Come esse avanzavano il muso nel canale, l'acqua diminuiva ai loro sorsi lenti e regolari.

 

IV

Su gli ultimi giorni di giugno l'asino infermò. Non prendeva cibo né bevanda da quasi una settimana. I viaggi s'interruppero. Una mattina che Anna discese alla tettoia, scorse la bestia tutta ripiegata su lo strame in un avvilimento miserevole. Una specie di tosse roca e tenace scoteva di tratto in tratto la gran carcassa malcoperta di cuoio; sopra gli occhi s'erano formate due cavità profonde, come due orbite vacue; e gli occhi parevano due grosse bolle gonfie di siero. Quando l'asino udì le voci di Anna, tentò di levarsi: il corpo gli traballava su le zampe e il collo gli si abbatteva giù dalle spalle acute e le orecchie gli penzolavano con i movimenti involontari e incomposti di un enorme giocattolo che avesse guaste le commessure. Un liquido mucoso gli colava dalle nari, talvolta allungandosi in filamenti sino ai ginocchi. Le chiazze nude nel pelame avevano il colore azzurrognolo e quasi cangiante della lavagna. I guidaleschi qua e là sanguinavano.

Anna, allo spettacolo, si sentì stringere da una angoscia pietosa; e, poiché ella per natura e per uso non provava alcuna ripugnanza fisica in contatto della materia immonda, si accostò a toccare l'animale. Con una mano gli sorreggeva la mascella inferiore, con l'altra una spalla; e così cercava di fargli muovere i passi, sperando in qualche virtù dell'esercizio. L'animale prima esitava, squassato da nuovi sussulti di tosse; poi finalmente prese a camminare per la china dolce che scendeva al lido. Le acque, dinanzi, nella natività del giorno biancheggiavano; e i calafati verso la Penna spalmavano una carena. Come Anna levò il sostegno delle mani e trasse la corda della cavezza, l'asino per un fallo de' piedi anteriori stramazzò d'improvviso. La gran macchina delle ossa ebbe un scricchiolio interno di rotture, e la pelle del ventre e dei fianchi risonò sordamente e palpitò. Le gambe fecero l'atto di correre; per l'urto, dalla gengiva uscì un poco di sangue e tra i denti si diffuse.

Allora la donna si mise a gridare andando verso la casa. Ma i calafati, sopraggiunti, in conspetto dell'asino giacente ridevano e motteggiavano. Uno di loro percosse col piede il ventre del moribondo. Un altro gli afferrò le orecchie e gli sollevò il capo che ricadde pesantemente a terra. Gli occhi si chiusero; qualche brivido corse fra il pelame bianco del ventre aprendone le spighe, come un soffio; una delle gambe di dietro batté due o tre volte nell'aria. Poi tutto fu immobile; se non che nella spalla, ov'era un'ulcera, si produsse un lieve tremolio, simile a quello che per la molestia d'un insetto avveniva dianzi volontario nella carne vivente. Quando Anna tornò sul luogo, trovò i calafati che tiravano per la coda la carogna, e cantavano un Requiem con false voci asinine.

Così Anna rimase in solitudine; e per lungo tempo ancóra visse nella casa dei parenti ed ivi appassì, adempiendo umili uffici, e sopportando con molta pazienza cristiana le vessazioni. Nel 1845 il mal caduco riapparve con violenza; sparve dopo alcuni mesi. La fede religiosa in quell'epoca divenne in lei più profonda e più calda. Ella saliva alla basilica tutte le mattine e tutte le sere; e s'inginocchiava abitualmente in un angolo oscuro protetto da una gran pila di marmo dov'era figurata con rozza opera di bassorilievo la fuga della Sacra Famiglia in Egitto. Da prima scelse ella forse quell'angolo attratta dal docile asinello trasportante il pargolo Gesù e la Madre alla terra dell'idolatria? Una gran quietudine d'amore le discendeva su lo spirito, quando aveva piegate le ginocchia nell'ombra; e la preghiera le sgorgava puramente dal petto come da una fonte naturale, poiché ella pregava soltanto per la voluttà cieca dell'adorazione, non per la speranza d'ottener grazia di beni nella vita terrena. Ella pregava, con la testa china su la sedia; e come i cristiani nell'accedere e nell'uscire attingevano con le dita l'acqua della pila, e si segnavano, ella a quando a quando trasaliva sentendo su' capelli qualche stilla benedetta cadere.

 

V

Quando nel 1851 Anna venne la prima volta al paese di Pescara, era prossima la festa del Rosario, che si celebra nella prima domenica di ottobre. La donna si mosse da Ortona a piedi, per sciogliere un voto; e, portando chiuso in un fazzoletto di seta un piccolo cuore d'argento, camminò religiosamente lungo la riva del mare; poiché la strada provinciale non ancóra in quel tempo era praticata, e un bosco di pini occupava molta estensione di terreno vergine. La giornata pareva dolce, se non che nel mare le onde andavano crescendo, ed all'estremo limite andavano crescendo in forma di trombe i vapori. Anna avanzava tutta assorta in pensieri di santità. Nel far della sera, come ella fu sul luogo delle Saline, cadde d'improvviso la pioggia, da prima pianamente e dopo in grande abbondanza; così che, non essendovi in torno riparo alcuno, ella n'ebbe le vesti tutte molli. Più in qua la foce dell'Alento portava acqua; ed ella si scalzò per guardare. In vicinanza di Vallelonga la pioggia restò: ed il bosco dei pini rinasceva serenante nell'aria con odor quasl d'incenso. Anna, rendendo grazie nell'animo al Signore, seguì il cammino del litorale ma con più rapidi passi, poiché sentiva penetrarsi nelle ossa l'umidità malsana, e cominciava a battere i denti pel ribrezzo.

A Pescara, ella fu subito presa dalla febbre palustre, e ricoverata per misericordia nella casa di Donna Cristina Basile. Dal letto, udendo i cantici della pompa sacra, e vedendo le cime degli stendardi ondeggiare all'altezza della finestra, ella si mise a dire le preghiere e a invocare la guarigione. Quando passò la Vergine, ella scorse soltanto la corona gemmata, e fece atto di mettersi in ginocchio su i guanciali per adorare.

Dopo tre settimane guarì; e, avendole Donna Cristina offerto di rimanere, ella rimase in qualità di domestica. Ebbe allora una piccola stanza guardante sul cortile. Le pareti erano imbiancate di calce; un vecchio paravento coperto di figure profane chiudeva un angolo; e fra i travicelli del soffitto molti ragni tendevano in pace le tele laboriose. Sotto la finestra sporgeva un tetto breve, e più giù s'apriva il cortile pieno di volatili mansueti. Sul tetto vegetava, da un mucchio di terra chiuso fra cinque tegole, una pianta di tabacco. Il sole vi s'indugiava dalle prime ore antimeridiane alle prime ore del pomeriggio. Ogni estate la pianta dava fiori.

Anna, nella nuova vita, nella nuova casa, a poco a poco si sentì sollevare e rivivere. La sua naturale inclinazione all'ordine si dispiegò. Ella attendeva a tutti i suoi uffici tranquillamente, senza far parole. Anche, in lei la credenza nelle cose soprannaturali ingigantì. Due o tre leggende s'erano per antico formate su due o tre luoghi della casa Basile, e di generazione in generazione si tramandavano. Nella camera gialla del secondo piano abbandonato viveva l'anima di Donna Isabella. In un ricettacolo ingombro, dove una scala discendeva a gomito sino a una porta che non s'apriva da tempo, viveva l'anima di Don Samuele. Quei due nomi esercitavano un singolar fascino su i nuovi abitatori, e diffondevano per tutto il vecchio edificio una specie di solennità conventuale. Come poi il cortile interno era circondato di molti tetti, i gatti su la loggia si riunivano in conciliaboli e miagolavano con una dolcezza misteriosa, chiedendo ad Anna gli avanzi del pasto familiare.

Nel marzo del 1853 il marito di Donna Cristina morì d'una malattia urinaria, dopo lunghe settimane di spasimi. Egli era un uomo timorato di Dio, casalingo e caritatevole; era capo d'una congrega di possidenti religiosi; leggeva le opere dei teologi, e sapeva sonare sul gravicembalo alcune semplici arie di antichi maestri napolitani. Quando venne il viatico, magnifico per numero di ministri e per ricchezza di arnesi, Anna s'inginocchiò su la porta, e si mise a pregare ad alta voce. La stanza si empì d'un vapor d'incenso, in mezzo a cui il ciborio raggiava e raggiavano i turiboli, oscillando come lampade accese; si udirono singhiozzi; poi le voci dei ministri, raccomandando l'anima all'Altissimo, si sollevarono. Anna, rapita dalla solennità di quel sacramento, perdé ogni orrore della morte, e da allora pensò che la morte dei cristiani fosse un trapasso dolce e gaudioso.

Donna Cristina tenne chiuse tutte le finestre della casa durante un mese intero. Continuava a piangere il marito nell'ora del pranzo e nell'ora della cena; faceva in nome di lui le elemosine ai mendicanti; e, più volte nel giorno, con una coda di volpe levava la polvere dal gravicembalo come da una reliquia, emettendo sospiri. Ella era una donna di quarant'anni, tendente alla pinguedine, ancóra fresca nelle sue forme che la sterilità aveva conservate. E poiché ereditava dal defunto una dovizia considerevole, i cinque più maturi celibi del paese cominciarono a tenderle insidie e ad allettarla alle nuove nozze con arti lusingatrici. I campioni furono: Don Ignazio Cespa, persona dolcigna, di sesso ambiguo, con una faccia di vecchia pettegola butterata dal vaiuolo e una capellatura impregnata di olii cosmetici, con le dita cariche di anelli e gli orecchi forati da due minuscoli cerchi d'oro; Don Paolo Nervegna, dottor di legge, uomo parlatore e accorto, che aveva le labbra sempre increspate come se masticasse l'erba sardonica e su la fronte una specie di crescimento rossastro innascondibile; Don Fileno d'Amelio, nuovo capo della congrega, uomo pieno d'unzione e di compunzione, un po' calvo, con la fronte sfuggente indietro e l'occhio pecorinamente opaco; Don Pompeo Pepe, uomo giocondo, amante del vino e delle donne e dell'ozio, ubertoso in tutta la corporatura e più nella faccia, sonoro nelle risa e nelle parole; Don Fiore Ussorio, uomo di spiriti pugnaci, gran leggitore di opere politiche e citator trionfante di esempi storici in ogni disputa, pallido d'un pallor terrigno, con una sottil corona di barba intorno agli zigomi e una bocca singolarmente atteggiata in linea obliqua. A costoro si aggiungeva, ausiliare della resistenza di Donna Cristina, l'abate Egidio Cennamele che, volendo trarre l'erede ai benefizi della chiesa, osteggiava con ben coperta astuzia di impedimenti le lusinghe.

La gran contesa, che sarà un giorno narrata dal cronista per diffuso, durò molto tempo ed ebbe molta varietà di vicende. E principal teatro della prima azione fu il cenacolo, sala rettangolare dove su la carta francesca delle pareti erano francescamente rappresentati i fatti di Ulisse naufragante all'isola di Calipso. Quasi tutte le sere i campioni si riunivano intorno all'inclita vedova; e facevano il giuoco della briscola e il giuoco dell'amore alternativamente.

 

VI

Anna fu candida testimone. Introduceva i visitatori, tendeva il tappeto su la tavola, e a mezzo della veglia portava i bicchieri pieni d'un rosolio verdognolo composto dalle monache con droghe speciali. Una volta ella sentì su per le scale Don Fiore Ussorio gridare nel calore della disputa un'ingiuria contro l'abate Cennamele che parlava sommesso; e poiché l'irriverenza le parve mostruosa, ella da allora in poi tenne Don Fiore per un uomo diabolico e al comparir di lui si faceva rapidamente il segno della croce e mormorava un Pater.

Nella primavera del 1856, un giorno, mentre sul greto della Pescara ella sbatteva i panni lavati, vide una torma di barche passare la foce e navigar lentamente contro la forza dell'acqua. Il sole era sereno; le due rive si rispecchiavano in fondo abbracciandosi; alcuni ramoscelli verdi e alcune ceste di giunchi natavano nel mezzo della corrente, come simboli pacifici, verso il mare; e le barche, aventi quasi tutte la mitria di San Tommaso dipinta per insegna in un angolo della vela, avanzavano così nel bel fiume santificato dalla leggenda di San Cetteo liberatore. I ricordi del paese natale si svegliarono nell'animo della donna con un tumulto improvviso, a quello spettacolo; ed ella, pensando al padre, fu invasa da una gran tenerezza.

Le barche erano tanecche ortonesi e venivano dal promontorio di Roto con un carico di agrumi. Anna, come le àncore furono gettate, si avvicinò ai marinai; e li guardava con una curiosità benevola e trepidante, senza far parole. Uno di loro, colpito dalla insistenza, la ravvisò e la interrogò familiarmente. - Chi cercava? Cosa voleva? - Allora Anna, tratto in disparte l'uomo, gli chiese se non per caso egli avesse veduto al paese dei portogalli Luca Minella, il padre. - Non l'aveva veduto? Non stava ancóra con quella femmina? - L'uomo rispose che Luca era morto da qualche tempo. - Era vecchio. Poteva campar di più? - Allora Anna contenne le lacrime; volle sapere molte cose. L'uomo le disse molte cose. - Luca aveva strette le nozze con quella femmina; ne aveva avuti due figliuoli. Il maggiore dei due navigava sopra un trabaccolo e veniva qualche volta a Pescara per negozii. - Anna trasalì. Un turbamento indeterminato, una specie di smarrimento confuso le occupava l'animo. Ella non giungeva a ritrovar l'equilibrio e la lucidità del giudizio dinanzi a quel fatto troppo complesso. Ella aveva ora due fratelli dunque? Doveva amarli? Doveva cercare di vederli? Ora che doveva dunque fare?

Così, titubante, tornò a casa. E dopo, per molte sere, quando entravano nel fiume le barche, ella andava lungo lo scalo a guardare i marinai. Qualche trabaccolo portava dalla Dalmazia un carico di asini e di cavalli nani. Le bestie prendendo terra scalpitavano; l'aria sonava di ragli e di nitriti. Anna, nel passare, batteva con la mano le grosse teste degli asinelli.

 

VII

Verso quel tempo ebbe in dono dal fattore di campagna una testuggine. Il nuovo ospite tardo e taciturno fu diletto e cura della donna nelle ore d'ozio. Camminava da un punto all'altro della stanza sollevando a stento dal suolo il grave peso del corpo su le zampe simili a moncherini olivastri, e, come era giovine, le piastre del suo scudo dorsale, gialle maculate di nero, tralucevano talvolta al sole con un nitor d'ambra. La testa coperta di scaglie, compressa nel muso, giallognola, sporgeva tentennando con una mansuetudine timorosa; e pareva talvolta la testa di un vecchio serpe estenuato che uscisse dal guscio di un crostaceo. Anna prediligeva nell'animale i costumi: il silenzio, la frugalità, la modestia, l'amor della casa. Gli dava per cibo foglie di verdura, radici e vermi, restando estatica ad osservare il moto delle piccole mandibole cornee dentellate nel lor duplice margine. Ella, in quell'atto, provava quasi un sentimento di maternità; eccitava pianamente l'animale con le voci e sceglieva per lui le erbe più tenere e più dolci.

Fu la testuggine allora auspice d'un idillio. Il fattore, venendo più volte al giorno nella casa, s'intratteneva su la loggia a ragionare con Anna. Ed essendo egli uomo d'umili spiriti, divoto, prudente e giusto, godeva veder riflesse le sue pie virtù nell'animo della donna. Per la consuetudine sorse quindi tra i due a poco a poco una familiarità amorevole. Ella aveva già qualche capello bianco su le tempie, ed in tutta la faccia diffuso un placido candore. Egli, Zacchiele, superava di alcuni anni l'età di lei; aveva una gran testa dalla fronte sporgente e due miti e rotondi occhi di coniglio. Tutt'e due, nei colloquii, sedevano per lo più su la loggia. Sopra di loro, fra i tetti, il cielo pareva una cupola luminosa; e ad intervalli i voli dei colombi domestici, bianchi come il Paraclito, traversavano la quiete celestiale. I colloquii volgevano su le raccolte, su la bontà dei terreni, su le semplici norme della coltivazione; ed erano pieni di esperienza e di rettitudine.

Poiché Zacchiele amava talvolta, per una ingenua vanità naturale, di far pompa del suo sapere, in conspetto della donna ignorante e credula, questa concepì per lui una stima e un'ammirazione senza limiti. Ella imparò, che la terra è divisa in cinque parti e che cinque sono le razze degli uomini: la bianca, la gialla, la rossa, la nera e la bruna. Imparò che la terra è di forma rotonda, che Romolo e Remo furono nutricati da una lupa, e che le rondini su l'autunno vanno oltremare nell'Egitto dove anticamente regnavano i Faraoni. - Ma gli uomini non avevano tutti un colore, a imagine e somiglianza di Dio? Potevamo noi camminare sopra una Palla? Chi erano i re Faraoni? - Ella non riusciva a comprendere, e rimaneva così tutta smarrita. Però da allora ella considerò le rondini con reverenza e le tenne per uccelli dotati di saggezza umana.

Un giorno Zacchiele le mostrò una Storia sacra dell'Antico Testamento, illustrata di figure. Anna guardava con lentezza, ascoltando le spiegazioni. Ed ella vide Adamo ed Eva tra le lepri ed i cervi, Noè seminudo inginocchiato innanzi a un altare, i tre angeli di Abramo, Mosè salvato dalle acque; vide con gioia finalmente un Faraone nel conspetto della verga di Mosè cangiata in serpe, e la regina di Saba, la festa dei Tabernacoli, il martirio dei Maccabei. Il fatto dell'asina di Balaam la empì di meraviglia e di tenerezza. Il fatto della coppa di Giuseppe nel sacco di Beniamino la fece rompere in lacrime. Ed ella imaginava gli israeliti camminanti per un deserto tutto coperto di quaglie, sotto una rugiada che si chiamava la manna ed era bianca come la neve e più dolce del pane.

Dopo la Storia sacra, preso da una singolare ambizione, Zacchiele cominciò a leggerle le imprese dei Reali di Francia da Costantino imperatore sino ad Orlando conte d'Anglante. Un gran tumulto sconvolse allora la mente della donna: le battaglie dei Filistei e dei Siriaci si confusero con le battaglie dei Saraceni, Oloferne si confuse con Rizieri, il re Saul col re Mambrino, Eleazaro con Balante, Noemi con Galeana. Ed ella, affaticata, non seguiva più il filo delle narrazioni, ma si riscoteva soltanto ad intervalli quando udiva passare nella voce di Zacchiele i suoni di qualche nome prediletto. E predilesse Dusolina e il duca Bovetto che prese tutta l'Inghilterra innamorandosi della figliuola del re di Frisia.

Erano le calende di settembre. Nell'aria temperata dalla pioggia recente, si andava diffondendo una placida chiarità autunnale. La stanza di Anna divenne il luogo delle letture. Un giorno Zacchiele, seduto, leggeva come Galeana, figliuola del re Galafro, s'innamorò di Mainetto e volle da lui la ghirlanda dell'erba. Anna, poiché la favola pareva semplice e campestre, e poiché la voce del lettore pareva addolcirsi di accenti novelli, ascoltava con visibile assiduità. La testuggine si traeva in mezzo ad alcune foglie di lattuga, pianamente; il sole su la finestra illuminava una gran tela di ragno, e gli ultimi fiori rosei del tabacco si vedevano a traverso la sottile opera di filo d'oro.

Quando il capitolo fu finito, Zacchiele depose il libro; e, guardando la donna, sorrise d'uno di quei sorrisi fatui che solevano increspargli le tempie e gli angoli della bocca. Poi cominciò a parlarle vagamente, con la peritanza di colui che non sa in qual modo giungere al punto desiderato. Finalmente ardì. - Ella non aveva pensato mai al matrimonio? - Anna alla domanda non rispose. Stettero ambedue in silenzio ed ambedue sentivano nell'animo una dolcezza confusa, quasi un risveglio attonito della giovinezza sepolta e un umano richiamo dell'amore. E n'erano turbati come dal fumo d'un vino troppo forte che montasse al loro cervello indebolito.

 

VIII

Ma una tacita promessa di nozze fu data molti giorni dopo, in ottobre, nella prima natività dell'olio d'oliva e nell'ultima migrazione delle rondini. Con licenza di Donna Cristina, un lunedì Zacchiele condusse Anna alla fattoria dei colli, dov'era il frantoio. Uscirono da Portasale, a piedi, e presero la via Salaria, volgendo le spalle al fiume. Dal giorno della favola di Galeana e di Mainetto, essi provavano l'un verso l'altra una specie di trepidazione, un misto di temenza vergogna e rispetto. Avevano perduta quella bella familiarità d'una volta; parlavano poco insieme e sempre con un tal riserbo esitante, senza mai guardarsi nel volto, con incerti sorrisi, confondendosi talora per un subitaneo rossore, indugiando così in questi timidi bamboleggiamenti d'innocenza.

Camminarono in silenzio, da prima, ciascuno seguendo lo stretto sentiero asciutto che i passi dei viandanti avevano praticato su i due margini della via; e li divideva il mezzo della via fangoso e segnato di solchi profondi dalle ruote dei veicoli. Una libera gioia vendemmiale occupava le campagne: i canti del mosto per la pianura si avvicendavano. Zacchiele si teneva un poco indietro, rompendo a tratti a tratti il silenzio con qualche parola su la temperie, su le vigne, su la raccolta delle olive. Anna guardava curiosa tutti i cespugli rosseggianti di bacche, i campi lavorati, le acque dei fossi; e a poco a poco le nasceva nell'animo una letizia vaga, quale di chi dopo lungo tempo sia dilettato da sensazioni già innanzi conosciute. Come il cammino prese a volgere su pel declivio tra i ricchi oliveti di Cardirusso, chiaramente le sorse nell'animo il ricordo di Sant'Apollinare e dell'asino e del custode degli armenti. Ed ella sentì quasi rifluirsi al cuore tutto il sangue, d'improvviso. Quell'episodio obliato della sua giovinezza le si coordinò nella memoria con una perspicuità meravigliosa; l'imagine dei luoghi le si formò dinanzi; e nella scena illusoria ella rivide l'uomo dal labbro leporino, ne riudì la voce, provando un turbamento nuovo senza sapere perché.

La fattoria si avvicinava; fra gli alberi soffiava il vento facendo cadere le ulive mature; una zona di mare sereno si scopriva dall'altitudine. Zacchiele s'era messo a fianco della donna e la guardava di tratto in tratto con una pia supplicazione di tenerezza. - A che pensava ella dunque? - Anna si volse, con un'aria quasi di sbigottimento, come fosse stata colta in fallo. - A niente pensava.

Giunsero al frantoio, dove i coloni macinavano la prima raccolta delle olive cadute precocemente dall'albero. La stanza delle macine era bassa e oscura: dalla volta luccicante di salnitro pendevano lucerne di ottone e fumigavano; un giumento bendato girava una mola gigantesca, con passo regolare; e i coloni, vestiti di certe lunghe tuniche simili a sacchi, nudi le gambe e le braccia, muscolosi, oleosi, versavano il liquido nelle giare, nelle conche, negli orci.

Anna si mise a considerare l'opera, attentamente; e, come Zacchiele impartiva ordini ai faticatori, e girava tra le macine, osservando la qualità delle olive con una grande sicurezza di giudice, ella sentì per lui in quel momento crescere l'ammirazione. Poi, come Zacchiele dinanzi a lei prese un gran boccale colmo e versando nell'orcio quell'olio purissimo e luminoso nominò la grazia di Dio, ella si fece il segno della croce, tutta compresa di venerazione per l'opulenza della terra.

Venivano intanto su la porta le due femmine della fattoria; e ciascuna teneva contro il seno un poppante, e si traeva un bel grappolo di figliuoli dietro le gonne. Si misero a conversare placidamente; e, poiché Anna tentava di accarezzare i fanciulli, ciascuna si compiaceva della propria fecondità, e con una ridente onestà di parola ragionava dei parti. La prima aveva avuto sette figliuoli; la seconda undici. - Era la volontà di Gesù Cristo; e per la campagna poi ci volevano braccia.

Allora la conversazione volse in materie familiari. Albarosa, una delle madri, fece molte domande ad Anna. - Ella non aveva avuto mai figliuoli? - Anna, nel rispondere che non s'era maritata, provò per la prima volta una specie di umiliazione e di rammarico, dinanzi a quella possente e casta maternità. Poi, cambiando discorso, ella tese la mano sul più vicino dei bimbi. Gli altri guardavano con occhi vasti che pareva avessero assunto un limpido color vegetale dallo spettacolo continuo delle cose verdi. L'odore delle olive infrante si spandeva nell'aria, ed entrava nelle fauci ad eccitare il palato. I gruppi dei faticatori apparivano e sparivano sotto il rossore delle lucerne.

Zacchiele, che fino a quel momento aveva invigilato su la misura dell'olio, si accostò alle donne. Albarosa lo accolse con un volto festevole. - Quanto voleva aspettare Don Zacchiele a prender moglie? - Zacchiele sorrise con un po' di confusione, a quella domanda; e diede un'occhiata sfuggente ad Anna che accarezzava ancóra il bimbo selvatico e fingeva di non aver inteso. Albarosa, per una benevola arguzia contadinesca, riunendo visibilmente con l'ammiccar degli occhi bovini il capo d'Anna e quello di Zacchiele, seguitò le incitazioni. - Erano una coppia benedetta da Dio. Che aspettavano? - I coloni, avendo sospesa l'opera per attendere al pasto, facevano in torno cerchia. E la coppia, anche più confusa per quella testimonianza, restava muta in un'attitudine tra di sorriso tremulo e di pudica modestia. Qualcuno dei giovini fra i testimoni, esilarato dalla faccia amorosamente compunta di Don Zacchiele, sospingeva con urti di gomiti i compagni. Il giumento nitrì, per fame.

Fu apprestato il pasto. Un'attività diligente invase la gran famiglia rustica. Su lo spiazzo, all'aperto, tra gli olivi pacifici e in conspetto del sottostante mare, gli uomini sedevano alla mensa. I piatti dei legumi conditi d'olio novello fumavano; il vino scintillava nelle semplici forme liturgiche dei vasi; e il cibo frugale dispariva rapidamente entro gli stomachi dei faticatori.

Anna ora si sentiva come assalire da un tumulto di giubilo, e si sentiva d'un tratto quasi legata da una specie di dimestichezza amichevole con le due donne. Queste la condussero nell'interno della casa, dove le stanze erano larghe e luminose benché antichissime. Su le pareti le imagini sacre si alternavano con le palme pasquali; provvigioni di carni suine pendevano dai soffitti; i talami dal pavimento si elevavano ampi ed altissimi con accanto le culle; da tutto emanava la serenità della concordia familiare. Anna, considerando quell'ordine, sorrideva timidamente a una dolcezza interiore; e in un punto fu presa da una strana commozione quasi che tutte le sue latenti virtù di madre casalinga e i suoi istinti di allevatrice fremessero e insorgessero d'improvviso.

Quando le donne ridiscesero su lo spiazzo, gli uomini stavano ancóra in torno alla tavola; Zacchiele parlava con loro. Albarosa prese un piccolo pane di frumento, lo divise nel mezzo, lo consperse d'olio e di sale, e l'offerì ad Anna. L'olio novello, allora allora gemuto dal frutto, spandeva nella bocca un saporoso aroma asprino; ed Anna allettata mangiò tutto il pane. Bevve anche il vino. Poi, come il vespro cadeva, ella e Zacchiele ripresero il cammino del declivio.

Dietro di loro i coloni cantarono. Molti altri canti sorsero dalla campagna e si dispiegarono nella sera con la piana larghezza di un salmo gregoriano. Il vento soffiava fra gli oliveti più umido; un chiarore moriente tra roseo e violaceo indugiava effuso pel cielo.

Anna camminò innanzi, con passo celere, rasente i tronchi. Zacchiele la seguì, pensando alle parole ch'egli voleva dire. Ambedue, da poi che si sentivano soli, provavano una trepidazione infantile. A un punto Zacchiele chiamò la donna per nome; ed ella si volse umile e palpitante. - Che voleva? - Zacchiele non disse più altro; fece due passi, giunse al fianco di lei. E così continuarono il cammino, in silenzio, finché la via Salaria non li divise. Come nell'andare, essi presero ciascuno il sentiero del margine, a destra e a manca. E rientrarono a Portasale.

 

IX

Per una nativa irresolutezza, Anna differiva continuamente il matrimonio. Dubbii religiosi la tormentavano. Ella aveva sentito dire che soltanto le vergini sarebbero ammesse a far corona in torno alla Madre di Dio, nel Paradiso. Dunque? Doveva ella rinunciare a quella dolcezza celeste per un bene terreno? Un più vivo ardore di divozione allora la invase. In tutte le ore libere ella andava alla chiesa del Rosario; s'inginocchiava innanzi al gran confessionale di quercia, e rimaneva immobile in quell'attitudine di preghiera. La chiesa era semplice e povera; il pavimento era coperto di lapidi mortuarie; una sola lampada di metallo vile ardeva innanzi all'altare. E la donna rimpiangeva nell'animo il fasto della sua basilica, la solennità delle cerimonie, le undici lampade d'argento, i tre altari di marmo prezioso.

Ma nella Settimana Santa del 1857, sorse un grande avvenimento. Tra la Confraternita capitanata da Don Fileno d'Amelio e l'abate Cennamele, coadiuvato dai satelliti parrocchiali, scoppiò la guerra; e ne fu causa un contrasto per la processione di Gesù morto. Don Fileno voleva che la pompa, fornita dai congregati, uscisse dalla chiesa della Confraternita; l'abate voleva che la pompa uscisse dalla chiesa parrocchiale. La guerra attrasse e avviluppò tutti i cittadini e le milizie del Re di Napoli, residenti nel forte. Nacquero tumulti popolari; le vie furono occupate da assembramenti di gente fanatica; pattuglie armigere andarono in volta per impedire i disordini; il conte Arcivescovo di Chieti fu assediato da innumerevoli messi d'ambo le parti; corse molta pecunia per corruzioni; un mormorìo di congiure misteriose si sparse nella città. Focolare degli odii la casa di Donna Cristina Basile. Don Fiore Ussorio sfolgorò per mirabili stratagemmi e per audacie novissime, in quei giorni di lotta. Don Paolo Nervegna ebbe un grave spargimento di bile. Don Ignazio Cespa adoperò in vano tutte le sue blande arti conciliative e i suoi sorrisi melliflui. La vittoria fu contrastata con un accanimento implacabile, fino all'ora rituale della pompa funeraria. Il popolo fremeva nell'aspettazione; il comandante de le milizie, partigiano dell'abbadia, minacciava castighi ai facinorosi della Confraternita. La rivolta stava per irrompere. Quand'ecco giungere su la piazza un soldato a cavallo latore di un messaggio episcopale che dava la vittoria ai congregati.

L'ordine della pompa si dispiegò allora con insolita magnificenza per le vie sparse di fiori. Un coro di cinquanta voci bianche cantò gli inni della Passione; e dieci turiferarii incensarono tutta la città. I baldacchini, gli stendardi, i ceri per la nuova ricchezza empirono gli astanti di meraviglia. L'abate sconfitto non intervenne; ed in sua vece Don Pasquale Carabba, il Gran Coadiutore, vestito dei paramenti badiali, seguì con molta solennità d'incesso il feretro di Gesù.

Anna, nel frangente, aveva fatto voti per la vittoria dell'abate. Ma la suntuosità della cerimonia la abbagliò; una specie di rapimento la invase, allo spettacolo; ed ella sentì gratitudine anche per Don Fiore Ussorio che passava reggendo nel pugno un cero immane. Poi, come l'ultima schiera dei celebranti le giunse dinanzi, ella si mescolò alla turba fanatica degli uomini, delle donne e de' fanciulli; e andò così, quasi senza toccar terra, tenendo sempre gli occhi fissi al serto culminante della Mater dolorosa. In alto, dall'uno all'altro balcone, stavano tesi i drappi signorili consecutivamente; dalle case dei panettieri pendevano rustiche forme d'agnelli materiate di fromento; ad intervalli, nei trivii, nei quadrivii, un braciere acceso spandeva fumo di aròmati.

La processione non passò sotto le finestre dell'abate. Di tratto in tratto una specie di movimento irregolare correva lungo le file, come se la schiera antesignana incontrasse un ostacolo. E n'era causa il contrasto tra il crocifero della Confraternita e il luogotenente delle milizie, i quali ambedue avevano ricevuto il comando di seguire un itinerario diverso. Poiché il luogotenente non poteva usar violenza senza commetter sacrilegio, vinse il crocifero. I congregati esultavano; il comandante generale ardeva d'ira; il popolo s'empiva di curiosità.

Quando la pompa, in vicinanza dell'Arsenale, si rivolse per rientrare nella chiesa di San Giacomo, Anna prese un vicolo obliquo e in pochi passi fu su la porta madre. S'inginocchiò. Giungeva primo verso di lei l'uomo portante il crocifisso gigantesco; seguivano gli stendardieri che tenevano l'altissima asta in equilibrio su la fronte o sul mento, atteggiandosi con dotto giuoco di muscoli. Poi, quasi in mezzo a una nuvola d'incenso, venivano le altre schiere, i cori angelici, gli incappati, le vergini, i signori, il clero, le milizie. Lo spettacolo era grande. Una specie di terrore mistico teneva l'animo della donna.

Si avanzò sul vestibolo, secondo la consuetudine, un accolito munito d'un largo piatto d'argento per ricevere i ceri. Anna guardava. Allora fu che il comandante, spezzando tra i denti aspre parole contro la Confraternita, gittò violentemente il suo cero nel piatto e voltò le spalle con piglio minaccioso. Tutti rimasero allibiti. E nel momentaneo silenzio si udì tintinnare la spada di colui che si allontanava. Solo Don Fiore Ussorio ebbe la temerità di sorridere.

 

X

I fatti per moltissimo tempo incitarono l'attività vocale dei cittadini e furono causa di turbolenze. Come Anna era stata testimone dell'ultima scena, alcuni vennero a lei per ragguagli. Ella raccontava sempre con le stesse parole pazientemente. La sua vita da allora fu tutta spesa tra le pratiche religiose, gli uffici domestici e l'amore della testuggine. Ai primi tepori d'aprile la testuggine uscì dal letargo. Un giorno, d'improvviso, sbucò di sotto allo scudo la testa serpentina e tentennò debolmente mentre i piedi erano ancóra immersi nel torpore. I piccoli occhi rimasero coperti a mezzo dalla palpebra. E l'animale, forse non più consapevole d'essere captivo, si mosse finalmente con un moto pigro e incerto, tastando co' piedi il suolo, spinto dal bisogno di trovarsi il cibo come nella sabbia del suo bosco natale.

Anna, innanzi a quel risveglio, fu invasa da una tenerezza ineffabile e stette a guardare con occhi umidi di lacrime. Poi prese la testuggine, la mise sul letto, le offerì alcune foglie verdi. La testuggine esitava a toccare le foglie, nell'aprire le mandibole mostrava la lingua carnosa come quella dei pappagalli. Gli indumenti del collo e delle zampe parevano membrane flosce e giallognole di un corpo estinto. La donna a quella vista si sentiva stringere da una gran misericordia; ed eccitava al ristoro il bene amato, con le blandizie di una madre pel figliuolo convalescente. Cinse d'olio dolce lo scudo osseo; e, come il sole vi percoteva sopra, le piastre pulite risplendevano più belle.

In queste cure passarono i mesi della primavera. Ma Zacchiele, consigliato dalla stagione novella a maggiori impeti di amore, incalzò la donna con così tenere supplicazioni che n'ebbe alfine una promessa solenne. Le nozze si sarebbero celebrate il giorno precedente la Natività di Gesù Cristo.

Allora l'idillio rifiorì. Mentre Anna attendeva alle opere dell'ago pel corredo nuziale, Zacchiele leggeva ad alta voce la storia del Nuovo Testamento. Le nozze di Cana, i prodigi del Redentore in Cafarnao, il morto di Naim, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la liberazione della figliuola della Cananea, i dieci lebbrosi, il cieco nato, la risurrezione di Lazzaro, tutte quelle narrazioni miracolose rapirono l'animo della donna. Ed ella pensò lungamente a Gesù che entrava in Gerusalemme cavalcando un'asina, mentre i popoli stendevano su la sua via le vesti e spargevano fronde.

Nella stanza l'erbe di timo odoravano in un vaso di terra. La testuggine veniva talvolta alla cucitrice e le tentava con la bocca il lembo delle tele o le morsicchiava il cuoio sporgente delle scarpe. Un giorno Zacchiele, nel leggere la parabola del Figliuol Prodigo, sentendosi d'improvviso qualche cosa di mobile tra i piedi, per un involontario moto di ribrezzo diede co' piedi un urto; e la testuggine urtata andò a battere contro la parete e rimase capovolta. Il guscio dorsale si scheggiò in più parti; un po' di sangue apparve da una delle zampe che l'animale agitava inutilmente per riprendere la posizione primitiva.

Se bene l'infelice amante si mostrò atterrito del fatto e inconsolabile, Anna dopo quel giorno si chiuse in una specie di severità diffidente, non parlò più, non volle più ascoltare la lettura. E così il Figliuol Prodigo rimase per sempre sotto gli alberi delle ghiande a guardare i porci del suo signore.

 

XI

Nella grande alluvione dell'ottobre (1857) Zacchiele morì. La cascina dov'egli abitava, nei dintorni dei Cappuccini, fuori di Porta Giulia, fu invasa dalle acque. Le acque inondarono tutta la campagna, dal Colle d'Orlando fino al Colle di Castellammare; e, poiché avevano attraversato vastissimi sedimenti d'argilla, erano sanguigne come nella favola antica. Le cime degli alberi emergevano qua e là su quel sangue melmoso ed estuoso. Per intervalli, dinanzi al forte passavano in precipizio tronchi enormi con tutte le radici, masserizie, materie di forme irriconoscibili, gruppi di bestiami non ancóra morti che urlavano e sparivano e riapparivano e si perdevano in lontananza. I branchi dei bovi, in ispecie, davano uno spettacolo mirabile: i grossi corpi biancastri s'incalzavano l'un l'altro, le teste si ergevano disperatamente fuori dell'acqua, furiosi intrecciamenti di corna avvenivano nell'impeto del terrore. Come il mare era di levante, le onde alla foce rigurgitavano. Il lago salso della Palata e gli estuarii si riunirono col fiume. Il forte divenne un'isola perduta.

Nell'interno le vie si sommersero; la casa di Donna Cristina ebbe la linea delle acque sino a metà della scala. Il fragore cresceva di continuo, mentre le campane sonavano a distesa. I forzati, dentro le carceri, urlavano.

Anna, credendo a qualche supremo castigo dell'Altissimo, ricorse alla salvezza delle preghiere. Il secondo giorno, come salì su la sommità della colombaia, non vide che acque e acque in torno sotto le nuvole, e scorse poi cavalli sbigottiti che galoppavano in furia su le troniere di San Vitale. Discese, stupida, con la mente sconvolta; e la persistenza del fragore e l'oscurità dell'aria le fecero smarrire ogni nozione del luogo e del tempo.

Quando l'alluvione cominciò a decrescere, la gente del contado entrò nella citta per mezzo di palischermi. Uomini, donne e fanciulli, avevano su la faccia e negli occhi la stupefazione dolorosa. Tutti narravano fatti tristi. E un bifolco dei Cappuccini venne alla casa Basile per annunziare che Don Zacchiele se n'era andato a marina. Il bifolco parlava semplicemente, narrando la morte. Disse che in vicinanza dei Cappuccini certe femmine avevano legato i figliuoli lattanti su la cima di un grande albero per salvarli dall'acqua e che i vortici avevano sradicato l'albero trascinandosi le cinque creature. Don Zacchiele stava sul tetto con altri cristiani in un mucchio compatto, urlando; e il tetto stava già per sommergersi; e cadaveri d'animali e rami rotti venivano già a urtare contro i disperati. Quando finalmente l'albero dei lattanti passò di là sopra, la violenza fu così terribile che dopo il suo passaggio non si vide più traccia di tetto né di cristiani.

Anna ascoltò senza piangere; e nella sua mente percossa il racconto di quella morte, con quell'albero dei cinque pargoli e con quelli uomini ammucchiati tutti sopra un tetto e con quei cadaveri di bestie che andavano a urtar contro, suscitò una specie di meraviglia superstiziosa simile a quella suscitatale da certe narrazioni del Vecchio Testamento. Ella salì con lentezza alla sua stanza, e cercò di raccogliersi. Il sole modesto splendeva sul davanzale; la testuggine in un angolo dormiva ricoverata sotto il suo scudo; un cinguettìo di passeri veniva dagli émbrici. Tutte queste cose naturali, questa usuale tranquillità della vita circonstante, a poco a poco la rasserenarono. Dal fondo di quella momentanea calma alfine sorse chiaro il dolore; ed ella chinò la testa sul petto, in un grande sconforto.

Allora le punse l'animo il rimorso d'aver serbato contro Zacchiele quella specie di muto rancore per tanto tempo; e i ricordi a uno a uno vennero ad assalirla; e le virtù del defunto le rifulgevano ora alla memoria più religiosamente. Poiché l'onda del dolore cresceva, ella si alzò, andò verso il letto, vi si distese bocconi. E i suoi singhiozzi risonavano tra il cinguettìo degli uccelli.

Dopo, quando le lacrime si arrestarono, la quiete della rassegnazione cominciò a discenderle nell'animo; ed ella pensò che tutte le cose della terra sono caduche, e che noi dobbiamo conformarci alla volontà del Signore. L'unzione di questo semplice atto d'abbandono le sparse sul cuore un'abbondanza di dolcezza. Ella si sentì libera da ogni inquietudine, e trovò il riposo in quell'umile e ferma confidenza. Da allora nella sua regola non fu che questa clausola: - La soprana volontà di Dio, sempre giusta, sempre adorabile, sia fatta in tutte le cose, sia lodata ed esaltata per tutta l'eternità.

 

XII

Così alla figlia di Luca fu aperta la vera strada del Paradiso. E il giro del tempo per lei non fu determinato se non dalle ricorrenze ecclesiastiche. Quando il fiume rientrò nell'alveo, uscirono per ordine consecutivo di giorni molte processioni nella città e nelle campagne. Ella le seguì tutte, insieme con il popolo, cantando il Te Deum. Le vigne in torno erano devastate; il terreno era molle e l'aria pregna di vapori biondi, singolarmente luminosa, come nelle primavere palustri.

Poi venne la festa d'Ognissanti; poi, la solennità dei Morti. Grandi messe furono celebrate in suffragio delle vittime dell'alluvione. Nel Natale Anna volle fare il presepe; comprò un Bambino di cera, Maria, San Giuseppe, il bove, l'asino, i re Magi e i pastori. Accompagnata dalla figlia del sagrestano, ella andò per i fossati della via Salaria a cercare il musco. Sotto la vitrea serenità iemale i latifondi riposavano pingui di limo; la fattoria d'Albarosa si scorgeva sul colle tra gli olivi; nessuna voce turbava il silenzio. Anna, come scopriva il musco, si chinava e con un coltello tagliava la zolla. Al contatto delle fredde erbe le sue mani divenivano lievemente violacee. Di tratto in tratto, alla vista di una zolla più verde, le sfuggiva una esclamazione di contentezza. Quando il canestro fu pieno, ella sedette sul ciglio del fossato, con la fanciulla. I suoi occhi salirono pel sentiero dell'oliveto, lentamente, e si fermarono alle mura bianche della fattoria che pareva un edifizio claustrale. Allora ella chinò la fronte, assalita da un pensiero. Poi d'un tratto si volse alla compagna. - Non aveva mai veduto macinare le olive? - E cominciò a figurar l'opera delle macine con molta prolissità di parole; e, come parlava, a poco a poco le salivano dall'animo altri ricordi, le venivano su la bocca spontaneamente a uno a uno, e le passavano nella voce con un piccolo tremito.

Quella fu l'ultima debolezza. Nell'aprile del 1858, poco dopo la Pasqua maggiore, ella infermò. Stette nel letto quasi durante un mese, tormentata dall'infiammazione polmonare. Donna Cristina veniva la mattina e la sera nella stanza a visitarla. Una vecchia fantesca, che faceva pubblica professione d'assistere i malati, le somministrava i medicamenti. Poi la testuggine le rallegrò i giorni della convalescenza. E come l'animale era estenuato dal digiuno, ed era tutto aridamente pelloso, Anna vedendosi macilente, e sentendosi anch'essa affievolita, provava quella specie di appagamento interiore che noi proviamo quando una stessa sofferenza ci accomuna alla persona diletta. Un tepore molle saliva dagli émbrici coperti di licheni, verso i convalescenti; nel cortile i galli cantavano; e una mattina due rondini entrarono d'improvviso, batterano l'ali in torna alla stanza e fuggirono.

Quando Anna tornò la prima volta nella chiesa, dopo la guarigione, era la Pasqua delle rose. Ella, nell'entrare, aspirò il profumo dell'incenso cupidamente. Camminò piano, lungo la navata, per ritrovare il posto dove soleva prima inginocchiarsi; e si sentì prendere da una sùbita gioia, quando scorse finalmente tra le lapidi mortuarie quella che portava nel mezzo un bassorilievo tutto consunto. Vi piegò i ginocchi sopra, e si mise a pregare. La gente aumentava. A un certo punto della cerimonia due accoliti scesero dal coro con due bacini d'argento colmi di rose, e cominciarono a spargere i fiori su le teste dei prostrati, mentre l'organo sonava un inno giocondo. Anna era rimasta china, in una specie di estasi che le davano la beatitudine dal misterio celebrato e il senso vagamente voluttuoso della guarigione. Come alcune rose vennero a caderle su la persona, ella ne ebbe un fremito lungo. E la povera donna nulla aveva provato nella sua vita di più dolce che quel fremito di delizia mistica e il susseguito languore.

La Pasqua rosata rimase perciò la festività prediletta di Anna, e ritornò periodicamente senza alcun episodio notevole. Nel 1860 la città fu turbata da gravi agitazioni. Si udivano spesso nella notte i rulli dei tamburi, gli allarmi delle sentinelle, i colpi della moschetteria. Nella casa di Donna Cristina si manifestò un più vivo fervore di azione tra i cinque proci. Anna non si sbigottì; ma visse in un raccoglimento profondo, non prendendo conoscenza degli avvenimenti pubblici né di quelli domestici, adempiendo ai suoi uffici con un'esattezza macchinale.

Nel mese di settembre la fortezza di Pescara fu evacuata; le milizie borboniche si sbandarono, gittando armi e bagagli nelle acque del fiume; stuoli di cittadini corsero le vie con liberali esclamazioni di gioia. Anna, come seppe che l'abate Cennamele era fuggito precipitosamente, pensò che i nemici della Chiesa di Dio avessero ottenuto il trionfo; e n'ebbe molto dolore.

Dopo, la sua vita si svolse in pace, lungo tempo. Lo scudo della testuggine crebbe in latitudine e divenne più opaco; la pianta del tabacco annualmente sorse, fiorì e cadde; le sagge rondini in ogni autunno partirono per la terra dei Faraoni. Nel 1865 alfine la gran contesa dei proci terminò con la vittoria di Don Fileno d'Amelio. Le nozze si celebrarono nel mese di marzo, con solenne giocondità di conviti. E vennero allora ad ammannire vivande preziose due padri cappuccini, Fra Vittorio e Fra Mansueto.

Erano costoro i due che di tutta la compagnia rimanevano, dopo la soppressione, a custodire il cenobio. Fra Vittorio era un sessagenario invermigliato fortificato e letificato dal succo dell'uva. Una piccola benda verde gli copriva l'infermità dell'occhio destro, e il sinistro gli scintillava pieno di vivezza penetrante. Egli esercitava fin dalla gioventù l'arte farmaceutica; e, come aveva pratica molta di cucina, i signori solevano chiamarlo in occasione di festeggiamenti. Nell'opera aveva gesti rudi che gli scoprivano fuor delle ampie maniche le braccia villose; la sua barba si moveva tutta ad ogni moto della bocca; la sua voce si frangeva in stridori. Fra Mansueto in vece era un vecchio macilente, con una testa caprina da cui pendeva una barbicola candida, con due occhi giallognoli pieni di sommissione. Egli coltivava l'orto, e questuando portava l'erbe mangerecce per le case. Nell'aiutare il compagno prendeva attitudini modeste, zoppicava da un piede; parlava nel molle idioma patrio di Ortona, e, forse in memoria della leggenda di San Tommaso, esclamava: - Pe' li Turchi! - ad ogni momento, lisciandosi con una mano il cranio polito.

Anna attendeva a porgere i piatti, gli arnesi, i vasellami di rame. Le pareva ora che la cucina assumesse una sorta di solennità sacra per la presenza dei frati. Ella restava intenta a guardare tutti gli atti di Fra Vittorio, presa da quella trepidazione che le persone semplici provano in conspetto degli uomini dotati di qualche virtù superiore. Ammirava ella in ispecie il gesto infallibile con cui il gran cappuccino spargeva su gli intingoli certe sue droghe segrete, certi suoi aromi particolari. Ma l'umiltà, la mitezza, la modesta arguzia di Fra Mansueto a poco a poco la conquistarono. E i legami della comune patria e quelli più sensibili del comune idioma strinsero l'una e l'altro d'amicizia.

Come essi conversavano, i ricordi del passato pullulavano nelle loro parole. Fra Mansueto aveva conosciuto Luca Minella e si trovava nella basilica quando accadde la morte di Francesca Nobile tra i pellegrini. - Pe' li Turchi! - Egli aveva anzi dato aiuto a trasportare il cadavere fino alle case di Porta Caldara; e si ricordava che la morta aveva addosso una veste di seta gialla e tante collane d'oro...

Anna divenne triste. Nella sua memoria il fatto fino a quel momento era rimasto confuso, vago, quasi incerto, attenuato dal lunghissimo stupore inerte che aveva seguito i primi accessi del mal caduco. Ma quando Fra Mansueto disse che la morta stava in Paradiso, perché chi muore per causa di religione va fra i santi, Anna provò una dolcezza indicibile e si sentì d'un tratto crescere nell'animo una immensa adorazione per la santità della madre.

Allora, per rammentare i luoghi del paese nativo, ella si mise a discorrere su la basilica dell'Apostolo, minutamente, determinando le forme degli altari, la positura delle cappelle, il numero degli arredi, le figurazioni della cupola, le attitudini delle imagini, le divisioni del pavimento, i colori delle vetrate. Fra Mansueto la secondava con benignità; e, poiché egli era stato ad Ortona alcuni mesi innanzi, raccontò le nuove cose vedute. - L'Arcivescovo di Orsogna aveva donato alla basilica un ciborio d'oro con incrostature di pietre preziose. La Confraternita del SS. Sacramento aveva rinnovato tutti i legnami e i corami degli stalli. Donna Blandina Onofrii aveva fornita una intera muta di parati consistente in pianete dalmatiche stole piviali cotte.

Anna ascoltava avidamente; e il desiderio di vedere le nuove cose e di riveder le antiche cominciò a tormentarla. Ella, quando il cappuccino tacque, si rivolse a lui con un'aria tra di letizia e di timidezza. - La festa di maggio si avvicinava. Se andassero?

 

XIII

Alle calende di maggio la donna, avuta licenza da Donna Cristina, fece gli apparecchi. Inquietudine le nacque nell'animo per la testuggine. - Doveva lasciarla? o portarla seco? - Stette lungamente in forse; e infine deliberò di portarla, per sicurezza. La pose dentro un canestro, tra i panni suoi e le scatole di confetture che Donna Cristina inviava a Donna Veronica Monteferrante, abadessa del monastero di Santa Caterina.

Su l'alba Anna e Fra Mansueto si misero in cammino. Anna aveva in principio il passo spedito, l'aspetto gaio: i capelli, già quasi tutti canuti, le si piegavano lucidi sotto il fazzoletto. Il frate zoppicava reggendosi a una mazza, e le bisacce vuote gli penzolavano dalle spalle. Come essi giunsero al bosco dei pini, fecero la prima sosta.

Il bosco, al mattino di maggio, ondeggiava immerso nel suo profumo natale, voluttuosamente, tra il sereno del cielo e il sereno del mare. I tronchi gemevano la ragia. I merli fischiavano. Tutte le fonti della vita parevano aperte su la trasfigurazione della terra.

Anna sedette sopra l'erba; offerse al cappuccino pane e frutta; e si mise a discorrere della festività, ad intervalli, mangiando. La testuggine tentava con le zampe anteriori l'orlo del canestro, e la sua timida testa serpigna sporgeva e si ritraeva negli sforzi. Poi che Anna l'aiutò a discendere, la bestia prese ad avanzare sul musco verso un cespuglio di mirto, con minor lentezza, forse sentendo in sé levarsi confusamente la gioia della primitiva libertà. E il suo scudo tra il verde pareva più bello.

Allora Fra Mansueto fece alcune riflessioni morali e lodò la Provvidenza che dà alla testuggine una casa e le dà il sonno durante la stagione dell'inverno. Anna raccontò alcuni fatti che dimostravano nella testuggine un gran candore e una gran rettitudine. Poi soggiunse: " Che penserà? " E dopo un poco: " Gli animali che penseranno? "

Il frate non rispose. Ambedue rimasero perplessi. Scendeva giù per la corteccia di un pino una fila di formiche e si dilungava pel terreno: ciascuna formica trascinava un frammento di cibo e tutta l'innumerevole famiglia compiva il lavoro con ordine diligente. Anna guardava, e le si svegliavano nella mente le credenze ingenue dell'infanzia. Ella parlò di abitazioni meravigliose che le formiche scavano sotto la terra. Il frate disse, con accento di fede intensa: "Dio sia lodato! " E ambedue rimasero cogitabondi, sotto i verdi alberi, adorando nel loro cuore Iddio.

Nella prima ora del pomeriggio arrivarono al paese di Ortona. Anna batté alla porta del monastero e chiese di vedere l'abadessa. All'entrare si presentava un piccolo cortile con nel mezzo una cisterna di pietra bianca e nera. Il parlatorio era una stanza bassa, con poche sedie intorno: due pareti erano occupate dalle grate, le altre due da un crocefisso e da imagini. Anna fu sùbito presa da un senso di venerazione per la pace solenne che regnava in quel luogo. Quando la madre Veronica apparve d'improvviso dietro le grate, alta e severa nell'abito monastico, ella provò un turbamento indicibile come dinanzi all'apparizione di una forma soprannaturale. Poi, rianimata dal buon sorriso dell'abadessa, ella compì il messaggio in brevi parole; depose nel cavo della ruota le scatole, ed attese. La madre Veronica le si rivolse con benignità, guardandola da que' suoi belli occhi lionati; le donò un'effigie della Vergine; nel licenziarla le tese la mano signorile pel bacio, a traverso la grata, e disparve.

Anna uscì, trepidante. Mentre passava il vestibolo, le giunse un coro di litanie, un canto che veniva forse da una cappella sotterranea, ugualissimo e dolce. Mentre passava il cortile, vide a sinistra in cima al muro sporgere un ramo carico di melarance. E, come pose il piede su la via, le parve di aver lasciato dietro di sé un giardino di beatitudine.

Allora si diresse verso la strada Orientale per cercare i parenti. Su la porta della vecchia casa una donna sconosciuta stava appoggiata allo stipite. Anna le si avvicinò timidamente e le chiese novelle della famiglia di Francesca Nobile. La donna l'interruppe: - Perché? Perché? Che voleva? - con una voce dura e uno sguardo investigante. Poi quando Anna si palesò, ella le permise di entrare.

I parenti erano quasi tutti o morti o emigrati. Restava nella casa un vecchio infermo, zi' Mingo, che aveva sposato in seconde nozze la figlia di Sblendore e viveva con lei quasi in miseria. Il vecchio da prima non riconobbe Anna. Egli stava seduto su un'alta sedia ecclesiastica di cui la stoffa rossastra pendeva a brandelli: le sue mani posavano su i braccioli, contorte ed enormi per la mostruosità della chiragra; i suoi piedi con un moto ritmico percotevano il terreno; un continuo tremore paralitico gli agitava i muscoli del collo, i gomiti, le ginocchia. Ed egli guardò Anna, tenendo a fatica dischiuse le palpebre infiammate. Finalmente si risovvenne.

Come Anna andava esponendo il proprio stato, la figlia di Sblendore odorando il denaro cominciava a concepire nell'animo speranze di usurpazione e per virtù delle speranze diveniva in volto più benigna. Sùbito che Anna terminò, ella le offerse l'ospitalità per la notte; le prese il canestro dei panni e lo ripose; promise di aver cura della testuggine; poi fece alcune querele compassionevoli su la infermità del vecchio e su la miseria della casa, non senza lacrime. Ed Anna uscì, con l'animo pieno di riconoscenza e di misericordia; risalì per la costa, verso lo scampanìo della basilica, provando un'ansia crescente nell'appressarsi.

In torno al palazzo Farnese il popolo rigurgitava ondoso; e quella gran reliquia feudale sovrastava ornata di paramenti, magnificata dal sole. Anna passò in mezzo alla folla, lungo i banchi degli argentarii artefici di arredi sacri e di oggetti votivi. A tutto quel candido scintillare di forme liturgiche il cuore le si dilatava per allegrezza; ed ella si faceva il segno della croce dinanzi a ogni banco come dinanzi a un altare. Quando giunse alla porta della basilica e intravide la luminaria e traudì il cantico del rito, ella non più contenne la veemenza della gioia; si avanzò fin verso il pulpito, con passi quasi vacillanti. Le ginocchia le si piegarono: le lacrime le sgorgarono dagli occhi allucinati. Ella rimase là, in contemplazione dei candelabri, dell'ostensorio, di tutte le cose che erano su l'altare, con la testa vacua, poiché dalla mattina non aveva più mangiato. E le prendeva le vene una debolezza immensa; l'anima le veniva meno in una specie di annientamento.

Sopra di lei, lungo la nave centrale le lampade di vetro componevano una triplice corona di fuochi. In fondo, quattro massicci tronchi di cera fiammeggiavano ai lati del tabernacolo.

 

XIV

I cinque giorni della festa Anna visse così, dentro la chiesa, dall'ora mattutina fino all'ora in cui le porte si chiudevano, fedelissima, respirando quell'aria calda che le infondeva nei sensi un torpore beatifico, nell'anima una felicità piena di umiltà. Le orazioni, le genuflessioni, le salutazioni, tutte quelle formule, tutti quei gesti rituali ripetuti incessantemente, la istupidivano. II fumo dell'incenso le nascondeva la terra.

Rosaria, la figlia di Sblendore, intanto ne traeva profitto, movendo la pietà di lei con false querimonie e con lo spettacolo miserevole del vecchio paralitico. Ella era una femmina malvagia, esperta nelle frodi, dedita alla crapula; aveva tutta la faccia sparsa di umori vermigli e serpiginosi, i capelli canuti, il ventre obeso. Legata al paralitico dai comuni vizi e dalle nozze, ella insieme con lui aveva disperse in breve tempo le già scarse sostanze, bevendo e gozzovigliando. Ambedue nella miseria, inveleniti dalla privazione, arsi da sete di vino e di liquori ignei, affranti da infermità senili, ora espiavano il loro lungo peccato.

Anna, con uno spontaneo moto caritatevole, diede a Rosaria tutto il denaro tenuto per le elemosine, tutti i panni superflui; si tolse gli orecchini, due anelli d'oro, la collana di corallo; promise altri soccorsi. E riprese quindi il cammino di Pescara, in compagnia di Fra Mansueto, portando nel canestro la testuggine.

In cammino, come le case di Ortona si allontanavano, una gran tristezza scendeva su l'animo della donna. Stuoli di pellegrini volgevano per altre vie, cantando: e i loro canti rimanevano a lungo nell'aria, monotoni e lenti. Anna li ascoltava; e un desiderio senza fine la traeva a raggiungerli, a vivere così pellegrinando di santuario in santuario, di contrada in contrada, per esaltare i miracoli d'ogni Santo, le virtù d'ogni reliquia, le bontà d'ogni Maria.

- Vanno a Cucullo - le disse Fra Mansueto, accennando col braccio a un paese lontano. E ambedue si misero a parlare di San Domenico che protegge dal morso dei serpenti gli uomini, e le semenze dai bruchi; poi d'altri patroni. - A Bugnara, sul Ponte del Rivo, più di cento giumenti, tra cavalli asini e muli, carichi di frumento vanno in processione alla Madonna della Neve: i devoti cavalcano su le some, con serti di spighe in capo, con tracolle di pasta; e depongono ai piedi dell'imagine i doni cereali. A Bisenti, molte giovinette, con in capo canestre di grano, conducono per le vie un asino che porta su la groppa una maggiore canestra; ed entrano nella chiesa della Madonna degli Angeli, per l'offerta, cantando. A Torricella Peligna, uomini e fanciulli, coronati di rose e di bacche rosee, salgono in pellegrinaggio alla Madonna delle Rose, sopra una rupe dov'è l'orma di Sansone. A Loreto Aprutino un bue candido, impinguato durante l'anno con abbondanza di pastura, va in pompa dietro la statua di San Zopito. Una gualdrappa vermiglia lo copre, e lo cavalca un fanciullo. Come il Santo rientra nella chiesa, il bue s'inginocchia sul limitare; poi si rialza lentamente, e segue il Santo tra il plauso del popolo. Giunto nel mezzo della chiesa, manda fuora gli escrementi del cibo; e i devoti da quella materia fumante traggono gli auspicii per l'agricoltura.

Di queste usanze religiose Anna e Fra Mansueto parlavano, quando giunsero alla foce dell'Alento. L'alveo portava le acque di primavera tra le vitalbe non ancora fiorenti. E il cappuccino disse della Madonna dell'Incoronata, dove per la festa di San Giovanni i devoti si cingono il capo di vitalbe e nella notte vanno sul fiume Gizio a passar l'acqua con grandi allegrezze.

Anna si scalzò per guadare. Ella sentiva ora nell'animo un'immensa venerazione d'amore per tutte le cose, per gli alberi, per le erbe, per gli animali, per tutte le cose che quelle usanze cattoliche avevano santificato. E dal fondo della sua ignoranza e della sua semplicità sorgeva l'istinto dell'idolatria.

Alcuni mesi dopo il ritorno, scoppiò nel paese un'epidemia colerica; e la mortalità fu grande. Anna prestò le sue cure agli infermi poveri. Fra Mansueto morì. Anna n'ebbe molto dolore; e nel 1866, per la ricorrenza della festa, volle prendere congedo e rimpatriare per sempre, poiché vedeva in sonno tutte le notti San Tommaso che le comandava di partire. Ella prese la testuggine, le sue robe e i suoi risparmii; baciò le mani di Donna Cristina, piangendo; e partì questa volta sopra un carretto, insieme con due monache questuanti.

A Ortona ella abitò nella casa dello zio paralitico; dormì su un pagliericcio; non si cibò se non di pane e di legumi. Dedicava tutte le ore del giorno alle pratiche della chiesa, con un fervore meraviglioso; e la sua mente vie più perdeva ogni altra facoltà che non fosse quella di contemplare i misteri cristiani, di adorare i simboli, d'imaginare il Paradiso. Ella era tutta rapita nella carità divina, era tutta compresa di quella divina passione che i sacerdoti manifestano sempre con gli stessi segni e con le stesse parole. Ella non comprendeva se non quell'unico linguaggio; non aveva se non quell'unico ricovero, tiepido e solenne, dove tutto il cuore le si dilatava in una pia securtà di pace, e gli occhi le s'inumidivano in un'ineffabile soavità di lacrime.

Soffrì, per amor di Gesù, le miserie domestiche; fu dolce e sommessa; non mai profferì un lamento, o un rimprovero, o una minaccia. Rosaria le sottrasse a poco a poco tutti i risparmii; e cominciò quindi a farle patire la fame, ad angariarla, a chiamarla con nomi disonesti, a perseguitarle la testuggine con insistenza feroce. Il vecchio paralitico metteva continuamente una specie di mugolìo rauco, aprendo la bocca ove la lingua tremava, onde colava in abbondanza la saliva continuamente. Un giorno, poiché la moglie avida beveva innanzi a lui un liquore e gli negava il bicchiere sfuggendo, egli si levò dalla sedia con uno sforzo, e si mise a camminare verso di lei: le gambe gli vacilavano, i piedi si posavano sul terreno con un'involontaria percussione ritmica. D'un tratto egli si accelerò, col tronco inclinato in avanti, saltellando a piccoli passi incalzanti, come spinto da un impulso irresistibile, finché cadde bocconi su l'orlo delle scale fulminato.

 

XV

Allora Anna, afflitta, prese la testuggine, e andò a chieder soccorso a Donna Veronica Monteferrante. Come la povera donna già negli ultimi tempi faceva alcuni servizi pel monastero, l'abadessa misericordiosa le diede l'ufficio di conversa.

Anna, se bene non aveva gli ordini, vestì l'abito monacale: la tunica nera, il soggòlo, la cuffia dalle ampie tese candide. Le parve, in quell'abito, di essere santificata. E, da prima, quando all'aria le tese le sbattevano in torno al capo con un fremito d'ali, ella trasaliva per un turbamento improvviso di tutto il suo sangue. E, da prima, quando le tese percosse dal sole le riflettevano nella faccia un vivo chiaror di neve, ella d'improvviso credevasi illuminata da un baleno mistico.

Con l'andar del tempo, le estasi si fecero più frequenti. La vergine canuta era colpita a quando a quando da suoni angelici, da echi lontani d'organo, da romori e voci non percettibili agli orecchi altrui. Figure luminose le si presentavano dinanzi, nel buio; odori paradisiaci la rapivano.

Così pel monastero una specie di sacro orrore cominciò a diffondersi, come per la presenza di un qualche potere occulto, come per l'imminenza di un qualche avvenimento soprannaturale. Per cautela, la nuova conversa fu dispensata da ogni obbligo d'opere servili. Tutte le attitudini di lei, tutte le parole, tutti gli sguardi furono osservati, comentati con superstizione. E la leggenda della santità incominciò a fiorire.

Su le calende di febbraio dell'anno di Nostro Signore 1873, la voce della vergine Anna divenne singolarmente rauca e profonda. Poi la virtù della parola d'un tratto scomparve.

L'inaspettato ammutolimento sbigottì gli animi delle religiose. E tutte, stando in torno alla conversa, ne consideravano con mistico terrore gli atteggiamenti estatici, i movimenti vaghi della bocca mutola, la immobilità degli occhi, d'onde a tratti sgorgavano profluvii di lacrime. I lineamenti dell'inferma, estenuati dai lunghi digiuni, avevano ora assunto una purità quasi eburnea; e tutte le trame delle vene e delle arterie ora trasparivano così visibili, e sporgevano con così forti rilievi, e così incessantemente palpitavano, che dinanzi a quel palesato palpito del sangue una specie di raccapriccio prendeva le monache come dinanzi a un corpo spoglio di sua pelle cristiana.

Quando fu prossimo il Mese di Maria, un'amorosa diligenza sollecitò le Benedettine al paramento dell'oratorio. Si spargevano elleno nel verziere claustrale tutto fiorente di rose e fruttificante di melarance, raccogliendo la messe del maggio novello per deporla ai piedi dell'altare. Anna, tornata nella calma, discendeva anch'ella ad aiutare la pia opera; e significava talvolta con i gesti il pensiero che la perdurante mutezza le toglieva di esprimere. S'indugiavano al sole tutte quelle spose del Signore, incedenti tra le fonti letifiche del profumo. Fuggiva lungo un lato del verziere un portico; e come nell'animo delle vergini i profumi risvegliavano imagini sopite, così il sole penetrando sotto li archi bassi ravvivava nell'intonico i residui dell'oro bisantino.

L'oratorio fu pronto per il giorno del primo ufficio. La cerimonia ebbe principio dopo il vespro. Una suora salì su l'organo. Subitamente dalle canne armoniche il fremito della passione si propagò in tutte le cose; tutte le fronti s'inclinarono; i turiboli diedero fumi di belgiuino; le fiammelle dei ceri palpitarono tra corone di fiori. Poi sorsero i cantici, le litanie piene di appellazioni simboliche e di supplichevole tenerezza. Come le voci salivano con forza crescente, Anna nell'immenso impeto del fervore gridò. Colpita dal prodigio, cadde supina; agitò le braccia, volle rialzarsi. Le litanie s'interruppero. Delle suore, alcune, quasi atterrite, erano rimaste un istante nell'immobilità; altre davano soccorso all'inferma. Il miracolo appariva inopinato, fulgidissimo, supremo.

Allora a poco a poco allo stupore, al murmure incerto, alle titubanze successe un giubilo senza limiti, un coro di esaltazioni clamorose, un'alata ebrietà canora. Anna, in ginocchio, ancora assorta nel rapimento del miracolo, non aveva conoscenza di quel che intorno avveniva. Ma quando i cantici con una maggior veemenza furono ripresi, ella cantò. La sua nota su dalla cadente onda del coro ad intervalli emerse, poiché le divote diminuivano la forza delle voci per ascoltare quella unica che dalla grazia divina era stata riconcessa. E la Vergine nei cantici a volta a volta fu l'incensiere d'oro onde esalavano i balsami più dolci, la lampada che dì e notte rischiarava il santuario, l'urna che racchiudeva la manna del cielo, il roveto che ardeva senza consumarsi, lo stelo di Iesse che portava il più bello di tutti i fiori.

Dopo, la fama del miracolo si sparse dal monastero in tutto il paese di Ortona, e dal paese in tutte le terre finitime, aumentando nel viaggio. E il monastero sorse in grande onore. Donna Blandina Onofrii, la magnifica, offerse alla Madonna dell'oratorio una veste di broccato d'argento e una rara collana di turchesi venuta dall'isola di Smirne. Le altre gentildonne ortonesi offersero altri minori doni. L'Arcivescovo d'Orsogna fece con pompa una visita gratulatoria, in cui rivolse parole di edificante eloquenza ad Anna che " con la purità della vita si era resa degna dei doni celesti ".

Nell'agosto del 1876 sopravvennero nuovi prodigi. L'inferma, quando si avvicinava il vespro, cadeva in uno stato di estasi con catalessia; donde sorgeva poi quasi con impeto. E in piedi, conservando sempre la medesima attitudine, cominciava a parlare, da prima lentamente e quindi gradatamente accelerando, come sotto l'urgenza di un'ispirazione mistica. Il suo eloquio non era se non un miscuglio tumultuario di parole, di frasi, di interi periodi già innanzi appresi, che ora nella sua inconsapevolezza si riproducevano, frammentandosi o combinandosi senza legge. Le native forme dialettali s'innestavano alle forme auliche, s'insinuavano nelle iperboli del linguaggio biblico; e mostruosi congiungimenti di sillabe, inauditi accordi di suoni avvenivano nel disordine. Ma il profondo tremito della voce, ma i cangiamenti repentini dell'inflessione, l'alterno ascendere e discendere del tono, la spiritualità della figura estatica, il mistero dell'ora, tutto concorreva a soggiogare gli animi delle astanti.

Gli effetti si ripeterono cotidianamente, con una regolarità periodica. Sul vespro, nell'oratorio si accendevano le lampade; le monache facevano la cerchia inginocchiandosi; e la rappresentazione sacra incominciava. Come l'inferma entrava nell'estasi catalettica, i preludii vaghi dell'organo rapivano gli animi delle religiose in una sfera superiore. Il lume delle lampade si diffondeva fievole dall'alto, dando un'incertitudine aerea e quasi una morente dolcezza all'apparenza delle cose. A un punto l'organo taceva. La respirazione nell'inferma diveniva più profonda; le braccia le si distendevano così che nei polsi scarnificati i tendini vibravano simili alle corde di uno strumento. Poi, d'un tratto, l'inferma balzava in piedi, incrociavale braccia sul petto, restando nell'atteggiamento mistico delle cariatidi d'un battistero. E la sua voce risonava nel silenzio, ora dolce, ora lugubre, ora quasi canora, quasi sempre incomprensibile.

Su i principii del 1877 questi accessi diminuirono di frequenza; si presentarono due o tre volte la settimana; poi disparvero totalmente, lasciando il corpo della donna in uno stato miserevole di debolezza. E allora alcuni anni passarono, in cui la povera idiota visse tra sofferenze atroci, con le membra rese inerti dagli spasimi articolari. Ella non aveva più alcuna cura della nettezza; non si cibava se non di pane molle e di pochi erbaggi; teneva in torno al collo, sul petto, una gran quantità di piccole croci, di reliquie, d'imagini, di corone; parlava balbettando per la mancanza dei denti; e i suoi capelli cadevano, i suoi occhi erano già torbidi come quelli dei vecchi giumenti che stanno per morire.

Una volta, di maggio, mentre ella soffriva deposta sotto il portico e le suore in torno coglievano per Maria le rose, le passò dinanzi la testuggine che ancora traeva la sua vita pacifica e innocente nel verziere claustrale. La vecchia vide quella forma muoversi e a poco a poco allontanarsi. Nessun ricordo le si destò, nell'anima. La testuggine si perse tra i cespi dei timi.

Ma le suore consideravano la imbecillità e la infermità della donna come una di quelle supreme prove di martirio a cui il Signore chiama gli eletti per santificarli e glorificarli poi nel Paradiso; e circondavano di venerazione e di cure l'idiota.

Nell'estate del 1881 apparvero i segni della morte prossima. Consunto e piagato, quel miserabile corpo ormai nulla più conservava di umano. Lente deformazioni avevano viziata la positura delle membra; tumori grossi come pomi sporgevano sotto un fianco, su una spalla, dietro la nuca.

La mattina del 10 settembre, verso l'ottava ora, un sussulto della terra scosse dalle fondamenta Ortona. Molti edifici precipitarono, altri furono offesi nei tetti e nelle pareti, altri s'inclinarono e s'abbassarono. E tutta la buona gente di Ortona, con pianti, con grida, con invocazioni, con gran chiamare di santi e di madonne, uscì fuori delle porte, e si raunò sul piano di San Rocco, temendo maggiori pericoli. Le monache, prese dal pànico, infransero la clausura; irruppero su la via, scarmigliate, cercando salvezza. Quattro di loro portavano Anna sopra una tavola. E tutte trassero al piano, verso il popolo incolume.

Come esse giunsero in vista dal popolo, unanimi clamori si levarono, poiché la presenza delle religiose parve propizia. In ogni parte, d'in torno, giacevano infermi, vecchi impediti, fanciulli in fasce, donne stupide per la paura. Un bellissimo sole mattutino illustrava le teste tumultuanti, il mare, i vigneti; e accorrevano dalla spiaggia inferiore i marinai, cercando le mogli, chiamando i figli per nome, ansanti per la salita, rochi; e da Caldara cominciavano a venire mandre di pecore e di bovi con i pastori, branchi di gallinacci con le femmine guardiane, giumenti; poiché tutti temevano la solitudine, e tutti, uomini e bestie, nel frangente si accomunavano.

Anna, adagiata sul suolo, sotto un olivo, sentendo prossima la morte, si rammaricava con un balbettìo fievole, perché non voleva morire senza i sacramenti; e le monache d'in torno le davano conforto; e gli astanti la guardavano con pietà. Ora, d'improvviso, tra il popolo una voce si sparse, che da Porta Caldara sarebbe uscito il busto dell'Apostolo. Le speranze risorgevano; canti di rogazione risorgevano nell'aria. Come da lungi vibrò un incognito luccichìo, le donne s'inginocchiarono; e con i capelli disciolti, lacrimose, si misero a camminare su le ginocchia, in contro al luccichìo, salmodiando.

Anna agonizzava. Sostenuta da due suore, udì le preghiere, udì l'annunzio; e forse in un'ultima illusione travide l'Apostolo veniente, poiché nella faccia cava le passò quasi un sorriso di gaudio. Alcune bolle di saliva le apparvero su le labbra; un'ondulazione brusca le corse e ricorse, visibile, le estremità del corpo; su gli occhi le palpebre le caddero, rossastre come per sangue stravasato; il capo le si ritrasse nelle spalle. E la vergine Anna così alfine spirò.

Quando il luccichìo si fece più da presso alle donne adoranti, si chiarì nel sole la forma di un giumento che portava in bilico su la groppa, secondo il costume, una banderuola di metallo.