Gargantua e Pantagruele vol. 1

di
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Rabelais François

GARGANTUA E PANTAGRUELE

 

traduzione di Gildo Passini - Formiggini editore, Roma 1925

 

 

LIBRO PRIMO - GARGANTUA

__

LA VITA ORRIFICISSIMA

DEL

GRANDE GARGANTUA

PADRE DI PANTAGRUELE

GIÀ COMPOSTA DAL SIGNOR ALCOFRIBAS

ASTRATTORE DI QUINTA ESSENZA

LIBRO PIENO DI PANTAGRUELISMO

AI LETTORI,

 

O voi che il libro a legger v'apprestate,

Liberatevi d'ogni passione

E leggendo non vi scandalizzate,

Chè non contiene male nè infezione.

Anche gli è ver che poca perfezione

V'apprenderete, salvochè nel ridere;

Non può il mio cuore senza riso vivere

E innanzi al duolo che vi mina e estingue,

Meglio è di riso che di pianto scrivere,

Chè il riso l'uom dall'animal distingue.

VIVETE LIETI

 

PROLOGO DELL'AUTORE

 

Beoni lustrissimi, e voi Impestati pregiatissimi (poichè a voi non ad altri dedico i miei scritti) Alcibiade nel dialogo di Platone intitolato il Simposio, lodando Socrate, suo precettore e, senza contrasto, principe de' filosofi, dice tra l'altro ch'egli era simile ai sileni. Per sileni s'intendeva una volta certe scatolette, quali vediamo ora nelle botteghe degli speziali, dipinte di figure allegre e frivole come arpie, satiri, ochette imbrigliate, lepri colle corna, anitre col basto, caproni volanti, cervi aggiogati ed altrettali immagini deformate a capriccio per eccitare il riso, quale fu Sileno, maestro del buon Bacco.

Ma quelle scatole dentro contenevano droghe fine come balsamo, ambra grigia, cinnamomo, muschio, zibetto, gemme ed altre sostanze preziose.

Così dunque di Socrate, diceva Alcibiade. Vedendolo fisicamente e giudicandolo dall'aspetto esteriore, non gli avreste dato un fico secco tanto brutto il corpo e ridicolo appariva il portamento, col suo naso a punta, lo sguardo di toro, la faccia da matto, semplice ne' modi, rozzo nel vestire, povero, disgraziato a mogli, inetto a tutti gli uffici della repubblica; sempre ridente, sempre quanto e più d'ogni altro bevente, sempre burlante e sempre dissimulante il suo divino sapere. Ma schiudendo quella scatola quale celeste e inapprezzabile droga dentro!

Intelletto più che umano, virtù meravigliosa, coraggio invincibile, sobrietà senza pari, contentatura facile, fermezza perfetta, disprezzo incredibile di tutte quelle cose per cui gli uomini vegliano, corrono, s'affannano, navigano, combattono.

A che tende, secondo voi questo preludio d'assaggio? A questo: voi, miei buoni discepoli, e altri mattacchioni, leggendo gli allegri titoli di alcuni libri di nostra invenzione come Gargantua, Pantagruele, La dignità delle braghette, I piselli al lardo cum commento, etc. credete troppo facilmente non trovarvi dentro che burle, stramberie e allegre fandonie, dacchè l'insegna esterna, chi non vi cerchi per entro, suona generalmente canzonatura e facezie. Ma le opere degli uomini non vanno giudicate con tanta leggerezza: l'abito non fa il monaco, dite voi stessi. E talora veste abito monacale chi tutto è, meno che monaco; e talora veste cappa spagnuola chi nulla ha di spagnuolo nell'anima. Aprire il libro dunque bisogna, e attentamente pesare ciò che vi è scritto. Allora v'accorgerete che la droga dentro contenuta è di ben altro valore che la scatola non promettesse: vale a dire che le materie per entro trattate non sono tanto da burla come il titolo dava a intendere.

E ammesso che, seguendo il senso letterale troviate materie abbastanza gaie e corrispondenti al titolo, non bisogna badare a quel canto di sirena, ma dare più alta interpretazione a ciò che per avventura crediate detto per festevolezza.

Sturaste mai bottiglie? Eh, per Bacco! E allora richiamatevi a mente l'aspetto che avevate. Vedeste mai un cane trovare un osso midollato? Il cane è, come dice Platone (Lib. II De Rep.) la bestia più filosofa del mondo. Se l'avete visto avrete potuto osservare con quale devozione lo guata, con qual cura lo vigila, con qual fervore lo tiene, con quale prudenza lo addenta, con quale voluttà lo stritola e con quale passione lo sugge. Perchè? Con quale speranza lo studia? Quale bene ne attende? Un po' di midolla e nulla più. Ma quel poco è più delizioso del molto di ogni altra cosa, perchè la midolla è alimento elaborato da natura a perfezione, come dice Galeno (III, Facult. Nat. e XI, De usu partium).

All'esempio del cane vi conviene esser saggi nel fiutare assaporare e giudicare questi bei libri d'alto sugo, esser leggeri nell'avvicinarli, ma arditi nell'approfondirli. Poi con attenta lettura e meditazione frequente rompere l'osso e succhiarne la sostanziosa midolla, vale a dire il contenuto di questi simboli pitagorici, con certa speranza d'esservi fatti destri e prodi alla detta lettura.

In essa troverete ben altro gusto e più ascosa dottrina la quale vi rivelerà altissimi sacramenti e orribili misteri su ciò che concerne la nostra religione, lo stato politico, la vita economica.

Credete per davvero che scrivendo l'Iliade e l'Odissea, Omero pensasse mai alle allegorie che dall'opera sua hanno scombiccherato Plutarco, Eraclide Pontico, Eustazio, Fornuto e ciò che da loro ha rubacchiato il Poliziano? Se ciò credete, non v'accostate nè punto nè poco alla mia opinione, la quale dichiara Omero aver pensato a quelle allegorie così poco quanto Ovidio potè pensare ai sacramenti dell'Evangelo, come s'è sforzato di dimostrare un tal frate Lubino vero pappalardo, per vedere se trovasse mai per avventura dei pazzi come lui, ossia coperchio degno della pentola, come dice il proverbio.

E se non sono in Omero perchè in queste allegre e nuove cronache avrebbero a essere misteri ai quali, dettandole, pensavo su per giù quanto voi, che probabilmente stavate bevendo al par di me?

Alla composizione di questo libro sovrano non perdetti nè occupai altro, nè maggior tempo, di quello assegnato alla mia corporal refezione; scrissi cioè, bevendo e mangiando. Questa è infatti l'ora più giusta per scrivere di alte materie e scienze profonde, come, a testimonianza di Orazio, ben facevano e Omero, modello degli scrittori, ed Ennio, il padre de' poeti latini, benchè un villano abbia detto che i suoi carmi sanno più di vino che d'olio.

Altrettanto dei libri miei disse un briccone; merda alla faccia sua! Del resto l'odor del vino, quanto è più stuzzicante, esilarante, orante, più celeste e delizioso che l'odor d'olio! E se Demostene teneva a vanto si dicesse che più spendeva in olio che in vino, io maggior gloria trarrò se si dica che più spendo in vino che in olio. Onore e gloria sarà per me esser detto buon gottiere e buon compagnone, questa fama io godo in tutte le buone compagnie di Pantagruelisti, mentre a Demostene fu rimproverato da un malinconico, che le sue orazioni puzzassero come l'immondo strofinaccio d'un sudicio oliandolo.

Pertanto interpretate ogni mio fatto e detto al giusto modo; abbiate in reverenza il cervello caseiforme che vi pasce di queste belle vesciche e a tutto vostro potere tenetemi sempre allegro.

Ed ora spassatevela, gioie mie, e lietamente leggete il resto a suffragio del corpo e a beneficio dei reni. Ma, oeh! mie care teste d'asino, date retta, che il malanno vi colga, ricordatevi di bere alla mia salute, e io vi renderò, ma subito, la pariglia.

 

CAPITOLO I.

Della genealogia e antichità di Gargantua.

Per conoscere la genealogia e antichità dalla quale è disceso Gargantua, vi rimando alla grande Cronaca Pantagruelina. Da quella apprenderete per disteso come i giganti nacquero in questo mondo e come per linea diretta da loro uscì Gargantua padre di Pantagruele; e non vi dispiaccia che ora me ne dispensi benchè la cosa sia tale che quanto più fosse ricordata e tanto più piacerebbe alle signorie vostre, come assicura l'autorità di Platone (Philebo e Gorgia) e di Flacco, il quale dice esservi alcuni argomenti (come questo senza dubbio) che più dilettano quanto più di frequente ripetuti.

Piacesse a Dio che ciascuno conoscesse con certezza la propria genealogia dall'arca di Noè fino ai giorni nostri! Io penso che parecchi sono oggi imperatori, re, duchi, principi e papi sulla terra, i quali discendono da qualche questuante o facchino. Come per converso molti sono accattoni, meschini e miserabili i quali discendono da sangue o lignaggio reale e imperiale, considerate le straordinarie trasmissioni di regni ed imperi dagli Assiri ai Medi, dai Medi ai Persiani, dai Persiani ai Macedoni, dai Macedoni ai Romani, dai Romani ai Greci e dai Greci ai Francesi.

E tanto per dirvi di me che vi parlo, io credo essere disceso da qualche ricco re o principe del tempo andato. Infatti mai non vedeste uomo più inclinato e più disposto di me a esser re e ricco, per potere far baldoria, star senza lavorare, senza preoccupazioni e arricchire i miei amici e tutte le persone sapienti e dabbene. Ma mi consolo pensando che lo sarò nell'altro mondo, e anche più che ora non osi sperare. Con tal pensiero, o migliore, consolatevi anche voi nelle vostre disgrazie e bevete fresco, se si può.

Tornando a bomba vi dico che per sovrana grazia dei cieli l'antica genealogia di Gargantua ci è stata conservata più integra che altra mai, eccettuata quella del Messia, della quale non parlo, chè non è di mia pertinenza, e i diavoli inoltre (cioè i calunniatori e gl'ipocriti) vi si oppongono. Fu trovata da Jean Andreau in un prato che possedeva presso l'arco Gualeau, sotto l'Oliva, verso Narsay.

Scavando i fossati, le vanghe degli zappatori urtarono in una gran tomba di bronzo, smisurata, che mai non ne trovavano la fine addentrandosi essa troppo avanti nelle chiuse della Vienne. Scoperchiatala, in un punto segnato con un bicchiere, intorno al quale era scritto in caratteri etruschi: Hic bibitur, trovarono nove fiaschetti ordinati allo stesso modo de' birilli in Guascogna. Quello che stava nel mezzo copriva un grosso, grasso, grande, grigio, vezzosetto, piccioletto, ammuffito libretto, odorante più forte ma non meglio che rose.

In esso fu trovata la detta genealogia scritta per disteso in lettere cancelleresche, non su carta, non su pergamena, non su tavolette cerate, ma su scorza d'olmo; tanto guaste tuttavia erano per vetustà le lettere, che appena se ne potevano decifrare tre di fila.

Fui chiamato io (benchè indegno) e con gran rinforzo d'occhiali, praticando l'arte colla quale si possono leggere lettere invisibili come insegna Aristotele, la tradussi e la potrete vedere, pantagruelizzando, vale a dire bevendo e a vostro agio leggendo le gesta orrende di Pantagruele.

Alla fine del libro era un trattatello intitolato: Le fanfaluche antidotate. I topi e le tignole o (per evitar menzogna) altre maligne bestie, avevano brucato il principio: il resto per reverenza dell'antichità l'ho accomodato e trascritto qui sotto.

CAPITOLO II.

Le fantaluche antidotate trovate in un monumento antico

...O... nuto il gran domator dei Cimbri

vie delll'aria, per paura della rugiada,

sua venuta traboccarono gli abbeveratoi

burro fresco giù piovente a ondate.

del quale quando la gran madre fu inaffiata,

Gridò a gran voce: "Messeri, pescatelo di grazia,

Chè la sua barba è quasi tutta inzaccherata:

O per lo meno reggetegli una scala"

Diceano alcuni che leccar la sua pantofola

Era meglio che penar per le indulgenze;

Ma sopravvenne un briccon matricolato,

Uscito dal buco dove si pescano i ghiozzi,

Il quale disse: "Messeri guardiamocene, per Dio,

L'anguilla c'è e si nasconde in questo banco.

Vi troverete (se scrutiamo ben da presso)

Una gran macchia in fondo alla mozzetta".

Quando fu pronto a leggere il capitolo,

Non vi trovò che le corna d'un vitello.

"Io sento (egli dicea) in fondo alla mia mitria

Sì freddo da gelarmisi il cervello".

Lo riscaldarono con fomenti di navone.

E fu contento di starsi al focolare

Purchè si desse un nuovo caval da stanghe

A tanta gente dal carattere bisbetico.

Discorsero del pozzo di San Patrizio,

Di Gibilterra e di mille altri buchi,

Per veder se si potessero cicatrizzare,

Così che più non avesser tosse;

Poichè sembrava a tutti non pertinente

Vederli così sbadigliare ad ogni vento.

Se per avventura fossero chiusi ammodo

Si potrebbero darli per ostaggio.

Ciò stabilito, il corvo fu pelato

Da Ercole che veniva dalla Libia.

"Chè? disse Minosse, perchè non vi sono chiamato anch'io?

Tutti sono invitati eccetto me;

E poi vogliono che passi la mia voglia

Di fornirli d'ostriche e ranocchie.

Che il diavolo mi porti se in vita mia

Io più m'assumo di vendere le loro conocchie.

Per domarli sopravvenne Q. B. lo zoppo,

Col salvacondotto de' graziosi stornelli.

Lo stacciatore, cugino del gran Ciclope,

Li massacrò. Ciascuno si soffi il proprio naso;

In questa terra pochi sodomiti nacquero

Che non siano stati messi alla gogna sul mulino del tannino

Corretevi tutti e sonate l'allarme:

Ci guadagnerete più che non ci guadagnaste mai.

Ben poco appresso, l'uccel di Giove

Deliberò scommettere pel peggio;

Ma vedendolo tanto corrucciarsi

Temè che si mettesse sossopra a ferro e a fuoco l'impero

E preferì il fuoco del cielo empireo

Rapire al tronco dove vendonsi le arringhe affumicate,

Piuttosto che l'aria serena contro cui si cospira,

Assoggettare ai detti dei Massoreti.

Tutto fu concluso con punta affilata

Malgrado Ate, dalle coscie aironesche,

Che là sedette vedendo Pantesilea

Scambiata nei suoi vecchi anni per venditrice di crescione.

Ciascun gridava; "O brutta carbonara,

Ti s'addice trovarti per la strada;

Tu la prendesti la romana bandiera

Che avevan fatto con orli di pergamena".

Se non era Giunone, che sotto l'arcobaleno

Col suo gufo sulla gruccia badava a richiamar gli uccelli,

Le avrebbero giocato un tiro birbone,

chè sarebbe stata conciata per le feste.

L'accordo fu che di quel boccone

Ella avrebbe avuto due uova di Proserpina;

E se mai ella vi fosse stata presa,

Si legherebbe al monte dell'Albaspina.

Sette mesi dopo, meno ventidue

Colui che un giorno annichilì Cartagine

Cortesemente s'interpose tra di loro

Chiedendo la sua eredità;

Oppure che giustamente facessero le parti

Secondo la legge bene ribadita

Distribuendo un tantino di zuppa

Ai suoi facchini che fecero il brevetto.

Ma verrà l'anno segnato da un arco turchesco,

Da cinque fusi e tre culi di marmitta,

Nel quale il dorso d'un re poco cortese,

Sarà pepato in abito d'eremita.

Oh qual pietà! Per un'ipocrita

Lascierete inabissarsi tanti campi?

Basta, basta! Questa maschera non imita alcuno:

Ritiratevi dal fratello dei serpenti.

Passato quest'anno, colui che è, regnerà

Tranquillamente coi suoi buoni amici.

Nè affronti, nè oltraggi allora domineranno

Tutto il buon volere avrà il suo compromesso.

E la gioia che fu già promessa

Alle genti del cielo, verrà nella sua torre.

Allroa gli stalloni che erano costernati

Trionferanno come palafreni regali.

E durerà questo tempo di mistificazione

Finché Marte abbia le catene:

Poi uno ne verrà superiore ad ogni altro,

Delizioso, piacevole, bello senza paragone.

In alto i cuori, accorrete a quel banchetto

Voi tutti, o miei fedeli: poichè tale è morto

Che non tornerebbe per qualsiasi bene

Tanto sarà lodato allora il tempo che fu.

Finalmente colui che fu di cera

Sarà alloggiato ai cardini di Jaquemart.

Più non sarà richiamato; "Sire, Sire,"

Lo scampanatore che tiene la pentola.

Ah chi potesse atterrare la sua daga!

Scomparirebbe il rombare dei cappucci;

E si potrebbe con un buon spago

Chiudere tutto il magazzino degli abusi.

 

 

CAPITOLO III.

Come qualmente Gargantua fu portato per undici mesi nel ventre materno.

 

Grangola era un buon burlone al tempo suo e amava bere schietto e mangiar salato quant'altri al mondo. A tal uopo teneva ordinariamente buona munizione di prosciutti di Magonza e di Baiona, moltissime lingue di bue affumicate, abbondanza di biroldi alla loro stagione, bue salato con mostarda; poi rinforzo di bottarga, una provvista di salciccie ma non di Bologna (non si fidava a' bocconi de' Lombardi) ma di Bigorra, di Lonquaulnay, de la Brenne e di Rouargue.

Giunto all'età virile sposò Gargamella, figlia del re dei Parpaglioni, bella traccagnotta e di bel mostaccio.

E facevano spesso insieme la bestia a due schiene fregandosi allegramente il loro lardo, sicchè ella ne ingravidò d'un bel maschio che portò fino all'undecimo mese.

Tanto infatti, e anche più, può durar la gravidanza delle donne, massimamente quando trattisi di qualche capolavoro, di personaggio che debba compiere nel tempo suo grandi prodezze. Così Omero dice che il fanciullo di che Nettuno ingravidò la ninfa, nacque dopo un anno compiuto, cioè il dodicesimo mese. Questo lungo tempo infatti (come dice Aulo Gellio, lib. III) conveniva alla maestà di Nettuno affinchè quel fanciullo fosse formato a perfezione. Allo stesso intento Giove fece durare quarantotto ore la notte che giacque con Alcmena, poichè in meno tempo non avrebbe potuto fucinare Ercole che purgò il mondo da tanti mostri e tiranni.

I signori Pantagruelisti antichi hanno confermato ciò ch'io dico ed hanno dichiarato non solo possibile ma anche legittimo il fanciullo nato dalla vedova l'undicesimo mese dopo la morte del marito.

Vedi infatti. Ippocrate, lib. De alimento.

Plinio, Hist. Nat. lib. VII, Cap. V.

Plauto, Cistellaria.

Marco Varrone, nella satira intitolata Il Testamento, allegante l'autorità di Aristotele a questo proposito.

Censorino, lib. De Die natali.

Aristotele, lib. VII, cap. III e IV. De Natura animalium.

Gellio, lib. III, cap. XVI.

Servio, in Egl. esponendo questo verso di Virgilio:

Matri longa decem ecc.

E mille altri pazzi, il numero dei guali è stato accresciuto dai legisti. Vedi infatti: Digesto; De suis legitimis heredibus, lege intestato, paragrafo finale.

E nelle Authenticae, il par. De restitutionibus et ea quae parit in undecimo mense post mortem viri.

Inoltre ne hanno scombiccherato le loro rodilardiche leggi, Gallo, De liberis et postumis heredibus etc. e nel libro settimo del Digesto; De statu hominum, e qualche altro che non oso nominare.

Grazie alle quali leggi le vedove possono bravamente esercitarsi al gioco di stringichiappe a tutto spiano e senza rischio fino a due mesi dopo la morte del marito. E però vi prego in cortesia, voialtri miei buoni bagascieri, se ne trovate qualcuna che metta conto di sfoderarci l'arnese, saltateci addosso e menatemela qui. Poichè se al terzo mese esse ingravidano, il figlio sarà erede del defunto. E, accertata la gravidanza, forza, coraggio, e avanti, e voga, e dagli, chè, tanto, la pancia è già piena!

Così Giulia, figlia dell'imperatore Ottaviano, non si abbandonava ai suoi stamburatori se non quando si sentiva gravida, a mò dei piloti che non montano a bordo se prima la nave non è calafatata e carica.

E se taluno le biasimi di farsi rotainconniculare gravide, laddove le bestie pregne non sopportano maschio maschioperante, esse risponderanno che le bestie son bestie e che esse son donne le quali bene intendono i belli e allegri minuti piaceri della superfetazione come già rispose Populia a quanto ci riferisce Macrobio (lib. II, Saturnali).

E se il diavolo non vuole che impregnino, tagli le cannelle e tappi tutti i buchi.

 

CAPITOLO IV.

Come qualmente Gargamella, gravida di Gargantua, fece una spanciata di trippe.

L'occasione e il modo come Gargamella partorì fu il seguente, e gli scappi il budello culare a chi non crede! Il budello culare le uscì fuori un dopopranzo, 3 di Febbraio, per aver fatto una scorpacciata di estapingui. Estapingui sono grasse trippe di manzi: manzi sono i buoi ingrassati alla greppia e al pascolo dei prati bisettili; e prati bisettili sono quelli che dànno due tagli d'erba all'anno. Di que' manzi ne avevano fatti macellare trecento settantasettemila e quattordici per metterli in sale il martedì grasso e aver carne ben stagionata a primavera per scialarsela con salati al principio del pasto e preparare degno ingresso al vino.

Le trippe abbondavano, come capite, e tanto appetitose da leccarsene ciascuno le dita. Ma ahimè, ahimè! C'era un gran guaio e cioè che non si potevano conservare a lungo, se no andavano a male e ciò sarebbe stato sconveniente: fu dunque stabilito di papparsele tutte e che nulla andasse perduto. A tal uopo furono convitati tutti i cittadini di Cinais, di Seuilly, di Roche Clermault, di Vaugaudry, senza trascurare Coudray, Montpensier, il Guado della Vède e altri vicini, tutti buoni tracannatori, buoni compagnoni e bravi giocatori di cavicchio. Il buon Grangola se la godeva un mondo e ordinava che se ne distribuisse a palate.

Raccomandava tuttavia alla consorte, già vicina al parto, che non abusasse di quella trippaglia, vivanda non troppo delicata.

Merda appetisce, chi ne mangia il sacco, sentenziava egli. Malgrado la raccomandazione ella ne mangiò sedici moggia, due barili e sei scodelle. Oh la bella materia fecale che doveva ribollirgli dentro!

Dopo pranzo, tutti mescolati insieme se ne andarono al Saliceto e là sull'erba folta, al suono di giocondi pifferi e dolci cornamuse danzarono sì allegramente ch'era uno spasso celeste veder tanta baldoria.

CAPITOLO V.

Ciò che dicono i beoni.

Poi decisero di fare uno spuntino sul posto. Ed ecco le bottiglie vanno, i prosciutti trottano, i bicchieri volano, i boccali tintinnano:

- Tira qui!

- Dammi!

- Gira!

- Annaffia!

- A me senz'acqua, amico, così!

- Fulminami questo bicchiere, gagliardamente!

- Versa qua del chiaretto e che il bicchiere pianga.

- Via la sete!

- Ah, falsa febbre, vuoi andartene sì o no?

- In fede mia comare: non riesco a mettermi in carreggiata di bere.

- Siete raffreddata amica mia?

- Un pochino.

- Eh, parliamo di bere, per san Barile.

- Io non bevo che alle mie ore come la mula del papa.

- Ed io non bevo che nel mio beviario come un padre guardiano.

- Chi venne prima, la sete o il bere?

- La sete, la sete! E chi avrebbe bevuto senza sete al tempo dell'innocenza?

- Il bere, dico io, perchè privatio praesupponit habitum, la privazione presuppone l'abitudine. Non son chierco per nulla. Faecundi calices quem non fecere disertum? Arca di scienza chi non vien tra i calici?

- Eppure noi siamo innocenti, ma non beviam che troppo senza sete.

- Ed io, peccatore, senza sete mai. Che se la sete non è presente, bevo per la sete futura, prevenendola, capite. Io bevo per la sete avvenire, bevo eternamente. E ciò mi dà eternità di bere e bere per l'eternità.

- Cantiam, beviam un mottetto intoniam!

- Dov'è il mio bicchier che m'intona!

- Ohè, il mio bicchiere è voto; non devo bere che per procura?

- Vi bagnate voi per asciugarvi, o v'asciugate per bagnarvi?

- Io non intendo la teoria, m'arrangio un po' colla pratica.

- Svelti!

- Io bagno, io umetto, io bevo e tutto per paura di morire.

- Bevete sempre, non morrete mai.

- Se non bevo resto asciutto, ed eccomi morto. La mia anima se ne scapperà in qualche palude colle rane, poichè l'anima non rimane mai all'asciutto.

- O coppieri, o creatori di nuove forme, rendetemi bevente da non bevente!

- Inaffiamento perpetuo a queste nervose e asciutte budella!

- Chi beve distratto non beve affatto.

- Questo va tutto in sangue, nulla se ne perde in piscio.

- Io laverei volentieri le trippe di questo vitello a cui stamane ho messo panni.

- Ah, ho ben zavorrato il mio stomaco!

- Se le mie cedole bevessero quanto me, i creditori avrebbero vino alla scadenza!

- Badate, la mano vi guasta il naso.

- Quanti entreran bicchieri prima che n'esca questo?

- Abbeverarsi a guado basso rompe il pettorale.

- Ma quelle fiaschette là si burlano di noi. Che si credono quei fiaschi d'esser lì per zimbello?

- Qual è la differenza tra bottiglia e fiaschetta?

- Grande, poichè la bottiglia si tura col tappo e la fiasca a vite.

- E avanti!

- I nostri padri bevvero bene e vuotarono i vasi.

- Ben caca... cantato! Beviamo!

- C'è qui questo sorso che va a lavar le trippe, avete nulla da dire al fiume?

- Più d'una spugna non bevo.

- Io bevo come un templare.

- E io tamquam sponsus.

- E io sicut terra sine aqua.

- Un sinonimo di prosciutto?

- Propulsorio del bere, oppure carretto. Il carretto conduce il vino in cantina, il prosciutto nello stomaco.

- Orsù, da bere! Da bere qua! C'è posto ancora! Respice personam pone pro duos: bus non est in usu.

Se io salissi così agevolmente come mando giù, da un pezzo sarei ben alto in aria.

- Così Jacques Cueur divenne ricco.

- Così s'avvantaggiano i boschi incolti.

- Così Bacco conquistò l'India.

- Così la scienza conquistò Melindo.

- Piccola pioggia placa un gran vento. Lunghe bevute rompono il tuono.

- Se la mia cannella pisciasse urina come questa, vi piacerebbe succhiarla?

- Vedremo a suo tempo.

- Paggio, mesci.

- Bevi Guglielmo! Ce n'è ancora un boccale.

- Io ricorro in appello contro la condanna alla sete. Paggio, qua, prendi nota dell'appello secondo procedura.

- Qua quella fetta!

- Una volta avevo l'abitudine di bere tutto, ora invece non ci lascio niente.

- Non occorre tanta fretta, sorbiamoci bene ogni cosa.

- Ecco qui trippe sublimi, trippe da far venir l'acquolina, di quel manzo rossigno dalla riga nera. Strigliamolo, per Dio, a onor dell'economia.

- Bevete, o vi...

- No, no!

- Bevete, vi prego.

- I passerottini non mangiano se non gli dai sulla coda, io non bevo se non colle buone.

- Lagona edatera. Non c'è buco in tutto il mio corpo dove questo vino non dia caccia alla sete.

- Questo qui me la frusta a modino.

- Questo qui me la bandisce del tutto.

- Sia qui proclamato a suon di fiaschi e bottiglie che chiunque avrà perduto la sete non venga a cercarla qui dentro. Con lunghe siringate di vino noi l'abbiamo cacciata fuor di casa.

- Il gran Dio fece i pianeti, noi facciamo i piatti netti.

- Ho la parola di Dio sulla punta della lingua: Sitio.

- La pietra detta àbestos non è più inestinguibile che la sete di mia Paternità.

- L'appetito vien mangiando, diceva Angest di Mans, ma la sete se ne va bevendo.

- Il rimedio contro la sete?

- È tutto l'opposto del rimedio contro i cani che mordono; correte sempre dietro al cane e mai non vi morderà.

- Ah, vi colgo a dormire, svegliatevi! Coppiere eterno, guardaci dal sonno! Argo aveva cent'occhí per vedere; a un coppiere occorrono le cento mani di Briareo, per versare infaticabilmente.

- Bagnamoci, ohè, che fa tempo secco.

- Bianco, bianco! Versa tutto, versa, corpo del diavolo! Versa qui ben pieno: la lingua mi brucia!

- Lans, tringue!

- A te compagno! di cuore! di tutto cuore!

- Là, là, là! Così me lo lappi.

- Oh, lachrima Cristi!

- È della Devinière, è vino pinello.

- Oh che finezza di vin bianco!

- Per l'anima mia; morbido come il taffetà.

- Eh, ah! E a un orlo solo, ben tessuto e di buona lana.

- Coraggio, camerata!

- A questo gioco non ci danno cappotto chè una levata... di gomito l'ho fatta.

- Ex hoc in hoc. Qui non c'è trucchi, ciascuno ha visto, io son maistre passè... Abrun abrun prestre Macè: volevo dire.

- Oh, i beoni! Oh gli assetati!

- Paggio, amico mio, riempi qua, e con tanto di corona, ti prego.

- Alla cardinalesca!

- Natura abhorret vacuum.

- Vi pare che una mosca ci possa bere?

- A la moda di Bretagna!

- Limpido come un rubino! Ah, che nettare!

- Giù, giù, è sugo d'erbe medicinali...

 

CAPITOLO VI.

Come qualmente Gargantua nacque in maniera ben strana.

 

Mentr'essi così cianciavano di beveraggio, Gargamella cominciò a sentire i dolori. Grangola levatosi a sedere sull'erba, la consolava bravamente pensando fossero le doglie del parto; e le diceva che là stesa sull'erba sotto i salici, metterebbe in breve piè nuovi, onde nuovo coraggio le conveniva trovare per l'avvento del nuovo figliolo; e che se quel dolore era increscioso, aveva tuttavia il grande vantaggio d'esser breve, e la gioia che ne seguirebbe cancellerebbe ogni fastidio sgombrando fino il ricordo. Ciò è dimostrabile, dimostratissimo, diceva egli. Afferma infatti Nostro Signore nell'Evangelio: (Joannis XVI) "la donna nell'ora del parto ha tristezza; ma dopo il parto perde il ricordo dell'angoscia".

- Ah, rispose ella, ben dite; e preferisco sentire le parole dell'Evangelio e mi fan più prò che sentire la storia di santa Margherita o non so che altra bigotteria.

- Coratella di pecora! diceva egli, sbrigatevi con questo, che ben presto ne faremo un altro.

- Ah, la è comoda per voialtri uomini. Sì, poichè ci tenete, farò del mio meglio, ma piacesse a Dio che ve lo foste tagliato.

- Che cosa? disse Grangola.

- Non fate l'indiano, mi capite benissimo.

- Il membro? Dite il membro? Sangue di capra! Qua un coltello che v'accontento.

- Ah, no, per carità! L'ho detto, Dio perdoni, per burla, non date retta. Ma oggi avrò un bel da fare se Dio non mi aiuta, e tutto per quel bischeraccio vostro, che Dio l'abbia in gloria.

- Coraggio, coraggio! Lasciate fare ai quattro buoi davanti e non badate al resto e state tranquilla. Io me ne vado a bere ancora una sorsata. Se capitasse il male non sono lontano, date una voce e correrò.

Poco dopo ella cominciò a sospirare, a lamentarsi, a gridare. Subito accorsero levatrici da ogni parte, a branchi. E tastandola sotto sentirono pelle di poco buon odore e pensarono fosse il neonato: ma altro non era se non il fondamento che scappava per la mollificazione dell'intestino retto, o budello culare, come voi lo chiamate, dovuto alla grande spanciata di trippe che sopra abbiam detto.

Allora una sozza vecchiaccia della compagnia, che aveva reputazione di gran medichessa ed era là venuta settant'anni prima, da Brisepaille presso Saint Genou le somministrò un astringente sì orribile che tutte le membrane ne furono serrate e contratte per modo che a gran pena le avreste slargate tirando coi denti, cosa orribile a dirsi; come accadde al diavolo quella volta alla messa di San Martino, quando allungò a forza di denti la sua pergamena per notarvi tutte le chiacchiere di due megere.

L'inconveniente fece rilassare più sopra i cotiledoni della matrice e il neonato ne profittò per saltarvi su; entrò nella vena cava e arrampicandosi per il diaframma fin sopra le spalle, dove la detta vena si biforca in due, prese la strada a mancina e uscì fuori per l'orecchia sinistra. Appena nato non strillò come gli altri: Mi, mi mi: ma gridava a gran voce: Bere, bere, bere! come invitando tutti quanti a bere, talchè fu udito in ogni paese dai confini di Bevessi fino a Berrò.

Mi viene un dubbio: che non crediate come cosa certa questa strana natività. Se non lo credete non me ne importa un fico, ma un uomo probo, un uomo di buon senso, crede sempre a ciò che sente, o trova scritto. Innocens credit omni verbo etc. dice Salomone (Proverbiorum XIV)

"Charitas omnia credit" dice san Paolo (Prima Corinthior. XIII) Ma perchè, scusate, non vorreste crederlo? Perchè, dite voi, non c'è nessuna verosimiglianza? Ma appunto per questa sola ed unica ragione dovete crederlo con fede perfetta. Dicono i sorbonisti che non altro è fede se non argomento delle cose non apparenti.

È contrario alla legge, alla fede, alla ragione, alla Santa Scrittura? Nella Santa Bibbia nulla trovo scritto in contrario. Se quello era il volere di Dio, chi oserebbe dire che non l'avrebbe potuto? Orsù fatemi la grazia di non imbaricuccolarvi mai il cervello con sì futili dubbi. A Dio nulla è impossibile, vi dico. E s'egli volesse, le donne d'ora innanzi si sgraverebbero tutte così, per l'orecchio.

Bacco non fu forse generato dalla coscia di Giove?

E Roccatagliata non nacque forse dal tallone della madre?

E Mangiamosche, dalla pantofola della nutrice?

E Minerva non nacque dal cervello per l'orecchio di Giove?

E Adone non uscì dalla scorza d'un albero di mirra?

Castore e Polluce non sbucarono dal guscio d'un ovo fatto e covato da Leda?

Oh, voi sareste ben più stupiti e trasecolati se vi esponessi ora tutto il capitolo di Plinio in cui si parla dei parti strani e contro natura. No, io non ho certo la faccia tosta di mentire come lui. Leggete, leggete il libro settimo della sua Storia Naturale, capitolo III e non rompetemi più le scatole...

CAPITOLO VII.

 

Come qualmente fu messo il nome a Gargantua e come egli tracannava il vino.

 

Il buon Grangola stava bevendo e spassandosi cogli altri quando intese il tremendo grido del figlio che veniva alla luce di questo mondo urlando: bere, bere, bere! E allora disse: "Que grand tu as!" (sottinteso la gola). Ciò udendo i presenti dissero che gli si dovesse metter nome Gargantua perchè questa era stata la prima frase del padre alla nascita, secondo l'esempio degli antichi ebrei. Consentì il padre e ne fu contentissima la madre. Per acquetarlo gli diedero bere a iosa e portatolo al fonte fu battezzato al costume dei buoni cristiani.

Per allattarlo convenientemente furono ordinate diciassettemila novecento e tredici vacche di Paurtille e di Brehemond; poichè non era possibile trovare in tutto il paese nutrice adeguata alla grande quantità di latte necessario ad alimentarlo. Alcuni dottori hanno affermato che l'allattò la madre, la quale poteva trarre dalle mammelle millequattrocento e due mastelli più nove boccali di latte ogni volta. Non è verosimile. E tale proposizione è stata dichiarata mammellensamente scandalosa dalla Sorbona, offensiva delle pie orecchie, come quella che puzza d'eresia lontano un miglio.

All'età d'un anno e due mesi, per consiglio de' medici cominciarono a farlo uscire in un carrozzino tirato da buoi, inventato da Gian Denyau. Lo portavano a spasso qua e là nel suo carrozzino lietamente, ed era un piacere vederlo, chè aveva un bel faccione con quasi diciotto pappagorgie e strillava ben di rado, ma si smerdava ogni momento, chè straordinariamente dolcetto era di tafanario, e per sua natural complessione, e per la disposizione accidentale causata dal soverchio ingollare di pappa settembrina. E non c'era goccia che ne ingollasse senza la sua ragione. Poichè se avveniva che fosse dispettoso, corrucciato, in collera, o triste; se sgambettava, o piangeva, o strillava, con una buona bevuta si rimetteva in sesto, tornava subito tranquillo e allegro.

Una delle governanti, m'ha assicurato e giurato sulla sua potta che egli c'era così avvezzo, che al solo tintinnio dei boccali e delle bottiglie, andava in estasi come se gustasse le gioie del paradiso. Onde esse, considerando quella sua divina facoltà, per rallegrarlo il mattino facevano tintinnire davanti a lui i bicchieri con un coltello, o le bottiglie coi tappi, o i boccali col coperchio: a quel tintinnio diventava festoso e sussultava e si cullava da sè, dondolando la testa, strimpellando il monocordo e baritonando di culo.

 

CAPITOLO VIII.

Come qualmente vestirono Gargantua.

 

Giunto a quell'età il padre ordinò gli facessero vestiti dei suoi colori, cioè bianco e azzurro. Vi misero mano e furono fatti, tagliati e cuciti alla moda del tempo.

Dagli antichi registri trovati nella Corte dei conti a Monsoreau si rileva che fu vestito come segue: per la camicia furono adoperate novecento aune di tela di Chasteleraud e duecento pei rinforzi quadrati da mettere sotto le ascelle. La camicia non era pieghettata, poichè la pieghettatura è stata inventata in epoca posteriore, quando le cucitrici, rompendosi la punta dell'ago, cominciarono a lavorar col culo.

Per il farsetto furono adoperate ottocento tredici aune di raso bianco e per le stringhe millecinquecento e nove pelli e mezza di cane.

Data da quel tempo la moda di attaccare le brache al farsetto invece del farsetto alle brache, come prima s'usava, uso questo contro natura come ampiamente ha dimostrato l'Ockam negli Esponibili di Messer Altabraca.

Per le brache occorsero mille cento e cinque aune e un terzo di stamigna bianca. E furono intagliate a fessure in forma di colonne striate e scannellate sul di dietro per non riscaldare i rognoni. I ritagli di damasco azzurro sfioccavano al di dentro quanto conveniva. E notate che aveva bellissime gambe e ben proporzionate alla statura.

Furono tagliate sedici aune e un quarto della stessa stoffa per la braghetta, la quale ebbe forma d'arco superbamente agganciato per due fibbie d'oro a due ganci smaltati su ciascuno dei quali era incastonato un grande smeraldo, della grossezza d'un'arancia. Lo smeraldo, infatti come dice Orfeo, (libro de Lapidibus) e Plinio (libro ultimo) possiede virtù erettiva e confortativa del membro. La braghetta sporgeva in avanti la lunghezza d'un canna ed era a spaccature come le brache, con il damasco azzurro svolazzante del pari. Ma, nel vedere i bei ricami di canutiglia e i graziosi intrecci d'oro, guarniti di fini diamanti, fini rubini, fini turchesi, fini smeraldi e grosse perle persiane, l'avreste comparata alle belle cornucopie rappresentate nei monumenti antichi, o a quella che Rea donò alle due ninfe Adrastea e Ida nutrici di Giove; sempre gagliarda, succulenta, trasudante, sempre verdeggiante, fiorente, fruttificante, riboccante d'umori, di fiori, di frutti, ricolma di tutte delizie. Giuro a Dio ch'era una gioia mirarla! Ma ben più vi dirò de' suoi meriti nel libro che ho scritto Sulla dignità delle braghette. Solo di questo mi preme avvertirvi, che se era ben lunga e ampia, era pure ben guarnita dentro e ben provveduta, in nulla rassomigliando alle ipocrite braghette d'un branco di bellimbusti, non gonfie d'altro che di vento, con grave pregiudizio del sesso femminile.

Per le sue scarpe furono messe in opera quattrocento e sei aune di velluto azzurro sgargiante. E furono tagliate a graziose striscie e spaccature parallele congiunte con cilindri uniformi. Per le suole a coda di merluzzo, furono adoperate mille e cento pelli di vacca bruna.

Per il saio furono tagliate milleottocento aune di velluto azzurro vivo. Un ricamo di bei pampini vi girava intorno e in mezzo erano ricamate d'argento di canutiglia belle pinte alternate di anelli d'oro con molte perle: ciò significava ehe sarebbe stato, a suo tempo un gran vuotabottiglie.

La cintura fu di trecento aune e mezza di saia di seta metà bianca e metà azzurra (se non m'inganno).

La spada non fu di Valenza, nè il pugnale di Saragozza, poichè suo padre odiava tutti quegl'hidalghi ubriaconi, marranizzati come diavoli; ma ebbe una bella spada di legno e il pugnale di cuoio bollito, pitturati e indorati a meraviglia.

La borsa fu fatta colla coglia d'un elefante donatogli da Her Pracontal proconsole di Libia.

Per la tunica furono tagliate novemila seicento aune, meno due terzi di velluto azzurro come il precedente, tutto trapunto d'oro a diagonale, che, guardato convenientemente presentava un colore cangiante, quale si vede al collo delle tortore, e dava mirabile gioia agli occhi.

Per il berretto furono tagliate trecento e due aune e un quarto di venuto bianco. Ebbe forma larga e rotonda e proporzionata al capo, poichè suo padre diceva che quei berretti alla Marrabisa fatti a mo' di pasticcio portavano un giorno o l'altro mala ventura ai loro tonduti.

Come pennacchio portava una bella piumona azzurra tolta ad un onocrotalo della selvatica Ircania, cadente con grazia sull'orecchio destro. Come coccarda portava in una placca d'oro del peso di sessantotto marchi, un rilievo proporzionato di smalto che raffigurava un corpo umano con due teste, l'una rivolta verso l'altra, quattro braccia, quattro piedi e due culi quale scrive Platone nel Simposio, essere stata l'umana natura nel suo mistico principio. E l'esergo recava in lettere ioniche Agape ou zetei ta elytes. Da portare al collo ebbe una catena d'oro del peso di venticinque mila e sessantatre marchi d'oro, tutta di grosse bacche intercalate di grossi diaspri verdi con incisi dragoni tutti contornati di raggi e scintille come li portava un tempo il Re Necepsos. Essa scendeva fino alla bocca dello stomaco onde risentì benefizio tutta la vita, come sanno i medici greci.

Per guanti furono adoperate sedici pelli di lontra e tre di lupo mannaro per l'orlatura. Quel genere di pelli fu suggerito dai cabalisti di Sainlouand.

Quanto agli anelli (che il padre volle portasse per ripristinare quell'antico segno di nobiltà) ebbe all'indice della mano sinistra un carbonchio grosso come un ovo di struzzo, incastonato graziosamente in oro di serafo, e all'anulare un anello di quattro metalli combinati nel modo più meraviglioso che mai fosse visto senza che l'acciaio intaccasse l'oro senza che l'argento soverchiasse il rame; opera questa del Capitano Chappuis e di Alcofribas, suo buon aiutante.

All'anulare della destra ebbe un anello fatto a spirale nel quale erano incastonati un balascio perfetto, un diamante a punta e uno smeraldo del Fisone, di prezzo inestimabile: Hans Carvel, gran lapidario del Re di Melindo, lo valutava sessantanove milioni, ottocentonovantaquattromila e diciotto montoni di gran lana; non meno lo stimarono i Fugger d'Augusta.

 

CAPITOLO IX.

I colori e la divisa di Gargantua.

I colori di Gargantua furono bianco e azzurro come più sopra avete potuto leggere, e con quelli voleva il padre signiíicare che il figliuolo gli era gioia celeste, poichè il bianco per lui voleva dire gioia, piacere, delizia, esultanza, e l'azzurro cose celesti. Capisco che leggendo queste parole voi riderete del vecchio beone e reputerete grossolana ed errata cotesta interpretazione dei colori affermando che il bianco significa fede, l'azzurro fermezza. Ma senza irritarvi, corrucciarvi, scaldarvi, nè alterarvi (chè il tempo è pericoloso) rispondetemi se vi piace. Nessuna violenza userò nè a voi, nè a chichessia, ma, solo, date qui un amplesso alla bottiglia.

Chi vi muove? Chi vi punge? Chi vi dice che bianco significa fede e azzurro fermezza? Un libercolo (dite voi) che vendono i girovaghi e i merciai ambulanti, dal titolo: Le blason des couleurs.

Chi l'ha scritto? Chiunque sia ebbe la prudenza di non metterci il nome; ma quanto al contenuto non so se più ammirare la sfrontatezza o la bestialità dell'autore.

Sfrontatezza poichè senza ragione, nè causa, nè verosimiglianza, ha osato imporre di sua autorità personale il significato dei colori; usanza questa, di tiranni che vogliono sostituire l'arbitrio alla ragione, non di savi e sapienti che con ragioni manifeste appagano i lettori.

Bestialità, poichè ha potuto credere che la gente regolasse le proprie divise secondo le sue sciocche imposizioni, senza dimostrazioni e argomenti convincenti.

Dice bene il proverbio: "a cul che scacazza sempre abbonda merda ".

Infatti ha trovato un resto di macacchi del tempo andato i quali, prendendo per buona moneta i suoi scritti, da quelli traggono norma per coniare apoftegmi e sentenze, combinar le gualdrappe ai loro muli, le livree ai paggi, i quarti alle brache, le orlature ai guanti, le frangie ai letti, le figure nelle insegne, per comporre canzoni e ciò ch'è peggio, per tramare clandestinamente imposture e brutti tiri contro le pudiche matrone.

Dentro simili tenebre sono immersi quei vanitosi cortigiani e allegorizzatori di nomi, i quali fanno dipingere nel loro blasone, una sfera per significare speranza, delle penne d'uccello per significare pene, la pianta ancolia per significare melanconia, la luna bicorne per vivere crescendo, un banco a pezzi per indicare bancarotta, un non e un'armatura per significare non durabit, un letto senza baldacchino per licenziato.

Omonimie tutte, codeste, tanto stupide e insipide e rozze e barbare, che chiunque le voglia ancora usare in Francia dopo il rinascere delle buone lettere, meriterebbe gli si attaccasse una coda di volpe al collo e gli si applicasse una maschera di sterco vaccino.

Per le stesse ragioni, (se ragioni debbo chiamarle e non farneticazioni) io farò dipingere un paniere per indicare che mi si fa penare; e un vaso di mostarda rappresenterà il mio cuore a cui molto tarda, e un vaso da notte sarà un ufficiale: e il fondo delle mie brache simboleggerà una nave mercantile, e la mia braghetta, la cancelleria delle sentenze e uno stronzo di cane, un tronco di qui dentro; ch'è la gioia della mia amica.

Ben altrimenti facevano un tempo i saggi d'Egitto quando scrivevano con lettere da essi chiamate geroglifiche. Nessuno intendeva, se non le intendeva, e intendeva ciascuno che intendesse la virtù, proprietà e natura delle cose da esse raffigurate.

Su questa materia Oro Apollonio ha composto due libri in greco e Polifilo, nel "Sogno d'Amore" ne ha esposto anche più. In Francia ne avete un accenno nella divisa del Signor Ammiraglio, già adottata prima di lui da Ottaviano Augusto.

Ma più oltre non farà vela la mia barchetta fra tali gorghi e bassifondi ostili e tornerò ad approdare al porto dal quale sono uscito. Ho tuttavia speranza di trattar più ampiamente questo soggetto un giorno e dimostrare, sia per ragioni filosofiche, sia per testimonianze ammesse e approvate da tutti gli antichi, quali e quanti colori sono in natura e che cosa simboleggi ciascuno, semprechè Dio mi conservi lo stampo del berretto, cioè il recipiente del vino come diceva mia nonna.

CAPITOLO X.

Ciò che significano i colori bianco e azzurro.

Il bianco dunque significa gioia, sollazzo, letizia e non a torto, ma a buon diritto e a giusto titolo, come potrete accertare se, messe da banda le prevenzioni, vorrete prestare orecchio a ciò che sto per esporvi.

Aristotele dice che supponendo due cose contrarie nella loro specie come bene e male, virtù e vizio, freddo e caldo, bianco e nero, piacere e dolore, gioia e tristezza e via dicendo, se le accoppiate in guisa che il contrario d'una specie s'accordi ragionevolmente col contrario d'un'altra specie, ne consegue che si accordano i due contrari residui. Esempio: Virtù e vizio sono contrari in una specie e bene e male del pari. Se uno dei contrari della prima specie s'accorda con uno della seconda, come virtù e bene (poichè è certo che la virtù è buona) altrettanto faranno i due residui, che sono male e vizio, poichè il vizio è cosa cattiva.

Ammessa questa regola di logica, prendete i due contrari: gioia e tristezza e poi gli altri due: bianco e nero che sono contrari fisicamente. Se è vero che nero significa lutto, a buon diritto bianco significherà gioia.

Questo significato non è istituito per imposizione d'uomini, ma accertato per libero consenso da tutto il mondo, ciò che i filosofi chiamano Jus gentium, diritto universale valevole per ogni contrada.

È noto infatti che tutti i popoli d'ogni nazione e lingua (eccetto gli antichi Siracusani e alcuni Argivi che avevano l'anima di traverso) volendo manifestare per segni esteriori la loro tristezza, mettono abito nero e ogni lutto è significato dal nero. Il detto consentimento universale non è avvenuto senza qualche buon argomento e ragione di natura, che ognuno può comprendere immediatamente da sè senza esser istruito da altri: è ciò che noi chiamiamo diritto naturale.

Nel bianco, per la medesima induzione di natura,tutti vedono gioia, letizia, gaudio, piacere, diletto.

In passato i Traci e i Cretesi segnavano i giorni fortunati e lieti con pietre bianche, i tristi e sfortunati con nere.

La notte non è essa funebre, triste e malinconica? Essa è nera e oscura, per privazione. La luce non rallegra tutta la natura? Ed essa è bianca più di qualsiasi altra cosa. E per provarlo potrei rinviarvi al libro di Lorenzo Valla contro Bartolo; ma la testimonianza evangelica basterà. In Matteo, XVII, è detto che alla trasfigurazione di nostro Signore, vestimenta eius facta sunt alba sicut lux; le sue vesti divennero bianche come la luce. Con quella bianchezza luminosa dava a comprendere ai tre apostoli presenti l'immagine e forma delle gioie eterne poichè dalla luce tutti gli uomini sono rallegrati. Così avete la sentenza di una vecchia che, pur senza più denti in bocca, diceva: Bona lux! E Tobia al cap. V quando perduta la vista, Raffaele lo salutò, rispose: Quale gioia potrò io avere che non veggo punto la luce del cielo? Con lo stesso colore gli angeli testimoniarono la gioia di tutto l'universo alla resurrezione del Salvatore (Ioan. XX) e alla sua ascensione (Act. I). E pur di candidi abbigliamenti San Giovanni Evangelista (Apoc. IV e VII) vide vestiti i fedeli nella celeste Gerusalemme beatificata.

Leggete le antiche istorie greche e romane e troverete che la città di Alba, prima madre di Roma, fu fondata e così chiamata per la scoperta d'una troia bianca.

Troverete che il vincitore dei nemici cui era decretato il trionfo entrava in Roma sopra un carro tirato da cavalli bianchi. Lo stesso chi vi entrava in ovazione: poichè per nessun altro segno e colore poteva esprimersi la gioia della loro entrata, se non col bianco.

Troverete che Pericle, duca degli Ateniesi, volle che passassero la giornata in gioia, godimenti e riposo quelli dei suoi guerrieri ai quali erano toccate fave bianche, mentre quelli altri dovevano combattere. Mille altri esempi e passi potrei citarvi a questo proposito, ma non è qui il luogo.

E mediante questa interpretazione potete risolvere un problema che Alessandro Afrodisiaco ha reputato insolubile: perchè il leone, che colle sole sue urla e ruggiti spaventa tutti gli animali, ha timore e riverenza solo del gallo bianco? Perchè (come dice Proclo, lib. De sacrificio et Magia) la presenza della virtù del sole che è organo e modello di ogni luce terrestre e siderale, è più simboleggiata e trasfusa nel gallo bianco, tanto pel colore quanto per la sua proprietà e ordine specifico, che nel leone. E Procio aggiunge che furono spesso visti diavoli sotto forma leonina sparire in un attimo alla presenza d'un gallo bianco.

Ed è questa la causa per cui i Galli (cioè i Francesi) detti galli perchè sono per natura bianchi come il latte, che i Greci chiamavano gala, portano volentieri piume bianche sui loro berretti. Infatti essi sono per natura allegri, candidi, graziosi e molto amati; e per simbolo e insegna

nazionale hanno il fiore più bianco d'ogni altro: il giglio.

Se domandate come la natura c'induce a intendere gioia e letizia nel color bianco; vi rispondo: per cagion d'analogia e di conformità. Poichè secondo Aristotele (Problemi) il bianco esteriormente disgrega e sparge la vista dissolvendo manifestamente gli spiriti visivi e prospettivi. E lo sperimentate quando passate monti coperti di neve, lagnandovi di non poter ben guardare, come scrive Senofonte, essere avvenuto alle sue genti e come Galeno espone ampiamente (libro X, de Usu partium). Parimenti il cuore per gioia straordinaria si disgrega all'interno e patisce manifesta risoluzione di spiriti vitali: la quale può diventar così grande da lasciarlo privo di spiriti, onde la vita sarebbe spenta per pericaria, come dice Galeno (lib. XII method., lib. V de Locis affectis, e lib. II, De symptomaton causis,) e come testimoniano nel tempo andato Marco Tullio (lib. I Quaestio. tuscul.) Verrio, Aristotele, Tito Livio, dopo la battaglia di Canne, Plinio, (lib. VII, cap. XXXII e LIII) A. Gellio, (lib. II, XV) e altri, essere avvenuto a Diagora di Rodi, a Chilone, a Sofocle, a Dionisio tiranno di Sicilia, a Filippide, a Filemone, a Policrata, a Filistione, a M. Juvenzio e ad altri che morirono di gioia. E come dice Avicenna (Canone II e lib. De Viribus Cordis) a proposito dello zafferano il quale, a prenderlo in dose eccessiva, tanto rallegra il cuore da togliergli la vita per risoluzione e dilatazione superflua. E qui vedete Alessandro d'Afrodisia (lib. primo Problematum, cap. XIX). E mi par che basti chè son proceduto avanti in questa materia più che non volessi al principio. A questo punto dunque ammainerò le vele rimettendo il resto al libro esclusivamente a ciò dedicato. Quanto all'azzurro, dirò in una parola che significa certamente cielo, cose celesti, per gli stessi simboli onde il bianco significa gioia e piacere.

 

CAPITOLO XI.

Dell'adolescenza di Gargantua.

 

Dai tre ai cinque anni Gargantua fu allevato ed educato secondo il volere del padre in ogni disciplina conveniente; e passò quel tempo come tutti i bimbi del paese; bevendo mangiando e dormendo; mangiando, dormendo e bevendo; dormendo bevendo e mangiando.

Sempre s'avvoltolava nel fango, s'incarbonava il naso, s'imbrattava la faccia, scalcagnava le scarpe, sbadigliava spesso alle mosche e inseguiva volentieri i farfalloni soggetti alla giurisdizione dell'impero paterno. Si pisciava sulle scarpe, smerdava la camicia, si soffiava il naso nelle maniche, moccicava nella minestra, sguazzava dappertutto, beveva nelle pantofole e si grattava di solito la pancia con un paniere. Aguzzava i denti con uno zoccolo, lavava le mani nella minestra, si pettinava con un bicchiere, sedeva fra due selle col culo a terra, si copriva con un sacco bagnato, beveva mangiando la zuppa, mangiava la focaccia senza pane, mordeva ridendo, rideva mordendo, sputava nel piatto, peteggiava grasso, pisciava contro il sole, si tuffava nell'acqua per ripararsi dalla pioggia, batteva il ferro quand'era freddo, fantasticava chimere, faceva lo smorfioso, faceva i gattini, diceva il pater noster della bertuccia, ritornava a bomba, faceva l'indiano, batteva il cane davanti al leone, metteva il carro davanti ai buoi, si grattava dove non gli prudeva, faceva cantare i merli, troppo abbracciava e nulla stringeva, mangiava il pan bianco per primo, metteva i ferri alle cicale, si faceva il solletico per iscoppiar dal ridere, si slanciava con ardore in cucina, la faceva in barba agli dei, faceva cantar magnificat a mattutino e gli andava a fagiolo. Mangiava cavoli e cacava tenero, discerneva le mosche nel latte, faceva perder le staffe alle mosche, raschiava la carta, scarabocchiava la pergamena, se la dava a gambe, tirava all'otre, faceva i conti senza l'oste, faceva il battitore senza prendere gli uccelletti, prendeva le nuvole per padelle di bronzo e le lucciole per lanterne, pigliava due piccioni a una fava, faceva l'asino per aver crusca, del pugno faceva mazzuolo, voleva mettere il sale sulla coda alle gru per prenderle, sfondava porte aperte, a caval donato guardava sempre in bocca, saltava di palo in frasca, tra due verdi metteva una matura, colla terra faceva il fosso, faceva guardia alla luna contro i lupi, sperava, calando le nubi, prendere le allodole cascate da cielo, faceva di necessità virtù, quale il pane, tale faceva la zuppa, faceva distinzione fra rasi e tonduti, ogni mattina vomitava l'anima. I cagnolini del padre mangiavano nella sua scodella; ed egli mangiava con loro. Egli mordeva loro orrecchie, essi gli graffiavano il naso; egli soffiava loro nel culo, essi gli leccavan le labbra.

E volete, sentirne una, ragazzi? Che il mal di botte v'inghiotta! Questo piccolo porcaccione palpeggiava sempre le sue governanti sopra e sotto, davanti e di dietro e arri somari! E cominciava già a esercitare la braghetta che ogni giorno le governanti gli adornavano di bei mazzolini, di bei nastri, di bei fiori, di bei fiocchi. Esse passavano il tempo a farla rinvenire tra le mani come il maddaleone da impiastri, poi scoppiavano a ridere quand'essa levava le orecchie come se il gioco fosse loro piaciuto.

L'una lo chiamava: mia cannelluccia, l'altra: mio bischero, l'altra: mio ramoscello di corallo, l'altra: mio cocchiume, mio turacciolo, mio trapano, mio stantuffo, mio succhiello, mio pendaglio, mio rude gingillo duro ed arzillo, mio mattarello, mio salciccin di rubino, mio coglioncin bambino.

- È per me, diceva l'una.

- È mio, diceva l'altra.

- Ed io, diceva una terza, debbo dunque restarne senza? Ma allora perbacco lo taglio.

- Tagliarlo! diceva un'altra; ma gli farete male signora mia; tagliereste il pipi ai bimbi? Verrebbe su il signor Senzacoda.

E perchè si divertisse come i bambini del paese, gli fabbricarono un bel mulinello con le pale d'un mulino a vento del Mirabelais.

 

CAPITOLO XII.

Dei cavallucci fittizi di Gargantua.

Poi, affinchè fosse tutta la vita buon cavaliere, gli fabbricarono un bel cavallone di legno, che egli faceva impennare, saltare, volteggiare, springare e danzare tutto insieme, e andar di passo, di trotto, di trapasso, di galoppo, all'ambio, di mezzo galoppo, di travargo, alla camellesca, all'onagresca e gli faceva cambiar pelo (come i monaci cambiano dalmatica secondo le feste) dal baio scuro all'alezano, al grigio pomellato, al topino, al cervino, al roano, al vaccino, allo screziato, al variegato, al punteggiato, al bianco.

Egli stesso si fece di un grosso traino, un cavallo da caccia, uno per tutti i giorni con un fusto da frantoio, e con una grossa quercia, una mula ingualdrappata per la camera. N'ebbe inoltre altri dieci o dodici di ricambio e sette per la posta. E tutti quanti li metteva a dormire coricati vicino a sè.

Un giorno capitò a visitare suo padre, con gran corteo e pompa, il signore di Paninsac. Proprio lo stesso giorno erano venuti a trovarlo anche il duca di Sbafagratis e il conte Masticavento.

In fede mia, il castello risultò un po' stretto per tanta gente, specie le scuderie: allora il maggiordomo e il maresciallo degli alloggi del detto signore di Paninsac, per sapere se in qualche altro angolo della casa vi fossero stalle disponibili, si rivolsero a Gargantua ancor fanciullo, considerando che i bambini volentieri spiattellano tutto, e gli domandarono, in confidenza, dove erano le scuderie dei grandi cavalli.

Gargantua li condusse salendo la grande scalea del castello e passando per la seconda sala, in una grande galleria per dove entrarono in un torrione. Mentre salivano un'altra scalinata, il maresciallo disse al maggiordomo:

- Questo ragazzo ci mena pel naso: le scuderie non sono mai alla sommità delle case.

- Adagio, disse il maggiordomo, io conosco posti, a Lione, alla Baumette, a Chinon e altrove, nei quali le Scuderie stanno al sommo della casa, e può darsi che ci sia un'uscita posteriore che metta al montatoio; ma per maggior sicurezza ora glielo chiedo.

- Dove ci conducete, carino mio? domandò a Gargantua.

- Alla stalla dei miei grandi cavalli, ci siamo quasi, non mancano che questi gradini.

Poi, facendoli passare per un altro salone, li condusse alla sua camera e, aprendo la porta:

- Ecco, disse, le scuderie che chiedete: ecco qui il mio ginnetto, il mio ungherese, il mio lavedano, il mio trottatore.

E mettendo loro sulle spalle una grossa leva:

- Vi regalerò, disse, questo frisone; mi viene da Francoforte, ma sarà vostro; è un gran buon cavalletto e di gran resistenza. Con un terzuolo, una mezza dozzina di cani spagnuoli e un paio di levrieri, eccovi fatti re e padroni delle pernici e delle lepri per tutto questo inverno.

- Per San Giovanni! dissero essi, siamo capitati bene! Abbiamo preso un bel granchio.

- Non è vero, diss'egli: granchi non ce n'è stati qui dentro da tre giorni.

Indovinate un po' ora se era più il caso di nascondersi per la vergogna o di ridere per la facezia.

E mentr'essi scendevano tutti confusi egli domandò:

- Volete un'albiera?

- Cos'è?

- Cinque stronzi da farvi una musoliera, rispose

- Per oggi, osservò il maggiordomo, se ci mettono arrosto, non rischiamo di bruciare, poichè siamo conditi in tutte le salse, se non erro. Tu ci hai scornato, carino mio, un giorno o l'altro ti vedrò papa.

- È probabile, diss'egli; ma allora voi sarete papilione e questo grazioso pappalardo sarà un pappagallo perfetto.

- Vero, vero, disse il maresciallo.

- Ma, disse Gargantua, indovinate quanti punti d'ago vi sono nella camicia di mia madre.

- Sedici, rispose il maresciallo.

- Non è parola di vangelo, affermò Gargantua, poichè ce n'è davanti e di dietro, li contaste troppo male.

- Quando? chiese il maresciallo.

- Quando il vostro naso, disse Gargantua, servì di cannella per spillare un moggio di merda, e la vostra gola servì d'imbuto per travarsarla in altro recipiente, essendo le doghe sconnesse.

- Corpo di Dio! disse il maggiordomo, abbiamo incontrato qui un bel burlone. Dio vi salvi dai malanni, signor chiacchierino, tanto avete lo scilinguagnolo sciolto!

Così discendendo in gran fretta sotto la volta delle scale lasciarono cadere la grossa leva di cui l'aveva cariccati, onde Gargantua:

- Voi siete pessimi cavalieri, diavolo! Il vostro cortaldo vi manca proprio al momento del bisogno. Se vi occorresse andar di qui a Cahusac che preferireste: cavalcare un'ochetta o menare una troia al guinzaglio?

- Preferirei bere, disse il maresciallo.

Così dicendo, entrarono nella sala terrena ov'era raccolta tutta la brigata e raccontando loro la nuova avventura, li fecero ridere come un branco di mosche.

 

CAPITOLO XIII.

Come qualmente Grangola s'accorse dell'intelligenza meravigliosa di Gargantua per l'invenzione d'un forbiculo.

 

Sul finir dei cinque anni, Grangola, di ritorno dalla disfatta inflitta ai Canariani, venne a trovare suo figlio Gargantua. E ne fu tutto lieto come poteva essere un tal padre rivedendo un tal figlio.

Lo baciava, lo abbracciava e non cessava di interrogarlo su diverse cose, bamboleggiando con discorsi puerili. E bevve con lui e le sue governanti alle quali, tra l'altro, domandava insistentemente, se l'avessero tenuto lavato e pulito. Gargantua rispose che aveva a ciò provveduto egli stesso, in guisa che in tutto il territorio non v'era bimbo più netto di lui.

- In che modo? chiese Grangola.

- Ho inventato, rispose Gargantua, con lunghi e diligenti esperimenti, un modo di forbirmi il culo, che è il più signorile, il più eccellente, il più spedito che mai si vedesse.

- Quale? chiese Grangola.

- Ora ve lo dico rispose Gargantua. Una volta mi pulii col cache nez di velluto di una delle damigelle e lo trovai buono per la morbidezza della seta che mi dava una voluttà ineffabile al fondamento; un'altra volta con un loro cappuccio e fu lo stesso; un altra volta con una sciarpa da collo; un'altra volta con le orecchiette del cappuccio, di raso rosso; ma il ricamo in oro di tante piccole sfere di merda che v'erano applicate, mi scorticarono tutto il di dietro; che il fuoco di Sant'Antonio possa bruciare il budello culare dell'orefice che lo fece e della damigella che lo portò!

Il male passò forbendomi con un berretto da paggio, bene impennacchiato alla svizzera.

Poi, cacando dietro un cespuglio, trovai un gatto marzolino e me ne servii per forbirmi, ma quello con l'unghie mi ulcerò tutto il perineo.

Guarii l'indomani forbendomi coi guanti di mia madre, ben profumati di malzoino.

In seguito mi forbii colla salvia, col finocchio, coll'aneto, colla maggiorana, colle rose, colle foglie di zucca, di cavolo, di bietola, di vite, d'altea, di verbasco (il rossetto del culo), di lattuga, di spinaci - questi furono di gran giovamento alla mia gamba - poi di mercorella, di persicaria, d'ortica, di conzolida; ma queste mi produssero il cacasangue, come dicono i Lombardi, del quale guarii forbendomi colla mia braghetta.

Poi mi forbii colle lenzuola, colla coperta, colle tendine, con un cuscino, con un tappeto usuale, con uno verde, con uno straccio, con un tovagliolo, con un fazzoletto, con un accappatoio. E n'ebbi da tutti piacere più che i rognosi sotto la striglia.

- Ma insomma, disse Grangola, di tanti forbiculi quale ti parve il migliore?

- Un momento, disse Gargantua, non tarderete a saperne il tu autem. Mi forbii ancora col fieno, la paglia, la stoppa, la borra, la lana, la carta. Ma

Chi con carta il cul deterge,

Sui coglion la merda asperge.

- Che! esclamò Grangola, tu rimi già, ti sei dunque strofinato alla bottiglia, coglioncino mio?

- Certo, mio re, rispose Gargantua, e rimo anche meglio e rimo tanto che spesso nel rimar m'inreumo. Ascoltate un po' ciò che la vostra latrina canta ai cacatori:

Cacone,

Diarrone,

Petone,

Stercoso,

Il lardo

Ti sfugge,

Si strugge,

Ha in me

Riposo.

Schifoso,

Merdoso,

Goccioso,

Di Sant'Antonio ti bruci il martir,

Se tutti

Gl'impuri

Tuoi buchi

Non turi,

E non forbisci avanti di partir.

 

Ne volete ancora?

- Sì, per Bacco, rispose Grangola.

- E allora, rispose Gargantua, ecco qua:

 

RONDÒ.

Cacando l'altro ier comodamente,

La gabella pagai che al culo devo.

Non fu l'odore tal quale credevo,

E ne rimasi tutto puzzolente.

Oh, se m'avesse alcun cortesemente

Condotto la Gentile che attendevo

Cacando.

A lei col mio buon mestolo imbrandito

Il buco dell'urina avrei condito,

Mentr'ella avrebbe col suo roseo dito

Il buco della merda a me forbito,

Cacando.

 

Ed ora andate a dire che sono un buono a nulla. Oh per la merda! Mica li ho fatti io questi versi, ma udendoli recitare dalla nobil matrona che vedete qui, li ho conservati nel ripostiglio della mia memoria.

- Torniamo, disse Grangola, al nostro argomento.

- Quale? Cacare? chiese Gargantua.

- Ma no, rispose Grangola, forbire il culo.

- Siete disposto, chiese Gargantua, a pagare un buon barile di vin bretone se vi metto nel sacco in questa materia?

- Volentieri, rispose Grangola.

- Non è necessario forbir culo, disse Gargantua, se non sia sporco: sporco esser non può se non s'è cacato; conviene dunque primum cacare, e poi forbirsi il culo.

- Oh quanto senno, figliolo mio! esclamò Grangola. Uno di questi giorni ti fo promuovere dottore alla Sorbona chè, per Dio, hai più saviezza che anni. Ma seguita ora, ti prego, l'argomento forbiculativo. E per la mia barba, prometto che non un barile, ma sessanta botti ti dono, di quel buon vin bretone, intendo, che veramente non cresce in Bretagna, ma nella buona terra di Verron.

- Provai poscia, continuò Gargantua, a forbirmi con una parrucca, con un origliere, con una pantofola, con un carniere, con un paniere - Oh l'ingrato forbiculo codesto! - poi coi cappelli. Notate che i cappelli, taluni son lisci, altri pelosi, altri vellutati, altri di seta, altri di raso. Migliori di tutti son quelli col pelo, che astergono in modo perfetto, la materia fecale. Poi mi forbii con una gallina, con un gallo, con un pollastro, con pelle di vitello, con una lepre, con un piccione, con un marangone, con una borsa d'avvocato, con una barbuta, con una cuffia, con un logoro. Ma concludendo, dico e sostengo che non v'ha forbiculo migliore d'un papero di copiosa pelurie, tenendogli però la testa fra le gambe. Lo affermo sull'onor mio, credetemi, voi vi sentite una voluttà mirifica all'orifizio del culo sia per la dolcezza di quella pelurie sia pel tepore del papero che facilmente comunicandosi al budello anale ed agli altri intestini, arriva fino alla regione del cuore e del cervello. Oh, non è a credere che la beatitudine degli eroi e semidei che se la godono nei Campi Elisi, derivi dal loro asfodelo, o dall'ambrosia e del nettare come dicono le nostre vecchierelle. La loro beatitudine viene, a mio avviso, dal forbirsi il culo con un'ochetta. Così la pensa anche mastro Giovanni di Scozia.

CAPITOLO XIV.

Come qualmente Gargantua fu istruito da un sofista nelle lettere latine.

All'intender questi discorsi il buon uomo Grangola fu rapito d'ammirazione per l'assennatezza e la meravigliosa intelligenza del suo figliolo Gargantua e disse alle governanti:

- Filippo, re di Macedonia, riconobbe l'accortezza del figlio Alessandro dal modo di domare destramente un cavallo. Quel cavallo era sì terribile e sfrenato che nessuno osava montarlo: a tutti i cavalcatori dava gran riscossoni e a chi faceva rompere il collo, a chi le gambe, a chi la testa, a chi le mascelle. Ciò considerando Alessandro nell'ippodromo (dove si facevano movere e volteggiare i cavalli) s'accorse che la furia di quello non veniva se non dallo spavento della sua ombra. E allora salito in groppa lo spinse a corsa nella direzione del sole, sicchè l'ombra si proiettasse dietro e in questo modo rese il cavallo docile al suo volere. Da ciò riconobbe il padre la divina intelligenza del figlio e lo fece egregiamente istruire da Aristotele il più stimato allora fra tutti i filosofi greci. Ebbene, io vi dico che solo dall'argomento trattato ora davanti a voi con Gargantua, ho compreso che qualcosa di divino è nel suo intelletto, tanto m'appare acuto, sottile, profondo e sereno. Bene istruito salirà a grado sovrano di sapienza. Voglio pertanto affidarlo a qualche gran dotto che lo ammaestri secondo le sue facoltà; e nulla sia risparmiato.

Gli consigliarono infatti un gran dottore in teologia chiamato Maestro Thubal Oloferne, il quale gl'insegnò così bene l'alfabeto che lo recitava a memoria anche a rovescio.

Questo insegnamento richiese cinque anni e tre mesi. Poi gli lesse il Donato, il Faceto, il Teodoleto e Alano in Parabolis. Questo insegnamento richiese tredici anni, sei mesi e due settimane.

Ma notate che intanto gl'insegnava a scrivere in caratteri gotici e così gli faceva copiare tutti i suoi libri, poichè l'arte della stampa non usava ancora.

Portava dunque seco un grosso scrittoio pesante più di settemila quintali, l'astuccio del quale eguagliava in altezza e grossezza i pilastroni della chiesa di Ainay; il calamaio, appesovi con grosse catene di ferro, poteva contenere una botte d'inchiostro.

Poi gli lesse il De modis significandi coi commenti di Urtaborea, Facchino, Cenetroppi, Galeotto, Gianvitello, Billonio, Leccasterco e d'un branco d'altri. Questo insegnamento richiese più di diciotto anni e undici mesi. E l'imparò così bene che, messo alla prova, lo rivomitava alla rovescia e dimostrava sulla punta delle dita alla madre che de modis significandi non erat scientia.

Poi gli lesse il Composto, impiegandovi sedici anni e due mesi, ma ecco che il detto precettore morì e

Fu l'anno mille quattrocento venti

Per uno scol che tolselo ai viventi.

Gli successe come precettore un vecchio catarroso, chiamato Maestro Giobelino Imbrigliato, che gli lesse Hugutio, il Grecismo di Hebrard, il Dottrinale, le Parti, il Quid est, il Supplementum, il Marmotteto, il De moribus in mensa servandis, il libro di Seneca: De quattuor virtutibus cardinalibus, il Passavanti con commento, il Dormi secure, per le feste, e vari altri della stessa farina.

Con questi studi divenne tanto sapiente che mai d'allora in poi ne fu infornato uno altrettale.

 

CAPITOLO XV.

Come qualmente Gargantua fu affidato ad altri precettori.

Intanto il padre notò che veramente il ragazzo studiava con amore e allo studio dava tutto il suo tempo, ma che non ne traeva profitto anzi, ciò ch'è peggio, ne diveniva matto, cretino, fantastico, farneticante.

E rammaricandosi un giorno con Don Filippo De Marais, vicerè di Papaligozza, questi gli disse che sarebbe stato meglio non imparasse nulla piuttosto che ficcarsi in testa quei libri, con quei precettori: la scienza loro non era che bestialità, la loro sapienza scempiaggine, a non altro adatta che a imbastardire i buoni e nobili spiriti e a corrompere ogni fior di giovinezza. "Ne volete una prova? disse, prendete un giovanetto di questi d'ora che abbia studiato solo un paio d'anni, e se non mostrerà miglior giudizio, miglior parlare, migliori concetti di vostro figlio e anche miglior contegno e garbo tra la gente, dite pure d'ora innanzi ch'io non son altro che un taglia salame della Brenne".

Piacque la proposta a Grangola e volle si facesse la prova.

La sera, a cena, il detto De Marais, presentò un suo paggetto di Villegongis, chiamato Eudemone, tanto ben pettinato e abbigliato, e pulitino, e grazioso nei modi che pareva un angioletto piuttosto che un uomo. E disse a Grangola:

- Vedete questo ragazzo? Non ha sedici anni; vediamo, di grazia, qual differenza sia tra il sapere dei vostri vuoti matteologi d'un tempo e i giovani d'oggidì.

- Vediamo, disse Grangola e comandò che il paggio incominciasse per primo.

Allora Eudemone, chiestane prima licenza al Vicerè suo signore, col berretto in mano, la faccia aperta, le sue labbra rosse, gli occhi sicuri, volto lo sguardo a Gargantua, restando in piedi con modestia giovanile, cominciò a lodarlo ed esaltarlo prima per la virtù dei buoni costumi, in secondo luogo pel sapere, in terzo luogo per la nobiltà, in quarto luogo per la sua bellezza fisica. In quinto luogo lo esortava dolcemente a riverire con ogni riguardo suo padre, il quale si studiava di farlo ben istruire; e per ultimo lo pregava che volesse considerarlo come il più umile de' suoi servi. Poichè altro dono non chiedeva al cielo pel momento, se non la fortuna di rendergli qualche gradito servigio.

Tutto il discorso fu profferito con gesti sì acconci, pronunzia sì schietta, voce sì eloquente e un fraseggiar latino sì puro ed adorno che parve un Gracco, un Cicerone, o un Emilio di Roma antica, meglio che un giovanetto di questo secolo.

La prova di Gargantua invece fu questa: che mettendosi a piangere come un vitello e nascondendo la faccia col berretto, non fu possibile cavargli una sola parola più che un peto da un asino morto.

Il padre ne fu tanto corrucciato che voleva ammazzare Mastro Giobelino. Ma il detto De Marais glielo impedì persuadendolo con buone parole a moderare la collera. Comandò tuttavia Grangola che fosse regolato subito il conto a Giobelino e che, dopo averlo fatto tracannare teologalmente, lo mandassero a tutti i diavoli.

Così, aggiungeva, se morisse briaco come un inglese per oggi almeno non costerebbe nulla al suo oste.

Partito Mastro Giobelino, Grangola chiese al Vicerè quale precettore potesse consigliargli e fu tra loro stabilito di affidare l'ufficio a Ponocrate, precettore di Eudemone. E che tutti insieme andassero a Parigi per sapere quali erano gli studi dei giovanetti francesi di quel tempo.

 

CAPITOLO XVI.

Come qualmente Gargantua fu inviato a Parigi e l'enorme giumenta che lo portò e come qualmente essa si sbarazzò delle mosche bovine della Beauce.

Quella stessa stagione, Fayoles, quarto re di Numidia, mandò dall'Africa a Grangola la più enorme e grande giumenta che mai si vedesse, e la più mostruosa. (Dall'Africa, infatti, come sapete, giungono sempre cose mai viste). Era grande come sei oriflanti, aveva i piedi digitati come il cavallo di Giulio Cesare, le orecchie spenzolanti come le capre di Linguadoca e un piccolo corno sul culo. Quanto al resto aveva pelo rossigno fulvo intrammezzato di pomelli grigi. Ma soprattutto, aveva una coda orribile, grossa, pelo più, pelo meno, come la torre di Saint-Mars, presso Longès, e quadrata del pari, con ciuffi adunchi nè più nè meno che spighe di frumento.

Se ciò vi stupisce, stupitevi anche più della coda dei montoni sciti, che pesava più di trenta libbre, e delle pecore di Soria alle quali (se è vero ciò che dice Tenaud) bisogna attaccare una carretta al culo per portare una coda tanto lunga e pesante. D'egual misura non l'avete voialtri, porcaccioni d'insignificanti paesi.

Essa fu imbarcata su tre caracche e un brigantino fino al porto di Olona, in Thalmondoys.

Quando Grangola la vide: "Ecco, disse, quel che ci vuole per portare mio figlio a Parigi. Ora sì, per Dio, che tutto andrà bene! Ed egli diventerà un gran chierico. Ah, se non ci fossero le signore bestie noi vivremmo come chierici".

L'indomani, dopo bere si sottintende, Gargantua, il suo precettore Ponocrate, il seguito e con essi il paggio Eudemone, si misero in viaggio. E poichè il tempo era sereno e mite, suo padre gli aveva fatto fare degli stivali gialli; Babin li chiama borzacchini.

Viaggiarono allegramente, sempre in gozzoviglia, fin sopra Orlèans. Là era un'estesa foresta, trentacinque leghe lunga e larga diciassette, o all'incirca, orribilmente fertile e infestata di mosche bovine e calabroni: un vero brigantaggio per le povere giumente, gli asini e i cavalli. Ma la giumenta di Gargantua vendicò bravamente tutti gli oltraggi colà perpetrati sulle bestie della sua specie, con un tiro che nessuno s'aspettava. Infatti, appena entrarono nella foresta, i calabroni volarono all'assalto, ma essa sguainò la sua coda e avventandola intorno, non solo li disperse, ma abbattè tutto il bosco. Come un falciatore fa cader l'erba così essa abbatteva gli alberi a torto e a traverso, di qua, di là, di su, di giù, in in lungo e in largo, sopra e sotto di guisa che sparirono e bosco e calabroni: tutto il territorio fu rasa campagna.

A quello spettacolo Gargantua tutto gongolante, pur senza vantarsene, disse alla sua gente: "Beau ce". Da quel giorno la regione cominciò a chiamarsi la Beauce.

Ma tutta la colazione si ridusse a sbadigli. In memoria di che anche oggi i gentiluomini della Beauce fanno colazione di sbadigli e ne hanno buon prò e ci sputano anche meglio.

Finalmente giunsero a Parigi. Per due o tre giorni si ristorarono facendo baldoria con tutto il seguito. Ma s'informarono intanto delle persone più sapienti ch'erano allora nella città e anche se c'era buon vino.

 

CAPITOLO XVII.

Come qualmente Gargantua pagò il suo benvenuto ai Parigini e come portò via i campanoni della chiesa di Notre-Dame.

 

Qualche giorno dopo essersi ristorati, mentre Gargantua andava in giro a visitare la città, tutta la gente restava a bocca aperta ad ammirarlo.

Il popolo di Parigi infatti è tanto balordo e scemo di sua natura che un ciarlatano, un monaco questuante, un mulo co' suoi sonagli, uno strimpellatore di viola a un quadrivio, chiaman più gente che un predicatore del Vangelo. Tanto molestamente dunque gli tenevan dietro che fu costretto a riposarsi sulle torri della chiesa di Notre-Dame.

E là seduto, vedendo tanta gente intorno a sè disse chiaramente: "Mi pare che questi bricconi vogliano che io paghi loro il benvenuto e la buona entrata. È giusto. Ora gli offro subito la bicchierata: ma sarà un vino par ris. E, tutto sorridente, spalancò la sua bella braghetta e spianando il bischero in aria li scompisciò sì aspramente e copiosamente che ne annegò duecentosessantamila quattrocento e diciotto, senza contare le donne e i fanciulli.

Un certo numero potè scampare a quella pisciaforte grazie alla leggerezza dei piedi. E pervenuti sull'altura dov'è l'Università, sudando, tossendo, sputando e ansimando, cominciarono a sacramentare e bestemmiare: "Per le piaghe di Dio! Rinnego Dio! Sangue di Diana, sta un po' a vedere!... Per la Merdiana! Per la testa di Dio! Das dich Gots leyden schend! Potta di Cristo! Ventre di San Quenet! Virtù di Dio! Per San Fiacre di Brie! Per San Ringano! Fò voto a San Teobaldo! Pasqua di Dio! Buondì di Dio! Che il diavolo mi porti! Fede di gentiluomo! Per Santa Salciccia! Per San Godegrande martirizzato a suon di mele cotte! Per San Fottino apostolo! Per San Vito! Per Santa Mamica! siamo inondati par ris! "

Da quel giorno la città fu chiamata Paris, mentre, prima si chiamava, come dice Strabone (lib. IV) Leucezia, cioè in greco: bianchetta, a cagione delle coscie delle dame di Parigi, che sono bianche.

E poichè inoltre, al momento dell'imposizione del nuovo nome ciascuno dei presenti bestemmiò invocando il santo della sua parrocchia, a Parigi, (specie di porto di mare dove c'è gente d'ogni razza) gli uomini son per natura forti giocatori forti giuristi e un tantino arroganti; onde Giovannino de Barranco a giusto titolo nel libro De copiositate reverentiarum stima che son detti Parrhesiens, cioè, in greco, valenti parlatori.

Gargantua, dopo la pisciata, considerando i campanoni delle torri, li fece suonare armoniosissimamente e ciò facendo gli venne in mente che ben potevano servir da sonagli sul collo della sua giumenta che voleva rimandare al padre carica di formaggi della Brie e d'aringhe fresche. E infatti se li portò a casa.

Intanto passò un pescaprosciutti, commendatore di Sant'Antonio per la sua questua suina, il quale avrebbe voluto portarseli via furtivamente perché il suono lo annunciasse da lungi e facesse tremare di paura i lardi in sale, ma poi, per sentimento d'onestà li lasciò stare; non è che scottassero, gli è che erano un tantinello pesantucci a portare. Badate che non era l'antonista di Bourg; quello è un mio carissimo amico.

Tutta la città fu in subbuglio. Alle sommosse, come sapete, sono tanto inclini, che i forestieri stupiscono della pazienza dei re di Francia i quali non li frenano, come giustizia vorrebbe, dati gli inconvenienti che sorgono ogni giorno. Ah volesse Dio che io conoscessi l'officina dove si fabbricano tanti scismi e macchinazioni, ben io vorrei denunciarla alla confraternita della mia parrocchia!

Il popolo dunque, tutto fuor di sè e balordo s'adunò alla Sorbona, dov'era allora e ora non è più, l'oracolo di Leucezia.

Colà fu esposto il caso e fu dimostrato il danno dei campanoni asportati.

Dopo aver ben sofisticato pro et contra, fu deliberato a mò di baratipton, doversi inviare a Gargantua i più anziani e competenti della facoltà di teologia, per dimostrargli quale orribile inconveniente fosse la perdita delle campane. E nonostante l'obiezione d'alcuni dell'Università che l'incarico meglio s'addiceva a un oratore che a un teologo, l'affare fu affidato al nostro Mastro Giannotto de Bragmardo.

 

CAPITOLO XVIII.

Come qualmente Giannotto De Bragmardo fu inviato a Gargantua per recuperare i campanoni.

 

Mastro Giannotto, tonduto alle cesarina e indossato il suo bravo tiripipion teologale, bene antidotato lo stomaco di cotognate al forno e d'acqua benedetta... di cantina, si recò all'abitazione di Gargantua parando avanti a sè vitelli dal muso rosa e traendo dietro cinque o sei maestri inerti unti e bisunti a gloria dell'economia. Li incontrò sull'entrata Ponocrate e spaventato in vederli così agghindati, pensava fossero maschere impazzite fuor di stagione. Poi chiese ad uno dei maestri inerti della carovana che cosa cercasse quella mascherata. Gli fu risposto che domandavano la restituzione delle campane.

Ponocrate corse subito a informarne Gargantua per poter dare sollecita risposta e deliberare prontamente sul da farsi. Gargantua, avvertito, chiamò in disparte Ponocrate suo precettore, Filotimo suo maggiordomo, Ginnasta suo scudiero ed Eudemone e li consultò brevemente su ciò che doveva fare e rispondere. Tutti furono d'avviso d'introdurre gl'inviati nel salotto di bevimento e lì che bevessero teologalmente; e intanto perchè il catarroso Giannotto non si gloriasse d'aver ottenuto colla sua richiesta la restituzione delle campane, mentre egli beveva, si mandassero a chiamare il Prevosto della città, il Rettore della facoltà e il Vicario della chiesa, ai quali avrebbe consegnato le campane prima che il teologo esponesse il suo mandato. Dopo la consegna, presenti anche i sopravvenuti, avrebbero dato udienza all'arringa teologale. Così fu fatto. I chiamati arrivarono e il teologo, condotto nel bel mezzo della sala, cominciò, non senza tossire, come segue.

 

CAPITOLO XIX.

L'arringa di Mastro Giannotto De Bragmardo a Gargantua per recuperare le campane.

"Ehen, hen, hen,! Mna, dies signore, Mna dies! Et vobis, signore! Sarebbe un gran bel fatto che ci rendeste le nostre campane, poichè ne abbiamo molto bisogno. Hen, hen, hasc,! Ne abbiamo rifiutato una volta del bravo danaro sonante dai cittadini di Londra, in Cahors, e altresì da quelli di Bordeaux, nella Brie, i quali volevano comprarle per la sostantifica qualità della complessione elementare che è intronificata nella terrestrità della loro natura quidditativa, per estraniare gli aloni e i turbini dalle nostre vigne, veramente non nostre, ma poco ci manca. Poichè se perdiamo il sugo di vigna, tutto perdiamo; sentimento e legge.

"Se voi ce le restituite per mia richiesta io ci guadagnerò dieci spanne di salciccia e un buon paio di brache che saranno una grazia di Dio per le mie gambe, se no, non mi terranno la promessa. Oh, per Dio, Domine, un paio di brache non è mica un pugno in un occhio, et vir sapiens non abhorrebit eam. Ah, ah, non è mica dato a tutti avere un paio di brache. Io lo so bene per esperienza personale, pensate, Domine: son diciotto giomi che sto a rugumare questa bella arringa: Reddite quae sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo. Ibi iacet lepus. Date a Cesare quel ch'è di Cesare e date a Dio quel ch'è di Dio. Questo è l'importante.

"In fede mia, Domine se volete cenare con me in camera corpo di Dio, charitatis, nos facemus bonum cherubin. Ego occidi porcum et ego habet bon vino. Faremo una bella baldoria. Ho ammazzato un maiale e c'è buon vino in cantina. Ma di buon vino non si può fare cattivo latino. Orsù, da parte Dei, date nobis clochas nostra. In nome di Dio dateci le nostre campane. Tenete, vi regalo in nome della Facoltà, un esemplare dei Sermones de Utino, e utinam, una buona volta, consegnateci le nostre campane. Vultis etiam pardonos? Per Diem vos habebitis, et nihil payabitis. Volete indulgenze? Le avrete per dindirindina, e non pagherete un soldo. Oh, Signore! Domine clochi dona minor nobis. Per Diana! est bonus urbis. Tutti se ne servono. Se fanno comodo alla vostra giumenta, altrettanto alla nostra facoltà, la quale è comparata alle giumente insipienti ed è fatta a loro somiglianza: Quae comparata est jumentis insipientibus et similis facta est eis, Psalmo nescio quo, non so più in quale salmo, e sì che l'aveva annotato nei miei appunti; ed è unum bonum Achilles; argomento capitale. Hen, hen, ehen, hasch! Orsù, ecco vi provo che me le dovete consegnare. Ego sic argumentor. Onnis clocha clochabilis in clocherio clochando clochans clochativo clochare fecit clochabiliter clochantes. Parisius habet clochas. Ergo gluc. Ah, ah ah, questo si chiama parlare. E in tertio primae in Darii... o altrove. Ah, per l'anima mia, passò quel tempo che facevo il diavolo a quattro in argomentare. Presentemente non fo che farneticare: d'ora innanzi null'altro mi conviene che buon vino, buon letto, buon fuoco alle spalle, il ventre a tavola e scodella ben profonda. Ahi, Domine vi prego in nomine patris et Filii et Spiritus Sancti, amen, che rendiate le nostre campane: e che Dio vi preservi dal male e insieme Nostra Signora della Salute qui vivit et regnat per omnia saecula saeculorum, Amen. Hen, hasch shasch, grenhenhasch!

"Verum enim vero, quando quidem, dubio procul, Edepol quoniam ita, certe meus, deus fidius, una citta senza campane è come un cieco senza bastone, un asino senza sottocoda, una vacca senza sonaglio. E fino a che non ce le avrete restituite non cesseremo di gridarvi dietro come un cieco senza bastone, di ragliare come un asino senza sottocoda, di mugghiare come una vacca senza sonaglio.

"Un quidam latineggiatore dimorante presso l'Hotel Dieu disse una volta, allegando l'autorità d'un Taponnus, pardon, volevo dire Pontanus, poeta secolare, che s'augurava campane di piume con una coda di volpe per batacchio, perchè gli davano la cronica alle trippe del cervello quando componeva i suoi vermi carminiformi. Ma nac, patatì patatà, tira, gira, molla, fu dichiarato eretico, noi le facciamo come di cera.

Il teste non ha più nulla da aggiungere. Valete et plaudite. Calepinus recensui.

 

 

CAPITOLO XX.

Come qualmente il teologo si portò il suo panno e come promosse lite ai Sorbonisti.

 

Non appena il teologo ebbe finito, Ponocrate ed Eudemone scoppiarono a ridere così profondamente che credettero render l'anima a Dio, nè più nè meno di Crasso quando vide un coglionaccio d'asino mangiarsi i cardi, e come Filemone il quale morì a forza di ridere vedendo un asino che mangiava i fichi preparati pel desinare. Insieme con loro cominciò a ridere anche mastro Giannotto e ridevano a gara tanto da averne le lagrime agli occhi per la veemente concussione della sostanza cerebrale dalla quale era stata spremuta quella umidità lagrimale e versata presso i nervi ottici. Pareva proprio che essi rappresentassero in quel modo Democrito eracliteggiante ed Eraclito democriteggiante.

Calmato il riso, Gargantua consultò la sua gente sul da farsi. Ponocrate fu d'avviso che si facesse ribere quel bell'oratore e poichè li aveva divertiti e fatti ridere più che non avrebbe fatto Songecreux, gli si regalassero le dieci spanne di salsiccia menzionate nella allegra arringa, con un paio di brache, tre centinaia di ciocchi di legno scelto, venticinque moggi di vino, un letto a triplice strato di piuma anserina e una scodella ben capace e profonda: tutte comodità, com'egli aveva detto, necessarie alla sua vecchiaia.

Detto fatto. Ma Gargantua, dubitando si trovassero lì subito brache adatte a quelle gambe, nè sapendo quale foggia meglio s'attagliasse al detto oratore, se colla martingala ch'è il ponte levatoio del culo, per andar di corpo più comodamente; oppure alla marinara per meglio alleviare i rognoni; o alla svizzera per tener calda la trippa; o a coda di merluzzo per non riscaldare i reni, gli fece dare sette aune di panno nero e tre di bianchetto per la fodera.

La legna fu portata dai facchini; i maestri in arti portarono le salsiccie e la scodella. Mastro Giannotto volle portare il panno.

Uno dei detti maestri, chiamato Jousse Baudouille gli rimostrò che ciò non era nè decoroso nè conveniente allo stato teologale e ch'era meglio dare il panno a qualcuno di loro.

- Ah, disse Giannotto, somaro due volte, tu non concludi affatto in modo et figura. Ecco a che cosa servono le supposizioni e le parva logicalia. Pannus pro quo supponite?

- Confuse et distributive, disse Baudouille.

- Io non ti domando, o somaro, disse Giannotto, quomodo supponit, ma bensì pro quo: pro tibiis meis, s'ha a dire, somaro. E perciò lo porterò io, egomet, sicut suppositum portat adpositum.

E così lo portò lui, alla chetichella, come già Pathelin.

Il bello fu quando il tossicoloso, presentandosi trionfalmente all'assemblea della Sorbona, richiese in compenso le brache e le salsicce promesse. La Sorbona glie le negò recisamente, avendole egli ricevute da Gargantua come s'era risaputo. Egli obbiettò che quelle le aveva ricevute gratis e che la liberalità del donatore non li svincolava dalla loro promessa. Ciò nonostante gli fu risposto che si contentasse d'aver ragione, che altro non avrebbe ricevuto.

- Ragione? disse Giannotto. Ma non sta di casa qua dentro! Traditori, sciagurati, gente da nulla! Non c'è sulla terra gente più perfida di voi; me n'intendo bene io. Non claudicate davanti a uno zoppo; son del mestiere. Anch'io appartenni alla vostra combriccola. Per la coratella di Dio, avvertirò il re, degli abusi enormi che si perpetrano qua dentro per opera e intrigo vostro. E mi colga la lebbra se non vi faccio bruciar vivi tutti quanti come sodomiti, traditori, eretici e seduttori, nemici di Dio e di virtù.

A queste parole stesero un atto d'accusa contro di lui e lui a sua volta li fece citare. Insomma il processo fu assunto dalla Corte ed è sempre in corso. I Sorbonicoli per questa faccenda fecero voto di non più ripulirsi e Mastro Giannotto coi suoi di non più soffiarsi il naso, finchè non fosse pronunciata la sentenza definitiva.

Ecco la ragione per cui son rimasti fino ad oggi tanto sporchi e mocciosi; infatti la Corte non ha ancora ben vagliato tutti i documenti. La sentenza uscirà alle prossime calende greche, cioè l'anno del mai. Poichè, voi ben lo sapete, i teologi della Corte superano la natura e vanno contro i loro stessi articoli. Gli articoli di Parigi cantano chiaro che Dio solo può fare cose infinite, che la Natura nulla può fare d'Immortale: ma dà fine e compimento a tutte le cose da essa prodotte: omnia orta cadunt etc.

Questi ingollatori di nebbia invece conferiscono Infinità e Immortalità ai processi. E ciò facendo hanno realizzato e dimostrato la massima di Chilone Lacedemone consacrata in Delfo, il quale affermava: Miseria esser compagna di Processo e miseri essere i litiganti, i quali vedono prima la fine della loro vita che il riconoscimento del diritto reclamato.

 

 

CAPITOLO XXI.

Lo studio e la dieta di Gargantua secondo la disciplina dei suoi professori sorbonagri.

 

Passati così i primi giorni e rimesse al loro posto le campane, i cittadini di Parigi riconoscenti all'onestà di Gargantua, gli offrirono di mantenere e nutrire la sua giumenta finchè gli piacesse. E avendo egli gradito l'offerta, la inviarono a pascolare nella foresta di Bière; ma credo che ora non ci sia più.

Quindi volle mettersi alacremente allo studio sotto la disciplina di Ponocrate, ma questi, in principio, ordinò che seguitasse secondo il suo costume, affine di comprendere come in sì lungo tempo, gli antichi precettori avessero potuto renderlo tanto sciocco, zuccone, e ignorante. Egli regolava dunque così le sue giornate: si svegliava tra le otto e le nove, facesse chiaro o no: così avevano ordinato i suoi pedagoghi teologi allegando il detto di David: Vanum est vobis ante lucem, surgere: è vano sorgere prima della luce.

Poi con sgambetti, salti e capriole faceva un po' di ginnastica sul letto per meglio destare gli spiriti animali, e si vestiva secondo la stagione, ma indossava volentieri una grande e lunga tunica di frisato grosso foderato di volpe; poi si pettinava col pettine di Almain, cioè colle quattro dita più il pollice, giacchè i suoi precettori gli dicevano che pettinarsi in altro modo, e lavarsi e pulirsi era una perdita di tempo in questo mondo.

Poi cacava, pisciava, vomitava, ruttava, scorreggiava, sbadigliava, sputava, tossiva, dava il singhiozzo, sternutiva e si soffiava il naso all'arcidiacona; e faceva colazione, per combattere la rugiada e l'aria cattiva, con belle trippe fritte, belle braciole sulle bragie, bei prosciutti, bei capretti arrosto, e zuppe di prima in quantità. Ponocrate gli rimostrò che non doveva mangiare così subito appena alzato di letto senza aver fatto prima un po' di ginnastica. E Gargantua rispose:

- E che? Non basta voltolarsi nel letto, come ho fatto cinque o sei volte prima di alzarmi? Papa Alessandro faceva altrettanto per consiglio del suo medico ebreo e visse fino alla morte, a dispetto degli invidiosi. I miei maestri così m'hanno avvezzato dicendo che la colazione rinforza la memoria e davano per primi l'esempio del bere. Io me ne trovo benissimo e pranzo anche meglio. Mastro Tubal, che primeggiò tra i licenziati di Parigi al suo tempo, mi diceva che non era tutto, correre velocemente, ma che bisognava anche partir di buon ora: parimenti la salute totale del genere umano non istà nel reiterar sorsate l'una dopo l'altra come anitre, ma nel cominciare a bere di buon mattino; unde versus:

Levarsi all'alba non allieta il cuore;

Ma tracannare all'alba è assai migliore.

Dopo una copiosa colazione dunque, andava in chiesa dove gli portavano, dentro un gran paniere, un grosso breviario impantofolato, pesante, tra untume, fermagli e pergamena, undici quintali e sei libbre, poco più, poco meno. Sentiva ventisei o trenta messe; intanto capitava il suo elemosiniere ufficiale imbacuccato come un allocco e col fiato bene antidotato a forza di sciroppo vinoso.

Borbottava con esso tutti i suoi Kirie e con tanta attenzione se li sorbiva, da non lasciarne cadere una goccia.

Uscendo di chiesa gli conducevano sopra un carro di buoi un mucchio di rosarii di San Claudio, coi grani grossi quanto lo stampo d'un berretto; e passeggiando per chiostri, gallerie, o giardini ne sgranava da solo più di sedici eremiti.

Poi studiava una mezzoretta, gli occhi fissi sul libro ma l'anima in cucina, come diceva il Comico.

Dopo aver pisciato un orinale pieno, sedeva a tavola. E poichè era per natura flemmatico, cominciava il pasto con qualche dozzina di prosciutti, di lingue di bue affumicate, di bottarghe, di salsiccie e simili altre avanguardie del vino. Intanto quattro camerieri gli gettavano in bocca palate di mostarda l'una dopo l'altra senza tregua; poi ci beveva su una spaventevole sorsata di vino bianco per sollevare i rognoni. Quindi mangiava, secondo la stagione, le carni che desiderava e non cessava di mangiare se non quando la pelle gli tirava. Nè a bere conosceva termine o regola, poichè, diceva, solo termine e confine del bere essere quando il sughero delle pantofole per ringonfiamento si alzasse di un mezzo piede.

 

CAPITOLO XXII.

I giochi di Gargantua.

 

Poi, borbottando alla grossa un tocco d'orazione di ringraziamento, si lavava le mani con vin fresco, si curava i denti scarnificando un piede di maiale e chiacchierava allegramente coi suoi. Quindi, steso il tappeto verde, mettevan fuori mucchi di carte, di dadi e scacchiere.

E là giocava:

a goffo, a passadieci,

a primiera, a trentuno,

a rubamazzo, a pari e sequenza

a pigliatutto, ai trecento,

a trionfo, ai disgraziati,

a piccardia, alla condannata,

al centro, a carta voltata,

alla spinetta, al malcontento,

alla sfortunata, al lanzichenecco,

alla furba, al cucú,

a chi l'ha lo dica, a tavole intere,

a piglia,niente,gioca,fuori, a tavole abbassate,

a matrimonio, a rinnegadio,

al gallo, al forzato,

all'opinione, a dama,

a chi fa l'uno fa l'altro, a babuino,

a sequenza, a primus secundus,

all'uvette, a piè di coltello,

ai tarocchi, alle chiavi,

a cochinverde, chi vince perde al centro del quadrato,

al belinato, a pari e dispari,

al tormento, a testa e corona,

alla ronfa, alle martore,

al glic, agli aliossi,

agli onori, a bilia,

alla morra, al ciabattino,

agli scacchi, al gufo,

alla volpe, a leprottino,

a campana, a tirlintana,

alle vacche, ad avanti porchetto,

alla bianca, alle gazze,

alla fortuna, al corno,

alla zara, al bue,

alle tavole, alla civetta,

a nicca nocca, a ti pizzico senza ridere,

al lurco, alle beccate,

alla reginetta, a sferrar l'asino,

a sbaraglino, a trotta gregge tru,

al trictrac, a va somaro, su,

a io mi siedo, alle vallette,

alla barba d'oribus, alla verghetta,

alla boschina, alle piastrelle,

a tira lo spiedo, a ci sto anch'io,

alla botte in fiera, a spegnimoccolo,

a compare, prestami il tuo ai birilli,

sacco, al Siam,

alla coglia di montone, a palla piatta,

a buttafuori, al verrettone,

ai fichi di Marsiglia alla lippa,

alla mosca, a rosicamerda,

a dagli, arciere, dagli, ad Angenart,

a scuoiavolpe, alle boccie in corte,

alla granata, al volano,

all'uncino madama, a scondarella,

a vender l'avena, alla pentolaccia,

a soffiare il carbone, a mio talento,

ai responsori, al mulinello,

a giudice vivo e giudice ai giunchetti,

morto, a baston corto,

a trarre i ferri dal forno, a prillavola,

al finto villano, a mosca cieca,

ai quagliettini, al picchetto,

al gobbo di corte, alla bianca,

a San Trovato, al furetto,

a pizzica spugnole, alla seghetta,

al pero, al castelletto,

a pimpompetto, alla fila,

a trallalalella trallalalà, alla fossetta,

al cerchio, alla trottola,

alla troia, alla tromba,

a ventre contro ventre, al monaco,

alle tenebre, a beccalaglio,

allo stupito, alla grola,

al pallone, a gallo canta,

alla spola, a Colin maliardo,

a sculaccioni, a guardargli il muso,

alla scopa, allo spione,

a San Cosimo, vengo ad al rospo,

adorarti, al pallamaglio,

a lumacone il bruno, al pistone,

a vi colgo senza verde, a bilbochetto,

a pian pian bel bello se ne alle regine,

va quaresima, ai mestieri,

a quercia forcelluta, a testa a testa, o testa a

a caval per terra, piè,

alla coda del lupo, al pinotto,

a peto in gola, a mano morta,

a Guglielmino, dammi la ai buffetti,

mia lancia, a lavar la cuffia, madama,

a dondolarsi, allo staccio,

ai fasci di tre covoni, a seminar l'avena,

alla betulla, al ghiottone,

alla mosca, al molinetto,

a migna, migna, bue, a defendo,

agli spropositi, alla giravolta,

a nove mani, a schioppetto arrabbiato,

a testa pazza, a cul per terra,

a ponte caduto, all'aratro,

a bestia morta, alle fiche,

a monta monta la scaletta, alle pernacchie,

al porco morto, a pestamostarda,

a cul salato, a gambadilegno,

a l'uccellin volò, volò, alla ricaduta,

a caccia al terzo, a trar le freccie,

alle piramidi, a salincerchio,

a saltacespugli, alla gru,

a tagliar la strada, a taglia taglia,

alla cutt, ai biscottini sul naso,

al quattrino borsa in culo, agli schiaffi,

al nido di bozzagro, ai buffetti.

al passavanti.

Dopo aver ben giocato, stacciato, crivellato e passato il tempo, conveniva bere un pochino, cioè undici bigoncie a testa; e subito dopo banchettare, sopra un banco cioè, o sopra un bel lettone sdraiarsi e dormire due o tre ore senza cattivi pensieri, nè maldicenza. Svegliatosi, scrollava un po' le orecchie e intanto gli portavano vin fresco e beveva meglio che mai. Ponocrate gli rimostrava non esser igienico bere dopo dormire.

- Ma, rispondeva Gargantua, se è proprio questa la vita dei Padri. Io di mia natura dormo salato e il sonno mi tien luogo d'altrettanto prosciutto.

Poi cominciava a studiare un tantino e giù paternostri! Per meglio snocciolarli nella debita forma, montava sopra una vecchia mula che aveva servito nove re, e così, borbottando colla bocca e dondolando la testa, andava a veder prendere i conigli colle reti.

Al ritorno entrava in cucina per informarsi quale arrosto fosse allo spiedo. E cenava benone, in coscienza, e volentieri convitava qualcuno dei beoni vicini coi quali bevendo a gara, contavano e il vecchio e il nuovo.

Frequentavano la casa fra gli altri i signori De Fou, De Gourville, De Grignault e De Marigny. Dopo cena venivano in tavola: belli evangeli di legno, vale a dire scacchiere, o il bel flusso o un due tre o tutti gli altri giochi, tanto per farla breve, oppure andavano a trovare le ragazze dei dintorni e lì nuovi spuntini e pusigni e ripusigni. Poi dormiva tutto un sonno filato fino all'indomani alle otto.

 

CAPITOLO XXIII.

Come qualmente Gargantua fu educato da Ponocrate con disciplina tale che non perdeva

un'ora del giorno.

 

 

Quando Ponocrate conobbe la maniera sbagliata di vivere di Gargantua, deliberò d'istruirlo nelle lettere in modo diverso: ma pei primi giorni tollerò l'antico andamento considerando che la natura non sopporta mutazioni repentine senza grave malanno.

Per meglio cominciar l'opera sua supplicò un sapiente medico di quel tempo, nominato Teodoro, che studiasse il possibile per rimettere Gargantua su miglior via. Egli lo purgò, secondo le regole, con elleboro d'Anticira. Con tal medicina lo guarì dal disordine e dai vizi del cervello, e parimenti gli fe' dimenticare tutto ciò che aveva imparato sotto gli antichi precettori, come già usava Timoteo per quei discepoli che erano stati istruiti da altri musici.

A meglio ottenere il suo fine, l'introdusse nelle compagnie dei sapienti di Parigi, a emulazione dei quali gli crebbe l'ardore e il desiderio di studiare in modo diverso e di far apprezzare il suo valore.

Poi gli diede tale indirizzo di studi che non perdeva un'ora del giorno e dava tutto il suo tempo alle lettere e all'onesto sapere.

Si svegliava infatti Gargantua circa le quattro del mattino. Mentre gli facevano il massaggio, gli si leggeva qualche pagina della Sacra Scrittura a voce alta e chiara e con pronunzia adatta alla materia. A questo ufficio era addetto un giovane paggio nativo di Baschè nominato Anagnoste. Secondo l'argomento della lettura spesso si dava a riverire adorare, pregare, e supplicare il buon Dio, la maestà e i meravigliosi avvedimenti del quale, la lettura aveva illustrato.

Poi andava al cesso a fare escrezione della digestione naturale. Ivi il precettore ripeteva ciò che era stato letto chiarendogli i punti più oscuri e difficili. Tornando consideravano lo stato del cielo, se era quale l'avevano lasciato la sera precedente, in quali segni dello zodiaco entravano il sole e la luna in quel giorno.

Ciò fatto, mentre lo vestivano, pettinavano, ravviavano, abbigliavano e profumavano, gli ripassavano le lezioni del giorno avanti. Egli stesso le recitava a memoria e vi applicava qualche caso pratico e concernente le umane condizioni. Talora prolungavano questo esercizio per due o tre ore, ma di solito tralasciavano quando era completamente abbigliato. Poi per tre buone ore gli facevano lettura.

Usciti quindi all'aperto sempre conversando degli argomenti trattati dalla lettura, andavano al Bracque o nei prati e giocavano alla pallacorda, al pallone, alla pila trigona, esercitando gagliardamente il corpo come prima avevano esercitato la mente. Giocavano in piena libertà, interrompendo la partita quando piaceva loro e cessavano, di consueto, quand'erano vinti dal sudore o dalla stanchezza. Allora erano ben asciugati e strofinati, si cambiavano di camicia e passeggiando tranquillamente andavano a vedere se il pranzo era pronto e in attesa recitavano chiaramente con eloquenza alcune sentenze ritenute dalla lezione.

Intanto veniva Monsignor l'Appetito e a buon punto si mettevano a tavola. Al principio dei pasti un lettore leggeva qualche piacevole istoria delle antiche prodezze fino a che Pantagruele avesse fatto recare il suo vino. Allora, se pareva opportuno, si continuava la lettura, o cominciavano a conversare allegramente insieme, parlando, nei primi mesi, della virtù, proprietà, efficacia e natura di tutto ciò ch'era servito in tavola: pane, vino, acqua, sale, carni, pesci, frutta, erbe, radici, e del modo di prepararle. Ciò facendo, apprese in poco tempo tutti i passi concernenti quelle materie, di Plinio, Ateneo, Dioscoride, Giulio Polluce, Galeno, Porfirio, Appiano, Polibio, Eliodoro, Aristotele, Eliano e altri. E dopo aver ragionato di questi autori, per controllare i testi facevano portare i loro volumi. In tal modo egli apprese a mente così bene le dette cose, che non c'era medico, allora, che ne sapesse la metà. Dopo conversavano degli argomenti letti nel mattino e finivano il pasto con un po' di cotognata.

Si curava i denti con un ramo di lentisco, si lavava mani ed occhi con bell'acqua fresca e rendeva grazie a Dio con qualche bel cantico composto in lode della benigna munificenza divina.

Portavano poi delle carte, non per giocare ma per apprendervi mille piccole combinazioni e invenzioni tratte dall'aritmetica. Alla quale tanto s'appassionò che tutti i giorni dopo pranzo e dopo cena si divertiva colla scienza dei numeri quanto prima coi dadi e le carte. E divenne sì profondo nell'aritmetica teorica e in quella pratica, che l'inglese Tunstal il quale aveva trattato diffusamente la materia, confessò d'essere rimasto, di fronte a Gargantua, all'abbicì.

E non solamente imparò l'aritmetica, ma altre scienze matematiche come geometria, astronomia, musica. Poichè, attendendo la concezione e digestione degli alimenti, fabbricavano mille piacevoli strumenti, componevano figure geometriche e parimente applicavano i canoni astronomici. Poi si divertivano a cantare cori di quattro o cinque voci accordate musicalmente, oppure svolgevano un tema così a capriccio di gola. Degli strumenti musicali imparò a suonare il liuto, la spinetta, l'arpa, il flauto alemanno e quello a nove fori, la viola e il trombone.

Passata così un'ora e finita la digestione, si purgava degli escrementi naturali, poi si rimetteva al suo studio principale per tre ore o più, sia ripassando le cose lette il mattino, sia proseguendo il libro cominciato, sia esercitandosi a ben tracciare e comporre la scrittura gotica e la romana.

Uscivano poi dal palazzo con un giovane gentiluomo, turenese, lo scudiere Ginnasta, che gl'insegnava l'equitazione. Si cambiava vesti e montava un corsiero, un ronzino, un ginnetto, un barbero, un cavallo leggero, e li spingeva alla carriera, li faceva volteggiare in aria, varcar fossati, saltar palizzate, girare in tondo stretto, tanto a destra, come a sinistra. E non rompeva lancie poichè è la più gran sciocchezza del mondo dire: "Ho rotto dieci lancie in torneo, o in battaglia". Un carpentiere può fare altrettanto; buon titolo di gloria è invece con una sola lancia averne rotto dieci nemiche. Colla sua lancia dunque, acciaiata, dura e rigida, fracassava una porta, sfondava una corazza, atterrava un albero, infilava un anello, abbatteva una sella da battaglia, un usbergo, una monopola ferrata. Ciò faceva coperto d'armatura da capo a piedi.

Quanto alle bravure e alle acrobazie sul cavallo, nessuno lo superava. Il volteggiatore di Ferrara non era che una scimmia in confronto. Abilissimo appariva nel saltare rapidamente dall'uno all'altro di quei cavalli detti desultori, senza toccar terra: montava in sella da ciascun lato, colla lancia in pugno e senza staffe, guidava il cavallo, senza briglia, a suo piacere, poichè tali esercizi sono alla militare disciplina utilissimi.

Un altro giorno si esercitava al maneggio dell'azza e sì valentemente l'agitava e in rudi puntate sospingeva, e agilmente mulinando calava, che fu promosso cavaliere d'armi in campagna e in ogni prova.

Poi brandiva la picca, impugnava lo spadone a due mani, la spada bastarda, la spagnuola, la daga, il pugnale, corazzato e non corazzato, con scudo, con cappa e con rondella.

Cacciava il cervo, il capriolo, il daino, il cinghiale, le pernici, i fagiani, le ottarde. Giocava al pallone e lo faceva balzare in aria e col piede e col pugno. Lottava, correva, saltava e non a tre passi e un salto, non a piè zoppo, non alla tedesca, poichè, diceva Ginnasta, tali salti erano inutili e di nessun beneficio in guerra; ma d'un salto varcava un fossato, sorvolava una siepe, montava di slancio sei passi contro un muro e s'arrampicava in questo modo a una finestra dell'altezza di una lancia.

Nuotava in acqua profonda diritto e arrovesciato, di lato, movendo tutto il corpo, o i soli piedi, con una mano in aria nella quale teneva un libro; e così traversava la Senna senza bagnarlo e traendo coi denti il suo mantello come Giulio Cesare. Poi appoggiandosi con una mano entrava in una barca dalla quale si rituffava a capofitto nell'acqua, sondava il profondo, s'insinuava tra le roccie, piombava negli abissi e nei gorghi. Quindi girava a suo piacere la barca, la dirigeva, la spingeva rapidamente, o adagio, secondo corrente e contro corrente, la fermava nel rapido delle chiuse, con una mano la guidava e con l'altra schermeggiava un gran remo, tendeva la vela, s'arrampicava sull'albero per le sartie, correva sui pennoni, aggiustava la bussola, tendeva le boline, sbandava il timone.

Uscito dall'acqua, scalava rudemente la montagna e con pari franchezza scendeva; montava sugli alberi come un gatto, saltava dall'uno all'altro come uno scoiattolo e ne abbatteva i grossi rami come Milone. Con due pugnali aguzzi e due picconi provati, saliva sul tetto d'una casa come un sorcio e balzava dall'alto a terra in posizione da non farsi mai alcun male.

Lanciava il dardo, la sbarra di ferro, la pietra, il giavellotto, lo spiedo, l'alabarda, tendeva l'arco, e tirava a forza di reni le forti balestre d'assedio, sparava l'archibugio ad occhio, affustava il cannone e tirava al bersaglio, al pappagallo, dal basso in alto, dall'alto in basso, di fianco e all'indietro come i Parti. Saliva e scendeva con le mani per una corda attaccata a un'alta torre, con la stessa agilità e sicurezza come se camminasse sopra un prato ben livellato.

Si appendeva per le mani ad una pertica sospesa ai capi a due alberi e andava e veniva colle mani a tale velocità che non si poteva raggiungerlo correndo.

E per tenere in esercizio torace e polmoni gridava come cento diavoli. Io l'ho udito una volta chiamare Eudemone dalla porta di San Vittore ed ero a Montmartre. Stentore non ebbe tal voce alla battaglia di Troia.

Per rinforzare i nervi gli avevano fabbricato due grossi salmoni di piombo che egli chiamava manubrii, del peso, ciascuno, di ottomila e settecento quintali; li afferrava uno per mano, li elevava sopra la testa e così li teneva tre quarti d'ora e anche più, prova di forza inimitabile.

Giocava alla barra coi più forti, e quando il momento venisse, si piantava sui piè rigidamente e sfidava i più robusti a smuoverlo dandosi per vinto a chi lo scotesse, come già faceva Milone; e ad imitazione di lui serrava una melagrana nel pugno, regalandola a chi potesse strappargliela.

Dopo aver occupato così il suo tempo, gli facevano i massaggi, si lavava, mutava vestito e se ne ritornava pian piano.

Passando per prati o altri luoghi erbosi, osservavano gli alberi e le piante richiamandosi ai libri degli antichi che ne hanno scritto, come Teofrasto, Dioscoride, Marino, Plinio, Nicandro, Macerio e Galeno, e ne portavano a piene mani a casa consegnandole a un giovane domestico chiamato Rizotoma a cui erano affidati insieme coi marrelli, le vanghe, i zappini, i badili, le roncole e altri strumenti necessari a ben erborizzare.

Arrivati a casa, mentre si preparava la cena, ripetevano passi delle letture fatte e sedevano a tavola.

Notate qui che il desinare era sobrio e frugale: non mangiava che per calmare i latrati dello stomaco: la cena invece era copiosa e larga e tanto vi si cibava quanto gli era necessario per sostenersi e nutrirsi, che è la vera dieta prescritta da buona e sicura medicina, checchè consiglino in contrario un branco di sciocchi medici addestrati alla scuola dei sofisti.

Durante la cena continuava la lettura cominciata a desinare finchè sembrasse opportuno; poi si conversava di argomenti letterari e utili.

Dopo l'orazione di ringraziamento si davano a cantare musicalmente, a suonare strumenti armoniosi, oppure si dilettavano di piccoli passatempi, colle carte, coi dadi e coi bussolotti e là restavano allegramente divertendosi qualche volta fino all'ora di dormire; qualche volta andavano a visitare i crocchi di letterati o di viaggiatori che giungevano da paesi stranieri.

Nel pieno della notte, prima di ritrarsi, salivano sulle terrazze della casa a osservar l'aspetto del cielo, e vi notavano le comete, se ve ne fossero, e le figure delle costellazioni, le posizioni, i rapporti, le opposizioni e le congiunzioni degli astri.

Poi, insieme col precettore ricapitolava brevemente, all'uso dei pitagorici, tutto ciò che aveva letto, visto, imparato, fatto o inteso nel corso di tutta la giornata.

Indi pregavano Dio creatore, adorandolo e confermando la loro fede in lui, e glorificandolo della sua bontà immensa, e rendendogli grazie di tutto il tempo passato, si raccomandavano alla sua divina clemenza per tutto l'avvenire.

Ciò fatto andavano a riposare.

 

CAPITOLO XXIV.

Come qualmente Gargantua occupava il tempo quando l'aria era piovosa.

 

Se faceva tempo piovoso e burrascoso, la mattinata era occupata come il solito; solo faceva accendere un bello e chiaro fuoco per correggere l'intemperie dell'aria. Ma, dopo desinare, invece d'uscire per la ginnastica, restavano a casa e, per apoterapia, si divertivano a imballare fieno, a spaccare e segar legna e a battere il grano nel granaio. Poi studiavano pittura e scultura, o richiamavano in uso l'antico gioco degli aliossi come lo descrive Leonico e come lo gioca il nostro buon amico Lascaris. Giocando ricordavano i passi degli antichi autori riferentisi a tal gioco e qualche metafora da esso suggerita.

Anche andavano a vedere come si lavoravano i metalli o come si fondeva l'artiglieria, o i lavori dei lapidari, orefici e incisori di gemme, degli alchimisti, dei coniatori di monete, dei fabbricanti di tappezzerie, tessuti e velluti; degli orologiai e degli specchiai, dei tipografi, dei fabbricanti d'organi, dei tintori e d'altrettali artigiani e offrendo vino, dappertutto, potevano conoscere a considerare l'industria e le invenzioni dei mestieri.

Andavano a sentire le lezioni pubbliche, gli atti solenni, le esercitazioni retoriche, i discorsi, le arringhe degli avvocati di grido, i sermoni dei predicatori evangelici.

Passava per le sale e luoghi destinati a esercizi di scherma e là si misurava coi maestri d'ogni arme e mostrava coi fatti di saperne quanto e più di loro.

Invece di erborizzare, visitavano le botteghe dei droghieri, erboristi, speziali e consideravano accuratamente frutti, radici, foglie, gomme, sementi, grassi esotici e anche come li adulteravano.

Andava a vedere giocolieri, saltimbanchi e ciarlatani e ne considerava i gesti, le astuzie, le capriole e le belle parlate, singolarmente di quelli di Chaunys in Picardia, che sono per natura gran chiacchieroni e abili spacciatori di frottole in materia di scimmie verdi.

Ritornati per la cena, mangiavano più sobriamente degli altri giorni e carni più disseccative e meno sostanziose, affinchè la temperie umida dell'aria comunicata ai corpi per necessario contatto, fosse in questo modo corretta, e non soffrissero incomodo per non aver fatto ginnastica come il solito.

Così fu educato Gargantua, e con questa regola quotidiana profittava come si comprende dovesse profittare un giovane giudizioso della sua età, con un esercizio continuo, il quale, benchè sembrasse difficile in principio, diveniva in seguito tanto dolce, lieve e piacevole da apparire passatempo regale, piuttosto che studio di scolaro.

Tuttavia Ponocrate per sollevarlo dalla veemente tensione mentale, sceglieva, una volta al mese, un giorno ben chiaro e sereno nel quale uscivano di città fin dal mattino e andavano o a Gentilly, o a Boulogne, o a Montrouge, o al ponte di Charanton, o a Vanves, o a Saint-Cloud. E là passavano tutta la giornata a far la più gran baldoria del mondo, scherzando, divertendosi, bevendo, giocando, cantando, danzando, voltolandosi sull'erba di qualche bel prato, snidando passerotti, cacciando quaglie, pescando rane e gamberi.

Ma, se la giornata passava senza libri e letture, non passava tuttavia senza profitto, poichè ripetevano a memorta dei versi delle Georgiche di Virgilio, di Esiodo, del Rusticus del Poliziano, componevano qualche piacevole epigramma latino e lo traducevano in rondò e ballate francesi.

Banchettando separavano l'acqua dal vino annacquato come insegna Catone nel De re rustica e Plinio, con un bicchiere fatto d'edera; lavavano il vino in una bacinella piena d'acqua, poi lo ritiravano con un imbuto e facevano passar l'acqua da un bicchiere a un altro; costruivano parecchi piccoli congegni automatici, vale a dire semoventi da se stessi.

 

CAPITOLO XXV.

Come qualmente sorse gran conflitto tra i focacceri di Lernè e quelli del paese di Gargantua, onde seguirono grosse guerre.

In quel tempo, era il principio dell'autunno, stagione delle vendemmie, i pastori della contrada che facevan guardia alle vigne per impedire agli stornelli di beccar l'uva, videro i focacceri di Lernè passare presso il quadrivio portando alla città dieci o dodici carichi di focaccie.

Essi chiesero cortesemente che ne vendessero loro qualcuna, al prezzo del mercato. Notate ch'è un mangiar di paradiso, far colazione d'uva e focaccia fresca; massimamente d'uva pinella, uva ficarola, moscatella, zibibbo, e d'uva cachereccia, che fa andar gli stitici come una fontana e spesso credendo scorreggiare se la fanno addosso, onde son chiamati cuideurs des vendanges.

Alla richiesta non consentirono i focacceri, anzi, ciò ch'è peggio, li insultarono grandemente chiamandoli affamati, sdentati, buffoni di pel rosso, galeotti, cacainletto, ragazzacci, lime sorde, fannulloni, leccapiatti, buzzoni, fanfaroni, cattivi soggetti, zoticoni, rompiscatole, rodibriciole, rodomonti, fiocchettoni, scimmiotti, lasagnoni, miserabili, macacchi, matti, zucconi, buggeroni, palloni, pitocchi, bovai da stronzi, pastori di merda ed altrettali epiteti diffamatori, aggiungendo che non eran pan pe' lor denti quelle belle focaccie e ch'era anche troppo per loro grosso pan di crusca e pagnottaccia.

A quell'oltraggio uno dei pastori chiamato Forgier, onesto e valente giovanotto, rispose garbatamente:

- Da quando avete voi messo corna, che siete tanto arroganti? Diavolo! Una volta ce ne vendevate pure. Ed ora rifiutate! Non è questo il modo di trattare da buoni vicini; non v'accogliamo mica così noi quando venite a comprare il nostro bel frumento per fare pasticcini e focaccie. In cambio di focaccie vi avremmo dato la nostra uva; ma per la madre di Dio, potreste pentirvene: o un giorno o l'altro avrete a fare con noi: verrà la nostra volta, ricordatevene.

Allora Marchetto, gran gonfaloniere della corporazione dei focacceri gli disse:

- Ah, ah che galletto, e che cresta stamattina! Devi aver mangiato di molto miglio iersera. Vien qua, vien qua che ti darò le focaccie.

Forgier, s'avvicinò in tutta semplicità e trasse dalla cintura una moneta pensando che Marchetto gli avesse a spacchettare qualche focaccia; ma quegli gli menò una sì rude frustata sulle gambe da lasciarvi il segno di tutti i nodi, poi si diede a scappare; ma Forgier, gridando con quanto fiato aveva in gola: Soccorso! all'assassino! gli avventò il grosso randello che teneva sotto l'ascella, e lo colpì alla giuntura coronale della testa, sull'arteria crotafica della tempia destra in tal guisa, che Marchetto stramazzò dalla giumenta e meglio sembrava uomo morto che vivo.

Intanto i mezzadri che abbacchiavan le noci lì presso accorsero coi loro perticoni e giù addosso ai focacceri come battessero segala verde. Gli altri pastori e pastore, udendo le grida di Forgier sopraggiunsero con fionde e bracciali e via a inseguirli tempestando loro addosso una grandinata di pietre. Finalmente li raggiunsero e tolsero loro quattro o cinque dozzine di focaccie; tuttavia li pagarono al prezzo d'uso e diedero loro un centinaio di noci e tre ceste d'uva bianca. Poi i focacceri aiutarono a rimontare in sella Marchetto, malamente ferito, e invece di proseguire per Parilly, ritornarono a Lerne, minacciando forte i bovai pastori e mezzadri di Seuilly e di Cynays.

Pastori e pastore invece fecero gran baldoria con quelle focaccie e bella uva e se la spassarono insieme al suono della zampogna, ridendosi di que' bei focacceri che avevano avuto mala sorte per non essersi segnati il mattino con la mano buona. Poi con sugo di grossa uva canina fecero una bella unzione sulle gambe di Forgier, che ne fu ben presto guarito.

 

 

CAPITOLO XXVI.

Come qualmente gli abitanti di Lernè, per comando del re loro Picrocolo, assalirono d'improvviso i pastori di Gargantua.

Tornati a Lernè i focacceri, senz'altro, prima ancora di mangiare e bere si recarono sul Campidoglio e là innanzi al re, chiamato Picrocolo, terzo di questo nome, presentarono i loro lagni mostrando i panieri rotti, i berretti gualciti, le vesti lacerate, le focaccie andate in malora e specialmente la enorme ferita di Marchetto e affermarono che tutto ciò era accaduto causa i pastori e mezzadri di Grangola, sul gran quadrivio dopo Seuilly.

Il re montò subito in furore e senza più chiedere nè come nè perchè, fece gridare il bando per tutto il paese imponendo che ciascuno sotto pena d'impiccagione convenisse in armi sulla piazza grande davanti al castello nell'ora del mezzodì.

Per meglio confermare il suo disegno ordinò di dar dentro ai tamburi tutt'intorno alla città ed egli stesso, mentre preparavano il desinare, andò a far affustare l'artiglieria, spiegare bandiere ed orifiamme, e caricare gran quantità di munizioni da guerra e da bocca.

Desinando distribuì i comandi e fu per suo decreto stabilito che comandasse l'avanguardia il Signore Granpelo con sedicimila e quattordici archibugieri e trentacinquemila e undici fanti.

Il Grande Scudiero Toccaleone fu incaricato del comando dell'artiglieria composta di novecento quattordici grossi pezzi di bronzo, tra cannoni, doppi cannoni, basilischi, serpentine, colubrine, bombarde, falconi, passavolanti, spirole e altri pezzi.

La retroguardia fu affidata al duca Raspadanari, al centro si tenne il re coi principi del reame.

Così sommariamente ordinati, prima di mettersi in marcia inviarono trecento cavalleggeri sotto gli ordini del capitano Ingollavento per compiere ricognizioni nella regione e scoprire se vi fossero imboscate; ma dopo aver accuratamente esplorato, trovarono tutto il paese intorno tranquillo e silenzioso senza traccia di genti riunite.

Ciò inteso, Picrocolo comandò che tutti marciassero rapidamente dietro le loro bandiere.

Si misero dunque in campagna senz'ordine e misura, gli uni confusi con gli altri, guastando e distruggendo tutto per dove passavano senza risparmiare nè ricco, nè povero, nè luogo sacro, nè profano; portavano via buoi, vacche, tori, vitelli, manze, pecore, montoni, capre e caproni, galline, capponi, pollastri, paperi, oche, maiali, troie, porcellini. Bacchiavano le noci, vendemmiavano le vigne, estirpando anche le viti, squassavano tutte le frutta dagli alberi. Facevano un danno incomparabile e non trovarono alcuno che resistesse: tutti si rendevano a discrezione e li supplicavano di trattarli più umanamente, ricordando che in ogni tempo erano stati buoni vicini e amici, senza che essi mai avessero commesso nè sopruso nè offesa contro loro per essere così improvvisamente maltrattati; e che Dio li avrebbe presto puniti. A quelle rimostranze nient'altro rispondevano se non che volevano insegnar loro a mangiare focaccie.

 

CAPITOLO XXVII.

Come qualmente un monaco di Seuilly salvò il brolo dell'abbazia dal saccheggio dei nemici.

 

Tanto fecero e tempestarono saccheggiando e rapinando, che arrivarono a Seuilly, ove spogliarono uomini e donne e portarono via ciò che poterono, nulla trovando troppo caldo o troppo pesante. Benchè la peste fosse nella maggior parte delle case, entravano dappertutto, rubavano quanto v'era, e ciò ch'è mirabile, a nessuno colse malanno; i curati, vicari, predicatori, medici, chirurghi e farmacisti che andavano a visitare, curare, guarire, sermoneggiare e consigliare i malati, erano tutti morti del contagio; a quei diavoli di ladri ed assassini non capitò mai alcun male. Onde procede ciò, Signori? Pensateci, ve ne prego.

Dopo aver saccheggiato il borgo, si recarono all'abbazia con orribile tumulto, ma la trovarono ben serrata e chiusa, onde l'esercito principale passò oltre verso il guado della Vède; non si fermarono che sette bande di fanti e duecento lancie che abbatterono le mura di cinta per rovinare tutta la vendemmia.

I poveri diavoli di monaci non sapevano a che santo votarsi. Ad ogni buon conto fecero suonare ad capitulum capitulantes.

Là deliberarono di fare una bella processione rinforzata di bei cantici e litanie contra hostium insidias e corroborata di bei responsi pro pace.

Era nell'abbazia un monaco claustrale chiamato frate Gianni degli Squarciatori, giovane, gagliardo, agghindato, di buon umore, ben destro, ardito, avventuroso, risoluto, alto, magro, ben tagliato di bocca, ben provvisto di naso, svelto sbrigator di preghiere, rapido spacciatore di messe, magnifico sbarazzator di vigilie, e insomma, per farla corta vero monaco in monacheria; e, quanto al resto, ferrato fino ai denti in materia di breviario.

Sentendo egli il fracasso dei nemici dentro il recinto della vigna, uscì per vedere ciò che fosse e vedendo che vendemmiavano il vigneto nel quale era il bere di tutta l'annata, ritorna nel coro della chiesa dov'erano gli altri monaci, tutti sbalorditi come fonditori di campane, e sentendoli cantare Ini, nim, pe, ne, ne, ne, ne, ne, ne, ne, tum, ne, num, num, ini, i, mi, i, mi, co, o, ne, no o, o, ne, no, no, no, rum, ne, num, num:

- Ah, ah, diss'egli, ben caca... cantato! Ma dovreste, perdio, cantare:

Addio panieri, la vendemmia è fatta.

Do l'anima al diavolo se non sono già nella nostra vigna e se non tolgono uva e pampini così bene che, corpo di Dio, non ci sarà più modo di coglier uva per quattr'anni. E che berremo intanto noi poveri diavoli, pel ventre di San Giacomo? Oh, Signore Iddio, da mihi potum!

- Che fa qui quest'ubriacone, disse il priore del convento, mettetelo in prigione. Turbare così il servizio divino!

- Ma, disse il monaco, il servizio del vino facciamo sì che non sia turbato! poichè a voi stesso signor Priore, piace ber del migliore. E così fa ogni uomo dabbene; mai uomo nobile odiò buon vino: è questo un apoftegma monacale. Ma le antifone che state ora cantando non sono di stagione.

Perchè credete che le vostre ore di breviario siano corte al tempo delle messi e delle vendemmie e lunghe per l'avvento e durante l'inverno? Il defunto Frate Macé Pelosse di buona memoria, vero zelatore (o io do l'anima al diavolo) della nostra religione, mi disse, lo ricordo, che così era perchè in questa stagione, si possa ben pigiare e fare quel vino che d'inverno s'ha poi a bere.

Ascoltatemi, signori! Chi ama il vino, corpo di Dio, mi segua! E arditamente, e che mi bruci Sant'Antonio se gusteranno più il sugo coloro che non soccorsero la vigna! I beni della chiesa, ah ventre di Dio! Ah, no, no! Diavolo! Per essi volle morire San Tommaso l'Inglese! Se morissi anch'io non sarei santo del pari? Ma non morrò tuttavia, poichè io farò morire gli altri.

Ciò dicendo si sbarazzò della lunga tonaca, afferrò l'asta della croce che era di cuor di corniolo, lunga come una lancia, tonda e adatta a bene impugnarsi e incisa qua e là di fiori di giglio quasi totalmente scomparsi. Saltò fuori in casacca colla sua cocolla a mò di sciarpa e coll'asta della croce piombò di colpo sui nemici. Vendemmiavano essi nella vigna senza bandiere, nè tromba, nè tamburo, poichè i portaguidoni e portabandiera avevano lasciato guidoni e bandiere presso il muro e i tamburini avevano sfondato da una parte i tamburi per riempirli d'uva, le trombe erano cariche di grappoli e di tralci, tutti erano sbandati. Egli dunque, così tremendamente piombò loro addosso senza dir nè ahi nè bai, che li rovesciava come porci picchiando per diritto e per traverso secondo la vecchia scherma.

Agli uni sfracellava il cervello, agli altri spezzava braccia e gambe, ad altri slogava le vertebre del collo, ad altri demoliva le reni, asportava il naso, sacramentava gli occhi, fendeva le mascelle, cacciava i denti in gola, sfondava gli omoplati, stritolava le gambe, sgangherava gli ischi, frantumava le ossa.

Se qualcuno tentava nascondersi tra i pampini più spessi, gli sbriciolava la spina dorsale e lo stroncava come un cane.

Se qualcuno voleva salvarsi fuggendo, gli faceva volar la testa a pezzi fracassandogli la sutura lamboidale.

Se qualcuno si arrampicava sopra un albero, pensando mettersi al sicuro, lo impalava colla sua asta per il culo.

Se qualche vecchio suo conoscente gli gridava:

- Oh, frate Gianni, amico mio, Frate Gianni, io m'arrendo!

- Per forza! esclamava egli; ma insieme renderai l'anima a tutti i diavoli.

E giù botte. E se alcuno fosse stato sì temerario da resistergli di fronte, allora mostrava la forza de' suoi muscoli e gli trapassava il petto traforando mediastino e cuore.

Ad altri, picchiando tra costa e costa, arrovesciava lo stomaco e morivano sull'istante.

Altri colpiva sì fieramente all'ombelico che gli uscivano le trippe. Ad altri attraverso i coglioni traforava il budello culare. Era, credete, il più orribile spettacolo che si vedesse mai.

Gli uni gridavano: Oh Santa Barbara!

Gli altri: Oh, San Giorgio!

Gli altri: Oh, Santa Nytouche!

Gli altri: Oh, Madonna di Cunault! di Loreto! delle Buone Novelle, della Lenou! della Riviera!

Gli uni si votavano a San Giacomo; gli altri al santo sudario di Chambery, ma s'incendiò tre mesi dopo talchè non se ne potè salvare un brandello; gli altri a quello di Cadouyn; gli altri a San Giovanni d'Angery; gli altri a Sant'Eutropio di Saintes, a San Massimo di Chinon, a San Martino di Candes, a San Claudio di Sinays, alle reliquie di Javrezay e a mille altri buoni santucci.

Gli uni morivano senza parlare, gli altri parlavano senza morire; gli uni morivano parlando gli altri parlavano morendo.

Altri ancora gridavano a gran voce: "Confessione! Confessione! Confiteor! Miserere! In Manus!"

Fu sì grande il gridare dei feriti che il priore dell'abbazia e tutti i monaci uscirono e quando videro quella povera gente caduta nella vigna e ferita a morte, ne confessarono qualcuno. Ma mentre i preti s'indugiavano a confessare, i fraticelli corsero al luogo dov'era Frate Gianni e gli domandarono come potessero aiutarlo. Ed egli rispose che sgozzassero i caduti. Ed essi, appese le loro gran cappe a un pergolato vicino, cominciarono a sgozzare e finire i feriti a morte. E sapete con quali ferri? Colle roncolette, quei piccoli mezzi coltelli coi quali i ragazzi sbucciano le noci.

Poi, Frate Gianni, sempre colla sua brava croce, raggiunse la breccia che avevano fatta i nemici. Alcuno dei fraticelli portarono nelle loro camere bandiere e guidoni per farsene delle giarrettiere. Ma quando quelli che s'erano confessati vollero uscire da quella breccia, il monaco li tempestava di colpi dicendo:

- Questi qui son confessati e pentiti, hanno guadagnato l'indulgenza e se ne vanno in paradiso dritti come un falcetto o come la strada della Faye.

Così, per la sua prodezza furono sbaragliati tutti i soldati entrati nella vigna in numero di tredicimila seicento e venticinque, senza contare le donne e i bambini, sempre sottinteso.

Mai e poi mai l'eremita Maugis fu sì valoroso col suo bordone contro i Saraceni, come è scritto nelle Geste dei quattro figli d'Aimone, quanto il nostro monaco contro i nemici coll'asta della croce.

 

CAPITOLO XXVIII.

Come qualmente Picrocolo prese d'assalto la Roche Clermault e con quale dolore e difficoltà Grangola si mise in guerra.

 

Mentre il monaco scaramucciava, come abbiamo detto, contro gl'invasori della vigna, Picrocolo rapidissimamente passò co' suoi il guado della Vède, assalì la Roche Clermault senza trovar resistenza ed essendo già notte deliberò di alloggiare colle sue genti nella città e ristorarsi del brucior della collera.

Il mattino prese d'assalto i bastioni e il castello e lo fortificò a modo, fornendolo delle munizioni necessarie, poichè pensava di ritrarsi colà caso mai fosse assalito da altre parti, essendo il luogo forte e per arte e per natura, grazie alla situazione e posizione sua.

Ma ora lasciamoli là e torniamo al nostro buon Gargantua rimasto a Parigi tutto inteso allo studio delle buone lettere e agli esercizi ginnastici, torniamo al buon vecchio Grangola suo padre che, dopo cena, si riscalda i coglioni a un bello chiaro e gran fuoco intento ad arrostir le castagne e a far disegni sulla cenere, col paletto bruciato all'un dei capi col quale si attizza al fuoco, raccontando alla sua donna e ai famigliari belle storie del tempo andato.

Uno dei pastori che facevano guardia alle vigne, nominato Pierotto, si recò da lui in quell'ora e raccontò per filo e per segno le violenze e il saccheggio che Picrocolo, re di Lernè, commetteva nelle sue terre e domini, e come aveva depredato guasto e saccheggiato tutto il paese, eccetto la vigna di Seuilly salvata, ad onor suo, da Frate Gianni degli Squarciatori, e come presentemente il detto re fosse colle sue genti alla Roche Clermault dove si fortificava in gran fretta.

Ahimè! Ahimè! disse Grangola, che è questo, buona gente? Sogno od è vero ciò che mi si dice? Picrocolo mi viene ad assalire! Picrocolo il mio vecchio amico d'ogni tempo, e di tutta la mia razza e parentela! Chi lo muove? Chi lo punge? Chi lo mena? Chi l'ha così consigliato? Oh! Oh! Oh! Oh! Oh! Mio dio, mio Salvatore, aiutami, ispirami, consigliami sul da farsi. Io affermo davanti a te - così mi sia concesso il tuo favore - che mai feci a lui dispiacere, nè danno alle sue genti, nè saccheggio alle sue terre; anzi, per contro, l'ho soccorso di uomini, di danaro, di favore e di consiglio in tutti i casi che ho potuto conoscere l'utile suo. S'egli mi ha oltraggiato a questo segno non può derivare che dallo spirito maligno. Buon Dio, tu conosci il mio cuore, chè a te nulla può essere celato; se per caso fosse diventato furioso e tu me l'avessi inviato qui per risanare il suo cervello, concedimi di potere e sapere renderlo con buona cura al giogo del tuo santo volere.

Oh! Oh! Oh! mie buone genti, miei amici, miei fedeli servitori, bisognerà che io vi disturbi per aiutarmi? Ahimè! La mia vecchiaia non domandava d'ora innanzi che riposo; in tutta la mia vita non ho cercato che pace, ma bisogna, lo vedo bene, che ora carichi d'armatura le mie povere spalle stanche e deboli e che la mia mano tremante impugni la lancia e la mazza per soccorrere e difendere i miei poveri sudditi. E a ben giusta ragione, se dal loro lavoro son mantenuto, del loro sudore nutrito, io, i miei figlioli, la mia famiglia.

Tuttavia non moverò guerra che prima non abbia tentato tutte le arti e vie della pace, in questo son fermo.

Fece dunque convocare il consiglio e presentata la situazione così come stava, fu concluso che s'inviasse a Picrocolo un uomo prudente a chiedere perchè così d'improvviso avesse rotto la pace invadendo terre alle quali non aveva nessun diritto: inoltre che si mandasse a chiamare Gargantua e la sua gente per difendere il paese in questo frangente.

Piacquero a Grangola le proposte e comandò che così si facesse.

Inviò dunque subito il Basco, suo domestico, a cercare in tutta fretta Gargantua e gli scrisse così come segue:

 

CAPITOLO XXIX.

Il tenore della lettera che Grangola scrisse a Gargantua.

 

"Il fervore de' tuoi studi richiedeva che per lungo tempo non ti distraessi da cotesta filosofica quiete, se la mancata fede dei nostri antichi amici e confederati non minacciasse ora la sicurezza della mia vecchiaia. Ma poichè vuole questo fatale destino che da coloro io sia inquietato nei quali più riponeva fiducia, mi è forza richiamarti a difesa delle genti e dei beni che per naturale diritto ti son confidati.

Poichè, come deboli sono le armi all'esterno se non è senno nella propria casa, così vano è lo studio e inutile il senno se in tempo opportuno non siano adoperati e con virtù messi in atto.

È mio proposito non provocare anzi recar pace; non assalire, ma difendere; non conquistare, ma proteggere i miei fedeli sudditi e le terre ereditarie nelle quali Picrocolo è entrato da nemico senza causa nè ragione, e va proseguendo la sua pazza impresa con violenze non tollerabili da persone libere.

Ho creduto mio dovere, per calmare la sua collera e prepotenza, di offrirgli quanto pensavo potesse soddisfarlo e più volte gli ho inviato amichevoli messaggi per sapere in che, da chi e come si sentisse oltraggiato: ma non ebbi per tutta risposta che la sua intenzione di sfidarmi, non altro diritto egli accampando, che di fare sulle mie terre ciò che gli aggrada. Onde ho conosciuto che il Sempiterno Iddio l'ha abbandonato alla guida del suo solo arbitrio e della sua passione la quale non può essere che cattiva se dalla grazia divina non è continuamente illuminata. Certo, per contenerlo nel dovere e rimetterlo in senno, Dio l'ha inviato contro me con ostili bandiere.

Pertanto, figlio mio amatissimo, appena ricevuta qluesta lettera, il più presto che potrai, ritorna in fretta a soccorrere non tanto me (come tuttavia per naturale pietà è tuo dovere) quanto i tuoi che di ragione puoi salvare e proteggere.

L'impresa sarà condotta colla minore effusione di sangue; e, se sia possibile, coi più adatti congegni, colle precauzioni ed astuzie di guerra, salveremo tutti gli uomini e li rimanderemo lieti alle loro case.

La pace di Cristo, Redentore nostro, sia con te, figlio carissimo. Saluta per me Ponocrate, Ginnasta, Eudemone.

Il giorno ventesimo di Settembre.

Tuo padre Grangola".

 

CAPITOLO XXX.

 

Come qualmente Ulrico Galletto fu inviato a Picrocolo.

 

Dettata e firmata la lettera, Grangola ordinò che il suo referendario Ulrico Galletto, uomo saggio e discreto, del quale aveva sperimentato la virtù e il senno in diversi affari contenziosi, andasse a Picrocolo per rimostrargli ciò che da loro era stato deliberato.

Partì subito il buon Galletto e, passato il guado, domandò al mugnaio notizie di Picrocolo. Il mugnaio gli disse che le soldatesche non gli avevan lasciato nè gallo nè gallina, ch'erano chiusi a La Roche Clermault e lo sconsigliava di procedere oltre per paura delle sentinelle: erano furibondi.

Galletto non ebbe difficoltà a crederlo e per quella notte alloggiò dal mugnaio.

L'indomani mattina si recò col trombettiere alla porta del castello e chiese alle guardie che gli lasciassero parlare al re per suo bene.

Il re avvertito, non consentì gli si aprisse la porta, ma salì sui bastioni e disse all'ambasciatore:

"Che c'è di nuovo? Che avete da dire?"

E l'ambasciatore espose l'ambasciata come segue:

 

CAPITOLO XXXI.

L'arringa di Galletto a Picrocolo.

 

"Nessuna più giusta cagion di dolore pei mortali che l'incontrare offesa e danno là dove per diritto operare speravano favore e benevolenza.

E non senza causa (se pure senza ragione) molti in quella disgrazia caduti, hanno tale iniquità stimato men tollerabile della lor propria vita e non pervenendo, nè per forza, nè per ingegno a porvi riparo, di propria mano, si privarono della luce.

Non è dunque meraviglia se alla tua furiosa e ostile invasione l'animo del re Grangola, mio sovrano, di fiero dolore è percosso e la sua mente turbata. Meraviglia sarebbe se non l'avessero commosso gli eccessi incomparabili che sulle sue terre e sui sudditi suoi sono stati da te e dalle tue genti perpetrati, nessun esempio d'inumanità risparmiando, di che tanta afflizione ha sofferto, per l'affetto cordiale onde ai sudditi fu sempre legato, che alcun uomo mortale più non potrebbe. Tuttavia oltre ogni umano credere più grave gli è che le offese e i torti gli vengano da te e da tuoi. Infatti, a memoria d'uomo tu e i padri tuoi con lui e gli antenati suoi avevate tale amicizia contratta, che fino ad oggi come sacra fu inviolabilmente osservata, conservata e mantenuta, talchè non solamente lui e i suoi, ma anche le nazioni barbare del Poitou, di Bretagna, del Mans, e quelle che abitano oltre le isole di Canaria e Isabella, hanno più facil cosa reputato demolire il firmamento e inalzare gli abissi fin sopra le nubi, che rompere l'alleanza vostra, e tanto l'hanno nelle loro imprese temuta, che mai osarono provocare, irritare, e danneggiare l'uno per timore dell'altro.

Ma c'è di più. La fama di questa sacra amicizia tanto ha di sè riempito il cielo che poche genti oggi vivono e abitano per tutto il continente e le isole dell'oceano, che non abbiano ambiziosamente aspirato esser in quella ricevute a patti da voi stessi fissati, perocchè l'essere con voi confederati non meno stimarono delle loro stesse terre e dei loro propri domini; di guisa che, a memoria d'uomo, mai non fu nè principe, nè lega tanto efferata o superba che abbia osato assalire non dico le terre vostre, ma neanche quelle dei vostri confederati, e se pure con inconsulta precipitazione hanno contro essi attentato qualche novità, appena saputo il nome e titolo della vostra alleanza, subitamente dall'impresa desistettero.

Qual furia dunque, rotta ogni alleanza, conculcata ogni amicizia, infranto ogni diritto, ti move ora a invadere da nemico le sue terre, senza essere stato da lui nè da' suoi danneggiato, irritato, provocato?

Dov'è la fede? Dove la legge? Dove la ragione? Dove la umanità? Dove il timor di Dio? Credi tu che questi oltraggi restino celati agli spiriti eterni e a Dio sovrano che è giusto retributore delle nostre imprese? Se così credi t'inganni: ogni azione cadrà sotto il suo giudizio. È forse fatalità di destino e influsso d'astri che vuol metter fine alla tua comodità e tranquillità? Certo tutte le cose hanno loro corso e loro fine e quando sono al sommo pervenute, ruinano in basso poichè non possono a lungo in tale stato dimorare. Ed è la sorte di quelli che non possono con ragione e temperanza le loro fortune e prosperità moderare.

Ma se così era destinato, se dovesse ora la tua fortuna e quiete finire, era necessario che ciò avvenisse recando torto al mio re, quello per il quale tu regnavi? Se la tua casa deve rovinare, occorreva proprio che nella sua rovina cadesse sui focolari di colui che l'aveva adornata? Ciò è tanto fuor dei termini di ragione, tanto aborrente dal senso comune, che appena può esser concepito da umano intelletto, e rimarrà non credibile tra gli stranieri fino a quando le conseguenze accertate e provate dimostrino come nulla sia santo nè sacro per coloro che si sono allontanati da Dio e dalla Ragione e per seguire le loro inclinazioni perverse.

Se qualche torto fosse stato fatto da noi ai tuoi sudditi, ai tuoi domini; se avessimo favorito i tuoi nemici; se nelle tue vicende non ti avessimo soccorso; se il tuo nome e l'onor tuo fossero stati da noi feriti, o, per meglio dire, se lo spirito calunniatore che tenta trarti a male, avesse con false apparenze e illusori fantasmi messo nella tua mente che avessimo contro te operato cose non degne della nostra antica amicizia, tu dovevi prima investigare la verità, poi ammonirci, e noi ti avremmo dato soddisfazioni tali che avresti avuto occasione d'essere contento. Ma, oh eterno Iddio! che impresa è codesta tua? Vorresti tu come perfido tiranno saccheggiare e rovinare il reame del mio Signore? L'hai tu trovato tanto ignavo e stolto che non volesse, o tanto privo di genti, di danaro, di senno e d'arte bellica, che non potesse resistere ai tuoi iniqui assalti?

Dipàrtiti ora di qua, ed entro il giorno di domani ritorna nelle tue terre senza commettere nella ritirata, nè tumulti nè violenze, e paga mille bisanti d'oro pei danni recati al nostro territorio. La metà consegnarai domani, l'altra metà pagherai agli idi del maggio prossimo venturo, lasciandoci intanto per ostaggio i duchi di Giramola, di Culobasso e di Minutaglia insieme col principe Grattina e il visconte delle Piattole".

 

CAPITOLO XXXII.

Come qualmente Grangola, per ottener pace, fa restituire le focaccie.

 

Quando il buon Galletto si tacque, Picrocolo, a tutti i suoi argomenti altro non rispose se non: "Veniteli a prendere, veniteli a prendere. Hanno bei coglioni e molli: v'ammaniranno focaccia".

Tornato Galletto a Grangola, lo trovò in ginocchio, chino, a capo scoperto, in fondo alla sua camera pregando Dio che volesse calmare la collera di Picrocolo e ricondurlo alla ragione evitando si ricorresse alla forza. Quando vide il buon uomo di ritorno, gli domandò:

- Ah, amico mio, amico mio, che notizie recate?

- Va tutto alla rovescia, disse Galletto, quell'uomo è forsennato e abbandonato da Dio.

- Ma insomma, amico mio, disse Grangola, con qual ragione giustifica i suoi eccessi?

- Nessuna ragione m'ha esposto; solo disse con collera qualche parola sulle focaccie. Non so se sia stato fatto oltraggio ai suoi focacceri.

- Voglio ben chiarire la cosa, disse Grangola, prima di deliberare il da farsi.

Allora chiese informazioni sulla faccenda e trovò per vero che erano state tolte delle focaccie alle genti di Picrocolo e che Marchetto aveva ricevuto una randellata sul capo, tuttavia che il tutto era stato ben pagato e che Marchetto per primo aveva ferito Forgier con una frustata alle gambe. Il consiglio unanime fu di parere si corresse alla difesa con tutte le forze. Ciononostante Grangola disse:

- Troppo m'incresce mover guerra; e poichè non si tratta che di qualche focaccia procurerò dargli soddisfazione.

S'informò adunque quante focaccie erano state prese e sentendo quattro o cinque dozzine, comandò se ne fabbricassero cinque carrettate in quella notte istessa, e una carrettata fosse tutta di focaccie confezionate con bel burro, bel tuorlo d'ovo, bel zafferano e belle spezie, questa per Marchetto, al quale, come risarcimento, dava inoltre settecentomila e tre filippi per pagare i barbieri che l'avevano curato, e come soprappiù, la masseria della Pomardière franca da gravami per lui e i suoi a perpetuità. Per condurre il tutto fu inviato Galletto il quale per via fece cogliere presso la Saulsaye molte belle canne e ne fece adornare carrette e carrettieri, egli stesso ne prese una in mano volendo mostrare così, che solo pace cercavano e andavano a chiederla.

Giunti alla porta chiesero di parlare a Picrocolo da parte di Grangola. Picrocolo non volle nè lasciarli entrare, nè andare a parlare con loro; mandò a dire che era occupato, ma che esponessero ciò che volevano al capitano Toccaleone che stava affustando alcuni pezzi sulle mura.

Il bravo Galletto così gli disse:

"Signore, per metter fine a tutto questo conftitto e togliere ogni pretesto di non tornare alla primitiva alleanza, siamo venuti a restituirvi le focaccie onde sorse la controversia. Cinque dozzine ne presero le nostre genti e furono ben pagate. Ma noi tanto amiamo la pace, che ve ne restituiamo cinque carrette, delle quali questa sarà per Marchetto che più si duole. E di più, per soddisfarlo interamente, ecco settecentomila e tre filippi che gli consegno, e, per gl'interessi che potesse pretendere, gli cedo la masseria della Pomardière in possesso a perpetuità per lui e suoi, franca da gravami; ecco qui il contratto della transazione. E, in nome di Dio, viviamo d'ora innanzi in pace e voi ritiratevi nelle vostre terre lietamente, lasciando libera questa città alla quale non avete alcun diritto, come riconoscerete. E amici come prima".

Toccaleone riferì tutto a Picrocolo ed eccitò vieppiù l'animo suo dicendogli:

- Hanno una bella paura quei tangheri! Quel povero beone di Grangola se la fa addosso, per Dio! A vuotar fiaschi, a quello sì ch'è bravo, ma guerreggiare non è affar suo. Io sono di avviso che ci teniamo focaccie e filippi, e quanto al resto affrettiamoci a compiere qui le fortificazioni e a proseguire la nostra impresa. Ma pensano forse d'aver a fare con un minchione volendovi rimpinzar di focaccie? Ecco l'effetto del buon trattamento e della grande famigliarità colla quale li trattavate prima: vi spregiano: ungi villano ed ei ti punge; pungi villano ed egli ti unge!

- Su, su, su, disse Picrocolo, per San Giacomo! sapranno chi sono! Fate ciò che avete detto.

- D'una cosa, disse Toccaleone, voglio avvertirvi: stiamo maluccio a vettovaglie, e magramente provvisti di munizioni da bocca. Se Grangola ci assediasse andrei senz'altro a farmi arrancar tutti i denti, meno tre, a me e alle vostre genti; con tre n'avremmo d'avanzo pei viveri che abbiamo.

- Di viveri ce n'è anche troppo, disse Picrocolo; siamo noi qui per mangiare o per battagliare?

- Per battagliare, per battagliare, rispose Toccaleone; ma dalla panza vien la danza, ed ove fame sta, la forza se ne va.

- Eh, quante ciancie! disse Picrocolo. Impadronitevi di ciò che hanno portato.

Presero dunque danaro, focaccie, buoi e carrette e rinviarono gli uomini senz'altro dire se non che d'allora in poi stessero a rispettosa distanza, per una buona ragione, che avrebbero detto loro l'indomani... E quelli, a mani vuote, tornarono a Grangola e gli raccontarono tutto aggiungendo non rimanere speranza alcuna d'indurre a pace il nemico se non con fiera e forte guerra.

 

CAPITOLO XXXIII.

Come qualmente certi ministri di Picrocolo con avventato consiglio lo trassero agli estremi rischi.

 

Prese le focaccie, comparvero davanti a Picrocolo il duca di Minutaglia, il conte Spadaccino, e il capitano Merdaglia, i quali gli dissero:

- Sire, oggi noi vi rendiamo il più avventurato e cavalleresco principe che vivesse mai, dalla morte di Alessandro il Macedone.

- Tenete, tenete il cappello in capo, disse Picrocolo.

- Grazie, risposero essi. Sire, noi siamo qui a compiere il nostro dovere. E il piano è questo:

"Voi lascierete qui di guarnigione qualche capitano con una piccola banda per guardar la piazza che ci sembra abbastanza forte sia per natura, sia per le fortificazioni compiute secondo il vostro disegno. Voi dividerete l'esercito in due parti come vi parrà meglio. L'una piomberà addosso a Grangola e alle sue genti che al primo scontro resteranno facilmente sconfitti. Allora avrete danaro a iosa, chè il villanzone ce n'ha della moneta; villanzone, diciamo, perocchè un veramente nobile principe non ha mai un soldo, tesoreggiare è da villano. L'altra parte dell'esercito intanto volgerà verso Aunis, Saintonge, l'Angoumois, la Guascogna, il Perigord, Medoc e le Lande. Senza incontrare resistenza prenderanno città, castelli e fortezze. A Baiona, Saint-Jean-de Luz e Fontanarabia v'impadronirete di tutte le navi e costeggiando la Galizia e il Portogallo, saccheggierete tutti i luoghi marittimi fino a Lisbona dove troverere il rinforzo di ogni equipaggio necessario ad un conquistatore. La Spagna s'arrenderà, per Dio, non sono che bifolchi. Voi passerete per lo stretto di Gibilterra; là erigerete due colonne più magnifiche di quelle d'Ercole a memoria perpetua del vostro nome e quello stretto sarà chiamato il mar Picrocolino. Passato il mar Picrocolino, ecco Barbarossa che si rende vostro schiavo...

- Resa a discrezione, disse Picrocolo.

- Certo, dissero essi, purchè si faccia battezzare. Espugnerete il reame di Tunisi, di Biserta, Algeri, Bona, Cirene, insomma tutta Barberia. Passando oltre occuperete Maiorca, Minorca, la Sardegna, la Corsica, e altre isole del Mar Ligustico e Baleare. Costeggiando a sinistra dominerete tutta la Gallia Narbonese, la Provenza. gli Allobrogi, Genova, Firenze, Lucca e buonanotte a Roma! Il povero signor papa muore già di paura.

- In fede mia, disse Picrocolo, non io andrò a baciargli la pantofola.

- Presa l'Italia, ecco Napoli, la Calabria, la Puglia e la Sicilia messe a sacco e anche Malta. Vorrei ben vedere che quegli allegri cavalieri, già di Rodi, vi resistessero! Li facciamo pisciare addosso!

- Andrei volentieri a Loreto, disse Picrocolo.

- No, no, dissero essi, ce la riserviamo pel ritorno. Quindi prendiamo Candia, Cipro, Rodi, e le isole Cicladi, e ci avviamo alla Morea. L'abbiamo in mano: oh, San Tregnano, Dio guardi Gerusalemme, poichè il sultano non può competere con la potenza vostra!

- Io farò dunque costruire, disse egli, il tempio di Salomone.

- Non ancora, obbiettarono essi, aspettate un po'. Non siate mai tanto subitaneo nelle vostre imprese. Sapete che cosa diceva Ottaviano Augusto? Festina lente. Prima vi conviene avere l'Asia Minore, la Caria, la Licia, la Panfilia, la Cilicia, la Lidia, la Frigia, la Misia, la Bitinia, la Carazia, la Satalia, Samagaria, Castamena, Luga, Sebaste, fino all'Eufrate.

- Vedremo, disse Picrocolo, Babilonia e il monte Sinai?

- Non è necessario, ora, dissero. Non abbiamo avuto già abbastanza da fare, diavolo, traversando il Mare Ircano, cavalcando le due Armenie e le tre Arabie?

- In fede mia, diss'egli, siamo fuor di noi. Ah, povere le mie genti!

- Perchè? chiesero essi?

- Perchè? E che berremo noi in quei deserti? Giuliano Augusto e tutto il suo esercito vi morirono di sete, come si racconta.

- Ma noi, obbiettarono, abbiamo già provveduto a tutto. Nel Mar Siriaco voi avete novemila e quattordici grandi navi cariche dei migliori vini del mondo; esse sono giunte a Giaffa. Là si trovavano due milioni e ducentomila cammelli e mille seicento elefanti che voi avrete preso in una caccia intorno a Segelmessa, quando entraste in Lidia e inoltre aveste tutte le carovane della Mecca. Non vi fornirono esse vino a sufficienza?

- Sì, diss'egli, ma non era fresco.

- Corpo d'un pesce e di non piccola statura! esclamarono essi, ma un prode, un conquistatore, un pretendente e aspirante all'Impero Universo non può sempre avere tutti i suoi comodi. Ringraziate Iddio che siete arrivato sano e salvo, voi e le vostre genti, fino al fiume Tigri!

- Ma, diss'egli, che cosa fa intanto la parte del nostro esercito che ha sbaragliato quel villano beone di Grangola?

- Eh, non se ne stanno con le mani in mano, risposero. Noi li incontreremo ben presto. Essi vi hanno conquistato la Bretagna, la Normandia, le Fiandre, l'Haynault, il Brabante, l'Artois, l'Olanda, la Zelanda. Hanno traversato il Reno passando sul ventre degli Svizzeri e dei Lanzichenecchi e parte d'essi hanno soggiogato il Lussemburgo, la Lorena, la Champagne, la Savoia fino a Lione, dove hanno trovate le vostre guarnigioni reduci dalle conquiste navali del mare Mediterraneo, e si sono riuniti in Boemia dopo aver messo a sacco la Svevia, il Wurtemberg, la Baviera, l'Austria, la Moravia, la Stiria; poi son piombati fieramente insieme su Lubecca, la Norvegia, la Svezia, la Danimarca, la Gotia, la Croenlandia, gli Estrelini fino al mar Glaciale. Ciò fatto conquistarono le isole Orcadi e soggiogarono Scozia, Inghilterra e Irlanda. Di là, navigando per il Mar Sabbioso e la Sarmazia, hanno vinto e domato Prussia, Polonia, e Lituania, Russia, Valacchia, Transilvania, e Ungheria, Bulgaria, Turchia ed eccoli a Costantinopoli.

- Andiamo a unirci con loro al più presto, disse Picrocolo, poichè voglio essere anche imperatore di Trebisonda. Non uccideremo tutti quei cani di Turchi e Maomettani?

- Che altro faremo, diavolo, dissero, se non questo? I loro beni e terre donerete a coloro che vi hanno servito onestamente.

- Ragion lo vuole, diss'egli, è giusto. Vi dono la Caramania, la Siria e tutta la Palestina.

- Ah, dissero essi, quanto siete generoso, Sire! Grazie! Dio vi faccia sempre ben prosperare!

Era presente un vecchio gentiluomo provato in diverse vicende, e vero uomo di guerra chiamato Echefrone, il quale udendo quei discorsi disse:

- Ho una gran paura che tutta questa impresa somigli alla facezia del vaso di latte, sul quale un calzolaio basava la fantasia delle sue ricchezze e poi, rottosi il vaso, non ebbe di che desinare. Dove volete arrivare con tutte queste belle conquiste? Quale sarà il risultato di tanti travagli e traversie?

- Sarà, disse Picrocolo, che al ritorno riposeremo a nostro agio.

- E, se per caso, disse Echefrone, mai non ritornaste, poichè lungo è il viaggio e periglioso; non è meglio riposare fin da ora, senza rischiarci a tante avventure?

- Oh, perdio, disse Spadaccino ecco un bel farneticone! Ma sì, andiamo a rannicchiarci a un canto del focolare e stiamo là a passar la vita e il tempo colle dame, infilando perle o filando come Sardanapalo! Chi non s'avventura non ha caval nè mula, disse Salomone.

- Chi troppo s'avventura, disse Echefrone, perde cavallo e mula, al dire di Marcone.

- Basta, disse Picrocolo, lasciamo andare. Io non temo che quei diavoli delle legioni di Grangola. Se, mentre noi siamo in Mesopotamia ci pestano la coda, come si rimedia?

- È presto fatto, disse Merdaglia; un bel decretino inviato ai Moscoviti, vi metterà in campo in un momento quattrocento e cinquanta mila combattenti scelti. Oh, se mi faceste vostro luogotenente, v'ammazzo un soldo per un uomo. Io mordo, abbatto, picchio, afferro, uccido, rinnego!

- Su, su, disse Picrocolo, che tutto sia pronto e chi mi ama mi segua!

CAPITOLO XXXIV.

Come qualmente Gargantua lasciò la cittá di Parigi per soccorrere il suo paese e come Ginnasta incontrò i nemici.

Intanto Gargantua partito da Parigi appena letta la lettera del padre, cavalcando la sua grande giumenta aveva già passato il ponte della Nonnain insieme con Ponocrate, Ginnasta, ed Eudemone, i quali per seguirlo avevano preso cavalli di posta. Il resto della sua gente veniva a piccole giornate conducendo tutti i libri e strumenti di studio. Arrivato a Parilly, fu avvertito dal massaro di Gouguet che Picrocolo s'era fortificato alla Roche Clermault e aveva inviato il Capitano Trippetto con un grosso esercito ad assalire il bosco della Vède e Vaugaudry e che avevano svaligiato tutti i pollai fino al frantoio Billard, commettendo tali violenze nel paese, che era stranamente difficile a credere. Gargantua rimase impressionato e non sapeva più che dire e che fare.

Ma Ponocrate consigliò che si recassero dal Signor di Vauguyon che era stato in ogni tempo loro amico e confederato, il quale di tutto li avrebbe meglio informati. Così fecero incontinente e lo trovarono ben risoluto a soccorrerli. Egli propose di inviare qualcuno della sua gente in ricognizione per esplorare il paese e la situazione dei nemici e procedere secondo i disegni più convenienti al momento.

Ginnasta si offrì di andare, ma fu ritenuto preferibile fosse accompagnato da qualcuno che conoscesse le vie, i sentieri e i corsi d'acqua dei dintorni.

Partirono dunque lui e Prelinguand, scudiero di Vauguyon ed esplorarono da ogni parte senza paura. Intanto Gargantua si ristorò e rifocillò alquanto colle sue genti e fece dare alla giumenta una razione d'avena, cioè settantaquattro moggi e tre staia.

Ginnasta e il suo compagno tanto cavalcarono che incontrarono i nemici. Tutti sparpagliati e in disordine essi stavano saccheggiando e rubando quanto trovavano e non appena lo scorsero da lungi accorsero a lui in folla per spogliarlo. Ed egli gridò loro: "Signori, sono un povero diavolo, abbiate pietà di me! Ho ancora qualche scudo, noi lo berremo insieme poichè è aurum potabile; e venderemo questo cavallo per pagare le spese della bicchierata; e poi consideratemi dei vostri, giacchè nessuno mai seppe prendere lardare, arrostire e condire, e, per Dio, smembrare e insaporire pollastri meglio di me, qui presente; e per il mio proficiat bevo alla salute di tutti i buoni compagnoni".

Allora stappò la sua boraccia e, senza mettervi il naso dentro, beveva assai onestamente. I bricconi lo guardavano spalancando la bocca di un buon piede e tirando fuori la lingua come levrieri, in attesa di bere anche loro; ma in quel momento accorse Trippetto, il capitano, per vedere che avvenisse. Ginnasta gli offrì la sua boraccia dicendo:

- A voi capitano, bevete arditamente: lo ho assaggiato, è vino di La Foye Monjault.

- Come! disse Trippetto, questo burlone si fa gioco di noi! Chi sei?

- Sono un povero diavolo, disse Ginnasta.

- Ah, disse Trippetto; poichè sei un povero diavolo, è giusto che tu abbia libero il passo; i poveri diavoli passano dappertutto senza pedaggi, nè gabella; ma non è costume di poveri diavoli esser sì ben montati, perciò scendete, messer diavolo, che io ne abbia il ronzino e se non mi porta bene, mi porterete voi, mastro diavolo, poichè mi piace assai che un tal diavolo mi porti.

 

CAPITOLO XXXV.

Come qualmente Ginnasta uccise bellamente il capitano Trippetto e altre genti di Picrocolo.

 

Udite queste parole, alcuni dei presenti cominciarono ad aver paura e si segnavano a due mani pensando fosse un diavolo travestito. E uno di loro, chiamato Buon Giovanni, capitano dei franchitopini, estrasse dalla braghetta il suo breviario e gridò ad alta voce: "Aghios o theòs! Se tu sei di Dio, parla, se tu sei dell'Altro, vattene", Ginnasta non si mosse. E allora molti della banda, che avevano inteso, si squagliarono, mentre egli tutto osservava e considerava.

A un tratto fece finta di scendere da cavallo inclinando a sinistra, e appendendosi leggermente allo staffile, pur con la sua spada bastarda al fianco, guizzò di sotto il ventre e balzò in aria dall'altra parte cadendo ritto in piedi sulla sella col culo voltato verso la testa del cavallo.

- Toh, disse, il mio cazzo va a rovescio!

E là dov'era si diè a piroettare sopra un sol piede girando a sinistra e riprendendo la sua posizione senza sbagliar di un'unghia.

- Ah, esclamò Trippetto, non è affare mio codesto, per ora! E n'ho le mie buone ragioni.

- Merda! disse Ginnasta, ho sbagliato, bisogna disfare il salto.

E allora, con tutta forza e agilità si diè a piroettare come prima, girando a dritta poi, puntando il pollice della destra sull'arcione della sella, s'inalberò in verticale coi piedi in aria sostenendo tutto il corpo sui muscoli e nervi del detto pollice e fece così tre giri su se stesso. Al quarto, senza nulla toccare, balzò in orizzontale sospendendo il corpo teso tra le orecchie del cavallo e sul perno del pollice sinistro eseguì il mulinello; poi, appoggiando la destra in mezzo alla sella, prese lo slancio e andò a sedere sulla groppa come le damigelle. Quindi, sorvolando la sella comodamente colla gamba destra, si mise a cavalcioni sulla groppa.

- Però è meglio, disse, che mi aggiusti tra gli arcioni.

E poggiati i due pollici davanti a sè sulla groppa, fece una capovolta col culo in aria e si trovò in sella elegantissimo; poi d'un balzo si drizzò in aria e si tenne coi piè giunti tra gli arcioni dove fece più di cento giri su sè stesso colle braccia stese a croce gridando a gran voce:

- Infurio, diavoli, infurio, infurio! Tenetemi diavoli, tenetemi, tenetemi!

Vedendolo così volteggiare i bricconi trasecolati si dicevano l'un l'altro:

- Per la Madonna, è un folletto o un diavolo travestito: Ab hoste maligno libera nos domine! E se ne fuggivano disperatamente guardando dietro a sè come un cane che porta via un'ala d'oca.

Allora Ginnasta, cogliendo il momento favorevole, scende da cavallo, sguaina la spada e a gran colpi si lancia sui più impennacchiati abbattendoli a mucchi feriti, piagati, tramortiti e nessuno gli teneva testa pensando che fosse un diavolo affamato, sia pei mirabili volteggiamenti, sia per

le parole di Trippetto che l'aveva chiamato "povero diavolo". Tuttavia Trippetto, a tradimento, tentò fendergli il cervello colla sua spada lanzichenecca; ma Ginnasta era ben corazzato e di quel colpo non sentì che la botta. Voltatosi pronto egli lanciò a Trippetto una stoccata volante, e mentre quegli riparava al capo gli squarciò d'un colpo lo stomaco, il colon, metà del fegato, onde cadde a terra e cadendo buttò fuori quattro pentole di zuppa e, mescolata colla zuppa, l'anima.

Ciò fatto Ginnasta si ritirò considerando che non bisogna abusare della fortuna forzandola fino all'estremo, e che si addice a cavaliere trattare con reverenza la buona ventura senza molestarla, o violentarla. E rimontato a cavallo diè di sprone prendendo dritto la strada di Vauguyon. E Prelinguand con lui.

 

CAPITOLO XXXVI.

Come qualmente Gargantua demolì il castello del guado della Vède e come il guado fu passato.

 

Giunto Ginnasta, descrisse come aveva trovato i nemici e lo stratagemma usato, lui solo contro tutta la loro caterva e affermò che erano nient'altro che bricconi, predoni e briganti, ignoranti dell'arte militare e che arditamente si mettessero in marcia che sarebbe stato loro assai facile ammazzarli come bestie.

Montò dunque Gargantua sulla sua grande giumenta accompagnato come dianzi abbiamo detto. E incontrando per la strada un alto e grosso ontano, chiamato comunemente l'albero di San Martino perchè si credeva cresciuto da un bordone piantatovi già da San Martino, disse:

- Ecco ciò che mi occorre: quest'albero mi servirà di bordone e di lancia.

E lo svelse facilmente da terra, ne sfrondò i rami e lo accomodò a suo piacere. Intanto la giumenta pisciò a sollievo del ventre; ma con tale abbondanza che ne fece sette leghe di diluvio; la pisciata defluendo al guado della Vède tanto gonfiò la corrente, che tutta quella banda di nemici furono annegati molto orrendamente, eccetto alcuni che avevano preso il sentiero verso le colline a sinistra.

Gargantua giunto all'altezza del bosco della Vède, fu avvisato da Eudemone che alcuni nemici erano rimasti dentro il castello; per accertarsene Gargantua gridò:

- Ci siete o non ci siete? Se ci siete non ci siate più, se non ci siete non ho altro a dire. Ma un ribaldo cannonniere che stava alle feritoie gli sparò una cannonata e lo colse alla tempia destra furiosamente: tuttavia non gli fece più male che se gli avessero tirato una prugna.

- Che è? disse Gargantua, ci gettate dei chicchi d'uva? La vendemmia vi costerà cara.

E pensava davvero che si trattasse d'un acino d'uva. Quelli che erano dentro il castello, distratti a saccheggiare, sentendo il rumore accorsero alle torri e fortezze e gli spararono più di novemila e venticinque colpi di falconetto e archibugio, mirando tutti alla testa; e sparavano così fitto contro lui che egli gridò:

- Ponocrate, amico mio, queste mosche mi acciecano, datemi un ramo di quei salici da cacciarle via.

Eran palle di piombo e pietre d'artiglieria ed egli pensava che fossero mosche bovine. Ponocrate l'avvertì che non si trattava di mosche, ma di colpi di artiglieria sparati dal castello. Allora egli percosse del suo grosso albero contro il castello e a gran colpi abbattè torri e fortezze e ridusse tutto in rovina, onde furono morti e messi a pezzi quelli che vi erano dentro.

Partiti di là, arrivarono al ponte del mulino e trovarono tutto il guado talmente coperto e affollato di cadaveri che n'era ingorgato il corso del mulino. Erano quelli periti nel diluvio urinale della giumenta. Là stettero sovra pensiero domandandosi come avrebbero potuto passare dato l'impedimento di quei cadaveri. Ma Ginnasta disse:

- Se vi son passati i diavoli vi passerò benissimo anch'io.

- I diavoli, disse Eudemone, vi son passati per portar via le anime dannate.

- Per San Tregnano! disse Ponocrate, e dunque, per conseguenza necessaria, vi passerà anche lui.

- Giusto, giusto, disse Ginnasta, se no resterò per istrada. E dato di sprone al cavallo passò oltre francamente senza che mai il cavallo si spaurisse dei corpi morti. Infatti l'aveva accostumato secondo l'insegnamento di Eliano a non spaventarsi nè delle armi, nè dei corpi morti; non uccidendo uomini, come Diomede che uccideva i Traci e Ulisse che metteva i corpi dei nemici ai piedi dei suoi cavalli, secondo racconta Omero, ma mettendogli un fantoccio tramezzo il fieno, o facendovelo passar su, quando gli dava l'avena. I tre altri lo seguirono senza inconvenienti, eccetto Eudemone il cui cavallo affondò il piè diritto fino al ginocchio nel ventre d'un grosso e grasso villano, annegato là a pancia all'aria, nè poteva districarsi.

E rimase così impantanato finchè Gargantua colla punta del bastone affondò nell'acqua il resto delle trippe del villano mentre il cavallo alzava il piede. E (ciò che è mirabile in ippiatria) il detto cavallo fu guarito da un tumore che aveva nel piede, grazie all'unzione delle budella di quel grosso briccone.

 

CAPITOLO XXXVII.

Come qualmente Gargantua, pettinandosi, faceva cadere dai capelli proiettili d'artiglieria.

 

Superata la riva della Vède, poco dopo arrivarono al castello di Grangola che li attendeva con ansia. All'arrivo di Gargantua gli fecero una festa senza pari. Mai e poi mai videsi gente più allegra. Il Supplementum supplementi chronicorum dice che Garganella ne morì di gioia, quanto a me non ne so proprio nulla e ben poco mi curo di lei, nè d'altra. La verità è che Gargantua, mutati abiti e pettinandosi col suo pettine (era lungo cento pertiche e fitto di gran denti d'elefante tutti interi) faceva cadere ad ogni pettinata, più di sette balle di palle rimastegli nei capelli alla demolizione del bosco della Vède.

A quella vista Grangola suo padre, pensando fossero pidocchi gli disse:

- Ohe, mio buon figliolo, ci hai portato fin qui sparvieri di Monteacuto? Non intendevo che là tu facessi residenza.

- Signore rispose Ponocrate, non pensate ch'io l'abbia messo nel collegio dei pidocchiosi che si chiama Montacuto; so che c'è tanta crudeltà e tanta sporcizia che avrei preferito metterlo fra gli straccioni di Sant'lnnocenzo - Assai meglio sono trattati i forzati fra Mori e Tartari, gli assassini nelle prigioni criminali, meglio certo i cani nella vostra casa, che non siano i disgraziati in quel collegio. E se io fossi re di Parigi, il diavolo mi porti se non v'appiccherei il fuoco e farei bruciare il capo ai rettori che sopportano sotto i loro occhi tale inumanità.

E raccogliendo poi una di quelle palle:

- Sono cannonate, disse, che i nemici traditori hanno sparato su vostro figlio Gargantua quando passava davanti al bosco della Vède. Ma essi in cambio sono tutti periti nella rovina del castello, come i Filistei per opera di Sansone, e quelli che schiacciò la torre di Siloè, dei quali è scritto in S. Luca, XIII.

Ed ora son d'avviso che incalziamo i nemici mentre la fortuna è propizia, l'occasione ha i capelli sulla fronte; quand'è passata, non potrete richiamarla, è calva dietro il capo e non ritorna più.

- Sì, disse Grangola, ma non ora subito, questa sera voglio farvi festa e siate i benvenuti!

Ciò detto fu preparata la cena e in più del consueto furono arrostiti sedici buoi, tre manze, trentadue vitelli, sessantatre caprioli lattonzoli, novantacinque pecore, trecento porcellini di latte con salsa di mosto, duecento e venti pernici, settecento beccaccie, quattrocento capponi del Ludunese e della Cornovoglia, seimila pollastri e altrettanti piccioni, seicento gallinelle, mille e quattrocento leprotti, trecento e tre ottarde e millesettecento capponcelli. Non molta cacciagione si potè procurare così all'improvviso; non v'erano che undici cinghiali inviati dall'abate di Turpenay e diciotto fra daini, cervi e caprioli regalati dal signore di Granmont, più venti fagiani mandati dal signore di Essars e qualche dozzina di colombacci, d'uccelli acquatici, di arzavole, tarabusi, chiurli, pivieri, francolini, oche selvatiche, pizzacheretti, vannelli, palettoni, pavoncelle, aironetti, folaghe, tadorne, gazze, cicogne, oche granaiuole, fiammanti (cioè fenicotteri) terragnoli, dindi, gran quantità di gnocchetti e rinforzo di minestre.

Senza alcun dubbio i viveri abbondavano e furono cucinati a modino da Pestasalsa, Scuotipentola e Rubagresto, cuochi di Grangola. Giannotto, Michele e Gottochiaro, prepararono assai bene da bere.

 

CAPITOLO XXXVIII.

Come qualmente Gargantua mangiò sei pellegrini in insalata.

 

L'argomento richiede che raccontiamo ciò che occorse a sei pellegrini i quali venivano da San Sebastiano presso Nantes e, per paura dei nemici, s'erano nascosti per passarvi la notte, sopra uno strato di gambi di piselli, tra i cavoli e le lattughe dell'orto. Gargantua sentendosi un po' di riscaldo domandò se gli si poteva trovare delle lattughe per fargli un'insalata.

E sentendo che ve n'erano e le più belle e grandi del paese, chè erano vaste come alberi di prugne e di noci, volle andare a coglierne lui stesso e ne prese una manata, con dentro i sei pellegrini, i quali avevano sì gran paura da non osar nè parlare e nemmeno tossire.

Mentre dunque risciacquava dapprima la lattuga alla fontana, i pellegrini dicevano a voce bassa tra loro: "Che fare? Finiremo per annegare dentro queste lattughe, dobbiamo parlare. Ma se parliamo ci ammazzerà come spie". E mentre così ragionavano, Gargantua li mise colle lattughe dentro una gran terrina della casa, grande come la botte di Cisteaux e, conditi con olio aceto e sale li mangiava per rinfrescarsi prima di cena, e aveva già ingoiato cinque pellegrini; il sesto rimaneva nel piatto nascosto sotto una foglia meno il suo bordone che spuntava al disopra. Vedendolo Grangola disse a Gargantua:

- Ma pare ci sia un corno di lumaca, non lo mangiate.

- Perchè? disse Gargantua, per tutto il mese le lumache son buone.

E tirando il bordone con attaccato il pellegrino se lo mangiò egregiamente. Poi ci bevve su una tremenda sorsata di vino pinello aspettando che preparassero la cena.

I pellegrini così ingoiati scansarono il meglio che poterono le mole de' suoi denti, e pensavano che egli li avesse messi in qualche profonda fossa di prigione; e quando Gargantua bevve la gran sorsata credettero di annegare nella sua bocca, e il torrente del vino li travolse fin quasi nell'abisso del suo stomaco; tuttavia saltando coi loro bordoni come fanno i michelotti poterono ricoverarsi alle falde dei denti.

Ma, per disgrazia, uno di essi scandagliando il terreno col bastone, per accertarsi se fossero al sicuro, urtò rudemente nell'apertura d'un dente cariato e colpì il nervo della mandibola, onde Gargantua provò un acuto dolore e si diede a gridare dallo spasimo. Per alleviare il male fece portare il suo stuzzicadenti e uscito verso il noce groliero, snidò i signori pellegrini afferrando l'uno per le gambe, l'altro per le spalle, l'altro per la bisaccia, l'altro per la borsa, l'altro per la sciarpa. Il povero disgraziato che l'aveva colpito col bordone, lo uncinò per la braghetta; tuttavia fu gran fortuna per lui poichè gli spaccò un bubbone inguinale che lo martirizzava fin da quando erano passati per Ancenys.

I pellegrini così snidati scapparono di bel trotto attraverso un vigneto e il dolore si calmò.

In quel momento Eudemone lo chiamò per cenare poichè tutto era pronto.

- Lasciatemi prima, disse, pisciare il mio dolore.

E pisciò così copiosamente che l'urina tagliò la strada ai pellegrini che furono costretti a varcare il gran canale. Passando di là presso il margine d'un bosco in piena marcia, caddero tutti, meno Fournillier, in un trabocchetto scavato per prendere i lupi nella rete: dalla quale si liberarono grazie all'industria del detto Fournillier che ruppe tutti i lacci e cordami. Usciti di là alloggiarono pel resto della notte in una capanna presso Coudray, dove furono riconfortati dalle parole d'uno di loro, chiamato Lasdaller, il quale dimostrò come quella avventura fosse stata predetta da David nel Salmo che dice:

"Com exurgerent homines in nos, forte vivos deglutissent nos, cioè quando fummo mangiati in insalata conditi col sale, cum irasceretur furor eorum in nos, forsitan aqua absorbuisset nos, cioè quando bevve la gran sorsata; torrentem pertransivit anima nostra; cioè quando passarono il gran canale; forsitan pertransisset anima nostra aquam intolerabilem, cioè della sua urina colla quale ci aveva tagliata la strada. Benedictus Dominus, qui non dedit nos in captionem dentibus eorum.

Anima nostra sicut passer erepta est de laqueo venantium, cioè quando cademmo nella buca; laqueus contritus est cioè da Fournillier, et nos liberati sumus. Adjutorium nostrum etc".

 

CAPITOLO XXXIX.

Come qualmente il monaco fu festeggiato da Gargantua e i bei discorsi che tenne cenando.

 

Quando Gargantua fu a tavola, trangugiati i primi bocconi, Grangola cominciò a raccontar l'origine e la causa della guerra tra lui e Picrocolo e narrò come Frate Gianni degli Squarciatori aveva trionfato nella difesa del vigneto dell'abbazia, esaltando la sua prodezza oltre quelle di Camillo, Scipione, Pompeo, Cesare e Temistocle. Allora Gargantua chiese che si mandasse subito a chiamarlo per consultarsi con lui sul da fare. Ordinarono che andasse a cercarlo il maggiordomo il quale lo condusse lietamente sulla mula di Grangola.

Al suo arrivo mille carezze, mille abbracciamenti, mille saluti furono scambiati:

- Eh, Frate Gianni, amico mio, Frate Gianni mio prossimo cugino, Frate Gianni del diavolo, qua un abbraccio, amico mio!

- Un abbraccio anch'io!

- Qua, coglione, qua, voglio stroncarti a forza d'abbracciarti. E frate Gianni gongolava. Mai uomo fu tanto cortese e piacevole.

- Qua, qua, disse Gargantua, uno sgabello qui vicino a me, da questa parte.

- Ben volentieri, disse il monaco, poichè così vi piace. Paggio, dell'acqua! Versa, ragazzo, versa: l'acqua mi rinfrescherà il fegato. Vuota qui che mi gargarizzi.

- Deposita cappa, disse Ginnasta, leviamo codesta tonaca.

- Oh, per Dio, mio gentiluomo, disse il monaco, c'è un capitolo in Statutis Ordinis che non permette...

- Merda, disse Ginnasta, merda al vostro capitolo. Cotesta tonaca vi rompe le spalle; giù; giù!

- Amico mio, disse il monaco, lasciamela, che ci bevo meglio, per Dio! la tonaca diffonde allegria per tutto il corpo. Se me la levo questi signori paggi qua me ne fanno delle giarrettiere, come m'accadde una volta a Coulaine. E per di più verrà meno l'appetito. Se invece siedo a tavola con quest'abito, berrò per Dio! alla salute tua e del tuo cavallo, e allegramente. Dio vi preservi tutti da ogni male! Ho già cenato; ma non mangerò meno per questo; ho uno stomaco lastricato e cavo come la botte di san Benedetto, e sempre aperto come la borsa di un avvocato. Giù pesci, tutti fuor che la tinca, prendete l'ala della pernice o la coscia d'una monacella. Non è un bel morire, morir col cazzo dritto... Al nostro priore piace assai il bianco del cappone.

- Non somiglia in questo alle volpi, disse Ginnasta, le quali non mangiano mai il bianco dei capponi, galline e pollastre che prendono.

- Perchè? chiese il monaco.

- Perchè, rispose Ginnasta, non hanno cuochi da cuocerli e se non son cotti a dovere, restano rossi e non bianchi. Il rosso delle carni è segno che non son cotte, salvo gamberi e granchi che si cardinalizzano cuocendo.

- Festa di Dio Baiardo! disse il monaco, allora la testa dell'infermiere della nostra abbazia non è a cottura giusta, poichè ha gli occhi rossi come una ciotola d'ontano. Questa coscia di leprotto è buona pei gottosi. A proposito di cavoli, perchè le coscie delle ragazze son sempre fresche?

- Questo quesito, disse Gargantua, non si trova nè in Aristotele, nè in Alessandro D'Afrodisia, nè in Plutarco.

- Gli è, disse il monaco, per le tre cause per le quali un luogo è naturalmente fresco: primo, perchè vi son corsi d'acqua; secondo, perchè è luogo ombreggiato, oscuro e tenebroso, nel quale mai non luce sole, in terzo luogo perchè è continuamente ventilato dal vento del buco di tramontana, dal vento della camicia e da quello della braghetta per giunta. E allegri! Paggio, in Bevaria!.. Crac, crac, crac... Quanto è buono Iddio che ci dona questo buon liquido! Giuro a Dio che se fossi vissuto al tempo di Gesù Cristo, avrei bene impedito agli Ebrei di prenderlo nell'orto degli ulivi. E m'abbandoni il diavolo se avessi mancato di mozzare i garretti a quei signori Apostoli che fuggirono tanto vilmente dopo aver ben cenato e lasciarono il loro buon Maestro in ballo! Io odio più che il veleno l'uomo che fugge quando occorre giocar di coltello. Oh, perchè non sono Re di Francia per ottanta o cento anni almeno! Che castratura gli farei per Dio, ai fuggiaschi di Pavia, che la quartana li pigli! Perchè non moriron là piuttosto che abbandonare il loro buon Principe in quella disavventura? Non è meglio e più onorevole morire combattendo coraggiosamente che vivere fuggendo turpemente?... Non c'è caso di poter mangiare ochette quest'anno... Amico dà qui di quel maiale... Diavolo! Non c'è più agresto; Germinavit radix Jesse, ch'io crepi se non muoio di sete... Questo vino non è de' più malvagi. Che vino bevevate a Parigi?... Do l'anima al diavolo se una volta non vi tenni per sei mesi corte bandita a chiunque capitasse! Conoscete frate Claudio di San Dionigi?... Oh, buon compagnone! Ma che gli è frullato in capo? non fa che studiare da non so quando. Io per parte mia non studio affatto. Nella nostra abbazia non studiamo mai per paura degli orecchioni. Il nostro defunto abate diceva esser cosa mostruosa veder un monaco sapiente. Per Dio, mio signor amico magis magnos clericos non sunt magis magnos sapientes... Non si videro mai tante lepri come quest'anno. Non ho potuto procurarmi nè avoltoio, nè terzuolo in nessun luogo. Il signore della Belloniera m'aveva promesso un laniere, ma mi scrisse or non è molto ch'era divenuto asmatico. Le pernici verranno a mangiarci le orecchie quest'anno. Colle reti non mi diverto, ci piglio il raffreddore. Se non corro, se non fo scompiglio, non sto bene. Vero è che saltando siepi e cespugli la mia tonaca ci lascia un po' di pelo. Mi sono procurato un bel levriere. Do l'anima al diavolo se gli scappa una lepre. Un servitore lo conduceva al signore di Maulevrier e glie l'ho rubato. Ho fatto male?

- Mainò, Frate Gianni, disse Ginnasta, mainò, per tutti i diavoli, mainò.

- E a quei diavoli bevo, disse il monaco, finchè hanno vita. Che cosa ne avrebbe fatto quello zoppo, virtù di Dio? Egli preferisce che gli regalino un paio di buoi. corpo di Dio!

- Ma come! disse Ponocrate, voi sacramentate, Frate Gianni?

- Non è che per abbellire il discorso, disse il Monaco: colori di retorica ciceroniana.

 

CAPITOLO XL.

Perchè i monaci sono sfuggiti dalla gente e perchè taluni hanno il naso più grande degli altri.

 

In fede di cristiano, disse Eudemone, io traluno considerando la gentilezza di questo monaco che ci sbalordisce tutti quanti. E perchè mai dunque si scacciano i monaci dalle buone compagnie, chiamandoli guastafeste, come le api scacciano i fuchi dai loro alveari? Ignavum fucos pecus, dice Marone, a praesepibus arcent.

- Nulla è più vero, rispose Gargantua, che tonaca e cappuccio attraggono gli obbrobri, le ingiurie e le maledizioni della gente così come il vento detto Cecias attrae le nubi. La ragione perentoria è questa; che essi mangiano la merda del mondo, cioè i peccati, e come mangiamerda son cacciati nelle loro latrine, vale a dire conventi ed abbazie, separati dal commercio delle città come appunto le latrine d'una casa. Ma se comprendete perchè una scimmia in una famiglia è sempre canzonata e stuzzicata, comprenderete anche perchè i monaci son da tutti sfuggiti e dai vecchi e dai giovani. La scimmia non fa guardia alla casa come il cane, non tira l'aratro come il bue, non produce nè latte, nè lana come la pecora, non porta carichi come il cavallo. La scimmia non fa che scagazzare e guastare dappertutto ed è questa la ragione perchè tutti la motteggiano e bastonano. Similmente un monaco (intendo quelli oziosi) non lavora come il contadino, non fa guardia alla patria come il guerriero, non guarisce le malattie come il medico, non predica nè illumina la gente come il dottore evangelico e l'educatore, non arreca le cose comode e necessarie alla repubblica come il mercante ed è questa la ragione perchè tutti gli dan la baia e li aborrono.

- Ma, veramente, disse Grangola, pregano Dio per noi.

- Nulla è men vero, rispose Gargantua; non fanno, invece che molestare tutto il vicinato sbattacchiando le loro campane.

- Veramente, disse il monaco, una messa, un mattutino, un vespro ben scampanati sono mezzo detti.

- Borbottano a tutto spiano leggende e salmi che manco intendono, snocciolano giù paternostri lardellati di lunghe serie di Ave Maria, e senza pensarvi nè comprenderli e ciò io chiamo gabbadio, non orazione. Ma li aiuti Dio se veramente pregano per noi e non piuttosto per paura di perdere la pagnotta e la loro zuppa grassa. Tutti i veri cristiani d'ogni condizione in tutti i paesi e in ogni tempo pregano Dio, e lo Spirito prega e intercede per essi e Dio li accoglie in grazia. Così fa ora il nostro buon Frate Gianni: e perciò ciascuno lo desidera in sua compagnia. Non è punto bigotto, non è sbrandellato, è onesto, allegro, risoluto, buon compagnone, coltiva la terra, difende gli oppressi, conforta gli afflitti, soccorre i malati, fa buona guardia al vigneto dell'abbazia.

- Faccio ben di più, disse il monaco: poichè sbrigando i nostri mattutini e anniversari, in coro, fabbrico corde di balestra, pulisco freccie e quadrelli, intesso reti e sacchi da prender conigli. Mai non sto ozioso. Ma orsù da bere, da bere orsù! Portate la frutta: castagne del bosco d'Estrocz. Con buon vino novello eccovi promossi compositori di scorreggie. Ma voi non siete ancora in cimberli! Per Dio io bevo a tutti i guadi come un cavallo di promotore!

- Frate Gianni, via quella gocciola che vi pende dal naso.

- Ah, Ah! disse il monaco, l'acqua al naso! Non sarò mica in pericolo d'annegare!

- No, No.

- Quare?

- Quia

Essa non v'entra, ma ben n'esce fuore

Chè il naso è antidotato di liquore.

Oh, se i tuoi stivali d'inverno, amico mio, fossero di tal cuoio ben potresti arditamente pescar l'ostriche, chè mai l'acqua non vi filtrerebbe.

- Perchè mai, disse Gargantua, Frate Gianni ha un sì bel naso?

- Perchè, rispose Grangola, così ha voluto Iddio, il quale ci fa secondo il suo divino volere nella forma ed al fine che crede come fa il vasaio de' suoi vasi.

- Perchè, disse Ponocrate, andò tra i primi alla fiera dei nasi e se ne prese uno de' più belli e grandi.

-Trotta, trotta! disse il monaco. Secondo la vera filosofia monastica, la ragione è questa: la mia balia aveva le tette tenerine, e, poppando, il mio naso v'affondava come fosse in burro e là s'elevava e cresceva come pasta lievitata. Le balie invece che han le tette dure fanno i nasi camusi. Ma orsù; allegria! Ad formam nasi cognoscitur ad te levavi... No, non mangio mai marmellata. Paggio, in Bevaria!... Item caldarroste!...

 

CAPITOLO XLI

Come qualmente il monaco fece dormire Gargantua e delle sue ore in breviario.

 

Finita la cena si consultarono su ciò che premeva e deliberarono di uscire circa la mezzanotte in pattuglia per sapere se i nemici vigilassero e facessero buona guardia; intanto, avrebbero riposato un po' per essere poi più freschi. Ma Gargantua non poteva dormire qualunque posizione prendesse, onde il monaco gli disse:

- Io non dormo mai così saporitamente come quando ascolto la predica e prego Dio. Cominciamo subito io e voi i sette salmi e vedrete se non saremo tosto addormentati.

Piacque assai la trovata a Gargantua ed ecco che incominciarono il primo salmo. Arrivati a Beati quorum erano entrambi addormentati. Ma il monaco non mancò di svegliarsi avanti mezzanotte, tanto era avvezzo ai mattutini claustrali. E svegliato lui, svegliò tutti gli altri cantando a gran voce la canzone:

Ho, Regnault, reveille, toi, veille;

O Regnault, reveille-toi.

Quando tutti furono svegli, disse:

- Signori miei, dicono che mattutino si comincia col tossire e cena col bere. Facciamo una leggera inversione; cominciamo ora col bere, tossiremo poi a tutta forza stassera al principiar della cena.

- Bere così, disse Gargantua, subito dopo il sonno, non è buon uso in dieta di medicina. Occorre prima purgar lo stomaco da superfluità ed escrementi.

- Ben medicamente sentenziato! disse il monaco. Ma cento diavoli mi saltino addosso se non hanno più lunga vita gli ubriaconi che i medici! Io ho fatto colla mia sete un patto: che sempre si corichi con me; e a ciò provvedo durante il giorno; così poi con me si leva. Purgatevi pure finchè vi piace, io prenderò il mio aperitivo.

- Che aperitivo intendete? disse Gargantua.

- Il breviario, disse il monaco, poichè come i falconieri prima di dar mangiare ai falchi danno loro a tirare qualche piede di pollo per purgargli il cervello dagli umori flemmatici e stuzzicarne l'appetito, così con questo mio allegro breviarietto mattutino mi purgo tutto il polmone ed eccomi pronto a bere.

- Secondo quale usanza, disse Gargantua, recitate queste belle ore?

- All'usanza di Fècamp, disse il monaco, con tre salmi e tre letture, o niente del tutto se non ne ho voglia. Mai non mi sono assoggettato alle ore; le ore sono fatte per comodità dell'uomo non l'uomo per le ore. Pertanto io faccio delle mie come delle staffe: le accorcio o le allungo quando meglio mi pare: brevis oratio penetrat coelos, longa potatio evacuat cyphos. Dove si trova ciò?

- In fede mia, disse Ponocrate, non lo so, mio coglioncello, ma tu vali troppo!...

- In ciò, disse il monaco, v'assomiglio. Ma venite, apotemus.

Si prepararono carbonate brasate in quantità e belle zuppe e il monaco bevve a suo piacere. Alcuni gli tennero compagnia, altri si astennero. Poi ciascuno cominciò ad armarsi e a prepararsi e armarono il monaco, suo malgrado chè egli altr'arme non voleva che la sua tonaca davanti allo stomaco e l'asta della croce in pugno. Tuttavia fu armato come vollero da capo a piedi e montato sopra un buon corsiere napolitano, e una grossa durlindana al fianco. E così Gargantua, Ponocrate, Ginnasta, Eudemone e venticinque de' più coraggiosi della casa di Grangola s'armarono di tutto punto, colla lancia in pugno, a cavallo come San Giorgio e ciascuno con un archibugere in groppa.

 

CAPITOLO XLII.

Come qualmente il monaco infonde coraggio ai compagni e come rimane appeso a un albero.

 

Se ne vanno i nobili campioni a lor ventura ben deliberati di sapere come convenga preparar lo scontro e da quali pericoli salvaguardarsi il giorno della grande e orribile battaglia. E il monaco gl'incoraggiava dicendo:

- Niente paura, niente esitazione, ragazzi, io vi condurrò con sicurezza. Dio e San Benedetto siano con noi! Se avessi forza come ho fegato, per la morte di un cane, ve li spennerei come anitroccoli. Io nulla temo fuorchè l'artiglieria. Conosco tuttavia un'orazioncina insegnatami dal sottosagrestano della nostra abbazia, la quale garantisce le persone da ogni specie di cannonate; ma non mi servirà a nulla perchè non ci ho fede. Il bastone della croce invece farà diavolerie. Guai perdio, se alcuno di voi farà l'imboscato! Do l'anima al diavolo se non lo fratifico in vece mia e non l'incapestro colla mia tonaca; la mia tonaca è una medicina contro la codardia. Avete inteso parlare del levriero del signore di Meurles che non valeva un soldo per la caccia? Gli misi la mia tonaca al collo e corpo di Dio, non mancava più nè lepre nè volpe che incontrasse sulla sua strada; ma, quel ch'è meglio, ti montava tutte le cagne del territorio, laddove prima era sfinito e nel numero de frigidis et maleficiatis.

Mentre il monaco si scalmanava a dire queste parole passando sotto un noce sulla strada del Saliceto, andò a infilzare la visiera dell'elmo al brocco d'un grosso ramo di quell'albero. E avendo tuttavia dato di sprone, il cavallo, che temeva il solletico, diè un balzo in avanti e gli sgusciò via di sotto, mentre il monaco, che per staccar la visiera dal brocco, aveva lasciato le redini e portate le mani al ramo, rimase penzoloni dal noce gridando: Aiuto! All'assassino! e protestando che c'era tradimento.

Eudemone fu il primo a vederlo e chiamò Gargantua:

- Sire, venite, venite a vedere Assalonne spenzolante!

Gargantua sopravvenuto considerò il contegno del monaco e il modo ond'era appeso ed osservò ad Eudemone:

- La comparazione con Assalonne non calza, avvegna chè Assalonne rimase appeso per la chioma laddove il nostro frate ha la testa rasa ed è appiccicato per le orecchie.

- Aiutatemi in nome del diavolo! gridava il monaco. Non è questo il momento di cianciare. Voi mi somigliate a quei predicatori decretalisti i quali insegnano che chiunque veda il suo prossimo in pericolo di morte, debba sotto pena di scomunica trisulca, invece che aiutarlo, fargli un bel sermoncino sul dovere di confessarsi e di mettersi in istato di grazia. Quando adunque io li vedrò caduti nel fiume e lì lì per annegare, invece d'accorrere a dare una mano terrò loro un bello e lungo sermoncino de contemptu mundi et fuga saeculi e quando saran morti stecchiti, allora andrò a pescarli.

- Non muoverti, anima mia, disse Ginnasta, ora vengo a te, poichè tu sei un gentile monachetto:

Monachus in claustro

Non valet ova duo;

Sed quando est extra,

Bene valet triginta.

D'impiccati n'ho visto più di cinquecento, ma non ne vidi mai alcuno che spenzolasse così garbatamente e se ci avessi tanto garbo anch'io, vorrei spenzolare così tutta la vita.

- Avete finito ancora di predicare, figli di cani? gridò il frate. Aiutatemi in nome di Dio, se in nome di quell'Altro non volete. Giuro per l'abito che porto, che ve ne pentirete tempore et loco praelibatis.

Allora Ginnasta smontò di sella e arrampicatosi sul noce, con una mano sollevò il monaco per le ascelle, coll'altra staccò la visiera dal brocco e lo lasciò cadere a terra, e lui dietro del pari.

Sceso che fu il monaco, sbarazzatosi di tutta l'armatura la scaraventò pezzo per pezzo in mezzo ai campi e ripresa l'asta della croce rimontò sul suo cavallo, che Eudemone gli aveva fermato nella fuga.

E via proseguono allegramente per la strada del Saliceto.

 

CAPITOLO XLIII.

Come qualmente Gargantua incontrò la pattuglia di Picrocolo e come il monaco uccise il capitano Tiravanti e poi rimase prigioniero tra i nemici.

 

Picrocolo al racconto degli scampati alla rotta, quando Trippetto fu strippato, montò in collera sentendo che i diavoli s'erano avventati sulle sue genti e tenne consiglio tutta notte. Corvitello e Toccaleone conclusero la sua possanza esser così grande da poter sbaragliare tutti i diavoli d'inferno se fossero venuti. Picrocolo non ne fu sicuro del tutto, ma un pochino sì, n'era persuaso.

Pertanto mandò a perlustrare il paese, sotto il comando del conte Tiravanti, milleseicento cavalieri in pattuglia tutti montati su cavalli leggeri, tutti quanti bene aspersi d'acqua benedetta e ciascuno con una stola al collo come insegna perchè, se per caso, non si sa mai, avessero incontrato i diavoli, la virtù di quell'acqua gregoriana e delle stole li avesse fatti sparire e svanire. Corsero dunque fino presso Vauguyon e Maladerye, ma non trovarono alcuno a cui rivolgere la parola, onde ripassarono per di sopra e nel rifugio del tugurio da pastori, presso Couidray trovarono i cinque pellegrini e legatili li portarono con sè schernendoli come spie, nonostanti le loro esclamazioni, preghiere e proteste. Gargantua li sentì avvicinarsi mentre discendevano di là verso Seuillè e disse alle sue genti:

- All'erta, compagni, c'è il nemico e sono dieci volte più di noi. Dobbiamo affrontarli?

- E che diavolo dobbiamo fare adunque? disse il frate. Stimate voi gli uomini dal numero o non piuttosto dalle virtù e dall'ardimento?

Poi gridò:

- Addosso, diavoli, addosso!

Sentendo ciò i nemici e pensando fossero diavoli per davvero, si diedero a fuggire a briglia sciolta, eccetto Tiravanti, il quale messa la lancia in resta andò a colpire a tutta forza il monaco in mezzo al petto; ma incontrando la tonaca la punta di ferro si piegò come se voi, con una candeletta andaste a colpire un'incudine. Allora il monaco colla sua croce gli diede una sì rude botta tra capo e collo, su l'osso acromione, che lo stordì e, perduti sensi e movimento, cadde ai piedi del cavallo. Vedendo il frate la stola che quegli portava a mo' di sciarpa, disse a Gargantua:

- Costoro non son che preti: un prete non è che l'unghia di un monaco. Io son monaco perfetto per San Giovanni, e ve li ammazzerò come mosche.

Poi di gran galoppo si diede ad inseguirli e raggiunti gli ultimi li abbatteva come segala picchiando a dritto ed a rovescio.

Ginnasta chiese subito a Gargantua se dovevano inseguirli. Ma Gargantua rispose

- Nient'affatto; secondo la buona arte militare, non bisogna mai spingere il nemico alla disperazione perchè ridotti agli estremi gli si moltiplicano le forze e gli s'accresce il coraggio che già veniva meno e mancava.

Nulla val meglio, con gente sbalordita e sfinita, che lasciarli privi d'alcuna speranza di salvezza.

Quante vittorie sono state strappate dai vinti ai vincitori quando questi senza moderazione tentarono di metter tutto a sacco e distruggere totalmente i nemici senza voler lasciarne un solo per diffondere le notizie.

A nemico che fugge spalancate tutte le porte e strade e fate loro un ponte d'oro perchè scappino.

- Ma, veramente, disse Ginnasta, hanno il monaco.

- Hanno il monaco? disse Gargantua. Sull'onor mio sarà a loro danno. Ma per essere pronti ad ogni accidente non ritiriamoci ancora; attendiamo qui in silenzio, poichè penso di conoscere già abbastanza la natura dei nemici. Procedono più a casaccio che con ponderazione.

Mentre essi così attendevano sotto i noci, il monaco continuava a picchiare quanti gli capitassero senza riguardo ad alcuno finchè incontrò un cavaliere che portava in groppa uno dei poveri pellegrini e voleva spogliarlo di tutto.

- Signor Priore, gridò il pellegrino, Signor Priore, salvatemi per carità.

Sentendo questa parola i nemici si volsero indietro e vedendo che a far tutto quell'inferno non c'era che il monaco, lo caricarono di botte come si carica di legna un somaro, ma egli nulla sentiva, massimamente quando picchiavano sulla tonaca, tanto aveva la pelle dura. Poi lo misero sotto la guardia di due arcieri ed essi voltando i cavalli e non vedendo alcuno contro loro, credettero che Gargantua e i suoi fossero fuggiti. E allora s'avvicinarono verso le Noirettes correndo quanto potevano per raggiungerlo e lasciarono il monaco solo coi due arcieri di guardia.

Gargantua intese il rumore e i nitriti dei cavalli e disse alle sue genti:

- Compagni, sento venire i nemici, e già ne scorgo alcuni che s'avanzano in folla contro di noi. Serriamoci qui e sbarriamo la strada in buon ordine. Così potremo affrontarli e sconfiggerli con onore.

 

CAPITOLO XLIV.

Come qualmente il monaco si sbarazzò dalle guardie e come la pattuglia di Picrocolo fu disfatta.

 

Il monaco vedendoli partire in disordine congetturò che andassero ad assalire Gargantua e le sue genti e si contristò prodigiosamente di non poterli soccorrere. Poi studiò il contegno dei suoi arcieri di guardia; essi avrebbero volentieri seguito la schiera per fare un po' di bottino e guardavano sempre verso la vallata per la quale discendevano. Inoltre sillogizzava dicendo:

"Questa gente sono ben poco esperti di guerra poichè nè m'hanno domandato giuramento, nè m'hanno tolto la spada". Subito trasse la detta spada e ferì l'arciere che lo teneva a destra, tagliandogli interamente le vene jugulari e arterie spagitide del collo con l'ugola fino alle due glandole tiroidi, e, ritirata la spada gli recise il midollo spinale fra la seconda e terza vertebra. L'arciere cadde là morto.

E il monaco volgendo il cavallo a manca, piombò sull'altro il quale vedendo il suo compagno morto e il monaco avvantaggiato su lui, gridava ad alta voce:

- Ah, Signor Priore, m'arrendo, mio Signor Priore mio buon amico, mio Signor Priore!

- Mio Signor Posteriore, gridava di rimando il monaco, amico mio, mio Signor Posteriore, ora v'acconcio io le posteriora!

- Ah, disse l'arciere, mio Signor Priore, mio caro, che Dio vi promuova Abate, Signor Priore mio!

- Per l'abito che vesto, disse il monaco, io vi farò qui cardinale. Ah, voi imponete il riscatto alla gente di religione? Io vi farò ora di mia mano un bel cappello rosso.

- Mio Signor Priore, mio Signor Priore, mio Signor futuro Abate, mio Signor Cardinale, mio tutto! Ah! ah! ah! No, mio Signor Priore, mio piccolo buon Signor Priore, mi dono a voi.

- Ed io, disse il monaco ti dono a tutti i diavoli.

E con un colpo gli affettò la testa tagliandogli il cranio sopra l'osso petroso e portando via le due ossa parietali e la sutura sagittale con gran parte dell'osso coronale; e ciò facendo recise le due meningi e aprì profondamente i due ventricoli posteriori del cervello; il cranio rimase penzoloni sulle spalle, attaccato per di dietro alla pelle del pericranio in forma di berretto dottorale, nero di sopra, rosso di dentro. E l'arciere cadde morto stecchito a terra.

Ciò fatto il monaco diè di sprone al cavallo e proseguì la via che tenevano i nemici, i quali avevano incontrato Gargantua e i suoi compagni, sulla strada maestra ed erano tanto diminuiti di numero per l'enorme strage compiuta da Gargantua col suo grande albero, da Ginnasta, Ponocrate, Eudemone e gli altri, che cominciavano a ritirarsi più che in fretta, tutti spaventati e turbati i sensi e l'intelletto come se avessero davanti agli occhi la specie e figura propria della morte in persona.

E come un asino quando gli s'attacca al culo un tafano giunonico o una mosca che lo punge, corre qua e là senza via nè direzione, scaraventando a terra il carico, rompendo freno e redini senza prender fiato nè riposo, e non sa chi lo move perchè non vede nulla che lo tocchi, così fuggivano

quelle genti smarrite senza saper la causa del fuggire, affannate solo dal terrore panico che aveva loro invaso l'anima.

Vedendo il monaco che a null'altro pensavano che a scappare, scende da cavallo e monta sopra una grossa roccia che sovrastava alla strada e colla sua grande spada picchiava a tutta forza sui fuggiaschi senza sosta e senza risparmiarli. Tanti ne uccise e tanti ne atterrò che la spada gli si ruppe in due pezzi. Allora pensò che aveva ucciso e massacrato abbastanza e che il resto doveva pur fuggire per recare le notizie.

Impugnò pertanto un'ascia tolta a uno di quelli che là giacevano morti e tornato sulla roccia stava a veder fuggire i nemici e capitombolare tra i cadaveri: solamente faceva deporre a tutti picche, spade, lancie, ed archibugi. Coloro che portavano i pellegrini legati li fece smontare e diede i loro cavalli ai pellegrini che ritenne con sè presso la siepe.

E fece prigioniero Toccaleone.

 

CAPITOLO XLV.

Come qualmente il monaco condusse i pellegrini e le buone parole che disse loro Grangola.

 

Terminata la scaramuccia, Gargantua si ritirò colle sue genti eccetto il monaco e, allo spuntar del giorno, tornarono a Grangola il quale nel suo letto pregava Dio per la loro salvezza e vittoria e vedendoli tutti salvi e intatti li abbracciò amorosamente e domandò notizie del monaco. Gargantua gli rispose che senza dubbio era stato preso dai nemici.

- Ed essi avranno mala ventura, disse Grangola.

Così infatti era avvenuto. Ond'è ancora in uso il proverbio: Bailler le moine à quelqu'un.

Allora comandò che si preparasse una buona colazione per ristorarli. Quando fu pronta, vennero a chiamare Gargantua; ma l'assenza del monaco l'affliggeva tanto, che non voleva nè bere nè mangiare.

Improvvisamente il monaco arriva e dalla porta del cortile grida:

- Vino fresco, vino fresco, Ginnasta, amico mio!

Ginnasta uscì e vide Frate Gianni con cinque pellegrini e Toccaleone prigioniero. Gargantua gli andò incontro e gli fecero tutti la più calorosa accoglienza e lo condussero davanti a Grangola che volle sapere tutte le sue avventure. E tutto il monaco raccontò: come l'avevano preso, e come

s'era sbarazzato degli arcieri, e la strage che avea compiuto sulla strada e come aveva liberato i pellegrini e condotto Toccaleone. Poi si dettero a banchettare allegramente tutti insieme.

Intanto Grandola chiedeva ai pellegrini di qual paese fossero, donde venivano a dove andavano.

Lasdaller rispose per tutti:

- Signore, io sono di Saint-Genou nel Berry, questo qui è di Palluau, quest'altro di Onzay, quest'altro di Argy e questo qui di Villebrenin. Veniamo da San Sebastiano presso Nantes, e ce ne ritorniamo a casa a piccole giornate.

- Ma, chiese Grangola, che andaste a fare a San Sebastiano?

- Siamo andati, disse Lasdaller, a offrirgli i nostri voti contro la peste.

- Oh, povera gente, disse Grangola, credete voi che la peste venga da San Sebastiano?

- Certo, rispose Lasdaller, così affermano i nostri predicatori.

- Davvero? disse Grangola, i falsi profeti vi annunciano di tali frottole? Essi bestemmiano in tal modo i giusti e i santi di Dio rendendoli simili ai diavoli i quali non fanno che male tra gli uomini. Così Omero scrive che la peste fu mandata tra l'esercito dei Greci da Apollo, e così i preti inventano un mucchio di Vegiovi e divinità malefiche. E così predicava a Cirais un ipocrita, che Sant'Antonio mette il fuoco alle gambe, Sant'Eutropio rende idropici, San Gildas fa impazzire, San Ginocchio dà la gotta. Ma io l'ho punito in tal modo, benchè mi chiamasse eretico, che da allora mai più nessun ipocrita osò entrare nelle mie terre e mi stupisco che il vostro re lasci loro predicare nel suo reame tali scandali; poichè meritano maggior castigo di coloro che per arte magica o altri mezzi diffondessero la peste tra la gente. La peste infatti non uccide che il corpo, quegli impostori avvelenano le anime.

Mentre egli diceva queste parole entrò il monaco con aria risoluta e domandò loro:

- Di dove siete, poveri diavoli?

- Di Saint-Genou, dissero.

- E come sta, chiese il monaco, l'abate Taglialeone, il buon beone? E i suoi monaci hanno buona cera? Corpo di Dio! essi vi fregano le vostre donne mentre andate in romitaggio.

- Ihn, ehn! disse Lasdaller, quanto alla mia son tranquillo, perchè chi l'ha vista di giorno non si romperà certo il collo per andare a trovarla di notte.

- Bravo! disse il monaco, l'hai detta grossa! Foss'ella pur brutta come una diavolessa, non sfuggirà, per Dio, alla fregata, se c'è frati intorno: a buon operaio ogni pezzo è buono da metter in opera. Che mi prenda lo scolo, se al ritorno non la trovate pregna. Ma non sapete che l'ombra sola del campanile d'un'abbazia basta a ingravidare?

- È come l'acqua del Nilo in Egitto, se credete a Strabone, disse Gargantua, grazie alla quale secondo Plinio, lib. VII, cap 3, la fertilità è in tutti: nel pane, negli abiti, nei corpi.

- Andatevene, disse Grangola, andatevene, povera gente, nel nome di Dio Creatore, e che Esso vi guidi in perpetuo; e d'ora innanzi non lasciatevi indurre a codesti oziosi e inutili viaggi. Mantenete le vostre famiglie, lavorate ciascuno secondo la propria vocazione, istruite i vostri figliuoli e vivete come insegna il buon apostolo San Paolo. Ciò facendo avrete con voi la protezione di Dio, degli angeli e dei santi e non ci sarà peste o malanno che venga a danneggiarvi.

- Gargantua li condusse quindi nella sala a refocillarsi, ma i pellegrini non facevano che sospirare e dissero a Gargantua:

- Oh, felice la terra che ha per signore un tale uomo! Noi siamo più edificati e illuminati dalle sue parole che da tutte quante le prediche predicateci nella nostra città.

- È ben vero, disse Gargantua ciò che scrive Platone (lib.V, De Rep.) che le repubbliche allora saranno felici, quando i re filosoferanno o i filosofi regneranno.

Poi fece riempire le loro bisaccie di viveri, le bottiglie di vino e diede a ciascuno un cavallo per alleggerire loro il resto del cammino e qualche carlo per vivere.

 

CAPITOLO XLVI.

Come qualmente Grangola trattò con umanità il prigioniero Toccaleone.

 

Toccaleone fu presentato a Grangola che lo interrogò sull'impresa e la situazione di Picrocolo e gli chiese che cosa si proponesse con quel tumultuoso fracasso. Ed egli rispose che era suo proposito e disegno di conquistare, se poteva, tutto il territorio per vendicare l'ingiuria fatta ai focacceri.

- Troppo imprende, disse Grangola, e chi troppo abbraccia poco stringe. Non è più il tempo di conquistare così i reami a danno del suo prossimo fratel cristiano. Il voler imitare gli antichi Ercoli, e Alessandri, e Annibali, e Scipioni, e Cesari e altri tali è contrario ai principi dell'Evangelo, il quale comanda che ciascuno difenda, salvi, regga e amministri il proprio paese senza invadere da nemico gli altri. Ciò che i Saraceni e i Barbari un tempo chiamavano prodezze, ora noi chiamiamo brigantaggio e malvagità. Meglio avrebbe fatto contenendosi nella sua casa e governandola da re, che assalire la mia e saccheggiarla ostilmente, poichè, ben governando la sua, l'avrebbe aumentata, per aver saccheggiato la mia, sarà distrutto.

E voi andatevene pure nel nome di Dio e seguite le buone imprese, fate comprendere al vostro re quelli che conoscerete essere errori e non dategli mai consigli conformi al vostro particolare interesse, poichè col bene comune è perduto anche il proprio.

Quanto al prezzo del vostro riscatto, ve lo condono interamente e voglio vi siano restituiti armi e cavallo.

Così bisogna trattare tra vicini ed antichi amici, considerato che questa nostra controversia non è propriamente una guerra. Platone, (lib. V, De Rep.) voleva che non guerra ma sedizione fosse chiamata, quando i Greci movevano in armi gli uni contro gli altri, e comanda di usare in quei casi ogni moderazione. E se guerra la chiamate, essa non è se non superficiale, non penetra nel profondo dei nostri cuori, poichè nessuno di noi è offeso nel proprio onore e non si tratta, insomma, che di riparare qualche errore commesso dalle vostre genti, vostre e nostre intendo. Conosciuto questo errore, dovevate lasciar correre, poichè le persone in litigio erano più da spregiare che da prendere in considerazione, massimamente avendo io offerto di dar soddisfazione adeguata al danno patito. Dio sarà giusto estimatore del nostro conflitto ed io lo supplico di togliermi dal mondo con la morte, e mandare in rovina ogni mio bene davanti ai miei occhi piuttosto che io e i miei in nulla l'offendiamo.

Pronunciate queste parole chiamò il monaco e davanti a tutti gli domandò:

- Frate Gianni, mio buon amico, da voi è stato preso il capitano Toccaleone qui presente?

- Sire, disse il monaco, egli è presente, l'età ed il giudizio non gli mancano; preferisco lo sappiate dalla sua stessa confessione piuttosto che dalle mie parole.

E allora Toccaleone disse:

- Signore, sì, è proprio lui che mi ha preso ed io mi rendo francamente suo prigioniero.

- Avete voi, chiese Grangola al monaco, messo a prezzo il suo riscatto?

- No, disse il monaco, di ciò non mi curo.

- Quanto vorreste, disse Grangola, per lasciarlo libero?

- Nulla, nulla, disse il monaco, non m'importa.

Allora Grangola comandò che, presente Toccaleone, fossero contati al monaco per la sua presa, sessantaduemila saluti e ciò fu fatto mentre si preparava la colazione al detto Toccaleone. Infine Grangola gli domandò se voleva restare con lui o se preferiva tornarsene al suo re.

Toccaleone rispose che avrebbe fatto come egli consigliasse.

- E allora, disse Grangola, ritornate al re vostro e Dio sia con voi.

Poi gli fece dono di una bella spada di Vienna con fodero d'oro inciso di belle vignette di oreficeria, e una collana d'oro pesante settecento e due mila marchi, guarnita di gemme fine del valore di centosessantamila ducati e inoltre diecimila scudi come regalo. Dopo ciò Toccaleone montò sul suo cavallo. Gargantua lo fece scortare, per sicurezza, da trenta uomini d'arme e centoventi arcieri sotto il comando di Ginnasta, per condurlo fino alle porte della Roche Clermault se occorresse.

Lui partito, il monaco restituì a Grangola i sessantaduemila saluti ricevuti dicendo:

- Sire, non ora dovete fare tali doni. Attendete la fine della guerra, poichè non si sa mai quali casi possano sopravvenire e una guerra condotta senza buona provvista di danaro non ha che un filo di vigore. Nerbo della guerra è la pecunia.

- E allora, disse Grangola, vi contenterò alla fine, con

onesta ricompensa e con voi quanti mi avranno ben servito.

 

CAPITOLO XLVII.

Come qualmente Grangola mandò a chiamare le sue legioni e come Toccaleone uccise Corvitello e poi fu ucciso per comando di Picrocolo

 

In quegli stessi giorni gli abitanti di Bessè, di Marchè vieux, di Bourg Saint-Jacques, di Trainneau, di Parillè, di Rivière, di Roches Saint-Paul, di Vaubreton, di Pantillè, di Brehemont, di Pont de Clain, di Cravant, di Grandmont, di Bourdes, di Villeaumère, di Huymes, di Segrè, di Hussè, di Saint-Louant, di Panzoust, di Coudreaux, di Verron, di Coulaines, di Chosè, di Varenes, di Bourgueil di l'Isle Bouchard, di Croulay, di Narsay, di Cande, di Montsoreau e altri luoghi confinanti inviarono ambasciate a Grangola per dirgli che erano edotti dei torti usatigli da Picrocolo e in virtù della loro antica confederazione, gli offrivano tutto il loro aiuto, sia d'uomini che di danaro e altre munizioni di guerra.

Il tesoro confederale, secondo i patti stipulati con lui, ammontava a centotrentaquattro milioni e due scudi e mezzo d'oro. Le milizie sommavano a quindicimila uomini d'arme, trentaduemila cavalleggeri, ottantanovemila archibugieri, centoquarantamila avventurieri undicimila e duecento cannoni tra cannoni doppi, basilischi e spirole, con quarantasettemila artiglieri; il tutto a soldo pagato e con vettovaglie per sei mesi e giorni quattro. Gargantua nè rifiutò, nè accettò del tutto l'offerta; ma li ringraziò grandemente e disse che avrebbe condotto a termine la guerra con tale accorgimento che non sarebbe stato necessario disturbare tanta gente da bene. Solamente comandò gli si conducessero in ordine le legioni che ordinariamente manteneva nelle sue piazze di La Devinière, di Chaviny, di Gravot e di Quinquenays, le quali contavano duemila e cinquecento uomini d'arme, sessantasei mila archibugieri, duecento pezzi di grossa artiglieria, ventiduemila artiglieri e seimila cavalleggeri, tutti in bande così ben provvedute di tesorieri, vivandieri, maniscalchi, armaioli e altra gente necessaria al buon attrezzamento dell'esercito, tanto bene istruiti nell'arte militare e bene armati ed esperti a riconoscere e seguire le loro insegne, e pronti a intendere e obbedire i loro capitani, tanto rapidi alla corsa e forti al cozzo, e prudenti nell'avventurarsi, che meglio sembravano un'armonia d'organi e un ingegno d'orologio che un esercito o una cavalleria.

Toccaleone, arrivato, si presentò a Picrocolo e gli contò per disteso ciò che aveva e fatto e visto. Alla fine consigliava calorosamente che si venisse ad un accomodamento con Grangola, nel quale aveva trovato il più gran galantuomo del mondo, aggiungendo che non era nè utile, nè giusto molestare così i vicini, dai quali non aveva ricevuto che bene; e, ciò che più importava, che mai avrebbe potuto cavarsela da quella impresa se non con scapito e disgrazia, poichè la potenza di Picrocolo non era tale che Grangola non potesse agevolmente metterli a sacco. Non aveva finito di pronunciare queste parole che Corvitello disse ad alta voce:

- Ben infelice il principe che è servito da gente che si lascia facilmente corrompere, come Toccaleone; poichè io vedo l'animo suo tanto mutato, che certo egli si sarebbe unito ai nostri nemici per combattere contro noi e tradirci, se essi avessero voluto trattenerlo; ma come la virtù è da tutti lodata e stimata, amici o nemici che siano, così la malvagità è tosto conosciuta e tenuta in sospetto e poichè di essa i nemici si servono a loro vantaggio, così essi tengono i malvagi e i traditori in abominazione.

A queste parole Toccaleone, insofferente, sguainò la spada e trafisse Corvitello un po' sopra la mammella sinistra, onde morì incontinente. E traendo dal corpo la spada disse franco:

- Così muoia chi biasimerà i fedeli servitori.

Picrocolo montò subito in furore e vedendo la spada e il fodero tanto ornati disse:

- Ti hanno forse regalata quest' arma per uccidere maliziosamente in mia presenza il mio buon amico Corvitello?

E comandò ai suoi arcieri di metterlo a pezzi; il che fu fatto subito e così crudelmente che la camera era tutta bagnata di sangue; poi fece seppellire onorevolmente il corpo di Corvitello e gettar dalle mura nella valle quello di Toccaleone.

Le notizie di queste violenze si diffusero per tutto l'esercito, onde molti cominciarono a mormorare contro Picrocolo tanto che Acchiappagatti gli disse:

- Signore, io non so che sarà per uscire da questa impresa. Vedo la vostra gente poco fiduciosa. Essi considerano che siamo qui mal provvisti di viveri e già molto diminuiti di numero per le perdite di due o tre sortite. Inoltre i nostri

nemici ricevono grandi rinforzi. Se saremo assediati non vedo come potremo sfuggire alla rovina completa.

Merda! Merda! disse Picrocolo; mi sembrate le anguille di Melun che si mettono a strillare prima che le scortichino. Lasciate, lasciate che vengano!

 

CAPITOLO XLVIII.

Come qualmente Gargantua assalì Picrocolo in La Roche Ciermault e sbaragliò l'esercito del detto Picrocolo.

 

Gargantua fu nominato comandante in capo dell'esercito. Il padre restò nella fortezza e incoraggiando le sue genti con buone parole promise gran doni a coloro che avessero compiuto prodezze. L'esercito poi giunse al guado della Vède e con barche e ponti leggeri passarono oltre rapidamente. Poi, considerando la posizione della città che era in luogo elevato e vantaggioso, nella notte si deliberò sul da fare.

Ginnasta disse: "Signore, tali sono la natura ed il temperamento dei Francesi che non valgono se non al primo assalto; al primo assalto son peggio che diavoli, ma se si fermano, valgono meno che femminuccie. lo sono d'avviso che ora, appena le vostre genti avranno riposato un poco e mangiato, ordiniate l'attacco".

L'avviso fu trovato buono. Gargantua spiegò dunque tutto l'esercito in campo aperto mettendo la riserva dal lato della salita. Il monaco prese con sè sei bande di fanti e duecento cavalieri e rapidamente traversò le paludi e giunse sopra Puy fino alla strada di Loudun.

Intanto l'assalto continuava. Le genti di Picrocolo non sapevano se fosse meglio uscir dalle mura e affrontare i nemici, oppure difendere la città senza moversi. Picrocolo fece alfine una furiosa sortita con qualche banda di cavalieri della sua casa, ma fu accolto a gran festa di cannonate che grandinavano sul pendio, talchè i Gargantuisti si ritirarono nella valle per lasciar libero gioco all'artiglieria. Quelli della città si difendevano come meglio potevano, ma le freccie passavano oltre senza ferire nessuno. Alcuni della banda sfuggiti all'artiglieria caricarono fieramente le nostre genti, ma con poco profitto perchè furono accolti tra le schiere e rovesciati a terra. Allora avrebbero voluto ritirarsi, ma il monaco intanto aveva loro tagliato la strada per cui si volsero alla fuga in disordine e confusione. Alcuni volevano dar loro la caccia, ma il monaco li trattenne temendo, nell'inseguire i fuggenti, perdessero l'ordinamento e fossero sorpresi così dall'assalto di quelli della città. Poi, atteso qualche tempo e nessuno facendosi innanzi, inviò il duca Frontista ad avvertire Gargantua affinchè s'avanzasse per occupare il pendio a sinistra e impedire la ritirata di Picrocolo per quella porta. Gargantua profittò del consiglio in tutta fretta e inviò quattro legioni della compagnia di Sebaste; ma non poterono raggiungere la sommità del pendio senza incontrare faccia a faccia Picrocolo e quelli che si erano sparpagliati con lui. Li caricarono violentemente, ma furono tuttavia provati dalle freccie e dai tiri d'artiglieria di quelli che stavano sulle mura. Ciò vedendo Gargantua, andò in loro soccorso con grandi forze e la sua artiglieria cominciò a battere quella parte delle mura sicchè tutte le schiere della città furono quivi chiamate a difesa.

Il monaco, accortosi che la parte da lui assediata era sprovvista di soldati e di guardie, considerando che coloro che sopraggiungono in una battaglia recano più timore e spavento di quelli che stanno combattendo a tutta forza mosse con gran coraggio contro il forte e tanto fece che riuscì a scalarlo con alcuno de' suoi. Tuttavia evitò ogni fracasso finchè tutti i suoi non fossero saliti sulle mura, eccetto i duecento cavalieri che lasciò fuori per gli accidenti che potessero capitare. E allora lui e gli altri insieme si diedero a gridare orribilmente, uccisero senza resistenza le guardie di quella porta e l'apersero ai cavalieri, poi con tutta fierezza fecero impeto verso la porta orientale dove era la mischia e assalendo da tergo il nemico rovesciarono ogni resistenza. Gli assediati vedendo apparire i nemici, e i Gargantuisti aver occupata la città, si arresero a discrezione al monaco. Egli fece loro consegnare le armi e li riunì e rinchiuse nelle chiese, non senza aver tolto prima tutte le aste delle croci e messe guardie alle porte per impedir loro di scappare, poi, spalancata la porta orientale, uscì al soccorso di Gargantua.

Ma Picrocolo credette che il soccorso venisse a lui dalla città e s'impegnò con oltracotanza più di prima, finchè Gargantua gridò:

- Frate Gianni, amico mio, benvenuto Frate Gianni!

Comprendendo allora Picrocolo e le sue genti che tutto era perduto, si diedero alla fuga in ogni direzione. Gargantua li inseguì fino a Vaugaudry uccidendo e massacrando, poi suonò la ritirata.

 

CAPITOLO XLIX.

Come qualmente Picrocolo fuggendo ebbe mala ventura e ciò che fece Gargantua dopo la battaglia.

 

Picrocolo, disperato, se ne fuggì verso l'Isle Bouchart; sulla strada di Rivière il suo cavallo inciampò; Picrocolo fu preso da tal collera che lo uccise colla spada. Poi non trovando modo di rimettersi a cavallo, volle prendere un asino del mulino che si trovava là presso; ma i mugnai lo colmarono di botte e lo spogliarono dei suoi abbigliamenti dandogli per coprirsi un meschino e rozzo vestito.

Così se n'andò il povero bilioso; poi, passando il fiume a Port-Huaux e raccontando la sua mala ventura fu avvertito da una vecchia strega che riacquisterebbe il regno alla venuta delle cocchegrù. Non si sa che sia poi avvenuto di lui. Tuttavia m'han detto che ora fa il facchino a Lione, sempre bilioso come prima; e sempre chiede ai forestieri notizie sulla venuta delle cocchegrù, certo sperando d'esser reintegrato nel regno al loro arrivo, secondo la profezia della vecchia.

Gargantua, dopo aver suonato a raccolta, primamente fece contar le sue genti e trovò che pochi erano periti in battaglia, cioè alcuni della banda del capitano Tolmero, e Ponocrate che era stato colpito da un archibugiata al giustacuore. Poi li fece ristorare, ciascuno in ordine nella sua banda, e comandò ai tesorieri che quel pasto fosse loro provveduto e pagato e che non si facesse nessun oltraggio alla città che era sua. Dopo il pasto comandò che le milizie comparissero sulla piazza davanti al castello dove avrebbero ricevuto paga per sei mesi. E così fu fatto. Indi fece radunar davanti a sè sulla piazza quanti erano rimasti della parte di Picrocolo, ai quali, presenti tutti i suoi principi e capitani, parlò come segue:

 

CAPITOLO L

La concione di Gargantua ai vinti.

 

"I nostri padri, avi e antenati a memoria d'uomo, di tal sentimento e di tal natura furono, che delle battaglie combattute e de' trionfi e vittorie riportati amarono erigere qual segno commemorativo trofei e monumenti di bontà nel cuore dei vinti, più volentieri che opere di architettura nelle terre conquistate, imperocchè più stimavano la viva ricordanza degli umani con liberalità acquistata, che la muta iscrizione di archi, colonne e piramidi, soggetti alle intemperie dell'aria e all'invidia di tutti.

Ancor vivo è il ricordo della mitezza che usarono verso i Bretoni nella giornata di Saint-Aubin du Cornier e nella demolizione di Parthenay. Voi avete inteso e, intendendo, ammirato il buon trattamento che usarono coi barbari di Spagnola che avevano predato, devastato e saccheggiato i confini marittimi di Olona e Thalmondoys.

Tutto il nostro cielo fu pieno delle lodi e congratulazioni vostre e de' vostri padri quando Alfarbal re delle Canarie, non contento dei suoi successi, invase furiosamente il territorio di Onys compiendo opera da pirata in tutte le isole Armoricane e regioni finitime.

Egli fu preso e vinto in giusta battaglia navale da mio padre, che Dio conservi e protegga. Che più? là dove gli altri re e imperatori, anche quelli che si fanno chiamare cattolici, l'avrebbero miseramente trattato, duramente imprigionato, e gravissimamente taglieggiato, egli lo trattò cortesemente: amicamente lo ospitò con sè nel suo palazzo, e con incredibile bontà lo mandò libero con salvacondotto, carico di doni, carico di gentilezze, carico d'ogni segno d'amicizia. Che ne seguì? Quegli, tornato nelle sue terre fece adunare tutti i principi e stati del suo reame, espose loro l'umanità sperimentata in noi e li pregò di deliberare in modo che il mondo ne traesse esempio, come già in noi di decorosa gentilezza, così in loro di gentile decoro! I convenuti decretarono per consentimento unanime di offrirci le loro terre, domini e il reame, e che noi ne usassimo a nostro arbitrio. Alfarbal in persona ritornò subito con novemila e trentotto grandi navi onerarie portando i tesori non solamente della sua casa e della stirpe reale, ma quelli di tutto il paese: poichè imbarcatosi per far vela col vento di ovest-nord-est, tutti facevano ressa per gettare nelle navi oro, argento, anelli, gioielli, spezie, droghe e odori aromatici: pappagalli, pellicani, scimmie, zibetto, gatti selvatici, porcospini. Non era figlio di buona madre reputato chi non imbarcasse ciò che avea di singolare. Arrivato che fu, voleva baciare i piedi a mio padre: ciò che fu stimato indegno di lui e non fu permesso, fu abbracciato invece come eguale.

Egli offrì i suoi doni, e non furono accettati per essere eccessivi.

Si dichiarò mancipio e schiavo volontario lui e la sua posterità: ciò non parve equo e non fu accettato. Egli cedè, secondo il decreto degli stati, le sue terre e il reame, offrendo gli atti di trasmissione e cessione, firmati, sigillati e ratificati in tutta regola: ciò fu totalmente rifiutato e i contratti bruciati. Il risultato fu che mio padre cominciò a commoversi di pietà e a piangere copiosamente considerando il franco volere e la semplicità dei Canariani e con parole squisite e sentenze convenienti cercava menomare l'importanza del buon trattamento usato, dicendo nulla aver fatto che valesse più di un bottone e se aveva mostrato qualche minima gentilezza, l'aveva fatto perchè suo dovere. E Alfarbal invece a decantarne il pregio vieppiù. Quale fu il risultato? Imponendogli anche la più gravosa delle taglie avremmo potuto esigere tirannicamente da lui due milioni di scudi e tenere in ostaggio i suoi figli maggiori: invece essi si son fatti spontaneamente tributari perpetui e obbligati a versarci ogni anno due milioni d'oro fino di ventiquattro carati. E il primo anno ce li pagarono qui, il secondo volontariamente ci pagarono due milioni e duecentomila scudi: il terzo due milioni e seicentomila, il quarto tre milioni, e tanto aumentano di loro buon grado la somma che saremo costretti a proibir loro di più nulla portarci. È la natura della gratuità. Che il tempo, il quale corrode e diminuisce ogni cosa, accresce invece il valore dei benefici, poichè una buona azione compiuta liberamente verso un uomo ragionevole è continuamente accresciuta da nobile pensiero e dalla rimembranza.

Non volendo io dunque degenerare dalla bontà ereditata dai parenti miei, ora vi lascio in libertà e vi rendo franchi e liberi come avanti. Inoltre, all'uscire dalle porte sarete pagati ciascuno per tre mesi affinchè possiate ritirarvi nelle vostre case e famiglie e vi condurranno in sicurezza seicento cavalieri e ottomila fanti sotto la guida del mio scudiero Alessandro affinchè non siate oltraggiati dai contadini. Dio sia con voi!

Duolmi di tutto cuore che qui non sia Picrocolo al quale avrei fatto intendere come a questa guerra fui tratto mio malgrado e senza alcuna intenzione di accrescere nè i miei beni, nè il mio nome. Ma poichè egli è perduto, nè si sa dove nè come sia sparito, voglio che il suo reame sia conservato intero a suo figlio, il quale, per essere in tenera età, poichè non ha anco compiuto i cinque anni, sarà allevato ed istruito dai vecchi principi e dai savii del reame. E poichè un reame così desolato, sarebbe facilmente rovinato se non s'infrenasse la cupidigia e avidità dei suoi amministratori, ordino e voglio che Ponocrate sovraintenda a tutti i governanti coll'autorità a ciò richiesta e assista il fanciullo finchè lo riconosca idoneo a governare da sè.

Considero che una troppo molle e snervata facilità di perdono è occasione ai malfattori di nuovamente malfare per la perniciosa speranza di grazia. Considero che Mosè, il più dolce uomo che fosse sulla terra al tempo suo, puniva severamente gli insubordinati e i sediziosi del popolo di Israele. Considero Giulio Cesare, capitano mitissimo. Disse di lui Cicerone che la sua fortuna nulla ebbe di più sovrano se non il potere e la sua virtù nulla di migliore se non il voler sempre salvare e perdonare tutti. Cesare tuttavia in certi casi punì rigorosamente gli autori di ribellione.

A esempio di loro voglio che mi consegniate avanti di partire: anzitutto quel bel Marchetto che per la sua vana oltracotanza fu origine e causa prima di questa guerra: in secondo luogo i suoi compagni focacceri che trascurarono di correggere immediatamente la sua testa matta e infine tutti i consiglieri, capitani, ufficiali e famigliari di Picrocolo che lo abbiano incitato, lodato, e consigliato a esorbitare dai limiti per venire a disturbarci."

 

CAPITOLO LI.

Come qualmente i Gargantuisti vincitori furono ricompensati dopo la battaglia.

 

Dopo la concione di Gargantua furono consegnati i sediziosi da lui richiesti meno Spadaccino, Merdaglia, e Minutaglia i quali erano fuggiti sei ore prima della battaglia, l'uno di volata fino a Col d'agnello, l'altro fino a Val de Vire, il terzo fino a Logrono, senza mai voltarsi nè prender fiato nella fuga, e meno due focacceri morti nella battaglia. Gargantua non fece loro alcun male, solo ordinò fossero adibiti a tirare le stampe nella tipografia impiantata di fresco.

Poi fece onorevolmente seppellire i morti nella valle delle Noirettes e nel campo di Brulevieille. I feriti li fece medicare e curare nel suo grande nosocomio. Poi pensò ai danni recati alla città e li fece rimborsare agli abitanti con tutti gli interessi basandosi sulla loro dichiarazione giurata.

Nella città fece costruire un forte castello e vi mise gente a guardia per meglio difenderla nell'avvenire contro le aggressioni improvvise.

Prima che partissero ringraziò con riconoscenza tutti i soldati delle sue legioni che avevano cooperato alla vittoria e li mandò a svernare nelle loro sedi e guarnigioni, eccetto alcuni della legione decumana che aveva visto nella giornata campale compiere prodezze, e insieme i capitani delle bande che condusse con sè alla presenza di Grangola.

Non sarebbe possibile descrivere quanto si rallegrò il buon uomo vedendoli arrivare. E diede loro un banchetto, il più magnifico e abbondante e delizioso che si fosse mai visto dal tempo del re Assuero. Al levar delle mense distribuì a ciascuno tutta la sua argenteria che pesava un milione ottocentomila e quattordici bisanti d'oro, tra gran vasi antichi, grandi crateri, navicelle, portafiori, portaconfetti, e altro simile vasellame, tutto d'oro massiccio, oltre le gemme, gli smalti e i lavori di oreficeria, il prezzo dei quali a stima di ognuno, superava quello stesso del metallo.

Inoltre fece loro contare dalle sue casse, un milione e duecentomila scudi ciascuno, e in più, a ciascuno, donò a perpetuità (salvo il caso che morissero senza eredi) i suoi castelli e terre vicini, secondo che erano a loro più comodi: a Ponocrate donò la Roche Clermault, a Ginnasta Coudray; a Eudemone, Montpensier; a Tolmero, Rivau; a Itibolo, Monsoreau; ad Acamas, Cande; a Chiranatto, Varennes; Gravot a Sebaste; Quinquenays ad Alessandro; Ligrè a Sofronio; e così dell'altre sue piazze.

 

CAPITOLO LII.

Come qualmente Gargantua fece costruire per il monaco l'abbazia di Teleme.

 

Restava da premiare il monaco. Gargantua voleva nominarlo abate di Seuilly, ma egli rifiutò. Gli volle dare l'abbazia di Bourgueil o quella di Saint-Florent, qual delle due più gli convenisse, o entrambe se gli piacesse; ma il monaco gli fece risposta perentoria che non voleva carico nè governo di monaci.

- Poichè, diceva, come potrei governare altrui, io che non saprei governare me stesso? Se vi pare che vi abbia reso servizio gradito e che possa renderne altri in avvenire, concedetemi di fondare una abbazia di mia testa.

Piacque la domanda a Gargantua e gli offrì tutto il suo territorio di Teleme lungo la Loira, a due leghe dalla grande foresta di Port-Huan. Il monaco chiese poi a Gargantua che disciplinasse la sua regola in modo contrario a tutte le altre.

- Anzitutto, disse Gargantua, non bisognerà costruirvi muri all'intorno, poichè tutte le altre abbazie sono fieramente murate.

- Non senza ragione è questo, disse il monaco: dove c'è muro e davanti e di dietro, c'è molto murmurare, e invidia e mutua cospirazione.

Inoltre, poichè in certi conventi di questo mondo è usanza che se v'entra qualche donna (intendo le oneste e pudiche) si ripuliscono i luoghi dove son passate, così ordino che se un monaco o una monaca entrassero per caso nell'abbazia, si ripulissero accuratamente tutti i luoghi per dove fossero passati. E poichè negli ordini monastici di questo mondo tutto è misurato, limitato e regolato per ore, fu decretato che colà non fosse nè orologio, nè quadrante alcuno, ma che tutte le opere fossero distribuite secondo le occasioni e opportunità; poichè, diceva Gargantua, la maggior perdita di tempo che egli sapesse, era contar le ore (qual profitto ne viene?) e la più gran corbelleria di questo mondo governarsi al suon di una campana e non secondo i dettami del buon senso e dell'intelletto. Item, poichè in quel tempo non si facevano monache se non le donne che erano guercie, gobbe, brutte, deformi, folli, insensate, stregate, e magagnate e monaci gli uomini se non catarrosi, malnati, sciocchi, e di peso alla famiglia....

- A proposito, disse il monaco, una donna nè bella nè buona, a che serve?

- A metterla in convento, disse Gargantua.

- Ma anche, disse il monaco, a far camicie.

....così fu ordinato che là non sarebbero state ricevute se non donne belle, ben formate, e di buona natura e gli uomini belli, ben formati e di buona natura.

Item, poichè nei conventi di monache non entravano uomini se non di scappata e clandestinamente, fu decretato che colà non sarebbero ammesse donne se non vi fossero uomini, nè uomini se non vi fossero donne.

Item, poichè tanto i monaci che le monache una volta entrati in un ordine, dopo l'anno di noviziato, erano forzati e costretti a restarvi perpetuamente per tutta la vita, fu stabilito che uomini e donne entrati colà avessero potuto uscirne francamente e completamente quando loro piacesse.

Item, poichè ordinariamente i monaci facevano tre voti: di castità, povertà e obbedienza, fu stabilito che colà si potessero maritare onorevolmente, che ciascuno fosse ricco e vivesse liberamente.

Quanto all'età legittima, le donne vi erano ammesse dai dieci fino ai quindici anni, gli uomini dai dodici fino ai diciotto.

 

CAPITOLO LIII.

Come qualmente fu costruita e dotata l'abbazia dei Telemiti.

 

Per la costruzione e l'ammobiliamento dell'abbazia, Gargantua fece consegnare in contanti due milioni e settecento mila ottocento e trentuno montoni di gran lana e assegnò per ogni anno, fino a compimento dell'opera, un milione seicento e sessantanovemila scudi del sole e altrettanti della chioccia, da esigere sulle entrate della Dive.

Per l'impianto e il mantenimento dell'abbazia fece donazione a perpetuità di due milioni trecento sessantanove mila cinquecento e quattordici nobili della rosa, netti da aggravi, liberi, e pagabili ogni anno alla porta dell'abbazia e ciò fu messo in atti e firmato in piena regola.

L'edificio fu costruito in forma esagonale; ai sei angoli corrisposero sei torrioni rotondi di sessanta passi di diametro e tutti eguali di grandezza e di aspetto.

La Loira scorreva sulla facciata di settentrione e là sorgeva una delle grosse torri chiamata Artica, l'altra volgendo a oriente era chiamata Calaer, l'altra Anatolia, l'altra Mesembrina, l'altra Esperia, e l'ultima Criera.

I lati fra torre e torre misuravano trecento e dodici passi. Tutto l'edificio era a sei piani contando per un piano le cantine sotterranee. Il secondo piano era tutto a volti in forma d'ansa di paniere; tutti gli altri soffitti erano a cassettoni e a cul di lampada in gesso di Fiandra; il tetto coperto d'ardesia fina, con il comignolo rivestito di piombo con figure d'ometti e animali ben eseguiti, combinati e dorati, coi doccioni che sporgevano dalla muraglia tra un finestrone e l'altro e i tubi, dipinti con disegni diagonali d'oro e d'azzurro, che scendevano sino a terra dove finivano in grandi canali sotterranei che mettevano nel fiume.

L'edificio era cento volte più magnifico dei castelli di Bonivet, di Chambord e di Chantilly, poichè conteneva novemila trecento e trentadue camere, ciascuna fornita d'anticamera, gabinetto, guardaroba, cappella, e con uscita in una grande sala. Nell'interno di ciascuna torre era una scala a chiocciola con pianerottoli, i gradini della quale erano o di porfirio, o di marmo rosso di Numidia, o di marmo serpentino, lunghi ventidue piedi; la loro grossezza era di tre dita ed ogni ramo di scala ne aveva dodici tra un pianerottolo e l'altro. Ogni pianerottolo era illuminato di due belle finestre arcate all'antica, ed essi mettevano sopra una loggetta della larghezza della scala. La scala saliva fino al tetto e là finiva a padiglione e da ogni lato di essa si entrava in una grande sala e dalle sale nelle camere.

Dalla torre Artica alla Criera erano belle e grandi biblioteche di libri greci, latini, ebraici, francesi, toscani e spagnoli, una lingua per ogni piano.

Nel mezzo dell'edificio, dalla parte del fiume era una scalea a chiocciola, mirabile, l'entrata della quale era esterna sotto un'arcata larga sei tese ed era costruita in tale forma e dimensione che sei cavalieri colla lancia sulla coscia potevano salire insieme, di fronte, fino al sommo dell'edificio.

Dalla torre Anatolia alla Mesembrina erano belle e grandi gallerie tutte affrescate di antiche geste, di fatti storici e descrizioni della terra. Tra le due torri era un'altra scalea come quella sopradetta dalla parte del fiume. Sulla porta era scritto in lettere romane ciò che segue.

 

CAPITOLO LIV.

Iscrizione messa sul portale di Teleme.

 

Qui non entrate voi, ipocriti, bigotti,

Vecchie bertucce, sguatteri gonfioni,

Torcicolli, sciocchi da disgradarne i Goti

E gli Ostrogoti, precursori dei macacchi;

Accattoni, lebbrosi, mangiamoccoli impantofolati,

Straccioni imbacuccati, porcaccioni scornacchiati,

Beffati, tumefatti, accattabrighe;

Tirate via a vendere altrove i vostri imbrogli.

I vostri mali imbrogli

Invaderebbero i miei campi

Di cattiveria;

E per loro falsità

Turberebbero i miei canti

I vostri mali imbrogli.

Qui non entrate voi o legulei mangiafieno,

Scribacchini, curiali, divoratori di popolo,

Coadiutori, scribi e farisei,

Giudici antichi che ai buoni parrocchiani

Siccome a cani mettete il guinzaglio.

Sia vostra mercede il patibolo.

Andate là a ragliare; qui non si commette eccessi,

Onde alle vostre corti movansi processi.

Processi e dispute

Han poco da stare allegri qui,

Dove si viene a spassarsela.

Su voi per litigare

Si rovescino a cestoni

Processi e discussioni.

Qui non entrate voi, usurai spilorci,

Ghiottoni leccapiatti, che sempre ammassate,

Acchiappagatti, ingoiatori di nebbia,

Curvi, camusi, che nelle vostre pentole

Non avete mai abbastanza migliaia di marchi.

Non fate smorfie quando incassate

E accumulate, poltroni dall'avara faccia;

Che mala morte d'un colpo vi disfaccia.

La faccia non umana

Di tal gente si porti

A ridere altrove; qui dentro

Non sarebbe decente;

Via da questo territorio

Facce non umane.

Qui non entrate voi, o deliranti mastini

Nè a sera nè a mattino, vecchi malinconici e gelosi,

Nè voi faziosi e rivoltosi,

Fantasmi, folletti, spioni dei mariti,

Greci e Latini più pericolosi dei lupi;

Nè voi rognosi impestati fino all'osso;

Andate altrove a far mostra d'ulceri,

Infranciosati carichi di disonore.

Onore, lode, letizia

Son qui dentro convenuti

In accordo giocondo;

Tutti son qui sani di corpo.

Perciò ben qui s'addice

Onore, lode, letizia.

Qui entrate e siate i benvenuti

E benarrivati voi tutti, nobili cavalieri

Questo è il luogo ove son copiose

E giuste rendite, affinchè ospitati

Siate tutti, grandi e piccoli a migliaia.

Miei familiari, miei intimi sarete

O freschi, giocondi, allegri, piacevoli, graziosi;

E tutti in generale gentili compagnoni.

Compagnoni gentili

Sereni e sottili

Alieni da bassezza,

Di cortesia

Qui sono gli strumenti,

O compagnoni gentili.

Qui entrate voi che l'evangelio santo

Vivacemente propagate, checchè si gridi.

Qui dentro avete rifugio e fortezza

Contro l'errore dei nemici, che tanto procura

Avvelenare il mondo con sua falsità:

Entrate, e qui si fondi la profonda fede;

Poi si confondano e a voce e per iscritto

I nemici della santa parola.

La parola santa

Non sia mai estinta

In questo luogo santissimo.

Ciascun ne sia cinto

Ciascuno incinto sia

Dalla parola santa.

Qui entrate voi, dame d'alta stirpe,

Con franco cuore e lietamente entrate,

Fiori di bellezza dal viso celeste,

Dal corpo snello, dal fare onesto e saggio.

In questo luogo ha sede l'onore.

L'alto signore donatore del luogo

E compensatore, per voi l'ha ordinato

E per ogni spesa ha molto or donato.

Or donato per dono

Ordina perdono

A chi lo dona:

E ben guiderdona

Ogni mortal galantuomo

Or donato per dono.

CAPITOLO LV.

Come qualmente era il maniero dei Telemiti.

 

In mezzo al cortile era una fontana magnifica di bello alabastro, sopravi le tre Grazie colle cornucopie e zampillanti getti d'acqua dalle mammelle, dalla bocca, dalle orecchie, dagli occhi e da altre aperture del corpo.

L'interno dell'edificio sul detto cortile era tutto a portici con grossi pilastri di calcedonio e porfirio e a belle arcate romaniche. Là erano belle e lunghe e ampie gallerie adorne di affreschi e trofei di corna di cervo, di liocorni, di rinoceronti, di ippopotami, di denti d'elefante e altre curiosità.

La parte dalla torre Artica alla Mesembrina era adibita alle dame. Gli uomini occupavano il resto. Davanti agli appartamenti delle dame, perchè avessero una distrazione, tra le due prime torri, esternamente, erano le lizze, l'ippodromo, il teatro, le vasche natatorie con bagni mirifici a tre gradini, ben forniti di ogni comodo e acqua di mirto a volontà.

Prospicente il fiume era il bel giardino e in mezzo ad esso il bel labirinto. Fra le altre due torri erano il gioco della pallacorda e del pallone. Dal lato della torre Criera era il verziere pieno di ogni specie d'alberi fruttiferi tutti ordinati a quinconce. In fondo ad esso era il gran parco pullulante d'ogni genere di selvaggina.

Tra le terze torri erano i bersagli pei tiri d'archibugio, d'arco e di balestra; i servizi erano esternamente alla torre Esperia, a un solo piano; la scuderia, dopo i servizi, la falconeria dopo la scuderia, ed era governata da falconieri ben esperti dell'arte e rifornita ogni anno da Candioti, Veneziani e Sarmati, de' migliori campioni di ogni specie d'uccelli: aquile, girifalchi, avoltoi, sacri, lanieri, falconi, sparvieri smerigli, tanto bene addestrati e addomesticati che spiccando il volo dal castello per divertirsi ai campi prendevano tutto ciò che incontravano. I canili erano un po' più lontano volgendo verso il parco.

Tutte le sale, camere e gabinetti erano tappezzati in diverse maniere secondo le stagioni dell'anno. Tutto il pavimento era coperto di un tappeto verde. I letti erano tutti un ricamo. In ogni retrocamera era uno specchio di cristallo, incorniciato d'oro fino, guernito intorno di perle e di tal grandezza da specchiare nitidamente tutta la persona. All'uscita delle sale degli appartamenti femminili erano i profumieri e i parrucchieri per le mani dei quali passavano gli uomini quando andavano a visitare le dame. I profumatori fornivano ogni mattina le camere femminili d'acqua di rosa, acqua di arancio e acqua d'angelo, e mettevano in ciascuna la preziosa cassoletta vaporante ogni sorta di aromi.

 

CAPITOLO LVI.

Come qualmente erano vestiti i monaci e le monache di Teleme.

 

Le dame sul principio dell'istituzione si vestivano a loro piacere e arbitrio. Poi di lor franca volontà adottarono la seguente riforma:

Portavano calze scarlatte o color granata alle tre dita giuste sopra il ginocchio; l'orlatura delle quali era ricamata e dentellata. Le giarrettiere erano del colore dei loro braccialetti e contornavano il ginocchio sopra e sotto. Gli stivaletti, scarpine e pantofole erano di velluto cremisi, rosso, o violetto, con striscioline a barba di gambero.

Sulla camicia vestivano la bella baschina di qualche bel tessuto di seta e sopra essa la crinolina di taffetà bianco, rosso, lionato, grigio ecc. Al di sopra mettevano la cotta di taffetà d'argento (con ricami d'oro fino eseguiti coll'ago) o come loro piacesse e secondo le disposizioni dell'aria, di satin, di damasco, o velluto, di color aranciato, lionato, verde, cenerino, blu, giallo chiaro, rosso cremisi, bianco, dorato, tela d'argento, di canutiglia, di pizzi, secondo le feste.

Le sottane secondo la stagione, di tela d'oro a fregi e ricci d'argento, di raso rosso coperto di canutiglia d'oro, di taffetà bianco, blu, nero, lionato, sargia di seta, cambellotto di seta, velluto, stoffa d'argento, tela d'argento, fili d'oro, velluto o raso filato d'oro a disegni diversi. D'estate, qualche giorno, invece di sottana portavano belle tuniche delle stoffe suddette, o bernie alla moresca di velluto violetto con fregi d'oro su canutiglia d'argento, o a cordoncini d'oro guerniti ai nodi di piccole perle indiane. E sempre il bel pennacchio accordato col colore dei manicotti e ben guernito di farfalline d'oro. D'inverno vesti di taffetà dei colori sopra indicati e foderate di pelli di lupo cerviero, di gatto selvatico nero, di martore di Calabria, di zibellini e altre pelliccie preziose.

I rosari, anelli, catenelle e collane erano di gemme: carbonchi, rubini, balasci, diamanti, zaffiri, smeraldi, turchesi, granate, agate, berilli, perle e unioni rarissime.

L'acconciatura della testa variava secondo la stagione: d'inverno alla moda francese, di primavera alla spagnola, d'estate alla toscana; i giorni di festa e le domeniche portavano l'acconciatura francese, più onorevole e consentanea alla pudicizia matronale.

Gli uomini erano abbigliati alla moda loro: calze di stamigna, o di saia tessuta, di color scarlatto, o granata, o bianco, o nero; le brache di velluto del color delle calze, o pressapoco, ricamate e frangiate a loro gusto: il giustacuore di tessuto d'oro, d'argento, di velluto, raso, damasco, taffetà degli stessi colori, frangiato, ricamato e acconciato a meraviglia. I cordoncini erano di seta dello stesso colore, i puntali d'oro e bello smalto; i sai e le zimarre di tessuto d'oro, tela d'oro, tessuto d'argento, velluto, frangiati a piacere; le tuniche non meno preziose di quelle delle dame, le cinture di seta del color del giustacuore. Ciascuno aveva una bella spada al fianco, l'impugnatura dorata, il fodero di velluto del color delle brache con punta d'oro lavorato; lo stesso dicasi del pugnale; il berretto di velluto nero guernito di molte bacche e bottoni d'oro; sopra era la piuma bianca, graziosamente ornata di pagliuzze d'oro, all'estremità delle quali splendevano, a mò di pendagli bei rubini, smeraldi ecc.

Ma tanta simpatia era tra gli uomini e le dame che ogni giorno erano vestiti in modo simile e per non mancare a ciò certi gentiluomini erano incaricati di indicare agli uomini ogni mattina quali vesti le dame desideravano indossare per quella giornata e tutto era fatto secondo il piacere delle dame.

Non è a credere tuttavia che gli uni e le altre perdessero tempo a quei vestiti così belli, a quelle acconciature tanto ricche, poichè i mastri delle guardarobe tenevano ogni costume preparato ogni mattina, e le cameriere erano tanto esperte, che in un momento erano pronti e abbigliati da capo a piedi.

E per aver sottomano quei costumi intorno al bosco di Teleme v'era un gran caseggiato lungo mezza lega, ben chiaro e comodo nel quale dimoravano orefici, lapidari, ricamatori, sarti, filatori d'oro, vellutai, tappezzieri e ciascuno vi attendeva al suo mestiere, tutti per i monaci e le monache. Essi erano riforniti di materia prima e di stoffa per cura del signor Nausicleto, il quale inviava loro ogni anno dalle isole Perlas e dei Cannibali sette navi cariche di verghe d'oro, di seta cruda, di perle e di gemme. Se qualche grossa perla tendendo a vetustà perdeva la nativa nitidezza, glie la rinnovavano dandola a inghiottire a qualche bel gallo come si dà la piumata ai falconi.

 

CAPlTOLO LVII.

La regola dei Telemiti e loro maniera di vivere.

 

La loro vita non era governata da leggi, statuti o regole, ma secondo il loro volere e franco arbitrio. Si levavano da letto quando loro piacesse; bevevano, mangiavano, lavoravano, dormivano quando ne aveano voglia; nessuno li svegliava, nessuno li forzava nè a bere, nè a mangiare, nè a qualsiasi altra cosa. Così aveva stabilito Gargantua. La loro regola era tutta in un articolo:

Fa ciò che vorrai

Poichè gli uomini liberi, ben nati, bene educati, avvezzi a compagnie oneste hanno per natura un istinto e stimolo che chiamano onore, il quale sempre li spinge a opere virtuose e li allontana dal vizio. Coloro i quali con vile soggezione e costrizione sono oppressi ed asserviti volgono a scuotere e a infrangere il giogo di schiavitù i nobili sentimenti onde a virtù liberamente tendevano; poichè noi incliniamo sempre alle cose proibite e bramiamo ciò che ci è negato.

Grazie a quella libertà invece, erano presi da emulazione di fare tutti ciò che ad uno vedevano piacere. Se alcuno o alcuna diceva: beviamo! tutti bevevano. Se alcuno diceva: giochiamo! tutti giocavano. Se alcuno diceva: andiamo pei campi a divertirci! tutti vi andavano. Se dovevano cacciare al volo o coi cani, le dame montate sulle loro chinee o sul loro baldo palafreno bardato recavano ciascuna sul pugno graziosamente inguantato o uno sparviero, o un lanieretto, o uno smeriglio; gli uomini portavano gli altri uccelli.

Erano tanto nobilmente istruiti che non si trovava fra loro nè alcuno, nè alcuna che non sapesse leggere, scrivere, cantare, suonare stromenti armoniosi, parlare cinque o sei lingue e comporre in ciascuna sia versi che prosa. Mai non furono visti cavalieri sì prodi e galanti e destri, a piedi e a cavallo, sì vigorosi, sì rapidi, sì esperti di tutte le armi. Mai non furono viste dame tanto pulite, tanto graziose, meno noiose e più valenti a ogni lavoro di mano, d'ago, ad ogni arte muliebre onesta e libera. Per questa ragione quando era venuto il tempo che alcuno volesse uscire dall'abbazia, o per richiesta dei parenti, o per altre cause, conduceva con sè una delle dame, quella che l'aveva accetto come suo devoto e si sposavano. E se erano vissuti a Teleme in affettuoso rispetto e amicizia, anche meglio la conservavano nel matrimonio e tanto si amavano alla fine de' lor giorni quanto il primo delle nozze.

Ma non voglio dimenticare di trascrivervi un enigma che fu trovato nei fondamenti dell'abbazia inciso sopra una grande lastra di bronzo. Si esprimeva così come segue:

 

CAPITOLO LVIII.

Enigma trovato nei fondamenti dell'abbazia dei Telemiti.

 

Poveri umani, che felicità aspettate,

In alto i cuori, le mie parole ascoltate.

Se è permesso di credere fermamente

Che dagli astri del ciel l'umana mente

Possa congetturar cose venture,

O se è possibil per divinazione

Aver conoscenza della sorte futura,

Tanto da poter annunciare con discorso certo

Il destino e il corso degli anni lontani,

Io fo sapere a chi lo vuole intendere

Che il prossimo inverno senza oltre attendere

E anche prima, qui, dove siamo,

Uscirà una maniera d'uomini

Stanchi di riposo, insofferenti di quiete

Che andranno francamente, di pieno giorno

A subornare gente d'ogni qualità

Incitandola alle fazioni e al parteggiare.

E chi presterà loro fede e ascolto,

(Checchè ne segua o costi)

Indurranno a liti manifeste:

Persino gli amici tra loro e i prossimi parenti:

Il figlio, ardito, non temerà lo scandalo

Di schierarsi contro il suo stesso padre;

Anche i grandi di nobile lignaggio

Si vedranno assaliti dai loro sudditi

E il dovere d'onore e riverenza

Non terrà più conto di distinzioni e differenze di grado,

Poichè diranno che ciascuno a sua volta

Deve salire in alto e poi discendere.

E per questa vicenda vi saranno tante mischie,

Tante discordie e andate e venute,

Che nessuna istoria, dove sono le grandi meraviglie,

Ha raccontato simili commovimenti.

Allora si vedranno molti uomini valorosi

Per stimolo e calor di giovinezza,

Per troppo abbandonarsi alle fervide brame,

Morire in fiore e vivere ben poco.

E nessuno potrà lasciar l'impresa,

Una volta che l'abbia presa a cuore,

Senza aver riempito, per dispute e contese,

Di grida il cielo, di passi la terra.

Allora uomini senza fede non avranno

Minore autorità di quelli che professano verità,

Poichè tutti seguiranno l'avviso e le passioni

Dell'ignorante e sciocca moltitudine,

E il più balordo sarà assunto giudice.

Oh dannoso e penoso diluvio!

Diluvio, dico, a buon diritto,

Poichè questo travaglio non cesserà

E non ne sarà liberata la terra.

Fintanto che non sgorghino rapide

Acque improvvise, onde anche i più tardi

Nel combattere, saranno colti e inzuppati;

E giustamente, giacchè il loro cuore,

Assorto in questo combattimento, non avrà risparmiato

Neanche i greggi delle bestie innocue;

E i nervi loro e le loro vili budelle

Saranno usate non già pel sacrificio degli Dei,

Ma pei comuni servigi dei mortali.

Ora io vi lascio pensare intanto

Come procederà tutto questo parapiglia

E qual riposo, in lotta sì profonda,

Avrà il corpo della macchina rotonda.

I più fortunati, quelli che più la terranno,

Meno degli altri si asterranno dal guastarla e rovinarla

E in mille modi procureranno

Di asservirsela e tenerla prigioniera

In luogo tale, che la poveretta, disfatta,

Non troverà riparo se non da colui che l'ha fatta.

E, ciò ch'è peggio, nella sua disgrazia

Il chiaro sole, anche prima di giungere all'occaso

Lascierà cadere l'oscurità su lei

Più che di ecclissi o di notte naturale,

Onde perderà a un tratto e libertà

E il favore e la luce dell'alto cielo,

O per lo meno resterà abbandonata.

Ma prima di questa rovina

Essa avrà subito a lungo, ostensibilmente,

Un violento e sì grande sussulto

Che non più agitato fu l'Etna quando

Fu lanciato sopra un figlio di Titano

Nè più improvviso dev'essere stimato

Il movimento che fece Inarime

Quando Tifeo sì forte s'irritò

Che i monti in mar precipitò.

Così sarà in breve ridotta

In triste stato e sì spesso cambiata,

Che anche quelli che la tenevano,

La lasceranno occupare ai sopraggiunti

S'avvicinerà allora il momento buono e propizio

Di por fine a sì lungo esercizio,

Che le grandi acque di che udiste parlare,

Fanno sì che ciascuno pensi alla ritirata.

Ma tuttavia prima di partirsi

Si potrà veder nell'aria apertamente

L'aspro calor di una gran fiamma accesa

Per metter fine all'acque ed all'impresa

Al termine di tutte queste peripezie

Resterà che gli eletti, lietamente ristorati

Di tutti i beni e di celeste manna,

Saranno per giunta arricchiti d'onesta ricompensa,

E gli altri alla fine saranno immiseriti.

Così è giusto sia, affinchè cessato il travaglio

Tocchi a ciascuno la sua sorte predestinata

Tale era l'accordo. Oh quanto è da onorare

Colui che fino all'ultimo potè perseverare!

Finita la lettura del documento, Gargantua sospirò profondamente e disse ai presenti:

- Non è da ora che i seguaci della credenza evangelica sono perseguitati; ma ben felice colui che non sarà scandalizzato e tenderà sempre al fine che Dio, mediante il suo caro Figliuolo, ci ha prefisso, senza essere distratto, nè deviato da passioni carnali.

- Che cosa pensate voi nel vostro intelletto, disse il monaco, che indichi e significhi questo enigma?

- Che significa? disse Gargantua: il corso e il trionfo della verità divina.

- Per San Goderano! disse iI monaco, la mia interpretazione non corrisponde alla vostra: questo è lo stile di Merlino il Profeta. Trovateci le allegorie e le gravi significazioni che vi piaccia e scervellatevi voi e tutto il mondo fin che vorrete. Per mio conto non ci vedo altro senso che una descrizione, sotto oscure parole, del gioco del pallone.

I subornati non sono che i giocatori delle partite che sono generalmente amici; dopo fatte le due caccie esce dal gioco colui che c'era e vi entra un altro; colui che primo dice se la palla è sopra o sotto la corda è creduto. Le acque sono il sudore, le corde delle rachette sono fatte di budelle di pecora o di capra; la macchina rotonda è la palla o pallone. Dopo il gioco si ristorano davanti a un bel fuoco, si cambiano la camicia e si banchetta volentieri; ma più allegramente quelli che hanno vinto.

E allegria!

 

 

FINE DEL VOLUME PRIMO