Antonio Naitana

Impiegato presso il Ministero del Lavoro, è nato a Bosa nel 1962.Collabora con il quotidiano L’Unione Sarda dal 1985.
E’ autore della guida La Provincia di Nuoro, pubblicata dalla EDISAR; per la stessa casa editrice, nel volume Planargia, ha curato la parte relativa all’economia ed ai paesi di questo territorio.
Collabora con la redazione giornalistica dell’emittente bosana Radio Planargia.
Ha inoltre collaborato con le riviste Sardegna fieristica e Almanacco di Cagliari.

 

 

 

 

 

Indietro


"UNA DOMENICA DI SANGUE"
"UNA DOMENICA DI SANGUE"

La rivolta popolare del 14 aprile 1889 a Bosa

 

Il 13 e 14 aprile del 1889 Bosa fu teatro di violenti disordini provocati dal malcontento popolare per l’eccessiva imposizione fiscale e l’azione di un commissario governativo incaricato di risanare le esauste finanze comunali.
Nei tumulti morirono tre persone, fra cui un bambino di nove anni.
Questo libro ricostruisce quegli eventi, le cause che li determinarono e le loro conseguenze; nelle sue pagine rivivono i protagonisti di quella tragica e dimenticata rivolta esplosa nella Domenica delle Palme, che costò alla città sangue innocente e lacrime.

 

U.N.L.A. - CENTRO DI CULTURA POPOLARE - BOSA

domenica_di_sangue_330x452.jpg (27083 byte)

Con il Patrocinio della Presidenza del Consiglio Regionale della Sardegna e del Comune di Bosa.
Fotocomposizione e stampa: Tipografia "San Giuseppe" Via Canonico Puggioni, 8 - BOSA (NU) Tel. e fax 0785 374198 - Dicembre 1998

Presentazione Introduzione

 PRESENTAZIONE

 Non fu un bel aprile, quell’aprile del 1889 in Italia. Crispi aveva appena dato vita ad un suo nuovo governo, ma solo dopo la minaccia di un voto di sfiducia che avrebbe potuto metterlo fuori dal gioco serrato del potere.
Tutto era nato da quella che sarebbe passata alla storia come la " finanza allegra ". Il ministro del Tesoro Agostino Magliani era stato costretto alle dimissioni alla fine dell’anno precedente, ma il suo successore Costantino Parazzi aveva dovuto servire alla Camera due medicine amarissime: la prima era la notizia che il disavanzo dello Stato era non di 62 milioni, come aveva detto Magliani, ma di 192; e, cosa ancora peggiore, che il suo piano di rientro prevedeva un ulteriore aumento delle tasse per quasi 50 milioni.
Ricostituendo il governo, Crispi aveva dovuto sacrificare Perazzi ai malumori dell’opinione pubblica; ma neppure Gioliti, chiamato a quel ministero difficilissimo, avrebbe potuto rimediare alla voragine del bilancio senza mettere mano alle tasse.
Crispi avrebbe dato un nuovo colpo di barra alla deriva autoritaria del suo modo di governare: la condanna di Andrea Costa, ai primissimi di aprile, a tre anni di carcere per " ribellione alla forza pubblica " ( l’occasione erano stati i disordini seguiti alla manifestazione del " martire " irredentista Guglielmo Oberdan ) era un segnale molto chiaro.
In Sardegna le cose andavano ancora peggio. La politica di Crispi, deciso a portare fino in fondo il braccio di ferro con la Francia tanto sul piano delle ambizioni coloniali quanto su quello più ravvicinato del protezionismo doganale, aveva portato alla chiusura dei mercati verso i quali da più di vent’anni, ormai, la Sardegna ( e in particolare la Sardegna settentrionale ) aveva avviato proficuamente i prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento. La " guerra delle tariffe " aveva sconvolto la fragile economia isolana: e già si dissolvevano come castelli di carte le precarie intraprese che avevano dotato la Sardegna d’una prima piccola rete di istituzioni creditizie. < Il credito – avrebbe scritto di lì a poco il sassarese Enrico Costa, che in qualcuno di questi fallimenti era stato ispettore e curatore – è come una lama tagliente, la quale può diventare un utile strumento in mano di un uomo saggio ed esperto, mentre è sempre un arma pericolosa in mano di un fanciullo imprudente e avventato >. E così, mentre da una parte chi chiedeva e riceveva prestiti non sapeva investirli nella maniera migliore, la stessa classe dirigente bancaria vedeva messa a nudo tutta la sua incapacità, quand’anche non la sua premeditata disonestà, come mostrarono alcuni clamorosi processi: < le Banche – continua Costa – dimenticarono la propria missione e le norme statutarie, sicchè si videro Banche Commerciali che non aiutavano i commercianti; Banche Popolari che non aiutavano il popolo; Banche agricole che non soccorrevano l’agricoltura; Casse di Risparmio, cosi dette di Beneficenza, forse perché mai non beneficiarono alcuno, o forse perché non tutelarono i risparmi loro affidati >.
S’aggiungeva a questo una fiscalità ossessionante e oppressiva. La Sardegna – lo dichiaravano quasi ogni giorno i giornali, rappresentanti degli enti economici e la deputazione parlamentare – portava sulle spalle un carico di tasse assolutamente sproporzionato alle proprie risorse, anche in confronto a quello che era il peso delle imposte nel resto d’Italia. Colpa soprattutto d’un catasto fondiario di cui si era cominciata a chiedere la riforma dal giorno stesso, si può dire, che era stato completato e pubblicato. Ancora nel 1888 l’intera rappresentanza parlamentare aveva presentato al governo un memoriale che era un’autentica enciclopedia dei mali dell’isola.
È all’interno di questo quadro storico che vanno collocati i tragici fatti di Bosa, nell’aprile di quel 1889, che Antonio Naitana ha recuperato alla memoria storica non solo della sua città ma anche, più in generale, della Sardegna.
Ci sono tre elementi, di questi fatti, che rinviamo direttamente al contesto nazionale e regionale.
Il primo è la drammatica situazione economica e sociale: essa assume, a Bosa, questo carattere esplosivo proprio perché collegata direttamente al resto della situazione isolana. E non c’è bisogno di andare a cercare i canali della comunicazione: Bosa aveva allora anche un suo organo di stampa " democratico ", se così vogliamo chiamarlo, ma la circolazione delle notizie e dei malumori nella Sardegna di quel tempo era più affidata ai canali informali della gente che viaggiava – e i bosani viaggiavano molto a vendere e comprare, dall’olio alle pelli – che agli strumenti deputati all’informazione dell’opinione pubblica. La cronaca della Sardegna di fine Ottocento è tutta un pullulare di aspri malumori e piccole ma violente sommosse locali.
Il secondo è l’irrigidimento sul tema della riscossione, su cui s’inasprisce il funzionario governativo mandato ad amministrare una città priva degli organi rappresentativi municipali. Il giro di vite del governo centrale, che non si allentava nel passaggio da Perazzi a Gioliti anzi restava un caposaldo della politica finanziaria di Crispi, esigeva da questo povero (certamente si, povero non meno dei poveri cristi contro cui doveva esercitare il suo potere) missus dominicus che era il "regio delegato" un’applicazione ferrea della richiesta di recuperare vecchi e nuovi debiti dei cittadini. L’uomo che diventa il bersaglio immediato della protesta popolare è soltanto un rappresentante (molto) obbligato del Governo di Roma . Soltanto che, se si vuole, gli manco forse la duttilità necessaria per gestire una situazione più complessa e meno governabile di quanto aveva probabilmente immaginato arrivando al Palazzo di Città di Bosa.
Il terzo elemento è la presenza di un originale "tribuno", che da una parte ha le stimmate di una qualche patologia mentale ma dall’altra è come aureolato del carisma dell’agitatore politico. Ci sono ancora domande, secondo me, da fare su Antonio Angelo Solinas, anche se a molte ha tentato di rispondere Antonio Naitana. Ne dico una sola: se Solinas era quel cervello in confusione di cui si parla in più d’un atto pubblico e nello stesso processo (ci sono anche, sembrerebbe, documenti clinici che ne testimoniano), come può avere avuto una così diffusa e partecipata udienza presso tanti cittadini? La verità è che, in quel finire di secolo, il socialismo non era più una parola sconosciuta. E tribuni popolari, magari più vicini alle parole d’ordine dell’anarchismo che ad una ideologia programmatica come quella dell’imminente socialismo, sorgevano anche in Sardegna un po’ dappertutto. Farei tre soli esempi: un antecedente, che era quello rappresentato dal capopopolo conosciuto con il soprannome Fabarrusthu che aveva guidato a Sassari vent’anni prima, una pericolosa agitazione contro il dazio e due "casi" di poco successivi a quello di Bosa, con le figure (diverse ma riferibili ad uno stesso clima culturale) del poeta tonarese Peppino Mereu, i cui versi portano più d’un segno d’una naturale – si direbbe – carica eversiva, e del "tribuno" nuorese Menotti Gallisai, al quale andrà resa giustizia contro l’indispettito ritratto che ce ne ha lasciato Salvatore Satta nel giorno del giudizio.
La spiegazione del "caso" Solinas, dunque, sta tutta nella esplosività della situazione locale (che, però, non era solo locale, mi pare d’aver chiarito). Per cui anche un personaggio astrattamente poco credibile come il Solinas descritto dalle carte processuali può far deflagrare la protesta dei poveri, che riconoscono le proprie ragioni in quelle che egli, sia pure confusamente ed enfaticamente, esprime nei suoi "comizi".
C’è un quarto elemento, peraltro, che può essere messo in luce in questa vicenda: la durezza della reazione contro la rabbia della folla.
Come documenta Antonio Naitana, ci fu perfino da parte dei carabinieri un eccesso di esercizio di una legittima difesa putativa, di cui la stessa magistratura e forse anche i superiori degli stessi militari dovettero prendere atto sanzionandolo secondo le rispettive competenze.
Peraltro questa durezza (intesa come la determinazione a servirsi delle armi da fuoco senza tentare forme intermedie di intimazione) era parte integrante dell’educazione delle forze dell’ordine, ed era stata sicuramente rafforzata dalle disposizioni del Ministero dell’Interno con particolare riferimento alle agitazioni popolari, che in altre parti d’Italia venivano tutte addebitate al sovversivismo anarchico e alla predicazione socialista, come nel caso delle manifestazioni per Oberdan che ho ricordato più sopra.
Sulla base di questi elementi i fatti di Bosa acquistano una loro tragica "quotidiana", rientrano nella norma della protesta popolare e delle sue ragioni non meno che nella norma della risposta dello Stato.
(Alla fine le due circostanze meno standardizzate risultano tanto l’immediatezza del consenso popolare alla disordinata azione agitatoria dell’improvvisato – sembrerebbe – tribuno di paese quanto la chiamata del magistrato nei confronti dei carabinieri, una sorta di altra faccia di una impostazione ultralegalitaria della stessa politica crispina).
Antonio Naitana ha il merito di aver cercato riuscendoci di restituirci la storia "minuto per minuto" di questo evento. E’ vero che esso – come in qualche modo accadde anche a quei moti di Sanluri che qui vengono giustamente richiamati come una sorta di prima rappresentazione di fatti bosani – venne poi cancellato dalla memoria popolare: ma è anche vero che fine del lavoro dello storico è proprio questo, di far rivivere il passato, anche quello che pare scivolato via dal ricordo di chi, alla fine, ne è stato erede. E riproporlo nel presente non solo come lezione e ammonimento ma anche, e soprattutto, come riconoscimento di radici che pure esistono, e continuano a vivere e fermentare anche quando paiono ormai incapaci per sempre di dare altro frutto.

MANLIO BRIGAGLIA

*********

UNA VICENDA DIMENTICATA

Bosa, 14 aprile 1889, Domenica delle Palme. Erano passate da poco le 17,30 quando quattro carabinieri che avevano appena arrestato un giovane di nome Gaetano Deriu vennero assaliti da un folto gruppo di bosani che pretendevano la sua liberazione.
Fu l’inizio di uno scontro che oppose per circa cinque ore i militari e gli inservienti della caserma ad una folla di popolani e costò la vita a tre di loro, fra cui un bambino di 9 anni. Decine rimasero feriti, alcuni gravemente.
Il seme di quei tumulti era stato gettato nei mesi precedenti ed era cresciuto nutrendosi del malcontento contro la cattiva amministrazione della città e le decisioni di un commissario governativo che aveva scatenato gli incaricati di riscuotere le imposte arretrate.
Già nel pomeriggio del giorno prima i bosani avevano strappato dalle mani delle guardie municipali, che dovevano arrestarlo, Antonio Angelo Solinas, accusato di essere un pericoloso maniaco per aver denunciato pubblicamente i responsabili del dissesto finanziario del Comune e criticato apertamente il regio delegato Enrico Perdisa, romano, che da qualche mese reggeva le sorti del Municipio. Il funzionario aveva pubblicato i ruoli che imponevano il pagamento immediato delle imposte che non erano state riscosse da più di un lustro, scontentando sia le famiglie più ricche che il popolo più povero. Era stato lo stesso regio delegato ad esigere, imprudentemente e contro i consigli dei carabinieri, l’immediata cattura delle persone che avevano liberato Solinas, che agli occhi della gente era colpevole solo di aver gridato la verità in faccia ai potenti. Con le polemiche in atto e la tensione presente in città fu come gettare un fiammifero acceso su un bidone di benzina.
In aiuto dei carabinieri aggrediti giunsero il comandante Pasquale Spelta, i loro commilitoni e lo stesso regio delegato. Fu lo scontro: Perdisa venne malmenato e ferito, i militari costretti a farsi largo a sciabolate in una precipitosa e disordinata ritirata verso la caserma. Riparatisi all’interno, aprirono il fuoco contro i bosani che si tenevano al riparo, nascosti nelle vie adiacenti.
Al termine di quella battaglia, rimasero sul terreno due uomini (che il processo dimostrò essere vittime innocenti) e decine di feriti, fra cui Eugenio Chiarra, un bambino di nove anni che morì qualche giorno dopo, e Peppino Cubeddu, quattordici anni, raggiunto da diversi proiettili.
Nei giorni successivi, mentre i carabinieri che avevano preso parte agli eventi venivano trasferiti ad altre sedi, la città fu occupata militarmente da un battaglione di soldati agli ordini di un colonnello, insieme ad alcune decine di carabinieri comandati da un tenente appositamente inviati dai centri vicini e dal comando di Cagliari. (Le spese del mantenimento del reparto militare sarebbero state poi imputate al Comune di Bosa).
Questo libro racconta quella vicenda, le cause che la provocarono, le sue conseguenze e la controversia che, successivamente, oppose la Prefettura ed il Comune, impegnato ad accertare i fatti con una commissione non gradita all’autorità governativa. La cronaca di quei giorni è ripercorsa sui documenti ufficiali dell’epoca: atti del Consiglio comunale, del regio delegato straordinario, della Prefettura di Cagliari e della Sottoprefettura di Oristano, dei verbali del processo, dell’Arma dei carabinieri, della Curia vescovile; con un’appendice che contiene una rassegna degli articoli apparsi su di un giornale dell’epoca recuperati, su indicazione del prof. Attilio Mastino, da Giovanni Cadoni nella Biblioteca universitaria di Sassari; alcune delle testimonianze rese al processo dai protagonisti dei fatti, la copia di alcuni atti.
Ho ricostruito quel lontano episodio partendo dal ricordo di un anziano amico, Vittorio Ibba che ne aveva sentito parlare quando era ancora un bambino, ritrovandovi non poche analogie con un’altra pagina della storia isolana, la rivolta popolare del 7 agosto 1881 a Sanluri, che costò la vita all’ex sindaco Antonio Murru e determinò 16 condanne; ai lavori forzati a vita. Un caso raccontato da Lorenzo del Piano: un terribile scontro frontale fra una folla di popolani esasperata per l’eccessiva pressione fiscale ed i reali carabinieri. Il ricordo di quei fatti e della durissima sentenza che li seguì era ancora presente nella memoria collettiva dei sardi, tanto che lo stesso vescovo Eugenio Cano, commentando i tumulti accaduti a Bosa nell’aprile 1889, ebbe a citarla come un esempio da cui trarre insegnamento ed il quotidiano < La Sardegna > non potè evitare l’accostamento fra i due episodi.
Ciò che li differenzia sostanzialmente è la peculiarità della situazione bosana: la rivolta del 14 aprile fu il culmine di una lunga stagione di veleni in una città con una forte disgrazia sociale ed un debito comunale assolutamente insostenibile, accumulato in poco più di un ventennio, per scelte amministrative poco ponderate. Fu una ribellione all’imposizione fiscale locale, giudicata iniqua perché motivata dalla necessità di ripianare il debito formatosi durante la costruzione di grandi opere pubbliche che non avevano arrecato alla città i benefici sperati ed anzi avevano acuito la separazione fra le sue classi sociali. Si caratterizzò per la presenza di un personaggio sorprendente, Antonio Angelo Solinas, giovane proprietario terriero con alle spalle un ricovero in manicomio, che interpretò il ruolo di tribuno della plebe, arringando la folla che lo stava ad ascoltare condividendo le pesanti e colorite critiche agli amministratori ed al regio delegato. Si concluse con una strage che portò ad un processo severo (ma non durissimo), al termine del quale, con i bosani, furono condannati anche alcuni dei carabinieri.
E’ una pagina interessante ma anche dolorosa e tragica della storia di Bosa, di cui la città dovrebbe pienamente riappropriarsi dopo averla a lungo dimenticata, forse rimossa. Ma è una vicenda che appartiene anche alla Sardegna, che dovrebbe conservare il ricordo di questi morti, che si aggiungono ai già tanti sardi caduti mentre chiedevano per sé ed i figli lavoro e benessere e ricevevano solo sfruttamento e povertà.
Un grazie sentito per avermi concesso di "rovistare" fra le loro carte all’Arma dei carabinieri, alla cooperativa "La Memoria Storica", alla Società Operaia di mutuo Soccorso di Bosa, all’Archivio di Stato di Oristano (ed a Laura Fieni che mi ha aiutato nella ricerca fra i mille raccoglitori). Un ringraziamento particolare per la loro preziosa collaborazione al prof. Attilio Mastino ed al prof. Manlio Brigaglia.

ANTONIO NAITANA

Ritorna a capo pagina

Home Bosa.net