I Documenti del dialogo (ebraici ed ebraico-cristiani)



Dabru emet
(Direte la verità)
:: Un commento
:: Risposta ecumenica

10-11.3.2003, Parigi
2° Incontro Europeo - Collegamento  Cattolico Ebraico
. Notizie preliminari
. Dr. Richard Prasquier

13-27.2.2003, (Roma) Grottaferrata - dialogo sui temi della vita oggi

11.2002, Gerusalemme
Dichiarazione sugli Studi Giudaici

11.2002, U.S.A.
Ebrei e Cristiani: quale salvezza?

28.10.02 - 37° Anniv.
Nostra Aetate 
Discorso Card. Kasper

1° Incontro Europeo Collegamento  Cattolico Ebraico
. Lettera del Papa 
. Dichiarazione comune
. Comunicato Chiesa di Francia 31.1.2002

Dichiarazione dei Rabbini americani

Lettera del Rav. Joseph Levi   2002

Comitato Internazionale di Collegamento JC
. 17a Riunione - 2001
. Comunicato Kasper
. Dichiarazione: Libertà religiosa e Luoghi Santi
. Dichiarazione: Corsi nei seminari J e C

Discorso di Giovanni Paolo II in Ucraina 2001

Per sviluppare il dialogo
Spunti di rinnovo
Abécassis, 12/2001
Condizioni
Abécassis, 3/2000

Intervento del Rav Giuseppe Laras   2000


Non più accettare...
Giovanni Paolo II 1997

Documento di Praga 1990

Il Papa al Tempio Maggiore di Roma
1986 e 10 anni dopo...

Intervista al Rav Toaff
1996

Un dialogo emblematico
Intervista a Rav Sheer
1999

Paolo VI al Comitato Internazionale di Collegamento      1975

















 

COMMISSIONE 
PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L'EBRAISMO


NEL SOLCO DEL CONCILIO

Questo importante discorso è stato pronunciato il 28 ottobre 2002 dal Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei Cristiani in occasione del 37° anniversario della "Nostra Aetate", dichiarazione di condanna dell'antisemitismo.

Solo poche generazioni fa questo incontro sarebbe stato semplicemente impensabile: ed è per questo che dobbiamo essere riconoscenti. Non possiamo nasconderci che poche generazioni fa montagne di pregiudizio e secoli di ingiustizia creavano una separazione fatale fra cristiani ed ebrei.

L'esito e il punto di svolta di questa tensione, dolorosa per gli ebrei e umiliante per i cattolici, è stato il Concilio Vaticano II, di cui abbiamo ricordato il quarantesimo anniversario. 

In quella "nuova pentecoste" i cattolici, alla presenza e nella compagnia con gli altri cristiani e in certo modo con tutta l'umanità, hanno sperimentato come la fede possa consegnare a Dio il passato perché lo giudichi e perché col perdono Egli possa aprire innanzi ad ognuno vie di pace. Ed è per questo atto globale di fede (non per opportunismo) che i cattolici hanno scoperto che potevano guardare indietro al complesso fenomeno dell'antisemitismo e deplorarlo - termine tecnico che il linguaggio ecclesiastico riserva a ciò che l'antisemitismo è: un peccato.

Nel Concilio Vaticano II una generazione di credenti, con "tranquilla audacia", come diceva Giovanni XXIII, ha preso sul serio l'esperienza che s'era consumata durante la seconda guerra mondiale: esperienza dell'orrore della Shoa' ed esperienza di una fragilità silenziosa davanti all'immensità di quella tragedia. Quella generazione conciliare si rese conto che il cambiamento di atteggiamento nei confronti di Israele e del giudaismo non apparteneva all'ambito della cortesia, ma stava al cuore della ricomprensione della Chiesa come communio. Giovanni XXIII, il Padre e poi Cardinale Agostino Bea, il Monsignore e poi Cardinale Johannes Willebrands furono capaci di spiegare che nelle relazioni col giudaismo e con Israele era in gioco niente di meno che l'anima della Chiesa cattolica, la sua capacità di riconoscere teologicamente come fedeltà e infedeltà avevano potuto convivere l'una accanto all'altra.

Il punto non era imbarcare l'autorità della Chiesa in un processo giudiziario postumo sul passato della Chiesa cattolica: questo è un compito per il quale bastava e basta l'onestà della ricerca storica.

Il punto non era trovare una persona o pochi leaders "colpevoli" di alcuni dei tanti tragici errori che resero possibile l'incubo della Shoà.

Il punto era comprendere quanto profondamente bisognava scendere per sradicare la cultura del disprezzo e quanto necessaria era questa purificazione della memoria che era anche purificazione del futuro perché la Chiesa possa essere se stessa.

Giacché si può vivere lontano dai propri fratelli, ma non per sempre. Si può sbagliare e rimanere silenti in una situazione tragica: ma non si può rimanere in silenzio per sempre.

E il Concilio operò questo necessario cambiamento: disse una parola, senza perdersi a condannare o ad assolvere, ma concentrandosi sul nuovo cammino da compiere. Questo è stato un cambiamento doloroso. Nei cinque volumi della Storia del Concilio Vaticano II recentemente editi ci si può rendere conto di quante resistenze, teologiche e politiche, europee, arabe ed israeliane, vi furono per un atto - quella che poi sarebbe diventata la dichiarazione Nostra Aetate - dopo il quale tutta la Chiesa ha intrapreso un cammino di conversione di cui sembrava mancasse solo l'inizio. Il Concilio proprio grazie alla sua capacità intrinseca di far dialogare tesi diverse, mostrò il deficit teologico che l'antisemitismo aveva causato alla Chiesa cattolica: un deficit talmente grave da far apparire poca cosa il grande coraggio di coloro che misero a repentaglio la propria vita per salvare le vittime del tentato genocidio perpetrato dai nazisti, dai fascisti e dai loro collaboratori. Passo dopo passo la Chiesa del Vaticano II arrivò alla "deplorazione" conciliare del l'antisemitismo e al riconoscimento solenne della validità perpetua della promessa di Dio: da questo punto di vista Nostra Aetate, approvata la mattina del 28 ottobre 1965, resta un reale punto di svolta.

Punto di svolta che non significa qualcosa di compiuto una volta per sempre. Come nessuno può negare che il 1965 fu un reale cambiamento, e nessuno può ritenere che quanto fu fatto nel 1965 esoneri le generazioni successive dal far proprio quel passaggio, come se Nostra Aetate e il Vaticano II fossero una sequenza di formule morte. Su questo punto, l'esempio di Sua Santità Giovanni Paolo II è illuminante: egli è un modello vivente di cosa sia la "ricezione" del Vaticano II. Recandosi da fratello nella sinagoga della sua diocesi, impegnando le Chiese e le religioni a pronunciarsi per la santa pace, recandosi pellegrino a Gerusalemme, egli ha reso visibile come la qualità del discorso conciliare sia espressa dal suo svilupparsi ed accrescersi, secondo una fedeltà viva.

È infatti evidente che da un punto di vista teologico Nostra Aetate ha affermato tutto quanto era strettamente necessario dire sulla materia. E dunque, dopo il 28 ottobre 1965 non c'è spazio, sotto nessun punto di vista, per l'antisemitismo nella chiesa cattolica. Anzi. La Chiesa cattolica, come una madre paziente, è capace di attendere coloro che per cultura o abitudine si sentono a disagio davanti alla riforma liturgica o ad altre riforme del Vaticano II. Ma la Chiesa cattolica non può accettare in nessuna forma e per nessuna ragione l'attardarsi nel pregiudizio e nel disprezzo verso gli ebrei e verso il giudaismo.

Su questo essa è impegnata e si impegnerà sempre più: con l'insegnamento, con la vigilanza attenta sul proprio linguaggio, ma soprattutto con l'incontro. È per questo che incoraggiamo e partecipiamo volentieri ad iniziative come questa di cui il Centro Dionysia di Villa Piccolomini ci dà l'occasione - per non presumere di noi. Certo: gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori nella fede di Abramo e noi volentieri ascoltiamo le loro preoccupazioni, le loro richieste; forse non sempre ci intenderemo su tutto; forse in qualcosa ci deluderanno o li deluderemo. Ma la fraternità è proprio questo contatto entro il quale uno ascolta il cuore dell'altro come fosse il suo cuore.

Riconoscere che l'antisemitismo è stato un peccato contro la libertà di Dio e la libertà dell'uomo comporta molte conseguenze: l'antisemitismo metteva in discussione la libertà di Dio, nella quale noi vediamo radicata ogni altra libertà che l'uomo intuisce come naturalmente sua; e voleva privare gli ebrei della loro dignità spirituale e della loro capacità di stare liberamente sulla scena pubblica. Un peccato, dunque, che mette in gioco libertà e alterità.

E su questo l'esperienza del Magistero dei Vescovi e del Papa, della Commissione che ho ora l'onore di presiedere permette di affermare che per la Chiesa cattolica il giudaismo non è una delle tante religioni con le quali aprire un dialogo rispettoso ed onesto, né il partner di rapporto di reciproca cortesia. Il giudaismo nella sua alterità può mostrare che ogni "altro" è per noi allusivo di Colui che è totalmente Altro e totalmente Prossimo ad ogni donna e uomo. È questo mistero di libertà che noi vogliamo annunciare e sperimentare nell'incontro e nel dialogo ebraico-cristiano.

Certo: in questo contesto politico le ragioni di preoccupazioni sono molte e la condizione di guerra che oggi tormenta lo Stato d'Israele e i Territori dell'Autorità nazionale palestinese non aiuta questo percorso.

Ma per parte nostra siamo consapevoli che proprio questa condizione, con le sue asimmetrie e le sue distorsioni, potrebbe far riemergere linguaggi, immagini pericolose, nelle quali dal dissenso politico sull'azione di un governo e dei suoi ministri (sempre legittimo), si scivoli inavvertitamente verso una riduzione del diritto ad esistere (e a sbagliare) di cui Israele gode, nei limiti e nei termini in cui ne gode ogni altro Stato sulla terra.

Lo dico perché non vorrei che, quando si parla di relazioni "religiose" con l'ebraismo, si avesse l'idea che la Chiesa cattolica rivendichi una competenza marginale, limitata, parziale, su un terreno che non interessa a nessuno, perché fa parte del "privato religioso". Quando noi diciamo che da Nostra Aetate in poi la stessa Chiesa cattolica vuole dedicarsi con un organo permanente alle dimensione "religiosa" del dialogo ebraico-cristiano, intendiamo indicare un tutto, rispetto al quale le questioni politiche sono spesso un mero epifenomeno.
Per noi cristiani è un modo di affermare che noi non contribuiamo al bene della società umana, alla crescita della bellezza, all'esperienza del sapere lasciando la fede in un angolo: anzi sappiamo che è vivendo fino in fondo la nostra fede come compagnia con ogni uomo e donna possiamo rendere questa terra più bella e più degna di chi l'ha creata.

E sappiamo che nella perversione di questo tesoro che portiamo in vasi di creta c'è un abisso nel quale tutto - la pace, la dignità, il bene - può essere travolto. Basta pensare a come l'accusa di "deicidio" (usata contro gli ebrei in troppa predicazione) ha creato e in qualche luogo continua a creare le condizioni di una inimicizia che bestemmia sia il giudaismo che l'evangelo che l'umanità. Rompendo con la perversione "religiosa" del deicidio abbiamo dato come cristiani un contributo a credenti e non credenti, riconoscendo che un giudizio dato per generalizzazioni è sempre una ingiuria all'uomo come creatura immagine di Dio.

Come cristiani, come cattolici sappiamo che il perdono può essere una scorciatoia astuta per sfuggire alla responsabilità e alla conversione. E sappiamo anche che può essere un gesto sincero e profondo (lo dicevamo in un appello che abbiamo sottoscritto con molti uomini e donne di fede e di cultura nel marzo scorso) che apre una via di pace, che dà, semplicemente, vita. In questo cammino siamo avviati in una ricerca che è ricerca di libertà e di pace. Come scrive Qoelet: "Dio ha messo la nozione di eternità nei nostri cuori, senza però che possiamo capire l'opera sua dal principio alla fine"; oggi, trentasette anni dopo Nostra Aetate noi possiamo affermare che di quell'opera non abbiamo visto l'inizio e forse non vedremo la fine.

Ma non dimenticheremo di benedire l'Altissimo per averci benedetto con la possibilità di vivere oggi una realtà di pace e di fraternità.

28 Ottobre 2002

Cardinale Walter Kasper,
Presidente


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