rotolo.jpg (4733 byte) Le Scritture
e l’epoca di Gesù - 6.2

Luca 4: Il senso teologico della storia lucana

L’evangelista Luca, pur essendo uno storico, non desidera raccontare semplicemente dei fatti passati, ma vuole rivelarne ai lettori o uditori il senso più recondito che li connette tutti tra di loro. Il protagonista della sua storia, nel vangelo, è Gesù, che egli ci presenta come un personaggio inserito intimamente nel suo tempo e nelle vicende del suo popolo: il popolo ebraico. Lo si è visto la volta scorsa quando abbiamo commentato il capitolo 3. Tuttavia, Luca non si occupa di tanti dettagli che uno storiografo moderno riterrebbe necessari o opportuni per una biografia e che soddisferebbero la nostra pur devota curiosità. Mentre nei primi due capitoli l’evangelista ci racconta la nascita di due personaggi, il cui ruolo storico è unico e vitale, Giovanni Battista e Gesù - legati l’uno all’altro come il Nuovo Testamento lo è all’Antico - nel terzo capitolo egli prima presenta e poi stacca il ministero di Giovanni, finito nella prigione (Lc 3,19-20), per dare inizio al ministero di Gesù.

Non è l’incomprensione né la rivalità che dividono Giovanni da Gesù, ma il coronamento eroico di un servizio di testimonianza portato a termine dall’antico popolo e lasciato in eredità a “colui che è più potente di me e di cui non sono degno di sciogliere i calzari” (3,18), a colui cioè che entra nella storia per creare un popolo nuovo, “battezzato nello Spirito Santo e nel fuoco” (ancora al v. 16), nel quale si prolunga lo stesso popolo antico.

Come si può constatare, Luca vuole affermare solo poche cose essenziali; è per questo che, dichiarata la pertinenza di Gesù sia con l’umanità che con la divinità, sulla base della genealogia (3,23-38), egli passa al racconto della sua missione, tacendo sull’arco intermedio della vita, che si deve supporre normale e privo di sottolineature utili ai fini teologici che l’autore si pone.

 

Gli inizi drammatici

Il testo che consideriamo, Luca 4, è ben conosciuto. Il lettore ne conosce anche l’interpretazione dettagliata che sicuramente più volte gli è stata fatta. È per questo che noi non ci dilungheremo sul commento dei dettagli, bensì sul senso del testo nel quadro di quell’interesse primario che ci siamo prefissi fin dall’inizio: il rapporto tra l’evento cristiano e il popolo ebraico con le sue Scritture e la sua cultura.

Il capitolo si apre con un episodio non storico, ma emblematico: le tentazioni di Gesù nel deserto (vv. 1-13). L’episodio ha la funzione di spiegarci la preparazione con cui Gesù ha voluto iniziarsi alla sua missione. L’ambientazione e le modalità sono quelle di un ebreo fortemente religioso del suo tempo.

L’uomo Gesù, membro del popolo dell’alleanza sinaitica, si predispone ad essere vittorioso in tutte le tentazioni alle quali un uomo può soggiacere. Esse sono esemplificate nel numero di tre e nell’immagine rispettivamente dell’avidità materialistica (il “pane”), dell’avidità politica (il dominio sui regni del mondo) e dell’avidità spirituale (la richiesta gratuita di un miracolo).

Tutte e tre le tentazioni hanno in comune non l’oggetto in se stesso (non è male volere il pane, quando si ha fame), bensì l’autoreferenza e quindi l’idolatria, peccato capitale per il monoteismo ebraico. Il diavolo fa leva la prima volta sulla figliolanza divina di Gesù (v. 3), la seconda volta sull’onnipotenza umana staccata da Dio e a favore quindi dell’idolo diabolico (vv. 6-7), la terza ed ultima ancora sulla figliolanza divina che tutto dovrebbe presumere e pretendere (v. 9).

All’insieme delle tentazioni che l’uomo Gesù sperimenta come un’unica grande tentazione d’idolatria, egli risponde vittoriosamente con un’unica grande confessione di fede monoteistica, articolata in tre citazioni prese tutte e tre dal Deuteronomio, il libro della Legge.

Alla prima tentazione, Gesù risponde: “«L’uomo non vive di solo pane» (Dt 8,3)”, alla seconda: “«Tu adorerai il Signore tuo Dio e a lui solo renderai culto» (Dt 6,13)”, alla terza tentazione infine: “«Tu non tenterai il Signore tuo Dio» (Dt 6,16)”. In altri termini, Gesù supera tutte le sue tentazioni, in obbedienza alla Legge divina, da pio israelita. Proprio per questo, la sua vittoria diventa anche la vittoria del popolo ebraico contro le antiche tentazioni dell’Esodo, mentre esso vagava nel deserto.

Gesù è ormai pronto per la sua missione evangelizzatrice, che consiste nell’annuncio -dapprima nelle sinagoghe della Galilea - dell’evento culminante di salvezza, creato dalla sua persona. È quanto riferisce Luca lungo tutto il resto del capitolo: “Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi” (vv. 14-15), “Poi discese a Cafarnao, una città della Galilea, e il sabato ammaestrava la gente. Rimanevano colpiti dal suo insegnamento, perché parlava con autorità” (vv. 31-32).

L’insegnamento e la predicazione di Gesù, a cui si accompagnavano anche guarigioni (vv. 33-36.38-41), non erano però accettati pacificamente, come dimostra l’incontro drammatico che Gesù fa con i suoi compaesani di Nazaret, nella loro sinagoga (vv. 16-30).

Il racconto di Luca è molto dettagliato. Egli descrive una normale funzione liturgica di sabato, a cui partecipa Gesù; com’era d’uso, dopo la lettura della Scrittura, in quel caso Is 61,1-2: “Lo Spirito del Signore è su di me, perché mi ha consacrato con l’unzione. Egli mi ha inviato a portare la buona novella ai poveri, ad annunciare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rendere la libertà agli oppressi e a proclamare un anno di grazia del Signore”, fatta dallo stesso Gesù, l’assemblea si aspettava un commento; Gesù, indicando la sua persona, dichiara che la profezia si era realizzata.

Ne è venuto fuori un parapiglia che ha messo a repentaglio la stessa vita di Gesù. Anche il significato di questo episodio, riferito come esempio, è emblematico.

L’ebreo Gesù si è presentato ai suoi, usando la stessa lingua, leggendo le stesse sacre Scritture, parlando delle stesse aspettative, che solo essi potevano comprendere. Paradossalmente, come dice Gesù, non vi è profeta accetto nella sua patria (v. 24); è difficile vedere la realizzazione di attese grandiose in persone con le quali si convive fianco a fianco. Ma questo sta solo ad indicare che la presenza e la parola di Gesù hanno suscitato dibattito tra i suoi contemporanei, così com’era avvenuto nel passato con i profeti: vi era chi li ascoltava e chi invece li rifiutava e tuttavia la loro parola è stata conservata come sacra.

Gesù si è offerto alla fede dei suoi contemporanei: vi è stato chi non se l’è sentita di vedere in lui il redentore atteso, ma vi è stato anche chi gli ha creduto e costui all’inizio non poteva che essere del suo popolo, che parlava lo stesso linguaggio e usava le stesse immagini. In che cosa consisteva allora la novità portata da Gesù?

L’elemento nuovo era duplice. Da un lato, Gesù spostava su di sé l’attenzione messianica dei contemporanei, dall’altro confermava più che mai la validità del principio che per far parte della sua comunità era necessaria la fede e non la nazionalità: il vangelo acquisiva così una portata universale, aperta a tutti i discendenti di Adamo (cf. 3, 23-38)

(indice) (continuerà)


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