Ciao rospo.

Crudeltà inaspettata. Decidere è in ogni caso un dilemma, figuriamoci quando c'è di mezzo la possibilità di privare senza ritorno e in un sol colpo un essere di tutti i sensi di cui dispone. Che fare? Precipitare quel bastardo nel probabile baratro oppure tentare la solita mediazione tra l'istinto e la razionalità? Certo, pensarsi troppo addosso in questi casi non paga, ma ad ogni partenza il manuale d'uso del proprio cervello trova puntualmente una conferma riguardo alle regole basiche del vivere. Di queste, non uccidere è senza meno quella che più ci impegna al rispetto. Siano nostri simili o no i destinatari del peccaminoso intento, infatti, un certo qual pudore ci assale nel considerarci nostra volta oggetti di recidenti attenzioni da parte di volontà o fatti sia pur solo potenzialmente omicidi. Il fatto è che, per quanto si possa ragionarci su, per quanto si voglia far ricorso a tutto il proprio carico di sedimentata cultura media-catto-familiarborghese, l'estremo anelito alla sopravvivenza, alla nostra sopravvivenza, offusca qualsiasi altra valutazione la dove venga messo in discussione quello che di noi è l'esistere o comunque l'integrità fisica. Il mio inaspettato nemico non sembra proprio voglia sentir ragioni, nonostante mi sforzi di fissarlo con due occhietti da pesce lesso che altro non possono se non comunicargli assoluta mitezza. E dire che ieri, ritirandomi in tenda, avevo con cura circondato il mio precario alloggio mimetico con del sano cordino in nylon opportunamente fissato a quattro solidi legni che del padre abete conservavano ancora pregni l'odore. Il manuale delle giovani marmotte, che praticai da ragazzino, non deve però essermi stato di grande aiuto se adesso sono finito dritto in questa scomoda posizione con quest'essere che mi fissa minaccioso.

Pur avendo, con attenzione maniacale, liberato il piano del giaciglio da ogni sorta di protuberanza che potesse contribuire a rovinarmi il sonno, ho ugualmente passato gran parte della notte "insalamato" nel mio sacco a pelo ad incubare sogni terribili. Mangiato pesante? Macché! La giornata che mi sono lasciato alle spalle non è stata niente affatto esaltante, neppure per gli eccessi di gola. Addirittura sotto il profilo per così dire "culinario" m'è toccato pure di subire un momento d'imbecillità maxima, protagonista il figlio scemo di una famiglia di campeggiatori del B.O.R.I.S. Il Benemerito Organismo Ricovero Impiegati Scuola è qualcosa di simile ad un ente assistenziale per segretarie e bidelli in pensione, che probabilmente ogni estate premia una bisognosa famigliola offrendogli un bel viaggio nature con tanto di camper furgonato panna, tendine in acrilico, frigo essenziale e cesso ecologico. Ebbene, una giornataccia. Non ricordo che ore fossero, ricordo però che avevo una gran fame e, rinfrancato dalla brevità del tempo occorrente a queste latitudini per far bollire la pasta, m'ero ben affaccendato a racimolare qualche ceppo per metter su un focherello sufficiente all'uopo. Il sottobosco al mattino è un vero paradiso, il suo ambiente fresco e umbratile m'aveva rapito, e dopo aver messo l'acqua sul fuoco v'ero tornato. Me ne stetti un po' lì, tra gli alberi, sprofondato nello spesso manto di fogliame che ammorbidisce il passo. Osservavo tra i tronchi il pianoro verde e lievemente concavo ai cui margini trovano posto un paio di camper, oltre la mia misera e mefitica canadese. Per un orso come me avere dei vicini è già un bello sforzo, ma avere "quei" vicini m'appare inaccettabile a dir poco. Non che abbia nulla contro la gente del B.O.R.I.S., ma questi tipi sì che sono un po' strani o comunque io li vedo così. Non appena preso possesso dello spazio verde, hanno iniziato naso all'aria a rincorrere un frisbee, ogni tanto lanciano qualche urla come di giubilo per accompagnare l'ennesima prodezza compiuta, il loro cane, una specie di volpino, non la finisce più di abbaiare e, ciliegia delle ciliegie, un effluvio sonoro di discutibile gusto fuoriesce dal camper invadendo come un blob tutto il mondo intorno: lo "squarciagolio" metallico del gruppo dei Ferrocemento non mi pare molto in linea con la soavità dell'altopiano di cui il nostro spazio vitale è solo un misero punticino. La cosa che per me è insopportabile è che sembra non facciano altro per tutto il giorno. Anche ieri, infatti, mentre me ne stavo tra gli alberi, li vedevo, come il loop di un film di qualche autore underground anni '60-70. La scena era sempre questa: papà tutta tuta, pancia e riporto, lancio con torsione diagonale del polso, mossetta di riequilibrio con piede destro proteso all'indietro stile ballerina da carillon, subito cane, che zompa a vuoto con le zanne rivolte al roteante ufo domestico, per finire figlio, ebete e dodicenne, che una volta su tre riesce anche ad intercettare il disco col cranio; sullo sfondo, un camper dal nome di un cane che ci rimise la pelle in orbita, in cui una donna grasso e bigodini continua ad affaccendarsi intonando a gran voce temi pubblicitari dei più variopinti, come se mai si fosse allontanata dal suo usuale ring domestico. "Sì", pensavo, tentando un'autocritica mentre continuavo a guardare quel patetico quadretto tra gli alberi, "forse dovrei essere un po' più tollerante". "In effetti", riflettevo, guardando di sbieco un fungo che mi pareva spuntato proprio allora, "più che a un giovane campeggiatore solitario somiglio ad un evaso, più che andare verso sembro fuggire da". Proprio mentre mi crucciavo meditando intorno a tali ecumenici propositi, l'odiosa scenetta, strano a dirsi, s'era interrotta. "Finalmente", mi sussurrai in testa, "avranno capito che in un posto come questo c'è ben altro da fare che lanciarsi addosso plastica colorata", conclusi riavviandomi verso la tenda intenzionato a buttar giù gli spaghetti. Quello che avrei trovato al mio arrivo alla tenda fu qualcosa tra il grottesco e il surreale. Sul mio piccolo spiazzo privato, su quello che ogni campeggiatore trasforma nella propria veranda, l'archetipo del giardino, il luogo delle meditazioni, dei pranzi, delle cene, delle cicche in barba alla salute, la dove avevo organizzato il punto cottura  con tanto di sassi in circolo e trespolo con gancio per pentola, vidi inginocchiata una figura vagamente umana armeggiare proprio col pentolino in cui l'acqua avrebbe dovuto bollire. "Hei!" feci istintivamente, diretto all'intruso, "che diamin…", non ebbi tempo per terminar la frase che la persona rannicchiata sul mio trespolo alzò la testa. Un volto rotondo di pestifero monello si offrì in tutto il suo paffuto splendore al mio sguardo; lentigginoso e rosso il ragazzotto dei vicini mi fissava. I capelli, ruggine, erano raggrumati e ricoperti di schiuma che li rendeva simili a mucillagine, vene di liquido biancastro e viscoso gli solcavano il volto seguendo la via delle lagrime. "Sapone!!", esclamai, ed il tonfo della boccetta di shampoo antiforfora che tradusse in constatazione il mio stupore, mi confermò appieno l'intuizione: non c'era alcun dubbio, il disgraziato stava beatamente utilizzando la mia acqua calda per lavarsi i capelli. "Antiforfora!…altro che…A n t i f o s f o r o!, ecco cosa ti danno a colazione…ma cos'hai in testa, zanzare?" gli vomitai in faccia. Non dovette aver bene inteso il mio spirito a giudicare da come corse via starnazzante schizzando schiuma a goccioni come un terranova appena dopo un salvataggio in adriatico. A quel punto era chiaro che quel pranzo non s'avea da fa. M'ero poi arrangiato con la solita scatoletta di carne tedesca, quelle che non sai mai se sono per te o per il tuo cane. L'effetto sul mio organismo non descriverò per pudore, ma penso che nella zona di fratte in cui m'addentrai poco dopo aver digerito il teutonico bolo potrebbe essere difficile campeggiare per i prossimi mesi. Questo è quanto, il resto della giornata è filato via così insipido che seriamente ho pensato di piantare in asso l'altopiano e tornarmene a casina nel deserto agostano della mia città. Ma adesso, appena sveglio dopo una notte di incubi, ho ben altro a cui pensare, quest'enorme "mostro" se ne sta rannicchiato nella semioscurità del fondo della tenda e mi guarda, come si guarda la preda prima della caccia. Al risveglio la vista arranca, fatica a riappropriarsi del mondo fisico e tutto appare come un po' distorto ed offuscato da una stasi di cui con difficoltà le cose si liberano. Anche il "mostro" è coinvolto in questo delirio visivo post sonno e la sua forma m'appare cangiante, i suoi occhi a palla assumono di continuo un nuovo assetto; ora grandi, ora più piccoli, ora tondi, ora ovali. Tutto il suo corpo sembra sfuggire a qualsiasi ordine formale, è plasma continuamente smosso, è verdognola vena come riflesso d'idrocarburi, è fango ribollente di solfatara. Il colore, verdastro e striato da innesti più chiari, è come liquefatto. Mai vista una simile mostruosità, sono terrorizzato e il sacco a pelo che mi conclude acuisce il senso di soffocamento e d'impotenza che m'assalgono. Devo fare qualcosa, prima che questa specie di ammasso di lattice rovini la mia giornata con qualche morso, puntura, artigliata o chissà quale altra venefica offesa. Sì! L'ascia, ho trovato! L'ascia deve essere nei dintorni. Tiro fuori lentamente, come un artificiere all'opera, il braccio destro dal sacco a pelo. Tasto il terreno, con cautela, l'ascia è molto affilata. Esercizio di paura, non muovere neppure un muscolo. Gli occhi fissi sull'animale, la strabiliante bestia. Continua a cambiare forma, a confondere le sue linee; adesso sembra un enorme profiterol. Eccola! L'ascia. Il manico di legno sagomato e liscio calza a pennello il mio pugno chiuso. Lo faccio...non lo faccio, lo facc…e se poi lo manco e quello, giustamente, si difende? Sono sempre stato una frana a lanciar qualsiasi cosa, al boowling una volta ho fatto strike solo che si trattava dei birilli della pista adiacente alla mia, ma ora non posso proprio rischiare di fare cilecca. La spira antizanzara continua a sciogliersi in cenere seguendo le curve della sua forma in un perverso circuito a lenta combustione dove il fuoco finisce per incenerir se stesso. Da qualche soda e grigia area del cervello l'imput parte, fulmineo raggiunge i centri nervosi, il polso ruota e con esso l'avambraccio piegandosi a molla sulla spalla grazie al complesso sistema dei tendini e dei muscoli che governano l'arto, un istante senza pensiero e zak il congegno da lancio umano e perfetto scaglia l'affilato strumento dritto verso l'ammasso informe e sornione. L'ho fatto, serro le palpebre in attesa che l'atto mostricida si compia, o la va o la spacca. E l'ho spaccata. L'ho spaccata proprio la bella damigiana verdone che m'aveva regalato il nonno e che usavo per la scorta di acqua potabile. L'avevo messa in tenda giusto ieri sera, temendo che il monello dei vicini potesse compiere qualche altra scorribanda dalle mie parti. Beh! Che me ne fossi dimenticato non v'è nulla di strano, ma certo non avrei mai potuto prevedere che quel rospo appena uscito dal letargo vi si piazzasse proprio dietro a fissarmi in un gioco di distorsioni acquatiche degno della casa degli specchi di un luna park estivo. Proprio così, un rospo, un dannatissimo, bitorzoluto, viscido e rugoso rospo. L'animale, venuto su dalla sua letargale tana, s'è trovato incluso nel mio mondo notturno. "Dov'è finito l'altopiano...e chi è sto pirla qua che dorme in un sacco" deve aver pensato l'anfibio osservandomi da dietro il bottiglione. Il frantumante impatto che ha sconvolto la statica del vitreo contenitore, regalandone i mille pezzi alla gravità del mondo, e consacrando il primo inutile centro nella mia personalissima storia dei lanci a bersaglio, non l'ha scomposto affatto. Il rospo, ben contento dell'inaspettata doccia, si fa avanti col suo fare elastico tendendo in alternanza le zampette come per stirarsi dopo una sonora ronfata, mi passa a qualche centimetro dal naso senza neppure guardarmi e trascina la sua altezzosa pinguedine fuori dalla tenda infilandosi sotto la zip come attratto dalla lama di giorno fatto che di lì penetra. Ciao rospo.

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