LA COLLINA DEI PASTORI
Il gregge maculava tutta la collina
chiazzandone a tratti cangianti quel profondissimo verde che la primavera assicura alle
zone montane e temperate. Di lontano il movimento dei bianchi ovini era quasi
impercettibile, come il mutar dei cirri lento a melassa di quando il cielo scorre piano su
teste e sassi. La strada rotabile, di recente asfalto, assecondava con riverente rispetto
le forme di quella terra che, da un era per nulla umana, era emersa sin dal buio di un
oceano liquido e diverso per scoprire con mastodontico stupore gli strati più rarefatti
dell'aria che ci contiene. Non un suono, non un rumore che fossero altro rispetto al
brusio cicalato degli insetti padroni ed invisibili. Per fossi e crinali solo
l'ineluttabile modificarsi del sempre uguale dava all'occhio l'illusione di un fremito, di
una vibrazione perenne fatta di colori e massa, di ritmi vegetali e geometriche
dissodature. "Quanta pietra trasuda la montagna, lavorandone anche soltanto un ettaro
non basterebbero mille anni per aver terra uniforme e compatta", fece lui a lei
seduta al suo fianco. L'immenso macigno di calcare, la grande madre Majella, è tanto
ferma quanto in perenne metamorfosi. Solo la mano e la fronte degli uomini che la vivono
possono testimoniare e comprendere quest'intensa attività di sfaldamento, di espulsione.
La tensione all'alto del massiccio continua inarrestata attraverso la nascita di nuovo,
diverso, candido e malleabile sasso. "Calcare....", fece ancora lui senza
staccare lo sguardo da quell'immensità che gli magnetizzava le pupille catturandolo,
"....ci sono uomini che lavorano la pietra calcarea per farne facce o per dare forma
al proprio inconscio" continuò dopo una pausa di esaltata lucidità.
"Altri invece ne hanno fatto
capanne" concluse lei fino ad allora zitta a segnar col carboncino il suo ruvido A4.
I tratti sul foglio, grezzi e veloci, avevano solo in parte trasferito su carta i
caratteri di quell'aspro paesaggio ammorbidito dal roseo torpore del sol calante. Ogni
tanto arrestava il polso fermandosi a guardare dritta a sé; il gregge aveva cambiato
forma, ma il colle col suo carico di storia vivente era sempre lì, fisso e muto. Sulla
sua sommità ciò per cui i due avevano scelto di accamparsi in zona: un grigio e mimetico
complesso agro pastorale in pietra a secco, dislocato su per un dislivello di una decina
di metri, occupa tanto pesante quanto prodigiosamente non visto una vasta zona della
brulla e rocciosa cima. Quali mani l'abbiano eretto e quanto sudore esso costò è
privilegio di pochi saperlo, ma il fascino di quel colle detto civita proprio per via
della cittadella pastorale che gli è sorta in groppa, va ben al di la della sua funzione.
L'aspetto primitivo della civita e quell'attitudine camaleontica alla mimesi che la fonde
mirabilmente al tutto intorno, l'astraggono dalla categoria dei manufatti per collocarla
senza meno in quella delle opere. Il punto di osservazione assicurava ai due un'ampia fuga
e tutte le linee immaginarie che dall'orizzonte cartaceo avevano fornito la base per il
primo tracciarsi delle forme, non avevano ormai più nulla di retto. "Bello"
fece lui inclinando il capo a mirar di sbieco il blocco da schizzi, "Bello? Non
direi.....forse gradevole, ma è un'altra cosa" secca lei, quasi stizzita per il
complimento vissuto come gratuito e superficiale. "Non v'è senso che possa essere
assolutamente tradotto nel codice dei segni, il senso del bello di questo luogo che ora
benevolmente ci ospita è, haimé, inafferrabile chimera, waltzer di rimpiazzi e di
grottesche sostituzioni. Disegnare è fare in ogni caso un compromesso con la realtà, e
da questo compromesso chi esce sempre insoddisfatto non è certo la realtà".
"Qualcosa non va Ludovica?"
lui, toccato e trafitto dall'ardore animale che gli aveva accompagnato quelle parole
dritte fin dentro allo stomaco. "Abbiamo, tutto per noi, un mondo fisico che ci
spiega le relazioni tra l'io e l'essere, e tradurne i segni è privilegio primo del
pensiero, ma ogni passaggio, ogni trasposizione, ogni icona ci allontana da quella stessa
vivida aura che dovremmo comprendere, o forse soltanto apprendere. E'questo che non
va." Rispose, senza farlo, lei.
La silente magniloquenza del luogo aveva condotto i due per sentieri differenti
distanziandone sempre di più le rispettive sensibilità. Entrambi percorrevano questi
solchi nell'anima condotti dall'inanità di un divenire troppo umano per essere vero;
ognuno coll'occhio fisso al ripido colle, alle capanne litiche, al gregge pulsante come
spugna viva, ed ognuno col suo personalissimo carico di stupefatta sottomissione al dio
dei tempi. Una brezza li colpì ridestandogli intonso quel senso corporeo dell'essere
materia che fa di ogni uomo un albero animale,"Ho fame, ci facciamo un panino eh,
Vica?", "Sì grazie Castore, al formaggio".autore:
vittorio jovine