OCRA/ARCHIVIO
Studies on the European Avant-Gardes




J'AI VOULU FAIRE DU NOUVEAU ET J'AI FAIT COMME LES AUTRES
di Sandro Ricaldone


DELIMITARE L'AREA CONCETTUALE

- come una linea che attraversa l'esperienza artistica contemporanea (a partire dallo scolabottiglie di Duchamp e dalla Veuve Joyeuse di Picabia, a zig zag fra Magritte, Klein, Manzoni, Fluxus) dilatandosi negli anni 65/75, sino a divenire sovrapponibile - almeno in parte - a tutti gli aspetti della ricerca, ivi compresi quelli che più direttamente si connettono ad elementi fisici e comportamentali (Land Art, Body Art, Performance),

o - altrimenti - se questa ipotesi appare inficiata (meglio dire sembra prestarsi ad una interpretazione inficiata) da un insostenibile schematismo evoluzionistico (lontano, comunque, dalle intenzioni di chi scrive)

- come una formula riepilogativa delle operazioni autonomanente condotte, nel decennio 65/75 (indicazione priva di valore normativo), con intenti diversi ma attraverso l'impiego di una strumentazione concettuale (di tipo retorico-ironico, ad es., in Ben, intuizionistico in Paolini, logico-proposizionale in Kosuth, e - infine - di carattere semiotico in Bernar Venet) da un numero crescente di artisti;

ovvero, ancora, se la discriminante proposta viene ritenuta debole (generica), e, quindi, non pertinente

- come l'insieme delle opere prodotte (in un determinato periodo) da artisti e gruppi di artisti autodefinitisi "concettuali". In quest'ambito si dovrà tuttavia ammettere l'esistenza di una radicale contrapposizione fra un polo "progettuale", che concettualizza, in sostanza, il tentativo di riduzione monosemica operato, sia pure con altri obiettivi, dal minimalismo (Sol LeWitt) ed un polo "concettuale puro" che struttura la propria poetica attorno ad alcuni postulati di derivazione neopositivistica.

L'ARTE CONCETTUALE, in ogni caso (comunque la si voglia configurare - ed è importante ribadire la distanza che corre, nella sua sfera, fra le diverse tendenze) ATTESTA ulteriormente L'IRRIDUCIBILITA' - già lucidamente rilevata in Italia nel corso del dibattito sulla "morte dell'arte" dei primi anni '60 - DEL FATTO ARTISTICO ALL'AMBITO DELL'ESTETICITA' implica perciò l'assunzione dell'arte come "tutto ciò che gli uomini chiamano arte" (Formaggio), vale a dire come attività (non necessariamente materiale) che fonda la propria autonomia sull'intenzionalità dell'individuo, correlata al sistema (storicamente dato) dell'arte.

L'accentuazione dei caratteri progettuali e noetici dell' arte, che pure ha consentito di spiazzare la concezione tradizionale dell'"opera", conducendo una parte significativa della sperimentazione agli esiti della cosiddetta s/materializzazione dell'arte, ha fornito - nel contempo - le basi ad ipotesi interpretative che risultano, insieme, avvincenti ed inesatte :

DIRE CHE L'ARTE CONCETTUALE SI COLLOCA, in realtà, AL UN LIVELLO METAARTISTICO significa, in certo modo, cogliere una delle impasses cui la tendenza "concettuale pura" non ha saputo sottrarsi, schiacciata fra la sua aspirazione a configurarsi rigorosamente (ad annullare ogni scarto fra riflessione teorica ed agire artistico) e la persistente pratica del rituale dell'arte, che riveste anche le operazioni più asettiche di "aura" e d'ambiguità.

Non bisogna, d'altro canto, forzare l'affermazione: se non si può negare che ogni azione artistica reca in sé il proprio statuto e quindi che, a partire da essa, è possibile risalire ad una pragmatica e ad un'idea dell'arte, resta ugualmente incontestabile che il discorso epistemologico si colloca ad un livello differente (fuori dall'operatività) e che il suo fine non è l'opera (che ne costituisce, invece, il punto di partenza). Perciò, sebbene si possano rilevare nelle operazioni artistiche (e segnatamente nelle operazioni artistiche concettuali) preoccupazioni di natura epistemologica, il risultato in concreto non può spingersi (per un verso) oltre l'aspirazione paradigmatica (tipica di ogni movimento artistico e peraltro sempre parziale e smentibile), e, sotto un di verso profilo, non oltre una più o meno pronunciata "analiticità" (nel senso indicato da Menna).

PARLARE DI CRISI DELL'OPERA E' DIRE, in sostanza, DI UNA TRASFORMAZIONE (tecnica quanto ideologica): da oggetto estetico ad evento, comportamento, idea.

L'opera - tuttavia - in quanto "forma" (o per via della sopravvivenza della figura dell'"autore", secondo la congettura formulata da Mikel Dufrenne), permane facendosi precaria, effimera, situandosi talvolta al di qua del dato materiale (del residuo percettivo), mutandosi in processo; si riduce, all'estremo, a semplice asserzione, a tautologia: "questa è arte") e pure si carica, introducendosi in un nuovo contesto, o, paradossalmente, per effetto di un'assoluta determinazione semantica, di senso (di molteplici sensi) e rientra pertanto nel gioco dell'interpretazione.

Così, il PORRE IL SOGGETTO E LA SUA ATTIVITA' AL CENTRO DEL MOMENTO ARTISTICO non conduce ad un immediato rivolgimento delle modalità in cui si articola il rapporto fra artista (produttore,) e fruitore (non oltrepassa dunque I' arte); per quanto in talune manifestazioni (happenings ed altre) si sia giunti ad operare, attraverso il coinvolgimento degli spettatori, un'alterazione dei ruoli consolidati, per quanto l'impiego di una tecnologia elettronica maggiormente sofisticata faccia intravedere la possibilità "di uno sviluppo dell'interazione e d'un'esaltazione delle facoltà percettive ed immaginative" (Barilli), non per questo può ritenersi che l'arte (concettuale) rappresenti la soglia di una - nuova - società estetica, o, quanto meno, un "avvicinamento asintotico" fra problematica artistica e dinamica sociale; al contrario, l'esperienza del concettualismo si inscrive interamente nell'ambito del sistema dell'arte (riducendo per converso l'importanza del fattore estetico) e non rinunzia ad istituirsi come fatto specificamente artistico attraverso il mantenimento di una condizione di separatezza, appìgliandosi, per affermare la propria identità, all'apparenza (al professionismo, al cerimoniale, al "fantasma").

Sotto questo profilo l'insieme delle tendenze concettuali (ed in particolare la corrente logico-proposizionale) può apparentarsi a quelle, fra le avanguardie novecentesche, che hanno condotto la propria vicenda su un piano esclusivamente sovrastrutturale, in decisa contrapposizione con l'atteggiamento Fluxus, giocato sulla contiguità (e sulla interscambiabilità) di arte e vita e - su un piano diverso - con l'ipotesi situazionista di un dissolversi dell'arte nell'azione e nella comunicazione, ovvero - in una parola - in una quotidianità rigenerata.

Non è quindi interamente casuale il fatto che (alla distanza)' l'aspetto più debole delle operazioni concettuali venga riconosciuto nella eccessiva schematicità e nel reiterato impiego dei medesimi meccanismi poietici, in sé maggiormente logorabili delle forme rivestite di valenze estetiche (paradossalmente, opere come "una e tre sedie" di Joseph Kosuth, accolte all'epoca della loro realizzazione come penetranti - benchè anche allora si potesse agevolmente risalire a prefigurazioni quasi letterali, ben più vitalmente precorritrici e sottilmente ironiche - ci paiono ora mediocri) e peraltro come queste assoggettabili alla critica che, del "seul gag artistique essoufflè" è stata avanzata, sin dagli anni '60, da Asger Jorn e Guy Ernest Debord.

Nè sembra che le prospettive offerte dalla situazione attuale, pur caratterizzata da una vistosa reazione al concettualismo, siano di particolare rilievo: tanto il vitalismo "violento" della nuova figurazione tedesca, quanto il riflusso kleeiano dei migliori artisti svizzeri (Winnewisser, Eigenheer), o - ancora - l'opzione decorativa di Zakanitch e degli altri adepti della pattern painting si collocano in aree positive e tuttavia minori, nè troppo fortemente originali.

Diverso, in parte, il ragionamento che occorre sviluppare intorno al tentativo degli artisti ascrivibili alla c. d. "Transavanguardia", impegnati su direttrici più complesse ma, in sostanza, contraddittorie. Nel loro operare si scontrano, infatti, una poetica "fredda", fondata (più che su un'estetica della citazione o della "ripetizione differente") sul "remake", e l'insistito richiamarsi ad una creatività sregolata che si traduce in una accentuata valorizzazione degli aspetti più sensuali della forma. Questo sovrapporsi di elementi inconciliabili, malamente occultato da un'ideologia del nomadismo che si allinea alla vague postmoderna, risponde in realtà ad un'esigenza storica: mascherare la natura neo-avanguardistica del raggruppamento, consentendogli in tal modo di occupare, grazie appunto ad una strumentale polemica con (o sul) 1' avanguardia - termine che, notiamo per inciso, ha ormai assunto un significato assai diverso da quello che gli era proprio nei primi decenni del secolo, convertendosi, forse completamente, nella nozione di "moda", uno spazio culturale e/o commerciale di ampiezza spropositata.

Sicché, se dall'analisi della poetica del gruppo (che fa torto, probabilmente, al talento personale dì taluni componenti) volessimo trascorrere alla considerazione delle opere prodotte dai singoli - o dai loro equivalenti in campo nazionale ed internazionale - non potremmo non rilevare come i risultati raggiunti (per quanto legittimi e, non di rado, apprezzabili) permangano sovente contornati dall'alone del kitsch.

In effetti, la discriminante che corre fra le tendenze artistiche che hanno caratterizzato gli anni 60/70 e la disposizione della Transavanguardia è individuabile, piuttosto che nel diverso atteggiamento a proposito dell'avanguardia (contrasto che di fatto si riduce, come ha recentemente osservato Carlo Romano, alla sostituzione, nel ruolo di "nume tute lare", di Duchamp con questo o quel fauve, o magari con Schiele), nell'abbandono della tensione sperimentale che aveva animato movimenti di natura profondamente dissimile (si pensi, ad esempio, all'arte cinetica ed al Nouveau Réalisme) e che rappresenta uno dei tratti che definiscono la intenzionalità artistica, distinguendo ciò che è possibile chiamare arte dalla pura decorazione e dal pastiche.

Appare comunque agevole prevedere che queste tendenze mistificanti (che si vogliono giustificare con la rivendicazione - espressa, in un testo famoso, con grande finezza ma subito divulgata in forma di edonismo banale - del piacere dell'opera) manterranno il sopravvento sino a quando la parvenza d'attualità di cui si rivestono riuscirà a coprire la loro essenza "retro".

E' infatti incontrovertibile, nonostante tutto quanto è stato affermato attorno alla sopraggiunta fine del "moderno", che la Transavanguardia - così come le correnti ad essa affini - debba situarsi a pieno titolo nell'ambito di una modernità resa solo apparentemente più spregiudicata dalla presunzione dì aver penetrato la sua natura illusoria. Oggi bisogna (ha scritto, sia pure in altro contesto, Henri Lefebvre) "essere ancora più severi con la modernità ... poiché essa ha mimato, ha costruito finzioni, ripetizioni, ma ripetizioni velate ... (la modernità) è illusione, più che ideologia, un certo tipo di produzione che crea apparenze". E' necessario, forse, rimeditare il senso d'inanità che tra spare dall'epigrafe autoironica di Ben, posta in capo a que sto scritto; che vela la prospettiva tracciata per l'arte (per l'artista) nel verso ambizioso di Baudelaire : "Au fond de l'inconnu pour trouver du nouveau".