OCRA/ARCHIVIO
Studies on the European Avant-Gardes




CHRISTIAN DOTREMONT
di JOSEPH NOIRET

Nel 1940, Christian Dotremont pubblica "Ancienne Eternité". L'ultimo testo ch'egli fa stampare, "Logbookletter", appare nel 1979, poco prima della sua morte.

Fra queste due date ha vissuto con rigore un'avventura poetica che restaura, nella scrittura, la passione del gesto, della mano che sogna il suo canto.

Sin dai suoi primi libri, ove divampa il grande feu de joie surrealista (1), Dotremont spinge ai limiti una riflessione poetica e critica che regola i conti con i fantasmi politici e culturali di quel tempo in cui ancora si credeva - e lui stesso ha creduto - di poter ricostruire la società con la sola penna: semina per via qualche illusione morale, conduce senza cedimenti l'esperienza del Surréalisme-Revolutionnaire, approda a CoBrA di cui é l'inventore e, con Asger Jorn, lo spontaneo organizzatore e l'infaticabile artefice.

Ma già moltiplica le osservazioni sul linguaggio che sarà - com'egli avverte - dominante fra i suoi interessi, lancia la propria sonda in questo spessore stratificato ove sé deposi tata la memoria umana: avido di dare un senso ad un'esistenza tutta attraversata da fori ("l'uomo possiede, oggi, malauguratamente, la capacità fisica e morale di vivere benché 'traforato' o di riempire i suoi buchi con diversi tipi di "ovatte"). E' curioso sfiorare col dito il respiro sottile del divenire che la dialettica sembra insufflare nella verità delle cose.

"La pioggia venne o non venne, non so. Col favore di quest'infinita promessa, ho veduto la svolta dell'alba. Era l'incontro col divenire ed io sentivo male all'essere. Una sublime piccola virgola nella foresta". (2)

A partire da questi anni Dotremont rivolge, sulla scrittura, uno sguardo differente: afferra la natura materia le dell'atto dello scrivere, indovina il ruolo iniziatico della mano in cui il peso del corpo al lavoro si trasmette sino alla punta della penna. Ben presto sfugge alle moine spiritualistiche del pensiero "grazioso" e dei "bel" linguaggio, alla loro schiavitù ("Volgare o no, il materialismo salva").

Questa conquistata libertà risveglia la curiosità della vita quotidiana che egli legge anche nei testi di Marcel Havrenne ("Du Pain noir et des Roses") con cui condivide il gusto perverso dei giochi di parole e del calembour. Il surrealismo e la lettura della "Critica della vita quotidiana" di Henri Lefebvre (di cui discutevamo assieme e che ha segnato le nostre attività nell'ambito di CoBrA) lo aveva persuaso che la vita non è affatto quotidiana e che occorre sollevare la cappa delle abitudini inerti che l'appesantiscono, opprimendo il carattere naturalmente selvaggio della parola. Nessuno sguardo più attento del suo ai fremiti che la vita ha nelle sue pieghe, nessun pensiero meno bardato di teorie ("Ed io non vado nei musei che per togliere le musoliere"). Donde il suo humour che rileva la minima menda od il lapsus mentale, il refuso o la coincidenza che incrina; tutta la seriosità del mondo sbanda, si da a canticchiare la canzone che distorce la logica comune sino alla vertigine, tira giù sino ai piedi le mutande del razionalismo ed apre la finestra dell'immaginario. Rammento che questo humour ("Hurrah, harrumph for Captain Groucho") lo aveva definito, en passant :

"Non é raro che la faccia delle cose, degli esseri, non sia visibile che di sbieco".

Christian Dotremont, radicalmente ostile ai meccanici dell'arte ("... i falsari che, con il pretesto di dipingere il rintoccare della campana non tracciano che cerchi e linee") ed agli strateghi psicotecnici ("lavora nel tuo disordine, anziché svolgere un compito nel loro programma") s'è arrogato il potere spaventoso di dire IO: parola affascinante come ciò che designa e che non può essere che in atto, parola "che si può ripetere dieci voi te in tre righe; non così 'sfidare' o 'violino', 'gioco'...". Di conseguenza, dire IO non è alla portata di tutti gli inconsci, nei nostri tempi di stress e di strutture: occorre, per farlo, una tranquilla audacia.

Un uomo nasce due volte: la prima, dal ventre di sua madre; la seconda, altrettanto decisiva, in cui il desiderio recita una sua parte, quando ha disimparato ad attendere e si cimenta con parole "in cammino", e - precisamente - quando dice IO con la gioia senza limiti di far esplodere il proprio essere.

"Mi vedevo uomo come Gregor Samsa si vedeva insetto".

Della sua seconda nascita - nel '45 aveva annunziato "L'Homme à naitre" fra i titoli delle opere future - testimonia tutto il lavoro sul linguaggio che, d'acchito, Dotremont ha riconosciuto come il suo unico tramite d'esistenza. Non per produrre opere letterarie, ovviamente, giacché non soggiaceva alle pompe mistificatorie di alcun al di là, ma per vivere, per viversi spirito e corpo in un unico volo.

Torniamo a questo materialismo felice, così decisivo: sin dai primi testi, Christian Dotremont è incuriosito da ciò che primo si manifesta quando la frase viene scritta: il tratto oscuro, la scrittura materiale sempre obliterata, la traccia che scorre a costruirsi, nella pagina, un volto.

Dotremont sarà il nero viaggiatore degli spazi bianchi di cui il senso sorveglia l'uscita; ove la vita acquista il corpo che per vivere le mancava: "La vera poesia é quella in cui la scrittura ha da dire la sua".

Attorno al 1950, seduto alla lunga tavola di quell'atelier d'invenzione permanente che COBRA é stato, Dotremont volta un foglio d'un suo manoscritto e guarda la scrittura in trasparenza: questo semplice gesto fa inclinare definitivamente la sua poesia dalla parte della mano.

Vero inizio del mondo: il verbo era scrittura, traccia materiale, corpo in espansione (3). L'atto fisico di scrivere crea il tumulto dei significati, le cose conquistano la loro realtà manchevole.

Dotremont inizia a creare i suoi logogrammi che, a partire dai 1962, crescono come una geografia dell'immaginazione, naturali come la rottura d'un vetro o l'espandersi d'una città.

Trascinato nella pittura, austera e senza fine, del testo, o piuttosto al margine fra pittura e poesia, in cui il senso diviene visibile, Dotremont illustra la frase poetica nel balenare del gesto, nell'istante in cui si ramifica, come se nella terra le radici si moltiplicassero in rispondenza a ciascuno degli aerei significati dell'albero.

Nel frutteto newtoniano in cui abitiamo, egli getta le sue mele d'inchiostro, presta mano ad una sovversione che nasce dalle norme linguistiche del la leggibilità. Il nero dell'inchiostro gonfia le sue voci, la poesia che sonnecchia nel solco incessantemente arato dei libri senza sorprese diviene zampillio del senso sui muri.

Ha pervaso il poeta la passione di scrostare le parole dell'intonaco che le immobilizza in positure convenute, protraendo la rivendicazione di spontaneità e l'antispecialismo intransigente di cui COBRA ha fatto le proprie idee-chiave. Aprire il campo del desiderio, non esser più 1'allocco delle messinscene ideologiche:

"Scrivere le parole come si agitano".

Indifferente ai modi dominanti di pensare e di non vedere, di Christian Dotremont non sì e mai compreso sino a che punto fosse attento (è uno dei termini di cui conviene servirsi per parlarne). Attento alle persone incontrate casualmente quasi quanto agli amici, Dotremont ha scritto alcune fra le poesie d'amore più importanti del nostro tempo ed un romanzo autobiografico ("La Pierre et l'Oreiller"), lungo canto d'amore per una danese che ha preso ad abitare i suoi scritti ("Io esisto in una forma abbagliante: la tua") che é nel contempo il racconto della malattia che lo tiene a letto a Silkeborg, con Asger Jorn, la "catastrofe" che si sviluppa inesorabilmente nel suo petto:

"la mort en moi fait son oeuvre
hors de moi je fais la mienne" (4)

"partout fêtant le feu
jusqu'à tout prendre d'un regard d'une brassée
jusqu'à rien de regards infinis à tisser
toujours dans une valise bahutant de riens de mon village" (5)

Nel 1979 un ultimo viaggio lo riconduce in Irlanda, paese di scrittura ove l'essenziale della vita si legge in grandi libri istoriati. Insieme alla Lapponia ch'egli ha risalito sino ai confini d'Ivalo dove il fiume trasporta con la sabbia l'oro dei segni e dove si mangia la renna affumicata, L'Irlanda e una delle località in cui respira e tenta di decifrare i segreti inscritti nelle trame dei luoghi. Da cui scrive paesaggi come lettere agli amici.

Agli estremi, a Dublino, torna un'ultima volta in scena nei panni di Logogus :

"Nello stesso gioco, la stessa matematica, assurdità, commercio di parole e missive che Logogus apprezza sempre meno, che è venuto qui per mutare, giusto od ingiusto che sia, non solo non v'è 'solitudine' né carta e lettere e giornali né nido né levarsi di voli, che é qui per rompere e vedere di più e attendere meno e prendere di più e che inizia-reinizia-inizia, ne ha abbastanza di respirare, abbastanza di non averne mai abbastanza, e più ancora di non averne mai di troppo.
Logogus, qui, vedete, é scoraggiato da quello che riceve, così spesso deludente, é spolverato, completamente decentrato dalle corrispondenze d'autore, dalle paracoreografie logografiche, ancora più totalmente nauseate dal disordine che viene dalla mancanza di plichi, nauseato da incertezze e lusinghe, reclames catarrose e richiami vischiosi, da essere nudo". (6)

 

Note:

(1) "Lettres d'amour" (1945); "Notes sur les Coïncidences" (1945); 'Quand un homme parle des hommes"; 'La Mathématique du Ténu" (1946) ecc. ...

(2) "Notes sur les Coïncidences".

(3) Vedere "Signification et sinification", pubblicato nel n. 7 della rivista COBRA (1950).

(4) Logogramme

("la morte dentro di me fa il suo lavoro,
fuori di me io faccio il mio")

(5) "Ltation exa tumulte" (1970)

("festeggiando ovunque il poco
sino a prender tutto in uno sguardo, in una bracciata
sino al nulla di sguardi infiniti da tessere
portando sempre di qua di là una valigia che rinchiude i nulla del mio villaggio")

(6) "Logbookletter" (1979).

CHRISTIAN DOTREMONT
di JOSEPH NOIRET

Nel 1940, Christian Dotremont pubblica "Ancienne Eternité". L'ultimo testo ch'egli fa stampare, "Logbookletter", appare nel 1979, poco prima della sua morte.

Fra queste due date ha vissuto con rigore un'avventura poetica che restaura, nella scrittura, la passione del gesto, della mano che sogna il suo canto.

Sin dai suoi primi libri, ove divampa il grande feu de joie surrealista (1), Dotremont spinge ai limiti una riflessione poetica e critica che regola i conti con i fantasmi politici e culturali di quel tempo in cui ancora si credeva - e lui stesso ha creduto - di poter ricostruire la società con la sola penna: semina per via qualche illusione morale, conduce senza cedimenti l'esperienza del Surréalisme-Revolutionnaire, approda a CoBrA di cui é l'inventore e, con Asger Jorn, lo spontaneo organizzatore e l'infaticabile artefice.

Ma già moltiplica le osservazioni sul linguaggio che sarà - com'egli avverte - dominante fra i suoi interessi, lancia la propria sonda in questo spessore stratificato ove sé deposi tata la memoria umana: avido di dare un senso ad un'esistenza tutta attraversata da fori ("l'uomo possiede, oggi, malauguratamente, la capacità fisica e morale di vivere benché 'traforato' o di riempire i suoi buchi con diversi tipi di "ovatte"). E' curioso sfiorare col dito il respiro sottile del divenire che la dialettica sembra insufflare nella verità delle cose.

"La pioggia venne o non venne, non so. Col favore di quest'infinita promessa, ho veduto la svolta dell'alba. Era l'incontro col divenire ed io sentivo male all'essere. Una sublime piccola virgola nella foresta". (2)

A partire da questi anni Dotremont rivolge, sulla scrittura, uno sguardo differente: afferra la natura materia le dell'atto dello scrivere, indovina il ruolo iniziatico della mano in cui il peso del corpo al lavoro si trasmette sino alla punta della penna. Ben presto sfugge alle moine spiritualistiche del pensiero "grazioso" e dei "bel" linguaggio, alla loro schiavitù ("Volgare o no, il materialismo salva").

Questa conquistata libertà risveglia la curiosità della vita quotidiana che egli legge anche nei testi di Marcel Havrenne ("Du Pain noir et des Roses") con cui condivide il gusto perverso dei giochi di parole e del calembour. Il surrealismo e la lettura della "Critica della vita quotidiana" di Henri Lefebvre (di cui discutevamo assieme e che ha segnato le nostre attività nell'ambito di CoBrA) lo aveva persuaso che la vita non è affatto quotidiana e che occorre sollevare la cappa delle abitudini inerti che l'appesantiscono, opprimendo il carattere naturalmente selvaggio della parola. Nessuno sguardo più attento del suo ai fremiti che la vita ha nelle sue pieghe, nessun pensiero meno bardato di teorie ("Ed io non vado nei musei che per togliere le musoliere"). Donde il suo humour che rileva la minima menda od il lapsus mentale, il refuso o la coincidenza che incrina; tutta la seriosità del mondo sbanda, si da a canticchiare la canzone che distorce la logica comune sino alla vertigine, tira giù sino ai piedi le mutande del razionalismo ed apre la finestra dell'immaginario. Rammento che questo humour ("Hurrah, harrumph for Captain Groucho") lo aveva definito, en passant :

"Non é raro che la faccia delle cose, degli esseri, non sia visibile che di sbieco".

Christian Dotremont, radicalmente ostile ai meccanici dell'arte ("... i falsari che, con il pretesto di dipingere il rintoccare della campana non tracciano che cerchi e linee") ed agli strateghi psicotecnici ("lavora nel tuo disordine, anziché svolgere un compito nel loro programma") s'è arrogato il potere spaventoso di dire IO: parola affascinante come ciò che designa e che non può essere che in atto, parola "che si può ripetere dieci voi te in tre righe; non così 'sfidare' o 'violino', 'gioco'...". Di conseguenza, dire IO non è alla portata di tutti gli inconsci, nei nostri tempi di stress e di strutture: occorre, per farlo, una tranquilla audacia.

Un uomo nasce due volte: la prima, dal ventre di sua madre; la seconda, altrettanto decisiva, in cui il desiderio recita una sua parte, quando ha disimparato ad attendere e si cimenta con parole "in cammino", e - precisamente - quando dice IO con la gioia senza limiti di far esplodere il proprio essere.

"Mi vedevo uomo come Gregor Samsa si vedeva insetto".

Della sua seconda nascita - nel '45 aveva annunziato "L'Homme à naitre" fra i titoli delle opere future - testimonia tutto il lavoro sul linguaggio che, d'acchito, Dotremont ha riconosciuto come il suo unico tramite d'esistenza. Non per produrre opere letterarie, ovviamente, giacché non soggiaceva alle pompe mistificatorie di alcun al di là, ma per vivere, per viversi spirito e corpo in un unico volo.

Torniamo a questo materialismo felice, così decisivo: sin dai primi testi, Christian Dotremont è incuriosito da ciò che primo si manifesta quando la frase viene scritta: il tratto oscuro, la scrittura materiale sempre obliterata, la traccia che scorre a costruirsi, nella pagina, un volto.

Dotremont sarà il nero viaggiatore degli spazi bianchi di cui il senso sorveglia l'uscita; ove la vita acquista il corpo che per vivere le mancava: "La vera poesia é quella in cui la scrittura ha da dire la sua".

Attorno al 1950, seduto alla lunga tavola di quell'atelier d'invenzione permanente che COBRA é stato, Dotremont volta un foglio d'un suo manoscritto e guarda la scrittura in trasparenza: questo semplice gesto fa inclinare definitivamente la sua poesia dalla parte della mano.

Vero inizio del mondo: il verbo era scrittura, traccia materiale, corpo in espansione (3). L'atto fisico di scrivere crea il tumulto dei significati, le cose conquistano la loro realtà manchevole.

Dotremont inizia a creare i suoi logogrammi che, a partire dai 1962, crescono come una geografia dell'immaginazione, naturali come la rottura d'un vetro o l'espandersi d'una città.

Trascinato nella pittura, austera e senza fine, del testo, o piuttosto al margine fra pittura e poesia, in cui il senso diviene visibile, Dotremont illustra la frase poetica nel balenare del gesto, nell'istante in cui si ramifica, come se nella terra le radici si moltiplicassero in rispondenza a ciascuno degli aerei significati dell'albero.

Nel frutteto newtoniano in cui abitiamo, egli getta le sue mele d'inchiostro, presta mano ad una sovversione che nasce dalle norme linguistiche del la leggibilità. Il nero dell'inchiostro gonfia le sue voci, la poesia che sonnecchia nel solco incessantemente arato dei libri senza sorprese diviene zampillio del senso sui muri.

Ha pervaso il poeta la passione di scrostare le parole dell'intonaco che le immobilizza in positure convenute, protraendo la rivendicazione di spontaneità e l'antispecialismo intransigente di cui COBRA ha fatto le proprie idee-chiave. Aprire il campo del desiderio, non esser più 1'allocco delle messinscene ideologiche:

"Scrivere le parole come si agitano".

Indifferente ai modi dominanti di pensare e di non vedere, di Christian Dotremont non sì e mai compreso sino a che punto fosse attento (è uno dei termini di cui conviene servirsi per parlarne). Attento alle persone incontrate casualmente quasi quanto agli amici, Dotremont ha scritto alcune fra le poesie d'amore più importanti del nostro tempo ed un romanzo autobiografico ("La Pierre et l'Oreiller"), lungo canto d'amore per una danese che ha preso ad abitare i suoi scritti ("Io esisto in una forma abbagliante: la tua") che é nel contempo il racconto della malattia che lo tiene a letto a Silkeborg, con Asger Jorn, la "catastrofe" che si sviluppa inesorabilmente nel suo petto:

"la mort en moi fait son oeuvre
hors de moi je fais la mienne" (4)

"partout fêtant le feu
jusqu'à tout prendre d'un regard d'une brassée
jusqu'à rien de regards infinis à tisser
toujours dans une valise bahutant de riens de mon village" (5)

Nel 1979 un ultimo viaggio lo riconduce in Irlanda, paese di scrittura ove l'essenziale della vita si legge in grandi libri istoriati. Insieme alla Lapponia ch'egli ha risalito sino ai confini d'Ivalo dove il fiume trasporta con la sabbia l'oro dei segni e dove si mangia la renna affumicata, L'Irlanda e una delle località in cui respira e tenta di decifrare i segreti inscritti nelle trame dei luoghi. Da cui scrive paesaggi come lettere agli amici.

Agli estremi, a Dublino, torna un'ultima volta in scena nei panni di Logogus :

"nello stesso gioco, la stessa matematica, assurdità, commercio di parole e missive che Logogus apprezza sempre meno, che è venuto qui per mutare, giusto od ingiusto che sia, non solo non v'è 'solitudine' né carta e lettere e giornali né nido né levarsi di voli, che é qui per rompere e vedere di più e attendere meno e prendere di più e che inizia-reinizia-inizia, ne ha abbastanza di respirare, abbastanza di non averne mai abbastanza, e più ancora di non averne mai di troppo.

Logogus, qui, vedete, é scoraggiato da quello che riceve, così spesso deludente, é spolverato, completamente decentrato dalle corrispondenze d'autore, dalle paracoreografie logografiche, ancora più totalmente nauseate dal disordine che viene dalla mancanza di plichi, nauseato da incertezze e lusinghe, reclames catarrose e richiami vischiosi, da essere nudo". (6)

 

Note:

(1) "Lettres d'amour" (1945); "Notes sur les Coïncidences" (1945); 'Quand un homme parle des hommes"; 'La Mathématique du Ténu" (1946) ecc. ...

(2) "Notes sur les Coïncidences".

(3) Vedere "Signification et sinification", pubblicato nel n. 7 della rivista COBRA (1950).

(4) Logogramme

("la morte dentro di me fa il suo lavoro,
fuori di me io faccio il mio")

(5) "Ltation exa tumulte" (1970)

("festeggiando ovunque il poco
sino a prender tutto in uno sguardo, in una bracciata
sino al nulla di sguardi infiniti da tessere
portando sempre di qua di là una valigia che rinchiude i nulla del mio villaggio")

(6) "Logbookletter" (1979).