OCRA/ARCHIVIO
Studies on the European Avant-Gardes


 

GLI ANNI '50 E FLUXUS

 

FRANCO SBORGI 

Nell’introdurre questo incontro, vorrei anzitutto precisarne il senso. Che consiste, per quel che mi riguarda, nel tentativo di mettere a fuoco le peculiarità di un gruppo che tra gli anni ’50 e ’60 propone un modo diverso di concepire il fatto artistico, mettendone in discussione i canoni operativi tradizionali.

Gli artisti Fluxus hanno, senza dubbio, aggirato la concezione auratica dell’opera come entità conchiusa, perfetta, ponendone invece in evidenza la processualità, nella prospettiva di una sua progressiva cancellazione.  Sotto questo profilo  si può dire che Fluxus si inserisca in una linea di tendenza che negli anni ’50 accompagna molte esperienze europee verso il superamento del concetto d’arte.  Nonostante la peculiarità del suo approccio, dobbiamo renderci conto che Fluxus agisce nel medesimo arco di tempo, quasi in parallelo, con altre esperienze quali – in Europa – il Nouveau Réalisme o certi sviluppi tedeschi, rappresentati, ad esempio, da Vostell. Forse ribadirlo è superfluo, ma molte delle tendenze nate negli anni ’50, al di là dei confini, al di là delle etichette, si ponevano il problema del superamento dell’arte, di un’idea di tradizione.

Devo dire che fra le diverse posizioni, quella di Fluxus si presenta come la più ironica e, soprattutto, la più autoironica.

Figure come quella di Ben Vautier in Europa ed altre nell’area americana manifestano proprio questa capacità, questa volontà di mettersi in discussione.

Non mi soffermo a parlare dei precedenti, delle matrici culturali di questo fenomeno che verranno sicuramente analizzati da chi mi seguirà; mi limito a notare come questo atteggiamento ironico nasca fondamentalmente, sia per la componente americana sia per quella europea, dall’esperienza di Cage, più che dalla riscoperta di Dada, la cui aggressività non ha, tutto sommato, molto in comune con le posizioni di Fluxus.

Ma credo sia giunto il momento di passare agli interventi veri e propri. Cedo quindi la parola al primo relatore, Enrico Pedrini.

 

ENRICO PEDRINI 

La crisi dell’era spaziale, con il primo uomo in orbita intorno alla terra il 20 maggio 1962, faceva compiere all’umanità un balzo in avanti d’incalcolabile portata. L’immagine del “sorgere della terra”, osservata dallo spazio, era un simbolo visibile del villaggio globale di Marshall McLuhan, di una concezione che abbraccia il nostro habitat naturale nella totalità dei suoi aspetti.

Più dei viaggi aerei e dei film di fantascienza, quell’immagine cristallizzava la prospettiva dell’umanità nel decennio seguente.  L’era spaziale aveva prodotto nell’uomo degli anni ’60 un mutamento radicale di prospettiva: faceva sentire alle nuove generazioni che l’impossibile poteva realizzarsi. Si dicevano, quei giovani: se siamo stati capaci di creare una tecnologia che ha reso possibile l’esplorazione dello spazio, possiamo fare qualsiasi altra cosa; posiamo trovare i mezzi per superare qualunque ostacolo all’interno della nostra società. Abbiamo visto, concretamente, la terra intera: dovremo quindi comprendere e correggere gli squilibri sociali e di altra natura, potremo riesaminare i nostri processi progettuali, il nostro vocabolario ed i nostri schemi visivi, potremo percepire intervalli temporali e cicli stilistici all’interno di quel continuum culturale che la nostra – nel tempo – limitata visione non riusciva ad abbracciare.

Di qui l’origine dell’attivismo che pervadeva la società e metteva in discussione i valori codificati, le istituzioni e le gerarchie rigide, ogni forma di autoritarismo.

Rivoluzione, coinvolgimento, impegno erano le esigenze dominanti di quei giovani.  Nascevano in quegli anni il movimento per i diritti civili, il movimento per la pace, la rivoluzione sessuale.

Con la rivoluzione sessuale si favoriva la tendenza al riavvicinamento dei sessi e tale liberazione si rifletteva anche nella moda: gli indumenti femminili erano destinati più a far vedere che a nascondere, le gonne continuavano ad accorciarsi. Sul finire del decennio, proprio la moda erodeva ulteriormente le differenze fra i sessi con l’introduzione degli abiti unisex.

La nuova realtà, sotto la spinta di Bob Dylan, dei Beatles, della musica rock, incitava i giovani a ribellarsi contro il sistema esistente.  La parola d’ordine era: “impegno”.

In tutte le arti si avvertiva l’urgenza di una maggior partecipazione nella creazione di una nuova società con modelli di vita alternativa.

Si delineava un grande rinnovamento linguistico la cui figura centrale è Cage. Questo musicista della West-Coast americana, nel suo peregrinare, prima a New York e quindi in Europa, porta con sé la nuova categoria dell’indeterminazione e nuove possibilità linguistiche legate alla probabilità. 

Nel 1952, in uno spettacolo al Black Mountain College combina insieme vari elementi: l’azione scenica è indeterminata e senza matrice; la struttura a compartimenti e si definisce in termini nuovi il rapporto fra il pubblico e la rappresentazione.  In mezzo al refettorio del College erano state sistemate le sedie del pubblico, tutte rivolte verso il centro, facendo in modo di lasciare un passaggio tra le pareti del locale e la platea.  Le varie azioni si svolgevano intorno  al pubblico e anche fra gli spettatori.  John Cage, in abito e cravatta neri, leggeva una conferenza su Meister Eckhart da un leggio collocato su un lato dell’ambiente.  Mary Caroline Edwards declamava solennemente dei versi da una scala a pioli.  Altri attori, nascosti tra il pubblico, si alzavano a turno in piedi e recitavano brevi battute.  David Tudor suonava il piano.  Sul soffitto venivano proiettate immagini cinematografiche, mentre Robert Rauschenberg metteva vecchi dischi su un fonografo portatile.  Merce Cunningham improvvisava una danza intorno al pubblico.

In questo “evento”, se vengono accolte le istanze delle prime avanguardie, quali la tecnica del collage utilizzata nelle serate futuriste e il ready-made surrealista di Duchamp, si compie – rispetto a queste - una rottura.  Gli elementi ed i materiali della rappresentazione non sono più legati ad una matrice: rimangono indeterminati e complementari, facendo sentire il concetto di coesistenza e di mutabilità della materia quantica.

Per Cage la musica si avvicina alla vita, che – se la si ascolta attentamente – è in grado di fornire quantità infinite di elementi musicali.

Al limite l’insieme musicale viene raggiunto con l’atteggiamento passivo dell’ascolto: il musicista deve limitarsi a rilevare l’aspetto musicale dei rumori e dei suoi prodotti da fonti conosciute o meno.  Quindi più che un produttore di suoni il musicista diviene un ascoltatore che può far emergere la musica.  Musica che in realtà già esiste e che ha bisogno soltanto di essere identificata.  Di essere scelta, oggettivata, nominata.

Altro elemento portante della musica di Cage è d’aver applicato nelle sue composizioni le leggi della probabilità, determinando la posizione delle note musicali con i dadi da gioco.

Questo rimanda, per antitesi, ad una frase utilizzata da Einstein nella sua polemica contro la teoria quantistica: “Dio non gioca a dadi”.

Secondo la fisica classica di Newton e la teoria della relatività di Einstein, che operano in campo deterministico, lo stato di ogni sistema meccanico isolato in un certo momento è dato con precisione quando sono empiricamente individuati i numeri che specificano la posizione ed il movimento di ogni componente del sistema in quell’istante di tempo.  Non è presente alcun numero che si riferisca ad una probabilità.

Secondo la teoria dei quanta, invece, il valore della posizione e del momento debbono essere trovati in modo da poter essere distribuiti secondo una curva di probabilità.  Infatti, secondo il principio d’indeterminazione di Heisenberg non è possibile determinare simultaneamente una coppia di variabili, come posizione e velocità, in quanto la determinazione esatta di un parametro (la posizione, ad esempio) comporta l’indeterminazione crescente dell’altro (nel nostro caso, la velocità).

Il principio d’indeterminazione è epistemologico: ci ricorda che il mondo della fisica è un mondo contemplato dall’interno, misurato da apparecchi che sono parte di esso e soggetti alle sue leggi.  Rompe il determinismo nel nesso di causa ed effetto, che s’era tramandato dalla fisica classica, ed afferma che la sorgente causale di un fenomeno rappresenta la probabilità della sorgente casuale di un altro fenomeno.

Nella fisica classica di Newton sembra sempre possibile osservare semplicemente qualcosa ed anche osservarsi mentre si osserva: né risulta particolarmente significativo distinguere questi due casi che danno origine agli stessi risultati.

Nella meccanica quantistica, invece, appare inevitabile una sorta di scissione all’infinito tra gli osservatori: un osservatore che osserva sé stesso nell’atto di osservare un oggetto non può essere identificato con l’osservatore che osserva semplicemente l’oggetto: è come se l’io del soggetto che indaga nel mondo fisico si dovesse sdoppiare infinite volte, infatti l’io che pone sé stesso deve prima uscire da sé per farlo.

L’esplorazione del  mondo sub-atomico da parte dei seguaci della teoria quantistica ha dimostrato che i costituenti dell’atomo e le particelle sub-atomiche sono configurazioni dinamiche che non esistono in quanto entità isolate come si pensava agli inizi del secolo, bensì come parti integranti di un’inestricabile rete d’interazioni. Queste portano un flusso incessante d’energia che si manifesta come scambio di particelle, un’azione reciproca e dinamica in cui le particelle vengono create e distrutte in un processo senza fine, in una continua variazione di configurazioni.

Le interazioni fra le particelle danno origine alle strutture stabili che formano il mondo materiale, che a sua volta non rimane statico ma oscilla in movimenti ritmici.  L’intero universo è quindi impegnato in un movimento, in un’attività senza fine, in un’incessante danza cosmica d’energia.

Nella fisica delle alte energie studiata mediante l’uso di macchine acceleratrici, le particelle che si urtano inizialmente spesso vengono distrutte e si creano nuove particelle che, a loro volta, subiscono nuovi urti oppure decadono, talvolta attraverso diversi passaggi successivi, nelle particelle stabili che alla fine permangono.

Questi sono esempi della mutabilità della materia a livello sub-atomico che mostrano cascate di energia in cui varie configurazioni di particelle si fondono e si dissolvono.

La nuova accelerazione della materia quantica, questa attività senza fine, questo flusso e danza cosmica di energie sono molto vicini alla teorizzazione, in arte, del movimento degli happenings e di quello, ad esso contemporaneo, di Fluxus.

Questi due movimenti, il primo più legato alla rappresentazione scenica, il secondo più vicino ad una visualizzazione artistica sono successivi all’opera di Cage e ne continuano il messaggio.

Anzi il loro problema fondamentale rimane quello di trovare un nuovo linguaggio idoneo a dare espressione a questi aspetti della materia, dal momento che essi non possono venire descritti nei termini dei comuni concetti già acquisiti.

E’ particolarmente stimolante osservare come una così vasta problematica d’interessi culturali, dalla conoscenza della fisica, della genetica, della tecnologia, dell’economia, possano confluire con una miscela così eterogenea negli anni ’58-’62 e far da detonatore per un profondo rinnovamento generazionale ed una profonda revisione di valori, alcuni dei quali – modificati nella loro essenza – non potranno più ritornare.

Quel periodo si pone, a distanza ormai di trent’anni, come un nodo storico di eccezionale importanza.  Si è soliti rileggere il maggio del ’68 come l’apice di quel decennio, come il punto più eclatante della rivolta; penso invece che non sia altro se non la conseguenza di quanto si era messo in cantiere dieci anni prima e che rappresenti in qualche modo la fine di quella speranza, di quel rinnovamento. Anzi, la violenza che aveva accompagnato le manifestazioni e le disillusioni della generazione del ’68 non corrispondeva alle aspettative di quella che l’avevano preceduta.  La storia ha preso quella direzione ma non necessariamente doveva percorrere quelle disillusioni.

Il sapere quantistico operante come una macchina linguistica trova negli anni ’50 humus ideale per attivare la propria presa sulla realtà, la messa in discussione del determinismo causa-effetto, l’indeterminazione, la pluralità delle logiche.

Così l’happening, a differenza del teatro tradizionale, nasce come rappresentazione senza matrici, in quanto gli interpreti non portano con sé un mondo creato, una realtà inventata di luogo e di tempo. Con l’intrusione dello spettatore nella rappresentazione prende forma questo nuovo modo di fare arte, dove l’attore raggiunge l’integrazione di tutti gli elementi del suo lavoro.  L’environment, le composizioni, il tempo, lo spazio, la gente, le forme, i movimenti, vengono usati in quanto tali senza alcun significato oltre alle loro intrinseche qualità ed alle loro caratteristiche fisiche.  L’artista controlla e dirige l’happening nel suo svolgimento ed è parte integrante dell’azione. L’azione è indeterminata ma  non improvvisata.

Il movimento Fluxus nasce invece fra il ’58 ed il ’62 in America, in Europa, in Giappone e trova una sua successiva ufficializzazione a Wiesbaden.  Per la vastità delle problematiche e la diversità delle culture coinvolte può legittimamente venir considerato il movimento maggiormente esteso a livello planetario che la storia dell’arte abbia mai conosciuto.  I linguaggi dell’indeterminazione non nascono legati ad un solo contesto nazionale ma vengono generati in più parti del globo, sotto l’influenza della musica di Cage.

Il villaggio elettronico di McLuhan trova in questo movimento il suo refrain sia come estensione territoriale sia come matrice di quella nuova realtà tecnotronica definita da Riesman nel ’58 “era post-industriale”.

Fluxus evidenzia quel grande fenomeno della de-realizzazione operato dall’avvento della televisione e della nuova realtà dell’immagine che ha prodotto la perdita di consistenza delle cose.  Mette in luce il quotidiano totalizzante dell’era tecnotronica: il quotidiano che vive il mutamento radicale con le cose e con gli altri e la perdita della consistenza materiale degli oggetti, della percezione, divenuti od in procinto di divenire simulacri evanescenti e seriali.

Fluxus, se da un lato può esser visto come il movimento che meglio evidenzia il salto evolutivo degli anni ’50-’60, va d’altro canto tenuto disgiunto dalle problematiche dei movimenti ad esso contemporanei quali il Nouveau Réalisme, il New Dada e la Pop Art.

Il salto evolutivo di cui si diceva ha condotto la società degli anni ’60 ad un livello più elevato di energia, di utilizzazione delle risorse e ad un’accelerazione dell’informazione, ma ha richiesto alla società una trasformazione profonda delle strutture istituzionali ed organizzative.

Gli artisti del Nouveau Réalisme si appropriano del segno urbano, di tutti gli elementi che sono nella città, quali gli oggetti di rifiuto, i materiali di recupero, i manifesti pubblicitari.  Questi materiali dell’industria e del consumo vengono lavorati e ricomposti, facendo loro assumere una diversa fisionomia.  Attraverso la tecnica dell’assemblage essi acquisiscono una nuova dimensione, una nuova realtà.

Questo Cubismo degli anni ’60 (è infatti a tale movimento dell’avanguardia storica che il Nouveau Réalisme può essere paragonato, in quanto opera attraverso la scomposizione, o la scompaginazione non più dei piani prospettici bensì delle forme degli oggetti, operandone la successiva ricomposizione in immagine artistica) è pur sempre legato alla grande rifondazione linguistica dell’uscita dalla dimensione del quadro. Esso si presenta come fuoriuscita dal governo della forma. Come immissione di un oggetto espressivo nel mondo.

La dimensione del Nouveau Réalisme è quantitativa, sociologica contro i valori tradizionali, etica contro i valori estetici:  ne è prova l’opera di alcuni artisti che vi sono stati coinvolti che, in seguito, hanno rotto completamente con l’oggetto e posto la loro opera come azione e comportamento.

E’ utile rammentare, in questo contesto, l’attività del gruppo giapponese Gutaj, avviatasi verso la fine degli anni ’50.  Questi artisti si possono considerare anche anticipatori della pratica dell’happening e del linguaggio che si è più tardi sviluppato sotto il nome di Body-Art ma bisogna ricordare che tale movimento è pur sempre posteriore alla manifestazione del 1952 al Black Mountain College ed all’opera di Cage, che può essere considerata la matrice che ha generato la nuova categoria della quantità.

Un discorso a parte deve essere fatto per la Pop Art: questo movimento è legato all’immagine della metropoli, ch’esso tende ad amplificare, mediante un’arte di tipo popolare.

Gli artisti Pop rifanno l’immagine e gli oggetti della società consumistica con le tecniche proprie della società industriale. I lavori pop, pur costringendoci a prendere coscienza dell’immagine della società massificata e consumistica degli anni ’60, conservano – a distanza di tempo – un senso quasi metafisico di tale società.

Queste opere, documenti artistici di forte impatto visivo, rimangono pur sempre nell’arco del ready-made anche se l’immagine viene quotidianamente filtrata dalla dimensione etico-quantitativa.

In tali testi artistici non si sente l’attitudine e l’impegno a muoversi in campi linguistici inediti, bensì piuttosto la solennizzazione e la consacrazione culturale di immagini ed oggetti della società del consumo: la pubblicità, il fumetto, la fotografia.

Anche se l’opera di Andy Warhol riesce ad elevare l’immagine pubblicitaria alla potenza della simulazione ed al livello del simulacro, le opere pop conservano una connivenza ed una complicità con il mercato attraverso una sapiente ed ammiccante confezione dell’opera stessa.

Gli anni che intercorrono fra il primo viaggio spaziale di una navetta senza equipaggio umano (1957) ed il primo viaggio orbitale intorno alla terra con un uomo a bordo (1962) possono essere ricordati come un periodo di particolare importanza storica, un nodo di confluenza di molteplici innovazioni sia nel campo tecnologico che in quello sociale.  Sono gli anni che vedono la diffusione della televisione, dell’elettronica, della computerizzazione, le prime teorizzazioni dell’intelligenza artificiale (1956), le scoperte della genetica (1957), l’enorme sviluppo economico dovuto all’utilizzazione massiccio delle fonti petrolifere d’energia e le grandi rivoluzioni della conoscenza e del sapere (basti pensare alla realizzazione della bomba H ed alle conseguenze che tale ordigno ha avuto su tutta la storia politica mondiale), eventi che fanno di questo periodo un nodo centrale di avvenimenti di estrema importanza non solo nella storia del ventesimo secolo ma un momento evolutivo fondamentale per tutta la storia dell’umanità.

Alvin Toffler, nel libro “La terza onda” afferma che a metà degli anni ’50-’60 si può situare l’inizio della terza onda dopo quella agricola ed industriale, un nuovo paradigma evolutivo che può prendere il nome di era elettronica o tecnotronica.

L’Happening, Fluxus, il Nouveau Réalisme, il New Dada potrebbero rappresentare i corrispettivi movimenti artistici che presentano, pur nella diverse tematiche, il bordo culturale, il frangente in arte di questo nuovo modo di essere per l’uomo.

 

CARLO ROMANO

Sarò infinitamente più pedestre di Enrico Pedrini, il cui racconto è ricco di spunti anche se non ne condivido l’assunto. Soprattutto non condivido l’idea che Cage sia stato la figura centrale degli anni ’60.  Certamente è stato uno dei punti di riferimento di quel periodo ma senz’altro non la figura centrale.

Come sapete, Fluxus rientra da molto tempo fra i miei campi d’interesse e me ne sono occupato in diverse occasioni.  Ogni volta ho cercato di adottare un punto di vista diverso anche perché ritengo che su Fluxus in quanto gruppo sul piano puramente statistico ci siano poche cose da dire e che ci sia ben poco da scavare anche nelle vicende dei singoli artisti che hanno partecipato al movimento.

Ad esempio, mi sono occupato di Fluxus rimarcando la concomitanza della nascita del gruppo (che peraltro non si presenta come un gruppo vero e proprio, con vincoli ben precisati, nonostante l’esistenza di una sorta di “lista nera” ed esibisce una certa ironia proprio sulla condizione di gruppo o forse una critica latente al modo di presentarsi dei movimenti attraverso  manifesti e alla stessa “ufficialità” delle avanguardie storiche), una concomitanza – dicevo – della nascita di Fluxus con un altro raggruppamento che mostra caratteristiche analoghe, ad esempio sul piano dell’ironia: quello della Patafisica.

Più di recente, in occasione della mostra in corso nelle gallerie di Caterina Gualco e di Rosa Leonardi, ho cercato di vedere Fluxus, o meglio di seguire Fluxus sul terreno della sparizione, del dissolvimento delle avanguardie storiche, fissando la sua vicenda come emblematica appunto di questa conclusione.  In questo senso mi pare emergano diversi spunti, parecchie cose da dire, da approfondire, ma penso che potremo farlo meglio nel dibattito, dove si potranno chiarire anche certe cose sul contesto culturale degli anni ’50-’60, come Pedrini ha cercato di fare da un’angolazione per me abbastanza inusuale, di tipo positivistico, scientifico e che comunque trova agganci abbastanza precisi con la vicenda di Fluxus, anche se magari potrebbe averne di altrettanto puntuali con la Patafisica.

Ma di tutto questo sarà meglio parlare dopo aver sentito gli altri interventi.  Intanto è arrivato Gino Di Maggio …

 

GINO DI MAGGIO

Io rimango sempre affascinato dalle teorizzazioni che Pedrini ci propone anche se francamente non riesco ad afferrarne molto bene il significato.

Ho vissuto quasi in contemporanea, anche se con qualche anno di scarto, comunque abbastanza da vicino l’esperienza di Fluxus, frequentando gli artisti che hanno provocato gli eventi che poi Maciunas ha riunito sotto la denominazione di Fluxus, che – come diceva Carlo Romano – non è un gruppo, è piuttosto una strana sensazione che si risveglia alla fine degli anni ’50 e che accomuna improvvisamente una serie di persone a livello planetario.

Quello che posso dirvi è cos’è stata, per me, l’esperienza di Fluxus, come l’ho compresa parlando, vivendo insieme agli artisti che l’hanno provocata.

Secondo me, Fluxus è stata la radicalizzazione di eventi che si erano depositati nella storia dell’arte del nostro secolo:  molto più che a Dada io riporterei Fluxus all’atteggiamento di Duchamp che certo aveva guardato con simpatia alle forme di provocazione dadaista ma che aveva percorso una sua personalissima esperienza all’interno di una – come potrei dire ? – de-costruzione della struttura dell’arte, riproponendo in termini completamente nuovi il punto di vista sull’esperienza e sul rapporto che dobbiamo avere con la creatività.

Quindi io riporterei Fluxus a questo ed anche ad un altro tipo d’inizio che in Italia è stato sottovalutato in sede storica mentre ha avuto invece straordinaria importanza e che proprio in quegli anni era stato indagato da studiosi americani:  il teatro sintetico futurista.

In Italia, nel dopoguerra (evidentemente ora molto meno), la riflessione sul Futurismo era stata circoscritta per ragioni politiche, dato che era stato classificato come un movimento fascista, o in qualche modo coinvolto nella vicenda fascista.

Quindi tutti se ne tenevano lontani, nessuno ha approfondito gli studi.

Invece il Futurismo, al di là della sua partecipazione al Fascismo ed alle complicità ideologiche di alcuni esponenti, aveva elaborato tutta una serie di proposte, come quella di Russolo in ambito musicale o quella appunto delle serate dedicate al “teatro sintetico”.

In questo possiamo trovare un precedente molto importante degli “eventi” Fluxus, senza dimenticare altre suggestioni di ascendenza futurista come quella rappresentata dal concerto di Marinetti alla radio italiana nel 1929, in cui uno dei pezzi era un “silenzio” di quattro minuti e che anticipa chiaramente John Cage.

Qual è il ruolo di Cage?  E’ una figura che, secondo me, non va considerata come una specie di leader di queste nuove tendenze ma, piuttosto, come un trait-d’union con l’esperienza duchampiana che gli era nota per i rapporti che aveva direttamente intrattenuto con l’artista francese, oltre che con il teatro e la musica futurista, che conosceva perfettamente.  John Cage mi ha detto:  “Il giorno in cui ho scoperto la musica ed il teatro sintetico futurista è stato fondamentale per l’evoluzione delle mie ricerche”

John Cage, lungo tutto l’arco degli anni ’50, cosa fa ?   In un contesto che tendeva in qualche modo ad impigrirsi o comunque a dimenticare  (non dobbiamo scordarci che Duchamp si era assentato o distratto, diciamo, per almeno venticinque anni dalla scena dell’arte: dopo gli anni ’20 faceva, più o meno, il pensionato di lusso, cioè non faceva assolutamente nulla, andava al Central Park e giocava a scacchi o passava il tempo in altre maniere non impegnative, quasi che avesse dimenticato l’influenza e la storia dei suoi apporti) John Cage ha ripreso nelle sue ricerche l’esperienza duchampiana e questo ha influenzato, in quegli anni, un gran numero di persone.  Certo anche la mostra sul neo-dadaismo tenutasi a Düsseldorf nel ’60 e a New York nel ’61 aveva risvegliato a sua volta degli stimoli che sono poi esplosi in ricerche molto particolari come quelle del Nouveau Réalisme in Europa e di Fluxus tra Europa e Giappone e tra Giappone e America.

Brevemente: se questa è la storia, il significato di questa storia era il tentativo di cancellare, una volta per sempre, il concetto di ispirazione, di decostruire e decodificare in qualche modo il linguaggio artistico.  Due eventi (o performances, concerti) simbolici in questo senso sono la distruzione del violino, un pezzo famosissimo di Nam June Paik, o lo smontaggio del pianoforte eseguito da Philip Corner, equivalente alla demolizione di un sistema di creatività che si poteva identificare, storicamente e simbolicamente, con quello strumento.

Un approccio, come dire?,  totalmente polemico nei confronti di un sistema culturale il cui rovesciamento comporta l’assunzione della vita quotidiana al centro dell’attività artistica: ogni gesto e ogni atto della quotidianità poteva diventare, nello spirito Fluxus,  per le persone che si muovevano in quell’area, un momento fortemente creativo.  Il gioco, l’ironia, tutto quello che aveva rapporto con le cose che si fanno nella vita quotidiana, diventavano immediatamente momenti importanti, da sottolineare.

Tutto questo ha prodotto delle opere d’arte?  Francamente no. Fluxus non ha prodotto opere d’arte:  gli artisti che hanno partecipato a queste esperienze, ognuno con la propria vicenda personale, cioè i tedeschi con l’espressionismo, gli americani con il loro pragmatismo, i giapponesi, hanno perseguito le loro storie, alcune molto importanti, altre molto meno, producendo le loro opere.  Ma Fluxus è piuttosto un modo di guardare le cose, un’estetica, qualcosa che, tutto sommato, non è definibile come movimento artistico, non è definibile come prodotto d’arte, non è definibile come mercato d’arte, perché è difficile trovare o vendere qualcosa che si possa in qualche modo richiamare al movimento Fluxus.

Questo era francamente sovversivo negli anni ’60.  Era uno degli aspetti secondo me più affascinanti di questa esperienza, la sua capacità di rompere gli schemi e, certo, di creare anche confusione.  Obiettivamente, in quegli anni, c’è stata molta confusione…

 

SANDRO RICALDONE

L’argomento che intendo affrontare prima di ogni altro è quello del parallelo, dello stretto collegamento che Enrico Pedrini ha posto, nella sua relazione, tra l’operatività di Fluxus e la elaborazione della meccanica quantistica e quindi con una mentalità di tipo scientifico, con un'epistemologia che d’altro canto si era gia sviluppata negli anni ’20, nel senso che io non credo – come ha già affermato Carlo Romano – che questa corrispondenza sia sostenibile o, per lo meno, che lo sia in questa forma così accentuata.

Secondo me è abbastanza attendibile l’ipotesi che ha formulato Di Maggio, ossia che Fluxus abbia le sue radici in eventi artistici precedenti (giustissimo il riferimento a Duchamp) recepiti attraverso una figura di mediazione come Cage e che, per conto proprio, ne estremizzi certe problematiche.

E’ certamente vero che il discorso dell’indeterminazione è importante, per Fluxus.  Mi sembra però che vada inteso non tanto nei termini di una pedissequa trasposizione in arte dei principi elaborati da Heisenberg nell’ambito della meccanica quantistica che – pur introducendo una dimensione probabilistica – restano comunque legati ad un’ottica di previsione o di spiegazione di fenomeni osservabili nella sfera sub-atomica e non sostituiscono affatto, quindi, la casualità alla causalità…

 

CARLO ROMANO

In realtà l’unica categoria che rivesta una centralità, in Fluxus, è quella dell’evento.

 

ENRICO PEDRINI

Conoscendo la fisica quantistica si arriva a conoscere meglio il fenomeno Fluxus.  L’arte funziona attraverso i suoi meccanismi: Duchamp, Cage, Fluxus, ma contemporaneamente abbiamo un sapere che si costruisce, c’è un parallelismo, e quando parlo della fisica quantistica, lo faccio perché rappresenta uno strumento che ci serve per affermare dei valori come la teoria della relatività ci aiuta a capire meglio il Cubismo o lo stesso Dadaismo.  Non è casuale, ad esempio, che Picasso parlasse dei rapporti del suo lavoro con la teoria einsteiniana, ma è anche interessante vedere a Firenze – è un’idea che mi viene – un’associazione di musicisti contemporanei cui partecipano Grossi e Chiari scegliere come presidente un fisico, Giuliano Toraldo di Francia.

Questo è un dato incontrovertibile: non dico che Chiari abbia letto la teoria quantistica, ma che queste cose erano vicine fra loro, camminavano insieme.

Fluxus si può leggere meglio, e poi è giusto mettere l’accento su questi fattori, anche perché usciamo da un periodo di tutt’altro genere, quello transavanguardista, in cui era soppressa ogni forma di oggettività, che si torni a guardare a quello che succede intorno, ai dati obiettivi.  La teoria della relatività e la teoria quantistica sono ormai due fatti storici, insopprimibili.

Nella fisica le sollecitazioni si muovono in maniera più veloce che nella storia dell’arte.  E le teorie ce ho citato potrebbero rappresentare veramente due punti fermi su cui ricostruire anche nella storia dell’arte.

 

 

SANDRO RICALDONE

Scusate, nel riprendere il mio intervento vorrei ribadire che – al di là delle precisazioni che ci sono state offerte adesso – negli scritti di Pedrini risulta abbastanza marcata un’idea di osmosi fra teoria scientifica, fra la meccanica quantistica, e l’elaborazione artistica di Fluxus.

Se si tratta di affermare che il principio di indeterminazione concorre a formare la psicologia di un’epoca e che, come scriveva Bachelard, l’indeterminismo corrisponde ad una psicologia del molteplice, in grado di cogliere il valore dell’accidentale, della varietà e del disordine che si presentano nella vita laddove il determinismo comporta una concezione categoriale e gerarchica, sono senz’altro d’accordo ma non mi spingerei oltre.

Anche perché gli elementi di casualità entrano in Fluxus anche da altre fonti che non hanno niente a che fare con l’epistemologia contemporanea, per esempio – e qui mi riferisco nuovamente alla mediazione di Cage – attraverso le tecniche orientali di divinazione, I Ching ecc..

A parte questo volevo avanzare qui una tesi che mi auguro possa venir approfondita e discussa con gli altri relatori e con il pubblico.

Ritengo che Fluxus sia realmente sintomatico di quella “psicologia del molteplice” cui prima accennavo e che proprio per questo venga in qualche modo a contrapporsi ad altri movimenti d’avanguardia.

E’ stato giustamente osservato che Fluxus è un gruppo sui generis (secondo me rimane comunque un “gruppo”,  anche se con collegamenti labili, con un modello operativo precario, episodico, rappresentato dal festival) e che il suo cardine estetico è l’evento, immateriale e, insieme, effimero.

In questo senso Fluxus si differenzia non soltanto dalle avanguardie storiche ma dalle neo-avanguardie che si manifestano nel secondo dopoguerra, da CoBrA al Lettrismo. Perché mentre queste ultime continuano a perseguire il progetto, essenzialmente “moderno”, di una rifondazione o di una “ricostruzione” del mondo, della società, della cultura  (ricordiamoci che nell’ambito del Futurismo questa aspirazione totalizzante si esprimeva nella prospettiva d’una “ricostruzione futurista dell’universo” e che nel Lettrismo c’è l’idea di un nuovo principio di creazione destinato a produrre un radicale rinnovamento della scienza, dell’arte e, nel loro insieme, delle attività umane), Fluxus sembra piuttosto modellarsi sulla vita quotidiana - anzi sulla micro-quotidianità del gesto elementare – come in un lavoro famoso di George Brecht, basato sull’accensione e lo spegnimento di una lampadina.

Fluxus non aggredisce l’arte come Dada e non vuole rigenerarla come i lettristi. Ne sovverte l’idea facendone una cosa per nulla speciale e meno che mai geniale.  Fluxus dice che l’arte è facile, che tutto è arte.

Scarta il “progetto” (che è di per sé stesso un’idea “forte”) per un atteggiamento del tutto a-sistematico che punta sulle esperienze “deboli” (se vogliamo usare un termine oggi un po’ troppo fortunato) o marginali del gioco, dello humour, dell’azzardo.

Fluxus non riqualifica l’oggetto di scarto immettendolo nel circuito auratico dell’arte, piuttosto – anche là dove non tende tout court all’immaterialità -  abolisce lo stacco fra oggetto d’uso e oggetto d’arte, sceglie la banalità inutile di un gadget bizzarro, tendenzialmente prodotto per la massa, contro ogni sofisticazione elitaria.

Contrariamente al Futurismo ed al Lettrismo, Fluxus sceglie di non definirsi, di fare dei manifesti (se così si possono chiamare tali) in negativo:  Fluxus non è questo, non è quest’altro, è contro l’individualismo nell’arte, contro la mercificazione e così via.

Così, in conclusione, dovrebbe risultare vera l’ipotesi – che per adesso non specifico, ma che non sarebbe difficile suffragare con riscontri precisi – che Fluxus, in questa sua attività, che Di Maggio ha chiamato, se non sbaglio, decostruttiva, si definisca come il prototipo di una possibile avanguardia del postmoderno, sempre che al termine si sottraggano quei contenuti edonistici e disimpegnati che in questi anni gli sono stati attribuiti e quelle declinazioni formali che passano sotto questa etichetta ma sono soltanto ritorni di iperdecorativismo e di eclettismo architettonico kitsch.

Mi aveva colpito, tempo fa’, leggere che Ihab Hassan, uno dei primi teorici del postmodernismo letterario americano, nel tratteggiarne gli aspetti peculiari, parlasse del periodo presente come dell’epoca dell’ “indetermanenza”  (indeterminismo + immanenza:  è già, direi, molto significativo!) e citasse come caratteri centrali il gioco, il caos, l’anarchia, la de-costruzione, l’happening …

 

CARLO ROMANO

A me sembra che il disegno, all’interno del quale possiamo configurare l’attività di Fluxus, sia grosso modo quello di un venir meno dell’idea di superamento che era implicita nelle posizioni delle avanguardie storiche.

Dopo molto agonismo, dopo molte rincorse, intorno agli anni ’60, non c’era forse più molto da inseguire, non era più sostenibile una direttrice così “infuturata” e bisognava riflettere sul da farsi.

A rigore, in quel momento, i più coerenti credevano di dover sparire.

In qualche modo Fluxus è emblematico di questa coscienza, che è coerente con le premesse dell’avanguardia storica e attua la sua “sparizione” dicendo appunto che l’arte è realizzata, che l’arte è nella vita, nelle cose, che tutto è arte.

Altri realizzano la loro sparizione forse in maniera più conseguente …

In realtà nella storia dell’avanguardia esistono due modelli: uno è quello del Futurismo che è, in certa misura, ambiguo ed a cui tengono dietro poi Dadaismo e Surrealismo; l’altro è quello dell’arte pura, della geometria e del razionalismo architettonico.

Io credo che entrambi i modelli confluiscano in Fluxus.

C’è, in Fluxus, una grossa componente geometrizzante, legata anche al design. Forse anche per questo il discorso scientifico funziona con questo movimento, e proprio sul piano comportamentale, attitudinale, gli artisti di Fluxus preludono (non tutti, ci sono delle differenze: anche delle differenze nazionali, benché si tratti di un gruppo cosmopolita), preludono, dicevo, al Minimalismo.

Sia in Fluxus che nel Minimalismo c’è questa sorta d’intangibilità, l’artista non partecipa, non dice mai niente… il che è poi un’eredità del purismo artistico, della geometria di Mondrian…. Fra l’altro ci sono anche degli agganci storici come l’insegnamento di Albers al Black Mountain College. Volendo, se ne potrebbero trovare altri.

Comunque credo che in Fluxus converga anche questa avanguardia, minore – se si vuole – sul piano dei significati rispetto alle avanguardie “forti” cui accennava prima Sandro Ricaldone.

Il Futurismo, benché a sua volta anticipato da altre esperienze, è un po’ la chiave di volta di tutto, anticipa Dadaismo e Surrealismo e presenta anche componenti decorative, astratte.  C’è anche una componente cubista, anzi con il Cubismo c’è tutta una polemica…

Questa due anime dell’avanguardia confluiscono, dicevo, in Fluxus, che ne è un po’ la sintesi finale.  Dopo Fluxus e dopo altri raggruppamenti (Sandro citava opportunamente il Lettrismo) pensare come avanguardia è diventato molto difficile, tanto è vero che il costume più diffuso negli anni ’80 è consistito nel dare addosso all’avanguardia, anche con una buona parte di ragione, perché è inutile protrarre esperienze storicamente concluse.

L’arte è sopravvissuta alle avanguardie e a questa sopravvivenza Fluxus ha dato un contributo determinante, direi più sul piano intellettuale che su quello concettuale o figurativo.

 

 

I testi che precedono costituiscono la trascrizione (non rivista dagli autori) degli interventi pronunciati nel corso dell’incontro di studio “Gli anni ’50 e Fluxus” tenutosi presso l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Genova il 10/11/1988, in margine all’esposizione “Fluxus o del principio d’indeterminazione”  (ottobre-dicembre 1988) organizzata dall’Unimedia di Caterina Gualco e dalla galleria Leonardi/V-idea di Rosa Leonardi, con il sostegno del Centre Culturel Franco-Italien Galliera, diretto da Marie Thérèse Michaud, e del Goethe Institut Genua, diretto da Josef Gerighausen.

Nel corso dell’esposizione si sono svolte performances di Ben Vautier, Philip Corner (Unimedia) e Takako Saito (Leonardi/V-idea).