OCRA/ARCHIVIO
Studies on the European Avant-Gardes




LYOTARD ALLA DERIVA
di Sandro Ricaldone

La frase che per prima ci sovviene nel tentativo di ricostruire la posizione di Lyotard critico e teorico è l'asserzione posta dal filosofo francese in capo alla relazione presentata, nel maggio '78, al Convegno "Critica O" (si può applicare qualsiasi metodo per decifrare l'opera d'arte contemporanea").

Ma, nonostante la parvenza ad un tempo suggestiva e provocatoria (suggestiva perché provocatoria) questa proclamazione di un assoluto lassismo critico, spregiudicatamente desunto dalla teoria wittgensteiniana dei giochi di linguaggio, non sembra connettersi in maniera del tutto soddisfacente ad altri assunti avanzati in questo scritto lyotardiano, di cui potrebbe considerarsi come conclusione in certa misura "sfasata". Ciò appunto viene a sminuire notevolmente l'importanza delle contestazioni (d'altronde affatto ragionevoli) di coloro che si ostinano a ribadire l'impossibilità di applicare all'opera metodi interpretativi non pertinenti o, comunque, di prescindere dalla "agibilità storica" (Menna) del metodo prescelto.

Assai più significativi risultano, invece, per una chiarificazione della portata della elaborazione teorica lyotardiana, altri contenuti espressi nel testo cui sinora abbiamo fatto riferimento, ossia :

- da un lato la collocazione dell'opera critica (non diciamo ermeneutica per ragioni che si comprenderanno più oltre) fra le opere d'arte contemporanee;

- dall'altro mediante l'individuazione della consistenza reale dell'opera nella pragmatica mediante la quale essa è stata concepita e realizzata.

Circa quest'ultimo punto (torneremo, come si è detto, in seguito sul precedente che, in ogni caso, non ha nulla a che fare con il trito cheval de bataille della "critica creativa") Lyotard. si vale del lavoro compiuto da Daniel Buren per fornire l'esempio di un'opera che altro non è se non "esibizione della pragmatica nascosta nell'arte", in cui ogni elemento (non soltanto di comunicazione ma) di significazione viene ridotto sino a giungere ad una sorta di "astrazione semiotica" ("Se Buren fa parlare così forte la pragmatica è perché non ha niente da significare").

L'opera, in questa accezione, viene quindi a configurarsi come entità (vuota o piena non ha qui rilevanza ma, comunque) in sé conclusa; ciò che induce a considerare l'esercizio critico - come acutamente intuiva Catherine Millet - non più come interpretazione di un'opera, bensì come "deriva a partire da , che trova in sé medesima la propria determinazione e la propria regola (e, di conseguenza, viene ad assimilarsi al discorso filosofico).

Questo punto di vista appare soddisfacentemente compatibile con l'idea - elaborata negli anni 71/73, muovendo da spunti freudiani - dell'opera come "dispositivo pulsionale", vale a dire come articolato gioco di intensità libidiche nel cui ambito il problema del significato perde importanza di fronte ai temi della trasformazione e del reinvestimento delle energie che attraversano il lavoro artistico nella realtà. L'impiego del concetto di opera come dispositivo pulsionale - presupposto di una fondamentale dilatazione prospettica per cui all'estetica come scienza del bello (e magari del vero) vengono a sostituirsi innumerevoli estetiche applicate (applicabili) in qualsiasi campo (economico, politico, tecnologico ecc., oltre che artistico), ad ogni fenomeno di conversione di energie libidiche - avrebbe potuto far intravedere una possibilità di superamento della frattura arte/vita su basi meno ingenue di quelle consuetamente evocate in proposito.

Occorre tuttavia non dimenticare come questa ipotesi descrittiva (cui riteniamo vada riconosciuto un interesse non trascurabile) si accompagni ad una aspettativa di liberazione fondata sulle potenzialità eversive del desiderio che si è mostrata - sinora almeno - assai scarsamente attuale. E' significativo, perciò, che in scritti più recenti, quali ad esempio l'intervento intitolato "Regole e Paradossi", si abbia modo di riscontrare, nello sviluppo teorico lyotardiano, un ripiegamento verso la nozione (già elaborata attorno al '70) dell'opera come "figura", come oggetto situato nei "buchi" della realtà, appartenente ad un ordine di esistenza nel quale non vigono gli schemi quotidiani di percezione e comunicazione, il cui valore risiede, precisamente, nella "efficacia critica" nei confronti della realtà stessa e - nel testo citato - nella opposizione esercitata "di fronte al tentativo (del sistema ) di ridurre il linguaggio all'unità mercantile dell'informazione" attraverso un lavoro di incomunicabilità (ovvero di sperimentazione di nuove regole e, quindi, di nuove articolazioni del linguaggio) condotto precipuamente dagli artisti.

Si torna però così facendo, ad istituire la possibilità di avviare un processo di liberazione (se non più sul fondamento di una mistica "iscrizione libidica generalizzata") su momenti e strutture tradizionalmente connotati) in senso estetico, cui si restituiscono - in tal modo - ambito e funzione specifici, col risultato di proporre (una volta ancora) l'ambigua ipotesi di una rigenerazione che trova il proprio modello in una categoria segregata.