L'eredità lasciataci da Carlo Cuomo

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Alcune provvisorie riflessioni conclusive...
di Carlo Cuomo

    Alla fine di queste pagine speriamo che il lettore si ritrovi a guardare i rom da un nuovo punto di vista, che si sia modificata la qualità del suo sguardo su di loro. Al posto di disordinate e minacciose "bande" di generici zingari abbiamo un popolo, il popolo rom, le sue molteplici e ben individuabili comunità, la ricchezza e l'articolata varietà di forme della sua antichissima lingua. E' un popolo arrivato fino a noi attraverso una lunga e complessa storia: quindici secoli variamente documentati e testimoniati, ma anche radici ancora più antiche le cui tracce si ritrovano, non sempre facilmente decifrabili, nella lingua e nelle strutture sociali. La sua caratteristica principale non è, come afferma il senso comune o qualche maldestro studioso, il nomadismo; ma, piuttosto, il pensarsi e viversi come arcipelago di comunità - disseminate fra gli altri popoli ma in contatto tra di loro e gelose della propria identità -, minoranze in seno a popolazioni maggioritarie, nicchie socio-economiche specifiche all'interno dell'economia e delle strutture sociali delle società ospitanti. Comunità "chiuse", in un certo qual senso, conservatrici, custodi di arcaicità e - in pari tempo - vogliose e capaci di adattamento, di cambiamento, di interazione attiva con le culture altrui. Se, con le dovute cautele, qualche confronto può essere fatto è con altre diaspore: quella ebraica, iniziata prima dell'era cristiana, quella armena, quella greca.
    Costituisce fenomeno interessante e peculiare, che impegna da più di due secoli linguisti antropologi e storici, il fatto che i rom - senza cultura scritta, senza un proprio territorio e proprie strutture statuali, dispersi da secoli in piccoli gruppi fra tanti popoli e in tanti paesi, spesso disprezzati e perseguitati dagli altri - non abbiano smarrito né abbandonato la consapevolezza di sé, combinando, in un originalissimo intreccio, tenace conservazione della propria identità e ricchissime risorse di adattamento. Essi avrebbero potuto, piano piano, chinare la testa, nascondere e poi dimenticare la propria identità, assimilarsi. Non l'hanno fatto, e ci mettono così di fronte ad una realtà storica di "lunga durata" che necessita di ulteriori studi e approfondimenti. Su questo fenomeno è opportuno però sviluppare anche una riflessione più generale da cui far nascere un nuovo senso comune dei gagé (ed è questo l'obiettivo di queste nostre pagine) e a partire dalla quale sviluppare fra i rom stessi una nuova e più forte consapevolezza etnica, una loro rinnovata fierezza.
    E', crediamo, alla luce di questo duplice movimento di "conservazione di sé" e di "interazione con l'Altro" che bisogna leggere la realtà dei rom, oggi e nella storia. Per esempio, il loro rapporto con la musica: il flamenco e il "cante hondo" Andaluso; la musica magiara e la musica rumena; le musiche del Commonwealth balcanico, bizantino o ottomano o jugoslavo che fosse; più recentemente, il jazz. Ed è sempre in questa luce che si capiscono i mestieri dei rom, il loro rapporto non con il lavoro ma con i lavori. Perché, bisogna dirlo con forza, contraddicendo il più tenace dei pregiudizi antizingari, i rom sono, nella storia, comunità attive e laboriose. Produttori di beni materiali: artigiani dei metalli (fabbri, maniscalchi, stagnini, calderai, ecc.), del legno, del vimini, del cuoio; allevatori e addestratori di animali (cavalli, muli, ecc.), produttori di servizi: musicisti, danzatrici e danzatori, indovine e indovini, guaritrici e guaritori; commercianti dei propri e degli altrui prodotti.
    Sono, queste, alcune delle nicchie economiche che i rom, nella loro storia millenaria, individuano o costruiscono per vivere interagendo con i bisogni dell'economia e della società nella quale si sono insediati. Buona parte dei loro spostamenti, delle loro migrazioni si spiegano appunto con il bisogno di trovare e/o inventare nuove nicchie socio-economiche quando quelle vecchie sono minacciate o distrutte da eventi imprevisti e violenti (guerre, carestie, ecc.) o, più spesso, semplicemente "sovraffollate" da una popolazione rom in forte aumento demografico. Ecco perché i rom non abbandonano mai un territorio, un paese ma, più semplicemente, "esportano", in un certo qual senso, in nuovi territori, il sovrappiù della propria popolazione. D'altronde, nella storia, le loro abilità lavorative sono riconosciute e ricercate dalle popolazioni locali. La terribile schiavitù rumena (dal Trecento all'Ottocento, cinque secoli!) è dettata dal bisogno di fissare irreversibilmente sul territorio artigiani abilissimi, introvabili fra la popolazione autoctona.
   Per almeno tre secoli, dal Seicento all'Ottocento, si hanno precise notizie sul quartiere rom della Salonicco ottomana ("Zinganeria", nello spagnolo degli ebrei sefarditi che formavano la maggioranza assoluta della popolazione di quella città), che aveva il monopolio dell'artigianato dei metalli in una città in cui vigeva, spontaneamente, la divisione etnica del lavoro e, quindi, la pacifica e collaborante convivenza tra etnie diverse. Nella Palermo del Settecento abbiamo una "Corporazione dei Forgiatori o Zingari" il cui Statuto è ufficialmente riconosciuto dal Senato della città e in moltissime città dell'Italia centromeridionale abbiamo, sin dal Cinquecento, vie dei Forgiari o degli Zingari. Durante le grandi persecuzioni in Spagna (ma anche altrove…), autorità cittadine e signorotti intervengono per salvare e recuperare i "loro" fabbri e artigiani zingari di cui - lo dichiarano apertamente - non possono fare a meno.
   A parte l'isolato e arcaico fenomeno rumeno, i veri problemi esplodono però solo quando i rom incontrano, nell'Europa dell'inizio dell'era moderna, non i lavori della piccola produzione indipendente, tipica delle formazioni socio-economiche precapitalistiche, ma il lavoro: il lavoro capitalistico, la sua realtà, le sue regole, la sua ideologia, il suo bisogno di disciplina e di sottomissione. A questo lavoro i rom non sanno né vogliono piegarsi, ed è allora che si scatenano le grandi persecuzioni antizingare, con una violenza e una durata senza precedenti. Questo conflitto, apertosi nel Quattrocento, non è ancora terminato; né sono terminati il disprezzo, le paure, le discriminazioni e le persecuzioni che partorisce.
   Vista così, studiata da vicino, la storia dei rom interroga in modo pregnante la storia degli altri popoli, la nostra storia: dall'impero sassanide al tollerante dominio arabo dei primi secoli, dalla "naturale" multietnicità precapitalistica dei bizantini e degli ottomani al lento, violento ed oppressivo costruirsi simultaneo, nell'Europa occidentale, di quella modernità capitalistica e di quello Stato-Nazione che si rivelano nemici implacabili di ogni diversità che mal si adatti alle ragioni ferree dell'economia e all'uniformità delle leggi o, addirittura, ad essi rifiuti attivamente di piegarsi. Parliamo di "storia" ma, sia ben chiaro, non parliamo di un passato superato o di poche, fastidiose sopravvivenze di una passata barbarie. Parliamo del presente dei rom e parliamo del nostro presente. Paure e fobie irrazionali, diffidenze e discriminazioni, disprezzo e persecuzioni non sono cessati. Anzi, in questo finale di secolo e di millennio, sono continuamente, "modernamente" alimentati dalle nuove forme che l'insicurezza, l'emarginazione, l'impoverimento assumono fra i ceti popolari, dall'esasperarsi ulteriore dell' "egoismo proprietario", così come da forme istituzionali di discriminazione e di razzismo che scaricano egoismi e paure popolari sui diversi, sugli stranieri e, per finire, su quei "diversi" e "stranieri" per eccellenza che sono gli zingari.


…e un possibile progetto.

   E' per questo che, partendo dall'analisi e dalla storia, vorremmo chiudere questo nostro lavoro con l'indicazione di alcuni punti a partire dei quali si possa pensare, definire e realizzare una possibile, percorribilissima - e auspicabilissima! - politica positiva. Bisogna partire, secondo noi, da una prima presa d'atto: la questione delle comunità etnico-linguistiche, delle minoranze - che, dall'ex Jugoslavia agli Stati Uniti, dal subcontinente indiano all'ex URSS, dall'Amazzonia al Guatemala, ecc., sta esplodendo in tutto il mondo in forme spesso violente, con un appesantirsi e inasprirsi dei meccanismi di marginalizzazione, di oppressione e di sfruttamento che alimentano, in risposta, irrazionali ed atroci integralismi etnici ed etnico-religiosi - ci riguarda direttamente. Per antichi insediamenti storici e per nuovi fenomeni migratori, l'Italia è un paese multietnico: sud tirolesi, franco provenzali, sloveni e croati, grecani e arbëresh, comunità ebraiche, occitani, rom e sinti, ecc. convivono da secoli con l'infinita varietà dialettale e regionale delle culture "italiane". Ad essi, negli ultimi vent'anni, si sono aggiunti maghrebini, latino-americani, asiatici, africani. Ma il nostro è un paese multietnico che, dall'unificazione risorgimentale in poi, rifiuta di accettare la propria multietnicità: la rimuove o l'emargina o la reprime, con un'asprezza cresciuta in questi ultimi anni. E i rom sono l'oggetto "privilegiato" di questa rimozione, emarginazione, repressione, della diffidenza e del razzismo diffusi, della discriminazione istituzionale.
   Prendere coscienza di questa rimozione e abbandonarla è la prima condizione per affrontare razionalmente ed equamente la "questione zingara". Studiamo con rigore e serietà le minoranze del nostro territorio nazionale, impariamo a vederle per quello che sono, costruiamo un nuovo senso comune di rispettosa attenzione nei loro confronti e, quindi, costruiamo - per loro e con loro - attive politiche positive.
   In tempi di pericolose e furbe tentazioni "revisioniste', ripartiamo dalla Costituzione, il cui articolo 6 recita: "La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche". E' dal '48 che si aspettano invano queste "apposite norme" di tutela. Nessuna legge nazionale le ha mai definite e le leggi regionali in questa materia hanno bisogno di essere correte, completate e unificate da una normativa complessiva.
   Quando si scrive che "la Repubblica tutela...", il verbo "tutelare" ha un significato preciso e forte. Significa che nessuna norma discriminatoria è tollerabile. Significa che occorrono norme positive specifiche. Significa che per le minoranze linguistiche (oggi diremmo "etnico-linguistiche", ed è così che bisogna leggere l'articolo 6...) occorrono appunto "apposite norme" e, quindi, apposite politiche, se si vuol cominciare a realizzare anche per loro quanto affermato nel 2° comma dell'articolo 3 della Costituzione, là dove si afferma che "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". E' in questa direzione che devono muoversi da subito movimenti, associazioni, organizzazioni sociali e sindacali, partiti democratici, enti locali - superando antiche e pesanti inerzie, sordità e discriminazioni - per costruire, insieme ai rom, progetti chiari e realizzazioni concrete che rimuovano gli ostacoli e rispondano ai bisogni socio-economici e culturali delle varie comunità.
    La Costituzione repubblicana, infatti, non si accontenta di affermare astratti valori e principi. Si pone il compito - il dovere! - di rimuovere tutto ciò che, sul piano economico e sociale, ostacola, limita, nega i valori e i principi affermati. Si pone questo compito e, in pari tempo, lo pone a tutte le articolazioni istituzionali della Repubblica e a tutti noi, che della Repubblica siamo cittadini. E' per questo che, per il popolo rom e le sue comunità, per le donne, gli uomini, i pochi anziani e i numerosissimi bambini che lo compongono, noi dobbiamo chiedere - esigere! - che si cominci a rimuovere, da subito, ogni ostacolo all'uguaglianza, all'affermarsi della loro libertà, alla loro effettiva partecipazione all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Ogni ostacolo al pieno sviluppo della loro personalità umana, così come si è costruita attraverso la storia, la lingua, la cultura, le tradizioni.
   Per i rom, bisogna quindi cominciare a tradurre in politiche concretissime quella "tutela" e quel "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale" di cui parla la Costituzione.
    Il primo obiettivo è quello della costruzione di una "sicurezza insediativa", di un rapporto certo con il territorio: campi di transito e spirito di aperta accoglienza per il loro residuo nomadismo spontaneo, scelta libera che va rispettata e salvaguardata; quartieri residenziali veri e propri, nel tessuto urbano, per la sedentarizzazione comunitaria, che sembra essere, oggi, in Italia, la loro scelta fortemente maggioritaria; accesso agevolato alla casa per quelle famiglie che scelgono la sedentarizzazione individuale.
   Secondo obiettivo, la scolarizzazione: massima agevolazione per la regolare frequenza nelle materne e nella scuola dell'obbligo; un sistema di borse di studio e di incentivi per rendere possibile ed incoraggiare il proseguimento degli studi oltre la media dell'obbligo e il recupero scolastico degli adulti. Non basta però inserire i bambini e i giovani rom nella nostra scuola così com'è. Serve una scuola che, ripensata e trasformata, possa essere il luogo dove i piccoli rom accedono sì alla nostra cultura ma dove trovano anche, contemporaneamente, gli strumenti che consentono loro di meglio conoscere la propria lingua, le proprie tradizioni, la storia del proprio popolo; il luogo infine in cui le due culture interagiscono in un processo reale di interculturalità che arricchisca lo stesso percorso educativo degli alunni della cultura maggioritaria. Per questi compiti, la formazione di "mediatori culturali" rom è indispensabile.
   Terzo obiettivo, la salute ("fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività ...", dice l'art.32 della Costituzione. Badate bene: "dell'individuo e della collettività", non "del cittadino italiano"). Abbiamo visto con quale drammaticità si pone, per i rom, la questione della salute. L'alto tasso di natalità s'intreccia ad altissimi tassi di morbilità e di mortalità, ad una durata della vita molto bassa. Particolarmente colpiti sono la popolazione femminile (gravidanze, parti, ecc.) e la prima infanzia. L'intervento coordinato dei servizi socio-sanitari territoriali è indispensabile, così come una specifica formazione degli operatori riguardo alla realtà antropologica delle comunità rom e la collaborazione di "mediatori culturali"rom.
   Quarto obiettivo, l'accesso ai lavori. Tutto quanto abbiamo scritto fin qui rende chiaro, speriamo, che non si tratta di far accedere o di "piegare" i rom "al lavoro" quanto di programmare percorsi multipli che consentano loro di scegliere, qui e ora, fra "i lavori" possibili, in modo che tornino ad essere, come lo sono stati per secoli e fino a pochi anni fa, portatori di professionalità e di attività lavorative complementari ai bisogni della società ospitante. Occorrono quindi: una ricognizione precisa delle residue professionalità tradizionali per consolidarle e/o trasformarle in modo che si possano adattare all'attuale mercato del lavoro; una formazione professionale disegnata sulle loro scelte e sui loro progetti e, quindi, percorsi facilitati di accesso al lavoro; un'incentivazione alla formazione di cooperative, comunità per comunità (soluzione da privilegiare perché consente di combinare inserimento nel mercato e autogoverno dei tempi e ritmi dell'attività lavorativa); infine, formazione di operatori rom a servizio delle loro comunità. Ci soffermiamo su quest'ultima proposta, a cui abbiamo già accennato parlando della scuola e dei servizi socio-sanitari e che si sta già sperimentando, a Milano, con la formazione di mediatrici culturali inserite nelle scuole elementari e nel settore sanitario materno-infantile. Altri campi si possono aprire (manutentori dei campi sosta, collaboratori delle ricerche antropologiche e linguistiche, ecc.) e, su queste prime esperienze, si possono sviluppare nuovi progetti, passare dalla semplice formazione professionale al conseguimento di diplomi (e, in prospettiva, di lauree) che formino personale scolastico, sociale, sanitario rom e, quindi, all'interno stesso delle comunità, consentano l'emergere di élites e quadri autoctoni. Infine, questo è un campo che consente di rispondere al bisogno femminile di lavoro e di sorreggere un processo già in corso di ridefinizione e valorizzazione dei ruoli femminili.
    Quinto obiettivo, la salvaguardia, il recupero e lo sviluppo della cultura rom. L'approccio storico-antropologico-linguistico di tale lavoro deve coinvolgere Università, centri di ricerca, operatori scolastici e sociosanitari e - compiutamente, attivamente, sin dall'inizio - le stesse comunità rom perché solo con loro si può attivare un processo che costruisca memoria storica, padronanza della lingua, consapevolezza chiara della propria identità. Abbiamo visto che la scuola può essere uno dei luoghi alti di questo processo. Inoltre, i quartieri della sedentarizzazione comunitaria possono diventare centri di intensa attività sociale, educativa e culturale rivolta alla propria popolazione nonché alle famiglie individualmente inserite nei quartieri delle nostre città (anche per combattere fenomeni di 'assimilazionismo' passivamente subiti da queste famiglie), alle comunità tuttora nomadi così come alla stessa popolazione gagé per aiutarla a superare pregiudizi, miti negativi e paure.

   Ciò che proponiamo, quindi, - e alcuni di noi già praticano... - è un rigoroso processo reale che rimuova, sin d'ora, gli "ostacoli di ordine economico e sociale" (e culturale, cognitivo, morale...) che emarginano le comunità rom nel degrado più estremo delle nostre periferie e nelle zone più oscure delle nostre angosce e delle nostre paure. Indichiamo percorsi possibili. Nessuno - governo, parlamento, regioni, comuni - scantoni con il pretesto dell'impossibilità o dell'estrema difficoltà a risolvere una questione che altrimenti, certo, si vorrebbe risolvere. La percorribilità delle proposte che avanziamo serve a smascherare tali ipocrisie: i metri quadri necessari per i campi e i quartieri residenziali sono facilmente reperibili; i miliardi necessari per realizzarli si possono trovare senza sforzi particolari nei bilanci statali, regionali, comunali così come sono strutturati oggi; gli interventi per la scuola, la cultura, la salute, il lavoro necessitano sì di qualche finanziamento ma, soprattutto, di un intelligente coordinamento e attivazione di servizi e professionalità già esistenti.

   Basta superare l'indifferenza, l'ostilità, il razzismo strisciante - ed è questo che non si vuol fare, ed è questo che dobbiamo costringere a fare.

    Nel mentre, comune per comune, quartiere per quartiere, portiamo avanti quelle concretissime e rigorosissime mobilitazioni e proposte, dovremmo anche lavorare alla creazione di un ampio movimento politico, culturale ed etico per conquistare una legge attuativa dell'articolo 6 della Costituzione. Proviamo, anche con questa pubblicazione, ad indicarne i contenuti al nuovo Parlamento e al nuovo governo. Serve, dopo 48 anni di indifferenza e dimenticanze, una legge che:

  • riconosca e tuteli i diritti di tutte minoranze etnico-linguistiche storicamente presenti sul territorio nazionale;
  • estenda diritti e tutela alle nuove minoranze formate dagli immigrati degli ultimi decenni;
  • riconosca l'identità etnico-linguistica come diritto soggettivo di ogni comunità e di ogni individuo, sganciato dal concetto di territorialità originaria;
  • in questo quadro, contenga norme specifiche che tengano conto della peculiarità delle comunità rom e sinte.

"Serve una legge che"... Serve a chi? Serve ai rom, certo; serve agli arbëresh, agli occitani, agli sloveni e croati, ecc.; serve ai nuovi immigrati. Serve ancora di più, forse, alla civiltà intellettuale, giuridica, morale, alla qualità dei sentimenti e della ragione di 58 milioni di italiani.


di Carlo Cuomo - tratto da "Il calendario del Popolo"


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