Storia dell'Abbadia di STURA

 

Dal Libro:

LE RADICI

 

Sommario

  1. Dedicato a ...
  2. Premessa
  3. Carta topografica
  4. Un po' di Storia
  5. L'Abbazia di S.Giacomo di Stura
  6. Le occupazioni di un tempo
  7. Due figure da non dimenticare: la direttrice
  8. Giulia Giustetto ed Ugo Ceresero
  9. Il gioco del calcio
  10. I lavandai: quasi una tradizione
  11. Concludendo
  12. Abbiamo seminato ...
  13. Bibliografia
  14. Sommario

 

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I QUADERNI DI LA BARCA.

 

LE RADICI

Mestieri, luoghi, personaggi

ed altro

 

Dedicato a…

Il grande poeta tedesco Goethe ammoniva: "Se vuoi conoscere lo spirito di un uomo devi conoscere la sua terra". Per conoscere lo spirito degli uomini e delle donne della Barca è necessario comprendere la terra in cui vivono, dove sono le loro radici e le loro origini. Ad un visitatore superficiale la regione Barca sembra un quartiere di Torino cresciuto in maniera disordinata, con palazzi nuovi che nascondono casettine rurali antiche, vie che cominciano e sembrano non finire, un misto di eredità vecchie e nuove quasi senza un filo logico. Invece se uno si ferma e cerca di conoscere la storia di questo borgo dell'estrema periferia Nord di una Torino che sembra cosi lontana oltre la Stura, scopre che c'è una profonda ricchezza di umanità, di storia, di avvenimenti che qui si sono succeduti nel tempo.

E' quello che è stato fatto dalla dott.sa Maria Grazia Chicco che insieme con Ugo Grasso e il prof. G. Zattarin sono andati alla ricerca di testimonianze che rappresentano le radici della nostra terra.

A questo primo "I quaderni di la Barca" dedicato, per l'appunto, alle radici storiche, c'è la speranza che ne possano seguire altri relativi all'immigrazione e all'immagine odierna della nostra zona. Un primo opuscoletto semplice, magari con poche pagine ma dedicato a tutti gli abitanti della Barca ed anche a quelli che si sentono legati a questo territorio ricco di storie e di umanità, unito come i due fiumi che qui si legano : il Po e la Stura.

Don Antonio Borìo, Parroco

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Premessa

Radici è un termine che senti dentro, qualcosa che ti coinvolge e fluisce come la linfa che scorre nelle vene, che ti commuove con il pensiero del passato. E' il colpo d'occhio di un panorama con una Basilica, è un campo arato da poco, una viuzza che non esiste più, un amico che abitava a pochi passi e rivedi dopo una vita o mai. E' il ricordo di un rivo limpido, di profumi nell'aria, di resti di edifici come testimonianza, l’appartenenza ad un luogo piuttosto che ad un altro, mille stoffe bianche stese che si agitano nel vento come uccelli. E' tutto quello che si ha nel cuore e si desidera comunicare anche attraverso il pensiero di altri

Maria G. Chicco

 

 

 

 

Un po' di Storia

A quel tempo esistevano soltanto campi, boschi, fiumi. torrenti rivi ed animali. Poi le bestie dovettero condividere il loro territorio con gli uomini. La Radia era già là e vegliava lungo la strada di Settimo. Sorsero case sparse e l'uomo coltàivav'a la terra seguendo i ritmi della natura.

Cosi per secoli.

Nel 1840 la regione Barca non esisteva ancora.Al suo posto c'erano piante boschi e campi. Circostanti Bertolla e La Verna erano già un agglomerato di edifici. Nella campagna Tetti Biasone, La Magra, le Cascinette e Pescarito vivevano la loro tranquilla esistenza.Il Po e la Stura scorrevano lenti.

Poi, si dice, che un re magnanimo mentre cacciava sulla sponda destra del fiume Po, dove in un immenso parco possedeva un palazzo, sia stato sorpreso da una piena improvvisa.

Alcuni pescatori che erano abitualmente sulla sponda sinistra videro la scena lo soccorsero e gli salvarono la vita.

Come ricompensa per il gesto coraggioso ricevettero in dono un appezzamento di terreno posto presso la confluenza dei fiumi Po e Stura, sulla riva sinistra.

I pescatori erano povera gente e abitavano in rozze capanne costruite in legno e lastre di latta. Questi edifici primitivi furono il primo nucleo di un agglomerato che sarà poi chiamato «La Barca« in memoria di un navicello che collegava le due sponde del fiume.

Con l'andare del tempo arrivò altra gente e le abitazioni si moltiplicarono ed abbellirono. Questa moltitudine di persone era qui chiamata dal miraggio di nuove possibilità di lavoro e proveniva, principalmente, dal Canavesano e dalle Valli di Lanzo.

Nel 1874 fu anche costruito un nuovo ponte sul fiume Stura ( i primi tentativi medioevali non erano risultati molto sicuri ) che precedettero quello definitivo del 1934.

La regione Barca fu, dapprima, un agglomerato rurale, poi vennero gli artigiani e consolidò, quindi, in un ambiente misto con attività varie.

I centri limitrofi di Settimo, Bertolla, e San Mauro erano, invece, costituiti in prevalenza da proprietari terrieri e lavandai.

Con l'espansione la Barca, arrivando da Torino, risultò avere una pianta triangolare con le biforcazioni per Settimo e San Mauro.

Tra le biforcazioni sorse una piazza e si aprirono i primi negozi e uno spaccio dell'Alleanza Cooperativa Torinese.

A loro seguirono i ristoranti e le osterie perché, essendo vicini al fiume, ci fu la tradizione del consumo dei pesci.

La gente, infatti, veniva da Torino con il famoso «trenino Ghigo«», chiamato cosi dal nome del proprietario, per passare qualche ora giocando alle bocce nei campi appositamente attrezzati. Si consumava,poi,la «merenda sinòira« che era una merenda abbondante che si prolungava e

sostituiva la cena. Questa era costituita da pesci fritti e frittate di uova e verdure. I pesci consumati erano della Stura oppure del Po.

Ma qualche ristorante era attrezzato con delle vasche in cui nuotavano i cosiddetti «pesci vivi« che i clienti pescavano con appositi retini e portavano direttamente in cucina.

In quei momenti di distensione le donne chiacchieravano sotto la «tòpia ‘d üva frola« (pergolato di uva) o giocavano a carte mentre gli uomini rincorrevano le bocce e si dissetavano con bottiglie di vino stappate sul posto da un ragazzo, appositamente incaricato che poi le riponeva al fondo davanti al luogo in cui si giocava.

I locali in cui si mangiava, a quel tempo, erano: il Barcaiolo,Gremo, Defilippi, Rosso, le sorelle Meda, i Cacciatori, da Goffi, alla Croce, dal «Moru«, il Belvedere, da Trivero, Varetto, Fortin, Zucca e Bertoglio.

Alla Barca l'istruzione ebbe, per un certo periodo, qualche problema.

Ci fu, per esempio, la storia di un asilo mai costruito anche se un proprietario di buona volontà aveva lasciato il terreno. Le madri che lavoravano avevano, infatti, qualche difficoltà a portare i bimbi in quello del Regio Parco per la non coincidenza con i loro orari lavorativi. Anche le altre scuole si frequentavano, per la maggior parte, non in regione Barca perché qui si doveva andare sino alla Badia scomoda per i poveri mezzi di comunicazione di quel tempo. Con la costruzione della scuola «Giovanni Cena« le cose migliorarono notevolmente. Per quanto riguarda la Parrocchia la zona Barca si doveva riferire alla Abbadia di Stura che come ben sappiamo era lontana. Cosi si ripiegava su San Gaetano sempre in Regio Parco. Ci si recava al monastero, quindi, maggiormente per i funerali, qualche funzione particolare e per la festa di San Giacomo, a cui la Badia era dedicata, dove si celebrava una Messa solenne. Si costrui, poi, una chiesetta non tanto grande ma comoda a raggiungersi. Dapprima fu consacrata alla adonna di Pompei e poi in seguito a San Giacomo Maggiore Apostolo. Avevamo anche un cimitero. Il primo era dietro l'abside del monastero, poi, si trovò un terreno adatto in una zona circostante. I confini della regione Barca erano, sin d'allora, già ben delineati: iniziava al ponte della Stura all'imbocco della strada per Settimo dove c'era l'osteria «il Barcaiolo«, toccava «il cascinot« in una zona chiamata «’l Magra», Bertolla e la Verna e si ricongiungeva con la Stura.

 

 Personaggi e mestieri

 

Ogni zona ha avuto i suoi personaggi i mestieri o i luoghi caratteristici. La regione Barca non fa eccezione. Tra tutte queste particolarità ne vorremmo ricordare alcune che hanno fatto epoca in un periodo in cui la televisione era al di là da venire e la radio un privilegio di pochi.

foto3asmall.jpg (5942 byte)Il «’L Cavalín« (cavallino), era un venditore ambulante che girava per le case con un piccolo cavallo trainante un lungo carretto carico di casalinghi, detersivi e tutto il fabbisogno delle massaie che non avevano il tempo di recarsi nei negozi in Torino. Egli consigliava le donne circa i loro acquisti, ne sentiva le necessità ed era pronto ad accontentarle nel suo giro seguente.

Acquistava anche le pelli dei conigli che dopo essere stati uccisi per uso alímentare, erano rivoltate e riempite di paglía, fatte-seccare ed appese. Le predette erano valutate secondo la loro grandezza e bellezza del pelo ed il prezzo veníva sempre mercanteggiato.

«Marieta« era la diretta concorrente del«Cavalín« nel campo del recupero delle pellí di coníglio. Si occupava, però, anche di stracci e girava con un carretto dalle ruote piccole. Andando di córtíle in cortile si annunciava a gran voce con la parola «strasé« (straccivendolo). Ella comperava, altresi, rottamí di ferro, rame, alluminio vecchío e tutto quanto poteva essere recuperato.

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«Gablot« era, invece, un tipico artista anteguerra. Girava con una grossa macchina fotografíca posta su di un cavalletto con una tendina dove nascondeva il capo al momento dello scatto. Tutti erano sempre íncuríosití di quello che sarebbe successo dietro quella tenda! Aveva anche un carretto, tírato da un asino spelacchiato, con sopra barattoli di acidi per sviluppare e fissare le fotografie. Portava con sé, pure, un piccolo aeroplano di carta con il quale i giovanotti si facevano immortalare in posa da aviatore.

«Romeo«, un ragazzo bravo e modesto, era legato all'attívità della raccolta dell'immondizia da parte di privati che avevano un appalto dal comune per la pulizia delle «mnísere« (pattumiere). Egli girava con il cesto, nelle cantíne, scopando e caricando sul carro in strada gli scarti delle case. Il suo era un lavoro pesante e faticoso, ma 1uí al saluto «Cíao Romeo« immancabilmente rispondeva «Ciao bel fieul« (ciao bel ragazzo) seguito da un ampio sorriso.

«Magna Villa«, invece, si dava al canto. La sua voce era potente e la si sentiva bene sia ai Vespri che alla Benedizione della domenica pomeriggio. Conosceva a memoria tutte le lodi e con la sua voce dirigeva il coro rispondendo al sacerdote che celebrava.

«Maria d'ij ravanin« (Maria dei ravanelli) era un'ortolana. Spuntava allo improvviso con le sue primizie, sempre molto belle, che conquistavano il palato. Non si è mai saputo dove fosse ubicato il suo orto…

Per quanto riguarda i mestieri, allora, era un tempo in cui il lavoro era molto precario e, quindi, c’erano attività particolari di cui oggi si è quasi persa la memoria.

C'erano «i teracin« (sterratori) che si spaccavano la schiena a spalare la ghiaia sul greto della Stura per ricavarne sabbia che era setacciata su una rete a maglie più o meno fitte. Quindi, la caricavano sul «tombarel« (carro agricolo con cassone ribaltabile) e la portavano nei cantieri edili. Coloro che non possedevano il «tombarel«, preparavano la sabbia e la vendevano direttamente sul posto.

Gli altri mille mestieri erano quasi tutti ambulanti: «l’anciuvé« vendeva acciughe sotto sale, «’l mercandin« era nel ramo della merceria e delle stoffe, «’l magnin« faceva il calderaio e lo stagnaro, «ij spaciafurnej« pulivano i camini, «gelaté« arrivava annunciandosi con una trombetta per attirare bambini ed adulti e vendeva gelati, «’l sonador ‘d la pianola« girava

una manovella e dallo strumento usciva musica, «’l pòver bòrgno« distribuiva oroscopi su fogli rosa, era un mendicante cieco e le sue previsioni erano sempre positive perché la gente aveva bisogno di speranza, «’l rané« commerciava in rane, «’l molita« arrotava forbici e coltelli che

non tagliavano più e «’l limonè« vendeva limoni.

FOTO4ASMALL.jpg (7416 byte)Le vacche dell'Abbadia: è riconoscibile in primo piano la Bruna, la Bianchina e in secondo piano la Gigia, etc.

 

 

 

 

 

Ed allora anche un luogo aveva un nome particolare del cui significato o motivo preciso, magari, non si è più a conoscenza ma, tuttavia, ci ha accompagnato nel tempo. C'è «La Verna« il cui significato dialettale è il nome di una pianta l'ontano, La «Falconera« con la sua torre bucherellata per far nidificare gli uccelli, la «strà dij mort« strada dei morti, per il cimitero, ora via Rubens Fattorelli, «Il borg napoli« il borgo dei napoletani all'interno di Strada del Pascolo, «la pera àuta« la pietra alta una borgata di due o tre case dove c'erano le bialere o «la vietta« che era una strada caratteristica, privata, che immetteva poi sulla piazza principale della borgata.

FOTO4BSMALL.jpg (7571 byte)Il complesso Abbaziale visto da una "fica" (Chiusa) sul "Biarlun", l'antica "Sturella" (il canale dell'Abbadia).

 

 

 

 

Anni '40: "Cavalin", con due clienti, davanti al suo carro di mercanzieFOTO5ASMALL.jpg (5900 byte)

FOTO5BSMALL.jpg (5519 byte)Anni '50: lavoratrici della Manifattura Tabacchi: le signore Sesia, Surina, Gardino, Berinetti e Bruno

 

 

 

 

 

Il pellegrino Manrico…

Manrico si strinse nel mantello. Nonostante gli strati di indumenti pesanti rabbrividi. Era già tardi e faceva freddo. Doveva trovare un rifugio per la notte. Poi, nella campagna, si delineò una torre con altri edifici attorno. Sperò che fossero ospitali. Era un pellegrino e doveva sciogliere un voto per Matilda sua moglie. Sarebbe andato a Compostella. Il cavallo era stanco e lui pure. Si avvicinava sempre di più all'abitato. Era una chiesa con edifici vicini. Bussò, impiegarono parecchio tempo ma poi la porta si apri. Frà Jacopo squadrò lo straniero da capo a piedi e decise che si poteva fidare e lo fece entrare. Manrico disse: «Sono un pellegrino e avrei bisogno di ospitalità, vado a Compostella per sciogliere un voto. Adesso, però, vorrei andare in chiesa«. Il frate lo accompagnò nell'edificio vicino e lo lasciò solo. C'era una grande Croce. Lo affascinava. Manrico s’inginocchiò, non senti il duro dei pavimenti. Era rapito dalla visione del Sacro Simbolo. Mentre la guardava pensava a Matilda ed al figlio che lei portava in grembo. Pregò tanto,l’uomo, e man mano che passava il tempo in lui cresceva una certezza: il bambino sarebbe nato a Natale, il più bel dono che si potesse desiderare. La loro casa non sarebbe più stata cosi vuota…

 

L'Abbazia di San Giacomo di Stura

In quel periodo, nel luogo, c’erano solo prevalentemente campi e qualche abitazione sperduta. Poi, un certo Pietro Podisio, torinese, il 25 gennaio 1146 diede una casa e varie giornate di prati e campi al monaco Vitale di Vallombrosa affinché lo stesso, aiutato da confratelli impiantasse in quel fabbricato un «hospitale« in cui potessero essere ricoverate tutte le persone affette da ogni genere di malattie e che servisse allo stesso tempo 4wwda luogo di rifugio per i pellegrini. Con l'ospedale sorse, infatti, l’abbadia che era sull'itinerario Gerosolomitano e sul cammino per Santiago di Compostella. Con il passare del tempo l'abbazia venne dotata di numerosi beni immobili dai Vescovi di Torino, dai Marchesi del Monferrato, dai Duchi di Savoia e inoltre da lasciti di privati. Il monastero venne a possedere beni immobili cospicui consistenti in chiese, case, vastissimi appezzamenti di prati, campi e boschi in parecchie località delle Valli di Lanzo, alcuni nell'attuale Comune di Borgaro, in quelli di Cavoretto e Druento, di Pianezza nonché in Torino, sulla collina torinese ed in altre terre vicine e lontane. In breve tempo l'abbazia divenne molto ricca e i Marchesi del Monferrato le concessero protezione e immunità di pedaggio a più riprese a patto che i monaci continuassero a prestare la loro opera nello ospedale e come navicellai sul torrente Stura. Nel 1220, mentre era abate un certo Guido, venne ultimato un ponte in legno sul torrente Stura che, per la verità, risultò molto precario. Gli abati di San Giacomo di Stura furono in tutto quindici. L'ultimo fu Tommaso Tortello Brancaccio che venne insediato nel 1411. Nel 1221 l'abate Guido ebbe una lite feroce col titolare della chiesa di S. Maria, poi detta del Ponte Stura, in conseguenza del sopracitato ponte che a quanto pare ledeva vari diritti della nominata chiesa. Nella lite che durò fino al 1228 intervennero più volte nella veste di pacieri e come testimoni l'abate di San Solutore in Torino, il prevosto di San Dalmazzo in Torino ed inoltre il visconte di Baratonia.

I monaci che, allora, erano addetti allo ospedale della badia erano contemporaneamente medici ed infermieri, ma alcuni di loro si impegnavano, anche, per ottenere con mortai, storte ed alambicchi, unguenti e balsami che avessero le proprietà di alleviare i mali che da sempre affliggono le persone. Nei prati circostanti la badia, le erbe ed i fiori benefici non mancavano di certo. Il monastero aveva anche un cimitero che si trovava dietro il muro absidale. Fu trasferito dopo il 1400. Questo luogo era diviso in due sezioni: una riservata ai monaci e l'altra a tutte le altre persone. Poi l'abbazia venne trasformata in Commenda a favore del vescovo di Torino Aimone di Romagnano. Questo non piacque molto ad alcuni monaci che protestarono. Per sedare la nuova diatrìba papa Martino V nel 1420 fini per incorporare la totalità dei beni del monastero di San Giacomo di Stura alla mensa vescovile di Torino. La Badia divenne parrocchia e benché non se ne conosca l'anno esatto ttutti i registri di battesimi, nascite e morti datano dal 1650.

Nel tempo l'Abbadia, come Parrocchia, fu sostituita da due chiese. La prima fu dedicata alla Madonna di Pompei, e successivamente nel 1967 a San Giacomo Apostolo, entrambe rette per cinquantasette anni dai Francescani Minori conventuali.

FOTO6BSMALL.jpg (9699 byte)La cantoria dell'Abbazia di Stura sul terrazzo realizzato nel 1901 "ad pedes et oculos recreandus-confectum anno 1901".

 

 

 

 

 

Le occupazioni di un tempo

Dapprima la regione Barca fu un agglomerato rurale. I contadini erano in prevalenza e si occupavano anche degli orti. Poi a questi si aggiunse anche la tradizione dei lavandai che occupò intere famiglie. Sporadicamente qualcuno si dedicava alla pesca vista anche la vicinanza del fiume. Ma quello che diede maggiore occupazione furono le aziende che cominciarono a prosperare in zona oppure in luoghi decisamente più lontani. Molti furono gli uomini e le donne impegnati, per esempio alla Manifattura Tabacchi, nel campo tessile come Bona e Gianotti, alla Talmone, alla Wamar, alla Venchi Unica, al feltrificio e nelle filande. Era davvero uno spettacolo vedere arrivare sul ponte della Stura, ad una certa ora, frotte di bicilette di operai che, magari, s’ncrociavano con i lavandai che partivano per la consegna della biancheria. Ma prima la gente raggiungeva i posti di lavoro anche a piedi e nel fine ‘800 i lavoratori della Manifattura Tabacchi andavano là anche con il «trenino Ghigo«. Da ultimo arrivo la Snia Viscosa e cominciarono le prime immigrazioni esterne.

 

Due figure da non dimenticare:

la direttrice Giulia Giustetto

ed Ugo Ceresero

 

 

 

 

FOTO6ASMALL.jpg (7994 byte)La Direttrice Giulia Giustetto (la donna anziana al centro) durante una gita a Lourdes negli anni '50

 

 

 

La direttrice

La donna era arrivata. Vide l'edificio, entrò e la prospettiva di aule la commosse. Era l'intervallo. I ragazzi, in gruppi, mangiavano o s'intrattenevano con giochi a lei in parte sconosciuti. Quanto li amava! Lo aveva fatto fino all'ultimo giorno della sua vita terrena, aveva dato tutto affinché capissero e potessero avere una vita diversa. Andò verso dei libri e li sfiorò lievemente. Un nuvola di polvere sembrò alzarsi, tanti puntini illuminati dal sole della finestra. Poi alzò il capo e guardò fuori. Il cielo stava scurendo: era ora di ritornare.

 

Ogni singolo inviduo, uomo o donna che sia, durante il tempo ha portato il suo personale contributo a «la Barca« e cosi ha fatto si che fosse quella che poi è stata. Tra tutte queste persone di buona volontà desideriamo ora ricordarne due in particolare: la direttrice Giulia Giustetto ed Ugo Ceresero.

La direttrice Giustetto nacque all'inizio del secolo in un periodo in cui certo l'istruzione non era tenuta certo in molta considerazione. L'analfabetismo era ancora largamente diffuso e lei era già una privilegiata per aver raggiunto un tal grado d'istruzione. Il suo curriculum d'insegnante cominciò in montagna, poi fu nel vercellese ed infine nella regione Barca come direttrice didattica della scuola «Giovanni Cena«. Erano anni difficili ma lei con umanità e lungimiranza, quasi precedendo un metodo «montessoriano«, riusci a fondare, per esempio, le colonie estive nella scuola. Poi si procurò il cibo anche quando scarseggiava e nel dopoguerra i attraverso l'opera pontificia portò i bambini, in estate, alla Novalesa, a Exilles, a La Thuile, al Santuario di Graglia e ad Oropa. In questo fu sempre assistita dai maestri. Fervente cattolica, focolarina, regalò alla Parrocchia, di cui era una attiva collaboratrice, una statua della Madonna con tutte le firme dei bambini dell'epoca. Organizzava anche dei pellegrinaggi a Lourdes. Durante la terribile alluvione del Polesine ospitò, anche, nel sottotetto della scuola «G. Cena« i bambini sfollati.

Per sopperire alla mancanza dell'Asilo infantile, ottenne, subito dopo la guerra, in uso il pianterreno della scuola «G. Cena«, retto dalle suore di S. Maria e gestito dal «Comitato Pro erigendo asilo« e dal C.L.N. . Grande dispensatrice di valori umani, oltreché culturali, anche al momento del suo pensionamento provvide ancora all'istituzione di un fondo per borse di studio per alcuni bambini delle ultime classi delle elementari affinché potessero affrontare meglio la Scuola Media Inferiore. Ritiratasi in Liguria continuò la sua attività in favore dei giovani fino ai suoi ultimi giorni.

 

FOTO7ASMALL.jpg (5419 byte)9 aprile 1941 Ugo Ceresero (primo da sinistra) nell'ultima fotografia da partigiano con tre amici

 

 

 

 

Ugo Ceresero: il suo spirito è ancora vivo!

Gli era stato concesso di ritornare: lo sapeva di essere un privilegiato. Ma il tempo era poco. Il giovane uomo guardò il fiume e poi si diresse verso casa sua. Faceva un certo effetto non poter essere visto. Camminava leggero. Sua madre era in cucina. Le avrebbe asciugato le lacrime. Prima non aveva potuto. Era trascorso un anno di speranza, poi era stato solo dolore. La guardò, si avvicinò, l’accarezzò lieve e tentò di prendere una goccia dai suoi occhi. Com'era invecchiata! Sembrò quasi vederlo ma fu un attimo d'illusione. Poi sospirò davanti alla sua foto e riprese a fare le incombenze quotidiane. I suoi occhi erano ora asciutti. Egli se ne andò quasi volando: finalmente era in pace

 

Si nasce sempre con una missione da compiere. Ed Ugo Ceresero era nato anche per questo: sacrificare la sua vita per un ideale. Il suo era un carattere buono, allegro e socievole, forgiato in una famiglia moralmente solida. Aveva molti amici i Ugo. Frequentò con profitto la scuola elementare «G. Cena« e poi continuò con quella di Avviamento Professionale. Già una buona cultura per i tempi in cui viveva.

In seguito aveva trovato un posto di lavoro dalla ditta Fonti dove per la sua intelligenza era stato subito promosso capoofficína. Ma il lavoro non bastava al suo carattere ed allora si iscrisse alla Azione Cattolica e si diede allo sport partecipando alle partite di calcio, nell'oratorio, con grande entusiamo. Arrivò ad entrare nella Juventus ed il suo avvenire come giocatore professionista sembrava ormai prossimo. Ma poi scoppiò la guerra ed Ugo come migliaia di altri giovani venne chiamato alle armi. Dopo l’8 settembre 1943, non essendo d'accordo con la chiamata, fuggi e si rifugiò a Cumiana da un certo Don Felice Pozzo che era stato il sacerdote della sua Prima Comunione. In quel luogo il giovane ebbe modo di fare nuove conoscenze con ragazzi suoi coetanei. Da Cumiana, in quel periodo, partivano anche, gruppi di partigiani per la montagna. Ugo entrò a farne parte.

Entusiasta, coraggioso come sempre, dotato di una grande fede, si dimostrò coerente alla sua personalità ancora una volta. Nel 1944 ci fu un rastrellamento nei pressi di Pragelato e Ugo, ora con il nome di battaglia di «Birba«, la volpe curiosa e vivace del giornalino «Il Vittorioso«, vide che un suo amico, un certo Manassero del Regio Parco, era stato ferito. Preso da umana pietà e deciso ad aiutare il giovane si rifiutò di riparare in Francia. Il suo destino era ormai segnato: i tedeschi lo catturarono e fu internato nel carcere Le nuove di Torino. Alla famiglia fu detto che sarebbe stato trasferito in Germania. Invece quelle menti perverse, animate solo da un istinto distruttore, lo portarono, con altri dieci compagni, in val di Susa a Chiusa San Michele. E li, fino all'ultimo, la sua grande fede venne testimoniata: davanti ai suoi carnefici alzò la mano con la Corona del Rosario, ma nulla valse contro la crudeltà degli esecutori. La fucilazione. Era il 26 maggio 1944. Ugo aveva vent'anni e la sua giovinezza era stata spezzata. Ma Dio c'era anche quel giorno e «pie donne« si occuparono del suo corpo e di quello degli altri suoi compagni e il parroco di Chiusa S. Michele che con le sue foto ne permise il riconoscimento. Per dodici lunghi mesi esse andarono a pregare sulle tombe di quei ragazzi sconosciuti. Tanto fu il tempo trascorso prima che i suoi familiari conoscessero la verità sulla triste sorte. Il loro caro era morto, ucciso da ideologie impazzite come succede in tutte le guerre.

 

Il gioco del calcio

 

FOTO7BSMALL.jpg (7086 byte)Anni '20: una tipica formazione dell'US.Barca. Tra gli altri si riconoscono: in piedi (secondo e terzo da sinistra a destra) Gribaudo Giovanni e Necco F. (Cichinu), Necco (Steu) dirigente; accosciati (il primo, il terzo e l'ultimo da sinistra a destra) Baima, Audenino Giovanni e Necco G. (Notu).

 

 

 

E in questa zona lambita da rivi, fiumi e prati si cominciò a giocare anche a calcio. Dapprima fu qualcosa di dilettantesco, poi le squadre divennero sempre più importanti. Ci fu quella parrocchiale che, nel tempo, portò nomi diversi. La squadra nacque nel 1937 con la sigla A.G.M.E.N.(Associazione Gioventù Maschile l'Elevatio Nostra).

FOTO8ASMALL.jpg (7519 byte)Una formazione dell'Agmen (Futura Ardor) negli anni '40; Si riconoscono in piedi (da sinistra a destra) Villa, Cornaglia, Vaschetto, Andrione e Ceresero Maria, accosciato: al centro Ugo Ceresero

 

 

 

Le partite, amichevoli, si disputavano nel campo dell'oratorio dove si cercava di dare spazio ai giovani a cui piaceva il calcio. Essi erano poi ricercati da altre formazioni, alcune delle quali già famose. Durante il periodo del fascismo si ebbe qualche problema nel giocare le partite perché erano proibiti i tornei in quanto gli assembramenti non erano permessi. Nel 1943 l'A.G.M.E.N. diventò U.S. SPES (Speranza). La squadra andava avanti con alti e bassi finché nel 145 due persone, Raviola e Beccuti, aiutarono la Parrocchia nel sostenere le spese delle maglie e dei palloni cercando finanziamenti tra i commercianti della zona. Poi si ebbe ancora un altro nome A.R.D.O.R.(Adveniat Regnum Dei Omnia Referre) e la squadra si trasferì in un campo di calcio lasciato dallo acquedotto municipale, nella zona «La Verna«,in quanto la costruzione della nuova chiesa prese una buona parte del terreno dell'oratorio. Nel 1962 l'A.R.D.O.R., il nome divenne definitivo si affiliò alla F.I.G.C. e continuò a disputare i suoi tornei.

Precedentemente, nel 1920, nella cappella della cascina Magra, fu benedetto il Labaro di un’altra squadra e precisamente l'Unione Sportiva Barca. I propositi iniziali furono quelli di educare i giovani allo sport ed essere un punto di riferimento per dare dei valori come socialità, amicizia e spirito di gruppo. Il primo campo della neo nata squadra fu sul lato sinistro della Stura, poco lontano dal fiume, e la sede della società fu installata nella trattoria Meda dove si trovava anche lo spogliatoio dei giocatori. Nel 1926 l'U.S. Barca si affiliava alla Federazione Italiana Gioco Calcio ed il tifo della gente nella regione Barca era già cresciuto a dismisura. I dirigenti di allora erano: Battista Bosco, Vittorio Scarafiotti, Angelo ed Alberto Monticone e Michele Pampione. Nel 1930 a dieci anni dalla fondazione il campo della squadra continuava ad essere uno spiazzo più o meno erboso e tracciato sommariamente; gli spogliatoi si trovavano ancora nella Trattoria Meda ed i giocatori erano costretti a fare anche due chilometri per raggiungere il campo. L'entusiasmo dei tifosi continuava ad essere grande! Nel 1934 i dirigenti del Barca decisero di ritirarsi dalle competizioni perché il regime di allora, secondo loro, non si conciliava con una libera attività sportiva. In quel periodo un'altra squadra portò i colori rosso blu del Barca: il suo nome era «G.F.Damiano Chiesa« ma non aveva nulla a che vedere con l'U.S.Barca. Terminato il periodo bellico la squadra riprese le sue attività grazie a Raviola e Beccuti due signori che non erano della zona ma alla Barca avevano un lavoro. A loro si uni un trentenne,nato e cresciuto nel rione, il cui nome era Giovanni Necco. Il Barca, che rinacque nella Parrocchia di San Giacomo Apostolo nello oratorio Piergiorgio Frassati, riprese il vecchio nome e rivesti medesimi colori . I quel luogo si riparti con le partite. Occorreva, comunque, un nuovo campo sportivo ed il terreno, in via Centallo, fu concesso da un certo Filippo Rosso detto «Bertu«. Con l'aiuto di volenterosi si riuscì a realizzare il campo definitivo. L'U.S. Barca continuò a vincere ed i tifosi si accesero sempre di più. Poi, con l'incontro tra Giovanni Necco e Gino Brusasco ci fu il cambio di nome della squadra che quello definitivo di Barcanova.

 

 

I lavandai: quasi una tradizione

 

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Margherita era troppo piccola e non riusciva a vedere attraverso vetri della finestra della cucina. Prese una sedia anche se la mamma lo vietava. Salì, si appoggiò al davanzale e guardò fuori nei campi: «Erano ritornati gli uccelli bianchi« che si alzavano nel vento, erano li fuori nel campo davanti la casa!«. La bimba scese in fretta dalla sedia. Doveva uscire, andar fuori sotto il sole, correre in mezzo ai «vir« che sostenevano la biancheria. E andava Margherita per il campo, toccava, giocava, accarezzava e odorava. Era tutto bello, pulito, odoroso di buono, tutto splendente nel sole come la sua infanzia.

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Benché Bertolla sia stato da sempre il borgo dei lavandai, anche la regione Barca ebbe le sue famiglie che si dedicarono a questo mestiere.

E si diventò lavandai non perché il luogo conciliava, essendo posto tra fiumi e «bialere« (canali), ma perché la gente del centro città non aveva il luogo e lo spazio per lavare e far asciugare parecchio bucato.

I lavandai, dapprima, attingevano l'acqua dai canali e il lavatoio non dava direttamente nelle «bialere«, ma consisteva in una pozza ben sistemata in derivazione o parallela al rivo e uno dei loro attrezzi era lo «scagn da lavé« (asse da lavare) che consisteva in un asse di legno con due pioli di sostegno, da una parte, che s'infilava nella corrente d'acqua dei torrenti.

« Ij lavandé« lavavano per i privati ma anche per ristoranti, alberghi, barbieri ed i clienti venivano chiamati, in gergo, «poste«.

Ogni «posta« aveva sulla biancheria data a lavare la sua particolare marcatura che poteva essere: una croce, due denti (due fili in verticale), la «filsëtta« cioè tre punti uno dietro l'altro, «’l pession« cioè quattro punti uno dietro l'altro e cosi via.

I colori usati per marcare erano a combinazione: bianco e rosso, bianco e blu bianco e caffè (bianco e marrone) od altri.

Il filo usato si rompeva facilmente ma non macchiava e non andava via mentre si lavava.

Allora, la candeggina era in palline bianche dette «tabërioc«, i pantaloni da lavoro venivano chiamati «le blode«, l’atto del separare la biancheria cliente per cliente «suparé« e poi c'era «l’azur« in palline blu per dare una sfumatura azzurrina.

La lavatura della biancheria era divisa secondo il sesso nel senso che le lenzuola toccavano agli uomini, mentre le donne lavavano federe, asciugamani tovaglioli e fazzoletti.

Poi si metteva tutto ad asciugare sui «vir« che erano pali con fili tesi piantati nel terreno dei campi. Essi erano «’d gasia« (gaggia) perché non macchiava ed il primo e l'ultimo erano detti «’l pasun«, quelli in mezzo, invece, «le forcioline«. C’erano, anche, diverse altezze per i fili su cui si stendeva la biancheria: per quella grande e piccola bastava un metro o un metro e mezzo, per le lenzuola, invece, uno e ottanta o due metri per gettarli sul filo e non toccare l'erba . Ed ecco ora quale poteva essere la tipica settimana di un «lavandé«: il lunedi partiva con il carro, prima anche a piedi trainando il carretto, distribuiva la biancheria pulita e ritornava con quella sporca; il martedi c'era la cernita e poi la marcatura con il filo per i diversi clienti, poi la si metteva a bagno cominciando sempre dalle lenzuola fino a quella più piccola; il mercoledi ci si alzava anche alle tre del mattino e si cominciava a lavare. Era migliore d'estate perché d’inverno si doveva rompere il ghiaccio formato sulla acqua. Si lavava, si risciacquava e si batteva, poi si stendeva sui «vir«. Il venerdì ed il sabato si divideva la biancheria asciutta (in caso di brutto tempo la si faceva asciugare in casa con l'aiuto di stufe o specie di scatoloni con carbone dentro) e poi ricominciava, il lunedì il ciclo settimanale.

 

 

Concludendo...

Ho accolto con simpatia il desiderio di Don Tonino, di conoscere e di far conoscere le radici del nostro territorio e della nostra gente. Ho dato volentieri la mia disposizione pur essendo a conoscenza che i ricordi dei tempi andati sono tanti, che ognuno ha i suoi e sicuro che molto sarà dimenticato. Molte delle persone più anziane della Barca avrebbero avuto piacere di parlare dei loro ricordi. Chiediamo scusa, quindi, per non essere riusciti a scoprire tutte le «radici«, riproponendoci in un futuro, che speriamo prossimo, di ascoltare anche loro.

 

Ugo Grasso

 

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Bibliografia

COME ERAVAMO (noi della Barca),di Maria Girotto Coragliotto, "il piccolo editore", Torino-Borgaro Torinese,1987.

LA TORINO DELLA STURA. Borghi e cascine nel tempo,a cura di Amilcare De Leo, Provincia di Torino,VI Circoscrizione, Agat Editrice.

ASPETTI DELLA STORIA DI BARCA BERTOLLA REGIO PARCO BARRIERA DI MILANO, di P.Morini, D.Scamplini, E.Seminara, pubblicato a cura della VI Circoscrizione Amministrativa della Città di Torino. SETTANTANNI DEL BARCANOVA dal 1920 al 1990 verso il 2000,a cura di Renato Tavella,Unione Sportiva Barcanova,Torino 1990.

PIEMONTE VIVO 4/72, lettere al direttore, A PROPOSITO DELL'ABAZIA DI SAN GIACOMO DI STURA, di Gianfranco G. Davito.

Fonti: "Abbadia di Stura" da: Archivio della Parrocchia S. Giacomo Apostolo.

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(In copertina )

G. Zattarin "Omaggio a La Barca e a La Badia"copertina.jpg (30680 byte)

Olio e T.M. su tela 60 x 50 cm.

Zattarin, pittore, scultore, nobilitatore, vive -a seconda di quanto si vuole ampliare il raggio di 'cittadinanza' - a La Badia, nella Parrocchia di San Giacomo Apostolo, a La Barca, nella VI Circoscrizione in Torino, in Piemonte, in Italia, ma opera a livello internazionale ed in questo senso «a l'è nen ‘n bogia nen».

Presentato l'Autore desideriamo dare qualche imput per la lettura dell'opera da lui creata per nobilitare la copertina de "I quaderni di La Barca" riassumendo quanto egli ci ha detto nel presentarci il suo lavoro.

"Poichè ho sposato questa terra dedicando metà della mia vita alla tutela e al salvataggio del più importante Complesso Abbaziale medievale Vallombrosano del Piemonte: l'Abbadia di Stura -che oggi è nella nostra Circoscrizione, la VI di Torino -ho accolto con piacere l'invito a realizzare questa copertina, ma ho gioito ancor di più per l'iniziativa, posta in essere da Don Tonino, di pubblicare '1 quaderni di La Barca' . La nostra regione meritava di avere finalmente un propugnatore della sua conoscenza, un personaggio capace di fare risvegliare, dopo un letargo durato secoli, la coscienza della propria storia, delle proprie peculiarità, per troppo tempo tenute nascoste quasi come si trattasse di cose di cui vergognarsi: la vita dedita a lavori come quelli del contadino, del lavandaio, dell'ortolano che questa moderna 'civiltà' ha finito per confondere e penalizzare quasi fossero riservati ai paria, mentre in essi e in chi li svolge si possono ancora riconoscere i veri valori dell'uomo quali l'amore per la propria terra, per le proprie origini, per le proprie tradizioni, anzicchè quelli parossistici dell'arrivismo, della grandezza, del denaro, , dell'avidità, che spesso si mascherano con la definizione di "progresso", con l'alibi di 'civilta moderna. Fare emergere dal lungo soríno questi valori, suscitare il giusto orgoglio di appartenere a questa terra per trasmettere anche REDAZIONE

Antonio Borio Maria Grazia Chicco Ugo Grasso

COPERTINA E GRAFICA

Gianni Zattarin

Si ringraziano per la gentile collaborazione:

Accossato Domenico, Associazionel'Ij Lavandè-Lavandere'", Bertoglio Luciana, Biolatto Battista, Cattro Emilio, Ceresero Mario, Garda Castelli dott.sa Celestina, Necco Giuseppe e Signora, Prina Tino, Ronco Eugenio ed Ettore, Sesia Berto e Sorelle, Unione Sportiva Barcanova. U.S. A.R.D.O.R..

 

 

 

Dídascalie foto copertina

 

  • A Arco trionfale (1741) di accesso all"hortus conclusus"

  • B La "Madonna delle absidi".

  • C Si ripara il "Ciuchè (torre campanarìa").

  • D Ugo Ceresero con tre compagni di-lotta per la libertà.

  • E Il complesso abbaziale si rispecchia nella Sturella.

  • F La nuova Parrocchia con l'organo e le antiche campane dell'Abbadia.

  • G Una delle nostre bialere con salicí;