Card. Joseph Ratzinger
L’Ecclesiologia del Vaticano II
Relazione al
Convegno Pastorale
della
Diocesi di Aversa,
15 settembre
2001
In: L’OSSERVATORE ROMANO
17-18 Settembre 2001 |
Sommario:
& I – La Chiesa
come Corpo di Cristo & 1-L’immagine del Corpo Mistico &
II – Chiesa come popolo di Dio & III – L’Ecclesiologia di comunione
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Subito dopo la prima guerra mondiale Romano Guardini coniò una formula, che divenne poi rapidamente uno slogan nei cattolicesimo tedesco: «Un evento di incalcolabile portata è iniziato: la Chiesa si risveglia nelle anime». Il frutto di questo risveglio è stato il Concilio Vaticano II; esso ha espresso noi suoi documenti, e reso cosi patrimonio di tutta la Chiesa, ciò che in quei quattro decenni pieni di fermento e di speranze - dal 1920 al 1960 - era maturato quanto a conoscenza attraverso la fede. Per poter comprendere il Vaticano II è dunque necessario gettare uno sguardo a questo periodo e cercare di scoprire, almeno a grandi tratti, le linee e le tendenze, che sono confluite nel Concilio. Procederò pertanto presentando dapprima le idee che furono elaborate in quel periodo, per poi sviluppare gli elementi fondamentali della dottrina conciliare sulla Chiesa.
I- La Chiesa come Corpo di Cristo
1. L’immagine del
Corpo Mistico
“La Chiesa si risveglia nelle anime”. Questa frase di Guardini era stata formulata molto consapevolmente, perché proprio in essa apparve che la Chiesa era finalmente riconosciuta e sperimentata come qualcosa di interiore, che non sta di fronte a noi come un’istituzione qualsiasi, ma che vive in noi stessi.
Se fino ad allora la Chiesa era stata vista soprattutto come struttura e organizzazione, ora finalmente sorse la consapevolezza: noi stessi siamo la Chiesa; essa è più di un’organizzazione: essa e organismo dello Spirito Santo, qualcosa dì vitale, che afferra noi tutti a partire dall’intimo. Questa nuova coscienza dì Chiesa trovò la sua espressione linguistica nel concetto di «corpo mistico di Cristo». In questa formula si esprime un’esperienza nuova e liberante di Chiesa, che Guardini, alla fine della sua vita, proprio nell’anno della pubblicazione della costituzione conciliare sulla Chiesa, descrisse ancora una volta così: la Chiesa “non è un’istituzione immaginata e costruita dagli uomini…ma una realtà vivente… Essa vive ancora attraverso il tempo; si sviluppa come tutte le realtà viventi; muta, eppure essa è, nella sua realtà più profonda, sempre la stessa e il suo nucleo più intimo è Cristo... Finché noi consideriamo la Chiesa solo come un’organizzazione; come un apparato…; come un’associazione… noi non viviamo ancora verso di lei il giusto atteggiamento. Invece essa è una realtà vivente, e il nostro rapporto verso di lei deve essere esso pure vita» (La Chiesa del Signore, Morcelliana, Brescia 1967, p. 160).
E difficile oggi comunicare l’entusiasino, la gioia che vi fu allora in questa presa di coscienza. Nell’epoca del pensiero liberale, fino alla prima guerra mondiale, la Chiesa cattolica era stata vista come un apparato fossilizzato, che si contrapponeva tenacemente alle conquiste dell’epoca moderna. Nella teologia la questione del Primato era stata posta talmente in primo piano, da far apparire la Chiesa essenzialmente come una istituzione centralisticamente articolata, che uno difendeva tenacemente, ma di fronte a cui tuttavia ci si poneva in qualche modo solo dall’esterno. Ora diveniva di nuovo chiaro che la Chiesa è qualcosa di più, che noi tutti la portiamo avanti nella fede in modo vitale, così come essa porta noi. Era divenuto chiaro che essa vive una crescita organica attraverso i secoli, che continua anche oggi. Era divenuto chiaro che attraverso di essa rimane attuale il mistero dell’incarnazione: Cristo cammina ancora attraverso i tempi. Sicché, se noi ci chiediamo quali elementi restano acquisiti da questo primo punto di partenza e quali siano rifluiti nel Vaticano II, possiamo rispondere così: il primo aspetto è la definizione cristologica del concetto di Chiesa. J.A. Mohler, il grande rinnovatore della teologia cattolica dopo la desolazione dell’illuminismo, disse una volta: una certa erronea teologia potrebbe essere caricaturalmente sintetizzata in questa frase: «All’inizio Cristo ha fondato la gerarchia e con ciò ha provveduto a sufficienza per la Chiesa fino alla fine dei tempi». Ma a ciò va contrapposto che la Chiesa è Corpo mistico, cioè che Cristo è il suo fondamento non passato ma sempre nuovo; che Egli non è mai in essa solo il passato, ma sempre e soprattutto il presente e il futuro. La Chiesa è la presenza di Cristo: la nostra contemporaneità con Lui e la Sua contemporaneità con noi. Essa vive di questo: del fatto che Cristo è presente nei cuori; è di là che egli forma la Sua Chiesa. Perciò la prima parola della Chiesa è Cristo e non se stessa; essa è sana nella misura in cui tutta la sua attenzione e rivolta a Lui. Il Vaticano II ha collocato questa concezione in modo così grandioso al vertice delle sue considerazioni, che il testo fondamentale sulla Chiesa comincia proprio con le parole: Lumen Gentium cum sit Chtistus: poiché Cristo è la luce del mondo, per questo esiste uno specchio della Sua gloria, la Chiesa, che trasmette il suo splendore. Se uno vuole comprendere rettamente il Vaticano II, deve sempre di nuovo cominciare da questa frase iniziale...
In secondo luogo, a partire da questo punto di partenza, si deve stabilire l’aspetto dell’interiorità e quello della natura comunitaria della Chiesa. La Chiesa cresce dall’interno all’esterno e non viceversa. Essa significa anzitutto la più intima comunione con Cristo; essa si forma nella vita della preghiera, nella vita sacramentale, negli atteggiamenti fondamentali della fede, della speranza e dell’amore. Così, se qualcuno chiede: cosa devo fare per diventare Chiesa e crescere come Chiesa, la risposta non può che essere: devi cercare prima di tutto di diventare uno che vive la fede, la speranza, la carità. Ciò che costruisce la Chiesa sono la preghiera e la comunione ai sacramenti, nei quali la preghiera stessa della Chiesa ci viene incontro.
Quest’estate ho incontrato un parroco il quale mi ha raccontato che già da molti anni non era più sorta nessuna vocazione sacerdotale dalla sua comunità. Che cosa avrebbe dovuto dunque fare? Le vocazioni uno non può fabbricarle; solo il Signore può concederle. Tuttavia dovremmo noi restare con le mani in mano? Egli decise di recarsi ogni anno, con un pellegrinaggio lungo e faticoso, al santuario mariano di Altotting con questa intenzione di preghiera e di invitare tutti coloro che condividevano questa intenzione, al pellegrinaggio e alla preghiera comune. Anno dopo anno i partecipanti crebbero di numero e quest’anno, finalmente, essi hanno potuto festeggiare, con immensa gioia di tutto il villaggio, la prima S. Messa, a memoria d’uomo, di un sacerdote del loro paese...
La Chiesa cresce dal di dentro: questo vuoi dirci l’espressione «Corpo di Cristo»; tuttavia ciò implica immediatamente anche questo altro elemento: Cristo si è costruito un Corpo; se voglio trovarlo e farlo mio io sono chiamato a farne parte come un umile membro ma in maniera completa, poiché io sono divenuto addirittura un suo membro, un suo organo in questo mondo e di conseguenza per l’eternità. L’idea della teologia liberale per cui Gesù sarebbe interessante, mentre la Chiesa sarebbe una misera realtà, si differenzia completamente da questa presa di coscienza. Cristo si dà solo nel suo Corpo e mai in un mero ideale, Ciò vuol dire: si dà insieme con gli altri, nella ininterrotta comunione che attraversa i tempi, la quale è questo Suo Corpo. La Chiesa non è un’idea ma un Corpo, e lo scandalo del farsi carne, in cui inciamparono tanti contemporanei di Gesù, continua nella scandalosità della Chiesa: tuttavia anche a questo proposito vale il detto: Beato chi non si scandalizza di me.
Questo carattere comunitario della Chiesa significa poi necessariamente il suo carattere di “noi”: essa non è da qualche parte, ma siamo noi stessi a costituirla. Certo, nessuno può dire “io sono la Chiesa»; ognuno può e deve dire: noi siamo la Chiesa. E questo «noi» non è, a sua volta, un gruppo che si isola, ma che sì mantiene piuttosto all’interno della comunità intera di tutti i membri di Cristo, quelli viventi e quelli morti. Ed è così che un gruppo può davvero dire: noi siamo Chiesa. La Chiesa è qui, in questo “noi” aperto, che apre frontiere (sociali e politiche, ma anche le frontiere tra cielo e terra). Noi siamo la Chiesa: da questo crebbe corresponsabilità, ma anche la possibilità di collaborare in prima persona; da ciò risultò anche, di conseguenza, un diritto alla critica, la quale però deve sempre essere prima di tutto autocritica. La Chiesa infatti, ripetiamolo, non è “da qualche parte”, non è qualcun altro: noi stessi la costituiamo. Anche queste idee sono maturate sino a giungere direttamente nel Concilio; tutto ciò che fu detto circa la comune responsabilità dei laici e tutto ciò che fu istituito, quanto a forme giuridiche, per una sua sensata realizzazione è derivato da qui.
Rientra infine in questo tema l’idea dello sviluppo e perciò della dinamica storica della Chiesa. Un corpo rimane identico a se stesso proprio per il fatto che nel processo della vita diventa continuamente nuovo, Per il grande Cardinale inglese Newman l’idea dello sviluppo fu il vero e proprio ponte della sua conversione al cattolicesimo. Credo in effetti che l’idea di sviluppo faccia parte del numero di concetti fondamentali del Cattolicesimo, che sono ancora ben lungi dall’esser stati sufficientemente presi in considerazione; ancora una volta spetta al Vaticano II il merito di aver per la prima volta solennemente formulato quest’idea in un documento magisteriale. Chi infatti si vuole aggrappare solo al valore letterale della Scrittura o alle forme della Chiesa dei Padri, costui esilia Cristo nello «ieri». La conseguenza è allora o una fede del tutto sterile, che non ha niente da dire all’oggi, oppure una potestà in proprio, che salta d’un colpo duemila anni di storia, gettandoli nel bidone di rifiuti delle cose sbagliate, e cerca ora di escogitare come il Cristianesimo dovrebbe propriamente apparire secondo la Scrittura o secondo Gesù. Ma ciò che ne salta fuori può essere solo un prodotto artificiale del nostro proprio fare, che non ha in sé consistenza alcuna. Una reale identità con l’origine c’è solo laddove allo stesso tempo c’è quella vivente continuità che sviluppò l’origine e, proprio così, la custodisce.
2. Ecclesiologia
eucaristica
Ma adesso dobbiamo tornare di nuovo agli sviluppi del tempo pre-conciliare. La prima fase della riscoperta interiore della Chiesa si era raccolta, come abbia mo detto, attorno al concetto di Corpo Mistico di Cristo, che fu sviluppato a partire da san Paolo e che porta in primo piano le idee della presenza di Cristo e della dinamica propria di ciò che è vivente. Ricerche ulteriori condussero a nuova presa di coscienza, Soprattutto il grande teologo Francese Henri de Lubac, in un’opera grandiosa pieni di ampia erudizione, ha chiarito che i termine «corpus mysticum» originariamente contrassegna la SS. Eucaristia e che, per Paolo come per i Padri della Chiesa, l’idea della Chiesa come Corpo di Cristo è stata inseparabilmente collegata con l’idea dell’Eucaristia, in cui il Signore è presente corporalmente e dà a noi il suo corpo come cibo. Ebbe così origine un’ecclesiologia eucaristica.
Ora, che cosa si intende con questa parola: ecclesiologia eucaristica? Cerco molto in breve di accennare ad alcuni punti fondamentali. Il primo è che l’Ultima Cena di Gesù diventa riconoscibile come il vero e proprio atto di fondazione della Chiesa: Gesù dona ai suoi questa Liturgia della morte e della sua resurrezione e dona così ad essi la festa della vita. Egli ripete nell’ultima Cena il Patto del Sinai, o meglio: ciò che là era stato solo un presagio nel segno diventa ora completamente realtà: la comunione di sangue e di vita tra Dio e l’uomo. Dicendo questo, è chiaro che l’Ultima Cena anticipa croce e resurrezione e, allo stesso tempo, necessariamente le presuppone, perché altrimenti tutto rimarrebbe gesto vuoto. Per questo i Padri della Chiesa poterono dire, con una Immagine molto bella, che la Chiesa è scaturita dal fianco squarciato del Signore, da cui uscirono sangue e acqua. Quando io affermo che l’Ultima Cena è l’inizio della Chiesa, in realtà dico la stessa cosa, benché da un altro punto di vista. Anche questa formula infatti significa che l’Eucaristia lega degli uomini tra loro, e non soltanto fra di loro, ma con Cristo; e in tal modo li rende Chiesa. Allo stesso tempo è già data con questo anche la fondamentale costituzione della Chiesa: la Chiesa “vive in comunità eucaristiche. La sua Messa è la sua costituzione, poiché essa stessa è, nella sua essenza, Messa, servizio di Dio e perciò servizio agli uomini, servizio della trasformazione del mondo.
La Messa è la sua forma: questo significa che in essa si attua un rapporto del tutto originale, e che non esiste in nessun altro posto, di molteplicità e unità, In ogni celebrazione dell’Eucaristia il Signore è realmente presente, Egli è infatti risorto, e più non muore; dunque non lo si può neppure più dividere in parti. Egli si dà sempre intero e indiviso. Per questo il Concilio dice: «La Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le comunità locali di fedeli conformi al diritto, le quali, nel Nuovo Testamento, vengono chiamate esse stesse chiese, nell’unione coi loro pastori. Esse sono infatti nel loro luogo, in Spirito Santo e con grande fiducia (cfr 1Tess 1, 5), il nuovo popolo convocato da Dio. In queste comunità, anche se spesso sono piccole e povere o vivono nella diaspora è presente Cristo, attraverso la cui forza viene unificata la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica» (LG 26). Onesto significa: dall’impostazione dell’ecclesiologia eucaristica consegue quell’ecclesiologia delle Chiese locali; che è tipica del Vaticano II e che rappresenta il fondamento interiore, sacramentale, della dottrina della collegialità, di cui dobbiamo ancora parlare.
Prima però dobbiamo vedere ancor più precisamente la formulazione del Concilio, per comprendere il suo insegnamento in modo corretto. In questo punto, infatti, il Valicano II si incontra allo stesso tempo con sollecitazioni provenienti dalla teologia ortodossa e da quella protestante, che però integra in una più ampia concezione cattolica. L’idea dell’ecclesiologia eucaristica era stata infatti espressa per la prima volta nella teologia ortodossa dei teologi russi dell’esilio e contrapposta al presunto centralismo romano: ogni comunità eucaristica, fu detto, è già del tutto Chiesa, poiché ha interamente Cristo. Di conseguenza l’unità esteriore con le altre comunità non è costitutiva per la Chiesa; perciò, si concluse, l’unità con Roma può non essere costitutiva per la Chiesa. Tale unità è bella, giacché rappresenta la pienezza di Cristo verso l’esterno, ma non appartiene propriamente all’essenza della Chiesa, poiché alla totalità di Cristo non si può aggiungere nulla. Dall’altro punto di partenza, la rappresentazione protestante della Chiesa tendeva nella stessa direzione. Lutero non poteva più riconoscere nella Chiesa universale lo Spirito di Cristo, anzi egli la vedeva addirittura come strumento dell’Anticristo. Anche le chiese di stato protestanti, che sorsero dalla Riforma, egli non le poteva considerare Chiesa: in senso vero e proprio erano solo necessari apparati sociologico-politici in vista di un determinato fine, posti sotto la guida delle potestà politiche, ma niente di più. La Chiesa si ritrasse per lui nella comunità: solo l’assemblea che ascolta la Parola di Dio in un determinato luogo è Chiesa. Perciò egli ha completamente sostituito il termine «Chiesa» col termine «Comunità» (Gemeinde): Chiesa divenne un concetto negativo.
Se ritorniamo ora al testo del Concilio, ci risultano evidenti alcune sfumature. Esso infatti non dice semplicemente «La Chiesa è completamente presente in ogni comunità che celebra l’Eucaristia», ma formula invece: «La Chiesa è realmente presente in tutte le comunità locali di fedeli conformi al diritto, che in unione coi loro pastori.., si chiamano chiese». Due elementi sono qui importanti: la comunità deve essere «conforme al diritto» per essere Chiesa, ed essa è conforme al diritto “in unione coi pastori». Che significa ciò? Significa in primo luogo: nessuno può farsi Chiesa da sé. Non può semplicemente un gruppo radunarsi, leggere il Nuovo Testamento e dire: Noi ora siamo Chiesa, poiché il Signore è là dove due o tre si riuniscono nel suo nome. Alla Chiesa appartiene essenzialmente l’elemento del «ricevere», così come la fede deriva dall’ascolto e non è prodotto di proprie decisioni o riflessioni. La fede infatti è incontro con ciò che io non posso escogitare o produrre con i miei sforzi, ma che mi deve invece venire incontro. Questa struttura del ricevere, dell’incontrare, la chiamiamo «Sacramento». E appunto per questo rientra ancora nella forma fondamentale del Sacramento il fatto che esso viene ricevuto e che nessuno se lo può conferire da solo. Nessuno si può battezzare da sé; nessuno può attribuirsi da sé l’ordinazione sacerdotale; nessuno può, da sé, assolversi dai propri peccati. Da questa struttura di incontro dipende anche il fatto che un pentimento perfetto, per sua stessa essenza, non può restare interiore, ma urge verso la forma di incontro del Sacramento. Perciò non è semplicemente un’infrazione contro prescrizioni esteriori del diritto canonico se ci si porge da sé l’Eucaristia e la si prende da sé, ma è una ferita della più intima struttura del Sacramento. Il fatto che in quest’unico Sacramento il prete possa egli stesso somministrarsi il Sacro Dono rinvia al «mysterium tremendum» al quale è esposto nell’Eucaristia; agire «in persona Christi» e così, nello stesso tempo, rappresentarlo ed essere un uomo peccatore, che vive completamente dall’accogliere il Suo Dono.
La Chiesa non la si può fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla da dove essa è già, da dove essa è realmente presente: dalla comunità sacramentale del suo Corpo che attraversa la storia. Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa, che ci aiuta a comprendere questo difficile termine «comunità conformi al diritto»: Cristo è dovunque intero. Questa è la prima importantissima cosa che il Concilio ha formulato, in unità coi Fratelli ortodossi. Ma egli è dovunque anche uno solo, e perciò io posso avere l’unico Signore solo nell’unità che egli stesso è, nell’unità con gli altri che sono anche essi il suo Corpo e che, nell’Eucaristia, lo devono sempre di nuovo diventare. Perciò l’unità reciproca delle comunità che celebrano l’Eucaristia non è una aggiunta esteriore all’ecclesiologia eucaristica, bensì la sua condizione interna: solo nell’unità c’è l’uno. Per questo il Concilio richiama la responsabilità propria delle comunità, ma esclude ogni loro autosufficienza. Esso porta avanti un’ecclesiologia per la quale l’esser cattolico, cioè la comunione dei credenti di tutti i luoghi e di tutti i tempi, non è un elemento esteriore di tipo organizzativo, ma grazia proveniente dall’interno e, allo stesso tempo, segno visibile della grazia del Signore, il quale solamente può dare unità superando frontiere così numerose.
Dopo il primo entusiasmo della scoperta dell’idea di Corpo di Cristo, si giunse poco a poco ad approfondimenti e correzioni in una doppia direzione. La prima correzione l’abbiamo già vista: essa si trova soprattutto nei lavori di Henri de Lubac, che concretizza l’idea di Corpo di Cristo in direzione dell’ecclesiologia eucaristica e l’apre in tal modo alle concrete questioni dell’ordinamento giuridico della Chiesa e della reciproca ordinazione di Chiesa locale e Chiesa universale. L’altra forma di correzione iniziò alla fine degli anni Trenta in Germania, dove diversi teologi criticarono il fatto che con l’idea di Corpo Mistico rimaneva non chiarito il rapporto tra elemento visibile e invisibile, tra diritto e grazia, tra ordine e vita. Essi proposero perciò il concetto, fornito soprattutto dall’Antico Testamento, di «popolo di Dio» come la descrizione più ampia di Chiesa, che del resto si lascia anche più facilmente mediare con categorie sociologiche e giuridiche, mentre Corpo di Cristo rimarrebbe una “immagine” certamente importante, ma che non sarebbe da sola sufficiente, proprio per la pretesa della teologia di esprimersi mediante “concetti”.
Questa critica, all’inizio piuttosto superficiale, all’idea di Corpo di Cristo fu poi approfondita a partire da aspetti diversi, dai quali si sviluppò il contenuto positivo, con cui il concetto di popolo di Dio è entrato nell’ecclesiologia conciliare. Ci si chiese se l’immagine di Corpo mistico non fosse troppo ristretta come punto di partenza per definire le molteplici forme di appartenenza alla Chiesa, che nell’intrico della storia umana oramai ci sono. L’immagine di corpo offre per il problema dell’appartenenza solo la forma di rappresentazione del «membro»; membri o lo si è o non lo sì è, non ci sono mezzi termini. Ma - ci si chiese - non è forse un po’ troppo stretto proprio il punto di partenza dell’immagine, giacché ci sono nella realtà manifestamente dei gradi intermedi? Così ci si imbatté nel concetto di «popolo di Dio», che, sotto questo punto di vista, è assai più ampio e più mobile. La costituzione ecclesiale lo ha assunto proprio con questo impiego, quando esso descrive il rapporto dei cristiani non cattolici verso la Chiesa cattolica col concetto di «collegamento» e quello dei non cristiani col termine «ordinazione», ove entrambe le volte ci si appoggia all’idea di popolo di Dio (nn. 15 e 16).
Così possiamo dire che il concetto di «popolo di Dio» è stato introdotto dal Concilio soprattutto come ponte ecumenico. Questo vale del resto anche sotto un’altra prospettiva. La riscoperta della Chiesa dopo la prima guerra mondiale era stata dapprima un fenomeno comune a cattolici e protestanti; anche il movimento liturgico non si limitava in alcun modo alla Chiesa cattolica, Ma proprio questa comunanza portò con se anche una reciproca critica. L’idea di Corpo di Cristo fu sviluppata nella Chiesa cattolica nel senso che la Chiesa venne indicata volentieri come il «Cristo che continua a vivere sulla terra», la Chiesa fu descritta come l’incarnazione del Figlio, che continua fino alla fine dei tempi. Questa idea provocò l’opposizione dei Protestanti, che videro in ciò un’insopportabile identificazione di sé con Cristo da parte della Chiesa, identificazione nella quale la Chiesa per così dire, secondo loro, adorava se stessa e si poneva come infallibile. A poco a poco però anche pensatori cattolici trovarono, pur senza andare così in là, che con questa formula veniva attribuito ad ogni dire e operare ministeriale della Chiesa una definitività che faceva apparire ogni critica come un attacco a Cristo stesso e dimenticava semplicemente l’elemento umano, fin troppo umano nella Chiesa. Doveva, così si disse, di nuovo venir chiaramente evidenziata la differenza cristologica: la Chiesa non è identica con Cristo, ma gli sta di fronte, Essa è Chiesa di peccatori, che abbisogna sempre nuovamente di purificazione e di rinnovamento, sempre nuovamente deve diventare Chiesa. Così l’idea di riforma divenne un elemento decisivo del concetto di popolo di Dio, che dall’idea di Corpo di Cristo non si lasciava invece sviluppare così facilmente.
Tocchiamo qui un terzo aspetto, che giocò a favore dell’idea di popolo di Dio. L’esegeta evangelico Ernst Kasemann, nel 1939, aveva dato alla sua monografia sulla Lettera agli Ebrei il titolo 1l popolo di Dio pellegrinante. Questo titolo divenne, nell’ambiente dei dibattiti conciliari, addirittura uno slogan, poiché faceva risuonare qualcosa che, nel corso del dibattito circa la Costituzione sulla Chiesa, era divenuto sempre più chiaramente conscio: la Chiesa non è ancora giunta alla sua meta. Essa ha la sua vera e propria speranza ancora davanti a sé. Il momento «escatologico» del concetto di Chiesa diventò chiaro. Soprattutto si poté, in questa maniera, esprimere l’unità della storia della salvezza che comprende insieme Israele e la Chiesa, nella via del suo pellegrinaggio. Si poté così esprimere la storicità della Chiesa, che è in cammino e che sarà completamente se stessa solo allorché le strade del tempo saranno state percorse e sfoceranno nelle mani di Dio. Si potè anche esprimere l’unità interna del popolo di Dio stesso, nel quale, come in ogni popolo, ci sono diversi ministeri e servizi, ma nel quale quasi di traverso e al dì sopra di tutte queste distinzioni, tutti sono pellegrini nell’unica comunione del popolo di Dio pellegrinante. Se dunque, per sommi capi, si vuol riassumere quali siano gli elementi rilevanti del concetto di Popolo di Dio che per il Concilio furono importanti, si potrebbe dire che qui diventa chiaro il carattere storico della Chiesa, l’unità della storia di Dio con gli uomini, l’unità interna del popolo di Dio al di là anche delle frontiere degli stati di vita sacramentali, la dinamica escatologica, la provvisorietà e frammentarietà della Chiesa sempre bisognosa di rinnovamento e infine anche la dimensione ecumenica, cioè le diverse maniere nelle quali collegamento e ordinazione alla Chiesa sono possibili e reali, anche al di là dei confini della Chiesa cattolica.
Il concetto di popolo di Dio tuttavia fu compreso assai presto totalmente a partire dall’uso linguistico politico generale della parola popolo; nell’ambito della teologia della liberazione fu compreso con l’uso della parola marxista di popolo come contrapposizione alle classi dominanti e più in generale ancora più ampiamente nel senso della sovranità del popolo, che ora finalmente sarebbe da applicare anche alla Chiesa. Ciò a sua volta diede occasione ad ampi dibattiti sulle strutture, nei quali fu interpretato a seconda della situazione in modo più occidentale come «democratizzazione» ovvero più nel senso delle cosiddette «Democrazie popolari» orientali. Lentamente questo «fuoco d’artificio di parole» (N. Lohfink) intorno al concetto di popolo di Dio sì è andato spegnendo, da una parte e principalmente perché questi giochi di parole si sono svuotati da se stessi e dovevano lasciare il posto al lavoro ordinario nei consigli parrocchiali, dall’altra però anche, perché un solido lavoro teologico ha mostrato in modo incontrovertibile l’insostenibilità di tali politicizzazioni di un concetto di per sé proveniente da un ambito totalmente diverso. Come risultato di analisi esegetiche accurate l’esegeta di Bochum Werner Berg ad esempio afferma: «Malgrado l’esiguo numero di passi, che contengono l’espressione “popolo di Dio” - da questo punto di vista “popolo di Dio” è un concetto biblico piuttosto raro - può nondimeno rilevarsi qualcosa di comune: l’espressione “popolo di Dio” esprime la ‘parentela con Dio, la relazione con Dio, il legame fra Dio e quello che è designato come “popolo di Dio”, quindi una ”direzione verticale”. L’espressione si presta meno a descrivere la struttura gerarchica di questa comunità, soprattutto se il “popolo di Dio” viene descritto come “controparte dei ministri”. A partire dal suo significato biblico l’espressione non si presta neppure ad un grido di protesta contro i ministri: “Noi siamo il popolo di Dio”. Il professore di teologia fondamentale di Paderhorn Josef Meyer zu Schlochtern conclude la rassegna sulla discussione intorno al concetto di popolo di Dio con l’osservazione che la Costituzione sulla Chiesa del Vaticano II termina il capitolo relativo in modo tale da «designare la struttura trinitaria come fondamento dell’ultima determinazione della Chiesa... ». Così la discussione è ricondotta al punto essenziale: la Chiesa non esiste per se stessa, ma dovrebbe essere lo strumento dì Dio, per radunare gli uomini a lui, per preparare il momento, in cui «Dio sarà tutto in tutto» (1 Cor 15, 28). Proprio il concetto di Dio era stato lasciato da parte nel «fuoco d’artificio» intorno a questa espressione e in tal modo era stato privato del suo significato. Infatti una Chiesa, che esiste solo per se stessa, sarebbe superflua. E la gente lo nota subito. La crisi della Chiesa, come essa si rispecchia nel concetto di popolo di Dio, è «crisi di Dio»; essa risulta dall’abbandono dell’essenziale. Ciò che resta, è ormai solo una lotta per il potere. Di questa ve ne è abbastanza altrove nel mondo, per questa non c’è bisogno della Chiesa.
Si può certamente dire che all’incirca a partire dal Sinodo straordinario del 1985, che doveva tentare una specie di bilancio di vent’anni di post-concilio, un nuovo tentativo si va diffondendo, quello di riassumere l’insieme dell’ecclesiologia conciliare in un concetto base: ‘ecclesiologia di comunione’. Ho accolto con gioia questo nuovo ricentramento della ecclesiologia ed ho anche cercato secondo le mie capacità di prepararlo. Si deve comunque innanzitutto riconoscere che la parola “communio” nel Concilio non ha una posizione centrale. Nondimeno, compresa rettamente, essa può servire come sintesi per gli elementi essenziali dell’ecclesiologia conciliare. Tutti gli elementi essenziali del concetto cristiano di «communio» si trovano riuniti nel famoso passo di I Giov 1, 3, che si può considerare come il criterio di riferimento per ogni corretta comprensione cristiana della “communio”: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra Comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta». Qui emerge in primo piano il punto di partenza della “communio”: l’incontro con il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che nell’annuncio della Chiesa viene agli uomini. Cosi nasce la comunione degli uomini fra di loro, che a sua volta si fonda sulla comunione con il Dio uno e trino. Alla comunione con Dio si ha accesso tramite quella realizzazione della comunione di Dio con l’uomo, che è Cristo in persona; l’incontro con Cristo crea comunione con lui stesso e quindi con il Padre nello Spirito Santo; e a partire da qui unisce gli uomini fra di loro. Tutto questo ha come fine la gioia piena: la Chiesa porta in sé una dinamica escatologica. Nell’espressione gioia piena si avverte il riferimento ai discorsi d’addio di Gesù, quindi al mistero pasquale ed al ritorno del Signore nelle apparizioni pasqua!i, che tende al suo pieno ritorno nel nuovo mondo: «Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia... vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà... Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (Gv16, 20.22.24). Se si confronta l’ultimi frase citata con Lc 11, 13 - l’invito alla preghiera in Luca - appare chiaramente che «gioia» e «Spirito Santo» si equivalgono e che dietro la parola gioia si nasconde in I Giov 1, 3 lo Spirito Santo qui non espressamente menzionato. La parola «communio» ha quindi a partire da questo ambito biblico un carattere teologico, cristologico, soteriologico ed ecclesiologico. Porta quindi in sé anche la dimensione sacramentale, che in Paolo appare in modo del tutto esplicito: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo.» (ICor10,16s). L’ecclesiologia di comunione è fin dal suo intimo una ecclesiologia eucaristica. Essa si colloca così assai vicino all’ecclesiologia eucaristica, che teologi ortodossi hanno sviluppato in modo convincente nel nostro secolo. In essa come abbiamo già visto l’ecclesiologia diviene più concreta e rimane nondimeno allo stesso tempo totalmente spirituale, trascendente ed escatologica. Nell’Eucaristia Cristo, presente nel pane e nel vino e donandosi sempre nuovamente edifica la Chiesa come suo corpo e per mezzo del suo corpo di risurrezione ci unisce al Dio uno e trino e fra di noi. L’Eucaristia si celebra nei diversi luoghi e tuttavia è allo stesso tempo sempre universale, perché esiste un solo Cristo e un solo corpo di Cristo. L’Eucaristia include il servizio sacerdotale della «repraesentatio Christi» e quindi la rete del servizio, la sintesi di unità e molteplicità, che si palesa giù nella parola «Communio». Si può così senza dubbio dire che questo concetto porta in sé una sintesi ecclesiologica, che unisce il discorso della Chiesa al discorso di Dio ed alla vita da Dio e con Dio, una sintesi, che riprende tutte le intenzioni essenziali dell’ecclesiologia del Vaticano II e le collega fra di loro nel modo giusto.
Per tutti questi motivi ero grato e contento, quando il Sinodo del 1985 riportò al centro della riflessione il concetto di «communio». Ma gli anni successivi mostrarono che nessuna parola è protetta dai malintesi, neppure la migliore e la più profonda. Nella misura in cui «communio» divenne un facile slogan, essa fu appiattita e travisata. Come per il concetto di popolo di Dio cosi si doveva anche qui rilevare una progressiva orizzontalizzazione, l’abbandono del concetto di Dio. L’ecclesiologia di comunione cominciò a ridursi alla tematica della relazione fra Chiesa locale e Chiesa universale, che a sua volta ricadde sempre più nel problema della divisione di competenze fra luna e l’altra. Naturalmente si diffuse nuovamente il motivo egualitaristico, secondo cui molta «communio» potrebbe esservi solo piena uguaglianza. Si è così arrivati di nuovo esattamente alla discussione dei discepoli su chi fosse il più grande, che evidentemente in nessuna generazione intende placarsi. Marco ne riferisce con maggiore insistenza. Nel cammino verso Gerusalemme Gesù aveva parlato per la terza volta ai discepoli della sua prossima passione. Arrivati a Cafarnao egli chiese loro di che cosa avevamo discusso fra di loro lungo la via. «Ma essi tacevano», peirhé avevano discusso su chi di loro fosse il più grande - una specie di discussione sul primato (Mc 9, 33-37). Non è così anche oggi? Mentre il Signore va verso la sua passione, mentre la Chiesa e in essa egli stesso soffre, noi ci soffermiamo sul nostro tema preferito, sulla discussione circa i nostri diritti di precedenza. E se egli venisse fra di noi e ci chiedesse di che cosa abbiamo parlato, quanto dovremmo arrossire e tacere.
Questo non vuol dire che nella Chiesa non si debba anche discutere sul retto ordinamento e sulla assegnazione delle responsabilità. E certamente vi saranno sempre squilibri, che esigono correzioni. Naturalmente può verificarsi un centralismo romano esorbitante, che come tale deve poi essere evidenziato e purificato. Ma tali questioni non possono distrarre dal vero e proprio compito della Chiesa: la Chiesa non deve parlare primariamente di se stessa, ma di Dio, e solo perché questo avvenga in modo puro, vi sono allora anche rimproveri intra-ecclesiali, per i quali la correlazione del discorso su Dio e sul servizio comune deve dare la direzione. In conclusione non a caso ritorna nella tradizione evangelica in diversi contesti la parola di Gesù secondo cui l’ultimo diverrà il primo ed il primo l’ultimo - come uno specchio, che riguarda sempre tutti.
Di fronte alla riduzione, che a riguardo del concetto di «communio» si verificò negli anni dopo il 1985, la Congregazione per la Dottrina della Fede ritenne opportuno preparare una «Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione», che fu pubblicata con la data del 28 giugno 1992. Poiché oggi per teologi, che tengono alla propria rinomazione, sembra essere divenuto un dovere dare una valutazione negativa dei documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, su questo testo cadde una gragnola di critiche, da cui ben poco riuscì a salvarsi. Soprattutto fu criticata la frase, che la Chiesa universale sarebbe nel suo mistero essenziale una realtà, che ontologicamente e temporalmente precede le singole Chiese particolari, Questo nel testo era brevemente fondato con il richiamo al fatto che secondo i padri l’una e singola Chiesa precede la creazione e partorisce le Chiese particolari I padri continuano così una teologia rabbinica, che aveva concepito come preesistenti la Thora ed Israele: la creazione sarebbe stata concepita, perché in essa vi fosse uno spazio per la volontà di Dio; questa volontà però aveva bisogno di un popolo, che vive per la volontà di Dio e ne fa la luce del mondo. Poiché i padri erano convinti dell’identità ultima fra Chiesa ed Israele, essi non potevano vedere nella Chiesa qualcosa dì casuale sorto all’ultima ora ma riconoscevano in questa riunione dei popoli sotto la volontà di Dio la teleologia interna della creazione. A partire dalla cristologia l’immagine si allarga e si approfondisce: la storia - di nuovo in reazione con l’Antico Testamento - viene spiegata come storia d’amore fra Dio e l’uomo. Dio trova e si prepara la sposa del Figlio, l’unica sposa, che è l’unica Chiesa. A partire dalla parola della Genesi, che uomo e donna diverranno «due in una carne sola» (Gen 2, 24), l’immagine della sposa si fuse con l’idea della Chiesa come corpo di Cristo, metafora che a sua volta deriva dalla Liturgia eucaristica. L’unico corpo di Cristo viene preparato; Cristo e la Chiesa saranno “due in una sola carne”, un corpo, e così «Dio sarà tutto in tutto». Questa precedenza ontologica della Chiesa universale, dell’unica Chiesa e dell’unico corpo, dell’unica sposa, rispetto alle realizzazioni empiriche concrete nelle singole Chiese particolari mi sembra così evidente, che mi riesce difficile comprendere le obiezioni ad essa. Mi sembrano in realtà essere possibili solo se non si vuole e non si riesce più a vedere la grande Chiesa ideata da Dio - forse per disperazione a motivo della sua insufficienza terrena - ; essa appare ora come una fantasticheria teologica, e rimane quindi solo immagine empirica delle Chiese nella loro relazione reciproca e nella loro conflittualità. Questo però significa che la Chiesa come tema teologico viene cancellato. Se si può vedere la Chiesa ormai solo nelle organizzazioni umane, allora in realtà rimane solo desolazione. Ma allora non si è abbandonato solo l’ecclesiologia dei padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e la concezione di Israele dell’Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento del resto non è necessario attendere le epistole deutero-paoline e l’Apocalisse per riscontrare la priorità ontologica riaffermata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede - della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari. Nel cuore delle grandi Lettere paoline, nella Lettera ai Galati, l’Apostolo ci parla della Gerusalemme celeste e non come di una grandezza escatologica ma come una realtà che ci precede: “Questa Gerusalemme è la nostra madre” (Gal 4, 26). Al riguardo H. Schlier rileva che poi Paolo come per la tradizione giudaica cui si ispira la Gerusalemme di lassù è il nuovo eone. Per l’apostolo però questo nuovo eone è già presente “nella Chiesa cristiana. Questa è per lui la Gerusalemme celeste nei suoi figli»
Arrivo alla conclusione. Chi vuol comprendere l’orientamento dell’ecclesiologia conciliare, non può tralasciare i capitoli 4-7 della Costituzione nei quali si parla dei laici, della vocazione universale alla santità, dei religiosi e dell’orientamento escatologico della Chiesa. In questi capitoli torna ancora una volta in primo piano lo scopo intrinseco della Chiesa, ciò che è più essenziale alla sua esistenza: si tratta cioè della santità, della conformità a Dio - che nel mondo vi sia spazio per Dio, che egli possa abitare in esso e così il mondo divenga il suo “regno”. Santità è qualcosa di più che una qualità morale. Essa è il dimorare di Dio con gli uomini, degli uomini con Dio, la “tenda” di Dio fra di noi ed in mezzo a noi (Giov 1, 14). Si tratta della nuova nascita - non da carne e sangue, ma da Dio (Gìov 1, 13). L’orientamento alla santità è identico con l’orientamento escatologico e di fatto ora esso a partire dal messaggio di Gesù è fondamentale per la Chiesa. La Chiesa esiste, perché divenga dimora di Dio nel mondo e così sia «santità»: per questo si dovrebbe competere nella Chiesa, non su un più o un meno in diritti di precedenza, sull’occupazione dei primi posti. Tutto questo è poi ancora una volta ripreso e sintetizzato nell’ultimo capitolo della Costituzione sulla Chiesa, che tratta della Madre del Signore.
La questione se non le si dovesse dedicare un testo proprio fu, come è noto, ampiamente dibattuta. Io penso che in ogni caso sia stata una buona disposizione che l’elemento mariano sia entrato direttamente nella dottrina della Chiesa. Infatti così diventa ancora una volta visibile il punto di partenza da cui abbiamo preso le mosse: la Chiesa non è apparato, non è semplicemente istituzione non è nemmeno una delle tante entità sociologiche; essa è persona. Essa è una donna. Essa è madre. Essa è vivente. La comprensione mariana della Chiesa è la più decisa contrapposizione ad un concetto di Chiesa meramente organizzativo e burocratico. La Chiesa noi non la possiamo fare, dobbiamo esserla. E solo nella misura in cui la Fede, al di là del nostro fare, forgia il nostro essere, siamo Chiesa, la Chiesa è in noi. Solo nell ‘essere mariano noi diventiamo Chiesa. Anche all’origine la Chiesa non fu fatta, ma generata. Essa fu generata allorché nell’anima di Maria si destò il Fiat. Questa è la più profonda volontà del Concilio: che la Chiesa si desti nelle nostre anime. Maria ci mostra la via.