DIOCESI DI AVERSA
Spunti di riflessione
sulla
LUMEN GENTIUM a cura dei VICARI EPISCOPALI
Anno Pastorale 2001/2002 |
Sommario: & Il Concilio, dono di Dio alla Chiesa &
Le principali linee di svolgimento della Lumen Gentium &
La permanente validità della Missione &
La celebrazione della salvezza nello spirito della Lumen Gentium &
La missione di carità e di servizio della Chiesa alla luce della LG &
I religiosi e le religiose della Diocesi di Aversa a confronto con la
LG |
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P.S. Pat2001
“A Giubileo concluso sento più che mai il dovere di additare il Concilio, come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino che si apre”. Così scrive Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, n. 57. In verità egli aveva, in preparazione al Grande Giubileo, chiesto alla Chiesa di interrogarsi sulla recezione del Concilio, «Evento provvidenziale» nel cammino della storia. «L’esame di coscienza non può non riguardare anche la recezione del Concilio, questo grande dono dello Spirito alla Chiesa sul finire del secondo millennio». Il passare degli anni non fa perdere nè valore nè smalto ai testi conciliari, allora è importante che «vengano letti in maniera appropriata, che vengano conosciuti e assimilati, come testi qualificanti e normativi del Magistero, all’interno della Tradizione della Chiesa» (N. M. I., n. 57).
Un adeguato esame di coscienza sulla “receptio” presuppone una conoscenza dei documenti e, per converso, l’assimilazione è premessa di una recezione sempre più completa. L’invito, quindi, a continuare a guardare al Concilio non è frutto di nostalgia del passato ma certezza che esso ha la forza di una sorgente, capace di acqua fresca e pura. E’ un pericolo da evitare quello di prendere con sufficienza il portato conciliare, quasi come un ricordo già illanguidito, che ha poco da dire per i problemi all’orizzonte dell’oggi.
Il Concilio è un seme fecondo che va maturando seguendo il movimento del tempo e della vita. Va accostato a quei fatti epocali che non solo seguono il proprio tempo ma orientano un intera epoca con la propria ricchezza da continuamente interpretare e tradurre nella prassi. Non è un retaggio del passato ma una realtà incompiuta che resta ancora davanti a noi.
Paolo VI, il 15 dicembre del 1965, una settimana dalla chiusura del Concilio, parlando dalla sua finestra in Piazza S. Pietro, diceva: «Il Concilio non è evento effimero e passeggero, come tanti eventi sono nella cronaca della Chiesa e del mondo, è un evento che prolunga i suoi effetti ben oltre il periodo della sua effettiva celebrazione, deve durare, deve farsi sentire, deve influire sulla vita della Chiesa e cioè sulla nostra, se davvero noi vogliamo essere buoni e fedeli membri della chiesa stessa». (OR. 16 dic. 1965).
E Giovanni Paolo Il, nel giorno stesso della sua elezione, precisò: « Anzitutto desideriamo insistere sulla permanente importanza del Vaticano II e ciò è per noi un formale impegno di dare ad esso la dovuta esecuzione» (Insegnamenti di G.P.II, VoI. 1; 1978).
“Il Concilio è nelle vostre mani” è il titolo di un libro che ne salutò la chiusura. Noi possiamo ripetere, oggi, il Concilio è nelle nostre mani. La sua recezione, anche là dove ha segnato la vita della Chiesa, non è ancora completata.
Il nostro compito di Chiesa locale è, perciò quello di riuscire a cogliere quanto lo Spirito ha suggerito alla Chiesa tutta e porci dinanzi ad esso come un atto provvidenziale.
A conferma di questo “avvertito” impegno, nel febbraio scorso l’Azione Cattolica, in due giorni di riflessione (20-21) ha riproposto a se stessa il tema: “Il Concilio è il nostro programma”. Mons. Sudar, ausiliare di Serajevo, ha affermato che “le difficoltà della recezione del Concilio sono direttamente proporzionali alle novità e alle aperture enormi». Se facciamo fatica ad intenderlo e ad accettarlo, ha precisato Mons. Sudar, è perché il Concilio «è un dono troppo grande dello Spirito» (Avvenire 20 febbraio 2001).
Inizio del Concilio
L’ 11 Ottobre 1962, Giovanni XXIII, in un’atmosfera di grande entusiasmo, dava inizio ai lavori del Concilio Vaticano Il che si rileverà il tatto più importante della Chiesa Cattolica del Novecento.
«Il più grande evento ufficiale in cui la Chiesa è giunta a realizzarsi come Chiesa universale», ha scritto Karl Rhaner. (Concilium, 4/1993, p.12). Per la prima volta il mondo intero era rappresentato in un’Assise Conciliare. Un dato questo, decisivo per lo svolgimento e il significato del Concilio stesso.
Si trattò di un fatto profondamente “nuovo” tanto da poterlo considerare come una “rivoluzione copernicana” nella vita della Chiesa e, per molti aspetti, nella storia del Cristianesimo e dell’umanità.
Documenti Conciliari
La mole dei documenti del Vaticano II è di gran lunga superiore a quella di tutti gli altri Concili: 4 Costituzioni, 9 decreti, 3 dichiarazioni. In tutto 16 documenti, tutti egualmente elaborazioni conciliari ma con una diversa importanza.
Le 4 Costituzioni espongono la dottrina della Chiesa nei suoi principi fondamentali, nelle sue linee essenziali e complete dandone una visione globale:
“Sacrosantum Concilium”- sulla Sacra Liturgia; “Lumen Gentium”-sulla Chiesa; “Dei Verbum”- sulla Divina Rivelazione; “Gaudium et Spes” - sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.
I 9 Decreti sono, in genere, di ordine pratico; fissano regole e norme disciplinari deducendole dai principi teologici. Sono soggetti al logorio del tempo:
“Inter Mirifica” - sugli strumenti di Comunicazione Sociale; “Unitatis Redintegratio” -sull’ ecumenismo; “Orientalium Ecclesiarum “- sulle Chiese orientali cattoliche; “Christus Dominus” - sull’ufficio dei Vescovi e il governo delle diocesi; “Perfectae caritatis” - sulla vita religiosa; “Optatam Totius’ - sui seminari; “Apostolicam Actuositatem’ - sull’apostolato dei laici; “Ad Gentes” - sulle missioni; “Presbjterorum Ordinis” - sui Sacerdoti.
Le tre dichiarazioni riguardano argomenti che non sono solo di interesse ecclesiale e specificano alcune verità orientative della condotta cristiana in relazione al contesto storico-sociologico del nostro tempo:
‘Gravissimum aeducationis” - sull’educazione cristiana; “Nostra aetate’ - sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane; “Dignitatis humanae” - sulla libertà religiosa.
Sotto questo aspetto, il Concilio è «antico», perché riprende la visione ecclesiologica che già fu della Chiesa primitiva e della Chiesa patristica. Il suo insegnamento non si distacca da quello dei passati Concili e del recente magistero della Chiesa. Il Vaticano Il è «nuovo» rispetto al più recente passato della Chiesa, vale a dire all’epoca post-tridentìna, della quale segna la fine.
Rispetto all’epoca post-tridentina, rappresenta una «novità» così profonda da potersi dire che con esso ha inizio un nuovo periodo della storia della Chiesa.
Certamente non nasce come un fungo autunnale. Il nuovo atteggiamento della Chiesa verso il mondo moderno era iniziato con Leone XIII (Rerum novarum); portato avanti con coraggio da Pio XII, aveva trovato la sua piena espressione in Giovanni XXIII, che può essere considerato il Copernico della Chiesa contemporanea. Significative le parole del suo discorso di apertura del Concilio (1l ottobre 1962): «Sempre la Chiesa si è opposta agli errori; spesso li ha anche condannati con la massima severità. Al giorno d’oggi tuttavia, la Sposa di Cristo preferisce far uso della medicina della misericordia piuttosto che della severità: essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina piuttosto che la condanna» (O. Alberigo - A. Melloni, L’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII in: Fede tradizione profezia, Paideia, Brescia 1984, pp. 185-283).
Ancora più significativo l’ampliamento delle prospettive nel discorso di Paolo VI all’ apertura del secondo periodo, 29 settembre 1963: La Chiesa guarda al mondo “con profonda comprensione, con sincera ammirazione e con schietto proposito non di conquistarlo, ma di servirlo; non di disprezzarlo ma di valorizzarlo; non di condannano, ma di confortarlo e di salvarlo”.
La prima “novità” del Concilio riguarda l’ecclesiologia, la concezione della natura della Chiesa e della sua costituzione. La Lumen Gentium, infatti, propone un’ecclesiologia di comunione, che non nega la costituzione gerarchica della Chiesa, ma situa la Gerarchia all’interno del popolo di Dio col triplice compito di predicare il Vangelo, santificare il popolo di Dio e governarlo.
Del popolo di Dio, sottolinea l’indole sacerdotale con una forte accentuazione del sacerdozio comune (n. 10).
Insiste sulla natura collegiale dei vescovi, successori degli Apostoli e non semplici rappresentanti del Papa. La Lumen Gentium è insomma un vero ritorno alla ecclesiologia patristica.
La seconda grande «novità» del C.V. II è la Costituzione Dei Verbum sulla rivelazione. In essa si legge «La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono strettamente tra loro congiunte e comunicanti» (Dei Verbum, n.9) e «costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa» (n. 10)
Il magistero della Chiesa ha una funzione “ministeriale”, esso “interpreta autenticamente la parola di Dio” ma «non è superiore alla parola di Dio, bensì ad essa serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso» (n. 10). Non si parla più di due fonti della Rivelazione ma di unica fonte, costituita dalla Tradizione e dalla S. Scrittura.
Forse la Dei Verbum è quella meno nota tra le quattro Costituzioni, fuori degli studi teologici, perché non ha determinato clamorosi cambiamenti, come quelli avutisi nella liturgia, nè ha creato forme nuove di comprensione della Ecclesiologia, come la Lumen Gentium, ne ha avuto immediati riflessi nella cultura laica. Ma per molti teologi - come De Lubac - può essere considerata “il capolavoro” del Concilio, «il portale d’ingresso e il fondamento» di tutti gli altri documenti. (H. De Lubac, La Rivelazione divina e il senso dell’uomo, Jaca Book, Milano 1985).
La terza grande novità è la Costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium che consacra le istanze maturate nel corso del novecento.
Con essa vengono introdotte usanze da sempre in vigore nella Chiesa d’oriente e accettate esigenze avvertite da tempo nella Chiesa cattolica: la celebrazione della liturgia nella lingua parlata dal popolo; l’accettazione del pluralismo e del principio della decentralizzazione; la restaurazione della concelebrazione e della comunione sotto le due specie; l’affermazione della centralità della Scrittura nella liturgia. Soprattutto significativa è l’ispirazione teocentrica e cristocentrica di tutta la Costituzione liturgica e l’affermazione che nella Liturgia si trova la fonte e il culmine di tutta la vita della Chiesa.
Altra «novità» di rilievo riguarda il rapporto che la Chiesa vuole stabilire con la società civile e con gli Stati. La Chiesa, dice la Gaudium et Spes, facendo proprie «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi» si sente «realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (G.S., n. 1). Desidera, perciò, instaurare con l’umanità “un dialogo” sui problemi umani, «arrecando la luce che viene dal Vangelo» per «salvare la persona umana e rinnovare l’umana società» (G.S., n.3).
Importante sul piano dei principi e di fruttuose conseguenze è l’atteggiamento di «dialogo», di riconoscimento dei rispettivi «valori», di collaborazione, che, col Concilio, la Chiesa cattolica ha assunto nei confronti delle Chiese e Confessioni cristiane non cattoliche, come pure nei confronti delle religioni non cristiane.
Nel decreto Unitatis redintegratio viene indicato come uno «dei principali intenti» il ristabilimento dell’unità tra tutti i cristiani. Così nella dichiarazione Nostra aetate (n.2) si afferma che la Chiesa «nulla rigetta di ciò che è vero e santo nelle religioni non cristiane», che «considera con sincero rispetto» convinta che esse «non raramente riflettono un raggio della verità che illumina tutti gli uomini».
Paolo VI, in uno straordinario discorso ai Padri conciliavi diceva: «Questo Concilio è stato vivamente interessato allo studio del mondo moderno. Mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare e di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento. Vogliamo notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità.., tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta unicamente in una direzione: “servire l’uomo”. In questa stessa lunghezza d’onda la nostra Chiesa locale riprende in mano i testi di quella Grande Assise per essere più pronta e generosa nel «servire l’uomo».
LE PRINCIPALI LINEE DI SVOLGIMENTO DELLA LUMEN GENTIUM
La Costituzione «sulla Chiesa», la Lumen Gentium è unanimemente riconosciuta come la pietra angolare di tutti i decreti pubblicati, che direttamente o indirettamente confluiscono in essa o di essa sono diramazioni.
Essa è contemporaneamente un punto di arrivo e un punto di partenza. Una risposta alle attese già presenti e un’ apertura di animo e di amore all’esercizio dello Spirito.
In verità il Concilio tutto nasce dalla straordinaria intuizione di Giovanni XXIII che la Chiesa necessita di «aggiornamento», perché non al passo con il mondo moderno. Di qui l’invito a riflettere sui compiti più urgenti e a liberare la propria organizzazione dall’isolamento nel quale correva il rischio di chiudersi.
Contrariamente a quanto avvenuto con il Concilio di Trento, il Vaticano II riuscì a precedere la crisi e ad indicare i rimedi, prima ancora che i sintomi del male diventassero evidenti.
Il Concilio esaminò ed indicò la dottrina rivelata nello stato in cui l’aveva condotta lo Spirito. A noi spetta far crescere l’intelligenza della fede in modo sempre più profondo ed efficace.
Può essere utile cercare di individuare le linee principali di questo documento, innovatore e insieme fedele alla tradizione:
a) La Parola di Dio, fonte della Rivelazione
Il Concilio è ripartito dalla Rivelazione, cioè dalla Parola di Dio in sé, predicata all’inizio e messa in iscritto sotto l’azione dello Spirito, e, poi, trasmessa entro la Chiesa dalla tradizione viva degli Apostoli, dei Padri, dei Concili, della liturgia, degli atti del magistero. Il Concilio ha guardato alla Parola stessa, nella misura in cui la si percepisce alla lettura della Scrittura, in seno alla tradizione e alla Chiesa vivente. Ha preferito non parlare di fonti, al plurale, ma della fonte della Rivelazione, che è la: Parola di Dio.
b) La Chiesa
come «mistero»
Nella Lumen Gentium, particolare rilevanza ha l’impostazione trinitaria del discorso sulla Chiesa, che parte dal misterioso disegno di salvezza del Padre, manifestato al mondo dal Figlio Gesù Cristo e attuato nello Spirito Santo. Interessante è la nuova visione della Chiesa come mistero e comunione e non tanto come società gerarchica.
La dottrina rivelata riguardo alla Chiesa prende forma ed unità guardando il punto centrale del mistero trinitario, da cui tutto scaturisce: Trinità, creazione, peccato originale, Incarnazione del Figlio, Redenzione, diffusione del messaggio, lo Spirito Santo che agisce nella Chiesa come sorgente di grazia e di vita eterna mediante i sacramenti. Anche la morale poggia, con chiarezza, sulla Parola di Dio.
In una parola, nella Chiesa tutto comincia e si conclude con la Santissima Trinità.
c) La
dimensione storica
La nostra fede non è fatta di verità astratte, noi crediamo in un Dio trinitario presente nella storia umana. Tutta la Bibbia è lo sviluppo di una lunga serie di eventi, dalla creazione nel tempo, che rivelano l’intervento concreto di Dio nell’umanità. Egli è il Pastore che guida il gregge verso i pascoli e lo conduce all’ovile; è il Vignaiolo che ha cura della sua vigna, è un Architetto che, pietra su pietra, costruisce il tempio santo. La Chiesa è la famiglia di Dio, e la Sposa di Cristo «santa e pur sempre bisognosa di purificazione» che è in cammino verso la Patria celeste ma impegnata a far crescere, nel tempo, il regno di Cristo.
La dimensione storica permette di capire la nascita e lo sviluppo degli eventi della salvezza, delle verità rivelate e dell’importanza della Chiesa, responsabile di un tempo che va redento e orientato a Cristo, protagonista della storia.
d) Aspetto
comunitario
La Chiesa è corpo organico di Cristo, ma resta composta di persone distinte e in relazione reciproca entro un quadro di forme giuridiche. Il mistero, che pure ne costituisce la natura, non si oppone a questo quadro ma gli conferisce un potenziale vitale nuovo. Questo corpo istituzionale, senza essere smantellato, deve essere animato dallo Spirito.
La Chiesa è un’organizzazione ma deve poter essere viva e vivificante. Se le strutture legali diventano ipertrofiche non solo non favoriscono la vita della comunità ma minacciano di spegnerla. La Lumen Gentium ci invita ad una ecclesiologia eucaristica in cui l’esercizio del potere ecclesiale si manifesta sempre più come servizio. E’ incompatibile, oggi, con lo spirito comunitario autentico il ricorso al principio d’autorità, che si identifica spesso col puro esercizio del comando.
e) Apertura
agli altri
Il Vaticano II ha aperto le porte e le finestre della Chiesa a tutta l’umanità: alle chiese sorelle, ai non cristiani, ai non credenti.
La Lumen Gentium ha preparato con naturalezza molteplici applicazioni pastorali, che si ritrovano nella seconda parte della Gaudium et Spes.
In essa c’è un atteggiamento di accoglienza, che si apre direttamente a tutti, senza distinzione. La Chiesa, al servizio di ogni uomo, chiama a sé e accoglie il peccatore, vedendo in lui l’uomo da salvare. Senza la Lumen Gentium sarebbero restati impensabili i contatti e il cammino che si è fatto sul piano dell’Ecumenismo.
Nel Capitolo sul Popolo di Dio, il documento saluta con piacere qualsiasi elemento di contatto esistente con le Chiese sorelle, afferma che l’unità si colloca al di là delle discussioni e che va affidata all’azione dello Spirito Santo.
Parole sincere di pace vengono rivolte ad ebrei e musulmani. E nella parte finale del capitolo sul Popolo di Dio si trovano accenti molto significativi per i credenti non cristiani e, persino, per gli atei.
Un accento nuovo, in questa nuova tensione spirituale, acquista l’aspetto missionario della Chiesa. Si rinuncia ai termini di conquista, ci si preoccupa molto di rispettare i valori culturali dei vari popoli e, di conseguenza, si supera la mentalità di pensare che la civiltà occidentale sia indispensabile al cristianesimo.
L’atteggiamento giusto di apertura agli altri ha determinato però, particolarmente per quanto riguarda la missionarietà della Chiesa, qualche problema. La sottolineatura della volontà universale di salvezza, da parte di Dio, ha come sminuito nei cristiani il dovere di evangelizzare e di portare la salvezza a tutta l’umanità.
LA PERMANENTE VALIDITÀ DELLA
MISSIONE
Non poche né irrilevanti sono le domande determinate dalla riflessione teologica, seguita alle straordinarie aperture del Concilio, rispettivamente alle altre Chiese e Religioni, anche non cristiane, e alla libertà di coscienza.
Ci si è chiesto: «E’ ancora attuale la missione tra i non cristiani? Il dialogo inter-religioso non è sufficiente a sostituirla? Il rispetto della coscienza e della libertà non esclude la proposta di conversione e di adesione alla Chiesa cattolica? Non è possibile salvarsi in qualsiasi religione? Quale, allora, la necessità o l’utilità della missione?
Queste domande scaturiscono da un pericoloso pluralismo religioso, che, superando la questione de fatto, afferma un pluralismo di principio, per cui tutte le religioni sarebbero vie che portano a Dio, comunque valide alla salvezza.
La persona e l’opera di Gesù viene così relativizzata, perché si fa di Lui uno dei salvatori dell’umanità e il cristianesimo diventa una delle vie di salvezza. Nella Chiesa cattolica non vi sarebbe la «sussistenza» dell’unica Chiesa di Cristo.
Tale problematica, già presente nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI (1975), è all’ origine dell’Enciclica Redemptoris Missio di G. Paolo II, pubblicata nel 1990. In essa il Papa riafferma che «Cristo è l’unico Salvatore di tutti, colui che solo è in grado di rivelare Dio e di condurre a Dio», che «Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini», perciò «gli uomini non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l’azione dello Spirito Santo». Inoltre “questa sua mediazione unica e universale, lungi dall’essere di ostacolo al cammino verso Dio è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza”. Per quanto concerne le altre mediazioni, esse «attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (n.5). A proposito della Chiesa è detto che la sua necessità “in ordine alla salvezza” è una verità da non scindere da quella che afferma “la reale possibilità della salvezza in Cristo per tutti gli uomini” (n.9), perché “la Chiesa è sacramento di salvezza per tutta l’umanità e la sua azione non si restringe a coloro che ne accettano il messaggio” (n.20).
Il permanere di un atteggiamento relativistico di fronte al modo di percepire la verità, nella forma logica della non-contraddizione o in quella simbolica della composizione e della coesistenza degli opposti, tipica della mentalità orientale, che può toccare la sostanza stessa della verità; e il considerare l’Incarnazione del Figlio di Dio come non definitiva e unica, hanno determinato il documento Dominus Jesus (6 agosto 2000), da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, ratificato e confermato da Giovanni Paolo lI.
La Dichiarazione afferma che non è accettabile quanto emerge nella riflessione teologica contemporanea circa Gesù di Nazaret, considerato come una figura storica non esclusiva ma complementare ad altre presenze rivelatrici e salvifiche. Non è secondo fede pensare che Dio
si manifesterebbe all’umanità in tante figure storiche e che Gesù sarebbe una di esse. Né si può sostenere una duplice economia della salvezza, quella del Verbo incarnato, limitata ai cristiani, e quella del Verbo eterno, valida anche fuori della Chiesa e indipendente da essa.
Il 20 gennaio 2001, Giovanni Paolo II, chiudendo un Simposio sul decennale della Redemptorìs missio (1990-2000) ha detto « sono passati dieci anni da quando, con l’enciclica Redemptoris missio, intese mobilitare la Chiesa ad una globale missione ad gentes. Ripeto questo invito ora, all’inizio di un nuovo secolo e millennio».
La ragione di questa viva preoccupazione missionaria è determinata dal fatto che “La Chiesa, radicata nell’amore trinitario, è missionaria per natura, ma occorre che lo diventi di fatto in tutte le sue attività. E lo sarà se vivrà pienamente la carità che lo Spirito diffonde nel cuore dei credenti” (Civ. Catt. 2001,1, 341). Le parole di Giovanni Paolo II ci richiamano ad un esame di coscienza singolo e collettivo. Ciò che spinge la Chiesa ad essere missionaria è l’amore per il suo Cristo e per coloro per la cui salvezza è morto. Ma una Chiesa debole nella fede non può essere missionaria, perché le manca la fonte dell’amore.
Con amarezza il Papa aveva scritto: ”La missione di Cristo Redentore, affidata alla Chiesa, è ancora lontana dal suo compimento. Al termine del secondo millennio della sua venuta uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio” (R.M. n.l).
Questa considerazione riguarda, certo, il mondo intero ma tocca da vicino anche noi, come Chiesa che è in Italia. Il Papa, infatti, va da tempo ripetendo che s’impone una nuova evangelizzazione anche dei paesi di vecchia tradizione cristiana. Ad un attento osservatore non sfugge che anche il nostro territorio — come in effetti tutta l’italia — risente di un mutamento spirituale che emargina i contenuti dottrinali e morali cristiani. La vita si va organizzando mettendo al centro i valori dell’individuo, della mondanità e del pluralismo.
Anche se in forma non esplosiva, per quanto riguarda la nostra Chiesa locale, la proposta cristiana, sul piano di una accettazione che si traduce nella vita quotidiana, diventa sempre meno incisiva. Tale situazione va affrontata con decisione. Non è sufficiente solo un impegno maggiore nella direzione di sempre, è necessario misurarsi con la presente civiltà e confrontarsi con i paradigmi che fanno da punto di riferimento per la storia a noi contemporanea. Ci troviamo dinanzi ad una rivoluzione epocale che sta dando luogo ad un mondo nuovo, del quale siamo parte anche noi, nel nostro piccolo. La sensazione è che non abbiamo preso coscienza di tutto questo. E pur avendo teoricamente riscoperto la natura missionaria della Chiesa, siamo attardati sulle modalità del cammino che si vuole percorrere.
La pastorale di oggi è nuova più nelle parole che nei metodi, troppo legati al passato, e perciò chiusa in se stessa. Non si intravede ancora una pastorale col respiro decisamente missionario ed universale, capace di farci pensare che l’interesse di Cristo si identifica con l’interesse dell’uomo, e di farci guardare al di là del nostro piccolo orto, convinti che il compito affidatoci è quello di portare Cristo a tutti gli uomini.
Una pastorale degna della nuova evangelizzazione non può contentarsi di conservare. Forte fu il richiamo del Papa a Palermo: «Non è più il tempo della semplice conservazione dell’esistente, ma della missione» (Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno ecclesiale di Palermo, 2).
Il tentativo — in verità — di porre l’annuncio al centro della vita delle
comunità cristiane era cominciato nella Chiesa italiana già negli anni
settanta, come testimoniano i piani pastorali Evangelizzazione e sacramenti, e, successivamente, Comunione
e Comunità (1980), Evangelizzazione
e testimonianza della Carità (1990), e, il più recente, Con il
dono della carità dentro la storia (1996).
Questo nostro tempo va considerato «come un nuovo avvento missionario», scrivono i Vescovi nel documento del dopo Palermo (n.2). Serve, perciò, stare dentro la storia con amore per rinnovarla. La carità, che anima i cristiani, anela ad una perfetta “comunione con le Persone divine nell’eternità” (n.6), ma li impegna anche a “collaborare con tutti gli uomini per la costruzione dì un mondo più umano” (n.6). Allo stesso modo per permeare la storia con la parola di Dio è importante aggiornare i programmi pastorali, i linguaggi e gli strumenti di comunicazione, ma ciò che veramente serve è «una fioritura di santità» (n. 10). Il Vangelo può farsi storia se diventa capace di formare una mentalità cristiana, un modo di pensare motivato dalla carità e dalla fede, in grado di cogliere i problemi reali della gente rispondendo alle esigenze vere.
Si tratta di fare una scelta coraggiosa, che si basi su di una diversa impostazione dei rapporti tra Chiesa e mondo, superando ogni contrapposizione, nel tentativo di riportare a Cristo le ricchezze di questa società e le contraddizioni di questo tempo. Il tuffarsi nella storia con il «Vangelo della carità» ha come conseguenza una responsabilizzazione sempre più crescente del laicato, del popolo dì Dio, chiamato a saldare fede e cultura, fede e vita quotidiana, fede e storia.
La CEI, nella Nota pastorale Le aggregazioni laicali, (1993), indica i laici come i soggetti della “nuova evangelizzazione” e il mondo quale luogo della loro vocazione ecclesiale. La Christifldeles laici (1988), al n.34, fissa i termini di questo impegno: rifare «il tessuto cristiano delle stesse comunità cristiane»; «spalancare le porte a Cristo» via, verità e vita dell’uomo; formare «comunità ecclesiali mature».
La nostra società — gli uomini del nostro territorio — hanno sete di laici capaci di una sintesi vitale nel trattare i problemi come la vita, la famiglia, la scuola, il mondo giovanile, il lavoro, la politica, l’economia.
Per questa ragione essi devono entrare sempre più nel cuore della Chiesa, per entrare nel cuore del mondo con la speranza della Chiesa.
La sfida che ci aspetta, anche come Chiesa locale, è quella di non lasciarsi emarginare dalla storia nè di confondersi e perdersi nel suo fluire ma di vivere nella storia da soggetto attivo, orientandola in senso cristiano.
Nella situazione che ci troviamo a vivere, contraddistinta dai problemi della globalizzazione e dalle complesse realtà determinate dall’intreccio di popoli e culture diverse, s’impone la necessità di forme nuove di annuncio della Parola — ci ricorda il Papa nella lettera apostolica Novo Millennio Ineunte. E’ necessario, perciò, «coinvolgere la responsabilità di tutti i membri del popolo di Dio». (n.40). Il Cristianesimo del terzo millennio, nell’ assoluta fedeltà al dettato del Vangelo, ha dinanzi a sé il difficile compito di operare una nuova inculturazione della fede nel mutato e mutevole contesto storico e culturale. Questo sarà possibile solo ad una Chiesa che si senta veramente missionaria, tesa verso l’orizzonte che Cristo le ha dato e capace di essere sale della terra e luce del mondo.
LA CELEBRAZIONE DELLA SALVEZZA NELLO SPIRITO DELLA LUMEN GENTIUM
La Liturgia, con i suoi riti, i suoi gesti e parole, è una speciale epifania (manifestazione) della Chiesa: espressione e realizzazione del suo mistero di salvezza universale (cfr. MESSALE ROMANO ‘Messa per la chiesa Universale’ [1] -Colletta). Per questo, è soprattutto nelle celebrazioni liturgiche che essa appare, più chiaramente e più efficacemente, «come un sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’ unità di tutto il genere umano» (LG 1).
Infatti, l’essere Chiesa esige - come segno e realizzazione ottimale - una comunità formata e riunita, «nell’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (LG 4; MESSALE ROMANO “Messa per la Chiesa Universale”, [3] - Colletta). Questo risulta evidente anche dall’analisi dei testi del NT che si riferiscono a momenti cultuali, in cui si constata che il primo e fondamentale atto di ogni celebrazione cristiana è la riunione del popolo di Dio in assemblea (es. cfr. At 2,42-47; 20,7 ss.) in mezzo al quale lo stesso Cristo si fa presente (cfr. Mt 18, 20). Ed essendo Cristo il capo della Chiesa, li dov’è presente Lui, capo e pastore, lì sono presenti tutte le membra del corpo ecclesiale (cfr. 1Cor 12, 12).
Necessariamente, il segno dell’assemblea liturgica ha
delle coordinate spazio temporali: essa è sempre l’espressione di una comunità
locale, o almeno è un raduno dì cristiani provenienti da diverse comunità.
L’intero mistero della Chiesa è presente nelle singole Chiese, e dunque nelle
assemblee locali (cfr. LG 26), poiché «in esse e da esse è costituita l’unica
Chiesa cattolica» (LG 23). Per questo l’assemblea liturgica non solo è la manifestazione
più alta, e allo stesso tempo più semplice, della comunità locale, specialmente
quando è riunita intorno al Vescovo, ma è evento concreto, e dunque visibile,
della Chiesa universale «una santa
cattolica ed apostolica”.
Questa Chiesa che è «pellegrina nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono alla storia presente, porta in sé la figura provvisoria dì questo mondo e vive in mezzo alle creature, le quali ancora oggi gemono e soffrono come in parto ed attendono la rivelazione dei figli di Dio» (LG 48). Questa Chiesa radunata in santa assemblea, preannunzia ed anticipa nel suo culto terreno la gloria della Gerusalemme celeste.
Dunque, è soprattutto nell’assemblea liturgica che la Chiesa si esprime e si rende visibile al mondo come comunità nata dalle acque del battesimo: «stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si e acquistato perché proclami le opere meravigliose diluì» (1Pt 2,9).
In effetti, se è vero che il sacerdozio battesimale del popolo cristiano si esercita prima di tutto nella vita e nell’attività di ogni giorno, è nell’assemblea liturgica che si manifesta in pienezza, si realizza e si alimenta questo carattere sacerdotale dì tutto il popolo di Dio che si offre e rende grazie al Padre per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo. Avendo Cristo fatto del nuovo popolo «un regno e dei sacerdoti per Dio, suo Padre» (Ap 1,6; cfr 5,9-10), i battezzati attraverso il lavacro di rigenerazione e l’unzione dello Spirito «vengono consacrati a formare una dimora spirituale un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere del cristiano, spirituali sacrifici e far conoscere i prodigi di colui che dalle tenebre li chiamo all’ammirabile sua luce (cfr lPt 2,4-10» (LG 10).
Non deve essere comunque dimenticato che «al sacerdozio di Cristo, sia i ministri sia il popolo cristiano partecipano in vari modi» (LG 62). Ciò non deve ingenerare confusione, quasi come se ci fosse più di un sacerdozio di Cristo; ma “l’uno e l’altro (quello comune e quello ministeriale), ognuno a suo proprio modo, partecipano all’unico sacerdozio di Cristo - differiscono essenzialmente, pur essendo - ordinati l’uno all’altro» (LG 10). Infatti gli stessi ministri della Chiesa sono tratti dal popolo dei battezzati e restano al suo servizio (cfr LG 11), secondo il proprio grado e ministero a cui sono stati chiamati.
Questa assemblea così convocata - comunità sacerdotale del popolo di Dio - si alimenta, cresce e si irrobustisce «per mezzo dei sacramenti e delle virtù» (LG 11). Infatti oltre alla Parola di Dio, la vita della Comunità è profondamente segnata dalla celebrazione dei 7 sacramenti, che, quasi come della tappe, segnano le varie fasi e momenti della vita cristiana. Da ognuno di essi «tutti i fedeli d’ogni stato e condizione, - ricevono tutto il bene spirituale secondo la condizione della propria vocazione e - sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a quella perfezione di santità di cui è perfetto il Padre celeste» (LG 11).
Da quanto sintetizzato risulta evidente quale sia la preoccupazione del Concilio, quella, cioè di far prendere sempre più coscienza che il nostro adunarci per la celebrazione liturgica - lungi dall’essere una mera aggregazione sociale - è la manifestazione piena del nostra realtà ultima e definitiva. Ecco perché la liturgia, a buon diritto, è detta fonte e culmine della vita della Chiesa, in quanto il mistero redentivo di Cristo è reso sempre vivo e attuale. Questo esige una sempre maggiore consapevolezza, da parte di tutta l’assemblea celebrante, dì ciò che nelle azioni liturgiche si è chiamati ad esprimere e a vivere. Così le nostre celebrazioni torneranno ad essere luoghi privilegiati dell’educazione alla fede attraverso la mistagogia.
Benché i laici costituiscano da sempre la gran parte del popolo di Dio, ben raramente prima del Concilio Vaticano II la teologia e il magistero hanno preso in esame la loro specifica condizione.
Il Vaticano II, spinto anche da un processo storico di emancipazione dei laici in tutti i campi dell’attività umana, ha riletto i dati della rivelazione e ha rifondato lo statuto della dignità laicale nella Chiesa.
Il capitolo IV della Lumen Gentium è interamente dedicato ai laici e da esso si possono ricavare le linee fondamentali della fisionomia e della stessa teologia del laicato. non perché sia l’unico testo del Vat. II che tratti dell’argomento - si può dire che in ogni documento troviamo importanti riferimenti sul tema ma perché esso rappresenta un po’ la sintesi di un cammino lungo e faticoso portato avanti per anni dalla riflessione teologica e dall’impegno apostolico di eminenti figure laicali, che hanno contribuito a scrivere la storia della Chiesa negli ultimi due secoli.
Con il linguaggio sintetico dei documenti, la Lurnen Gentium al n. 31 dà una definizione ricca e complessa della figura del laico, nella quale, di primo acchito, sembra emergere una descrizione in negativo: laico è colui che non è né religioso, nè chierico. Ma subito dopo si coglie “in positivo” la sottolineatura di ciò che rappresenta la prima caratteristica del laico: la sua ecclesialità. I laici sono fedeli incorporati a Cristo in forza del battesimo, e costituiti popolo di Dio, per cui ciò che si dice del popolo di Dio è da applicarsi anche ai laici. Essi esercitano, in una loro misura particolare, quella missione profetica, sacerdotale, e regale che è di Cristo stesso e dell’intero popolo di Dio (LG 31).
La “particolarità” della loro missione viene precisata subito dopo con un’affermazione divenuta celebre: “l’indole secolare è propria e peculiare dei laici... Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”.
Il carattere secolare, dunque, è il secondo elemento caratterizzante la definizione del laico ed implica che egli è chiamato a vivere la sua ecclesialità in “modo secolare”, ossia a riconoscere nel “mondo” il luogo primario dove è chiamato a compiere la sua missione, dando il giusto valore alle cose create. Se il laico non riconosce, infatti, i valori temporali, non può ordinarli secondo Dio; non è disattendendo tali valori, ma vivendoli evangelicamente che egli vive da cristiano. E i valori in questione sono la famiglia, la professione, il lavoro, la società, la politica, l’economia, vale a dire tutte le circostanze ordinarie che costituiscono la trama quotidiana dell’esistenza.
Ciò non impedisce che i laici possano essere chiamati a cooperare più immediatamente con l’apostolato della gerarchia (LG 33) e a collaborare con i Pastori: “ai pastori manifestino le loro necessità e i loro desideri, con quella libertà e fiducia che si addice a figli di Dio e a fratelli in Cristo. Nella misura della scienza, della competenza e del prestigio di cui godono essi hanno il diritto, anzi anche il dovere di far conoscere il loro parere su ciò che riguarda il bene della Chiesa” (n 37).
In quest’ottica trovano collocazione i tanti fedeli laici impegnati nei vari gruppi, movimenti e associazioni, di antica e nuova formulazione, che lo Spirito Santo suscita all’interno della Chiesa.
In definitiva, l’esistenza e la missione del laico
sono rette da due componenti, che definiscono la sua fisionomia: presenza nella Chiesa e presenza nel mondo con uno stile
proprio, cioè laicale.
I laici costituiscono la gran parte del popolo di Dio. Nell’attuarsi della missione della Chiesa, tuttavia, non appare cosi evidente che essi siano i principali protagonisti; anzi spesso la loro azione è marginale, il loro senso di appartenenza alla comunità ecclesiale scarso. Si tratta di un fenomeno legato al tempo, oppure esso è costitutivo della loro vocazione?
E stato più volte ripetuto che senza una compiuta assunzione di responsabilità da parte del laicato è impossibile per la Chiesa assolvere alla sua missione nell’attuale contesto di crescente secolarizzazione. Come aiutare i laici a divenire sempre più consapevoli della loro vocazione per viverla con maggiore intensità e pienezza? E come aiutare le comunità cristiane a capire meglio la risorsa che i laici possono oggi rappresentare per la loro vita e la loro missione?
LA MISSIONE DI CARITA E DI SERVIZIO DELLA CHIESA ALLA LUCE DELLA LUMEN GENTIUM
La carità ha un’origine e una struttura trìnitaria. La SS.ma Trinità è principio e modello della carità e quindi della comunità ecclesiale. Il “protagonista” della vita della chiesa è Gesù Cristo, morto e risorto, presente in mezzo a noi che ci orienta e ci porta al Padre. “Lo Spirito produce e stimola la carità tra i fedeli” (LG 7).
Il primo dono di Dio è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo (cfr LG 41).
Lungo il cammino della storia, Dio non cessa di amare i suoi figli. Egli è sempre un Dio misericordioso e fedele che “ascolta il grido degli oppressi”, dei deboli, dei perseguitati, dei vinti. Di fronte alla sofferenza dell’uomo Dio manifesta il suo amore che ci salva, ci redime, ci riabilita.
Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà “da ricco che era si fece povero” (2Cor 8,9) così pure la chiesa circonda di affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza. Anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo (cfr LG 8).
La carità pastorale
I sacerdoti, chiamati per vocazione alla santità mediante il quotidiano esercizio del proprio ufficio, crescano nell’amore di Dio e del prossimo in un servizio umile e nascosto (cfr LG 41). Chiamati per servire. ‘lo sono in mezzo a voi come colui che serve’. Cristo figlio di Dio e figlio dell’uomo è venuto a servire e a dare la sua vita in riscatto per molti (Mc 10,45).
I presbiteri, chiamati a servire il popolo di Dio nella comunione di vita, di lavoro e di carità, sì ricordino che devono con la loro quotidiana condotta e con la loro sollecitudine presentare ai fedeli e infedeli, cattolici e non cattolici, l’immagine di un ministero veramente sacerdotale e pastorale conforme a quello esercitato da Cristo.
Così pure i diaconi, ai quali sono imposte le mani non per il sacerdozio, ma “per il servizio” devono dedicarsi all’ufficio di carità e di assistenza. “Essere attivi, misericordiosi, camminare secondo la verità del Signore, il quale si è fatto servo di tutti” (S. Policarpo). L’ ufficio affidato dal Signore ai pastori del suo popolo e un vero servizio (cfr LG 20.24.27.28).
I fedeli si consacrino al servizio del prossimo c manifestino nel servizio temporale la carità (cfr LG 40. 41. 42).
L’impegno caritativo deve diventare espressione di “come Dio guarda l’uomo”.
Ne consegue il passaggio dal concetto di carità come elemosina. al concetto di carità come
condivisione. L’uomo dì fronte a Dio è povero: se manca questa convinzione, viene treno il fondamento della vita cristiana. L’amore verso il prossimo è il prolungamento dell’amore di Dio, che ama tutti e vuole da noi quest’amore, che vincola tutti.
I.a carità all’alba del terzo millennio
La Chiesa deve esprimere forme nuove di testimonianza, di solidarietà e dì condivisione alla carità. Le tecniche scientifiche sono molto avanzate ... la scienza del Vangelo, che tocca tutto l’uomo, non tiene il passo...Occorre far crescere il figlio di Dio in noi, accogliere le proposte e le esperienze del suo Vangelo.
All’inizio del terzo millennio, occorre programmare una nuova reale e autentica testimonianza della carità nelle comunità parrocchiali; opporre resistenza alla società consumistica che propone prepotentemente i suoi falsi valori; ricostruire una chiesa ricca di povertà evangelica, che si mette al servizio dei poveri e annuncia il Vangelo dell’amore.
Solo così la carità diventa revisione di vita, forza di amore, realizzazione di pace e speranza per un mondo migliore.
“Organizzare la carità” “proposte operative”
Compito della Caritas parrocchiale è:
- programmare un cammino permanente di formazione alla carità e promozione della dignità della persona;
- educare i giovani alla sensibilizzazione e alla solidarietà (volontariato motivato, attivo e responsabile);
- costituire un efficiente centro di ascolto parrocchiale;
- un osservatorio delle povertà sul territorio;
- dalla rilevazione poi dei bisogni, passare alle risposte concrete di solidarietà.
I RELIGIOSI E LE RELIGIOSE DELLA DIOCESI DI AVERSA A CONFRONTO CON LA LUMEN GENTIUM
Una commissione composta di religiosi e religiose appartenenti a diversi Istituti si sono confrontati sulla Costituzione dogmatica Lumen Gentium in vista del prossimo Convegno Pastorale Diocesano.
Ne è emersa una discussione costruttiva e condivisa, di stile familiare e con tono sereno, che ha posto in evidenza i seguenti punti principali:
Nello sfondo di rinnovamento che ha caratterizzato tutto il Concilio Vaticano II, la Lumen Gentium, nella sua impostazione lineare con cui descrive la Chiesa considerata come “Mistero”, per la prima volta si parla in modo diverso della vita religiosa considerandola come un dono che fa parte, a pieno titolo, della sua struttura sacramentale e carismatica. Scardinando quella idea che c’era in passato di considerare tale realtà quasi come marginale e apprezzandola più per le opere dì carattere caritativo e sociale che per il suo significato evangelico, profetico ed escatologico, anche i religiosi vengono chiamati a collaborare all’interno della pastorale ecclesiale. Da soggetti passivi di evangelizzazione, grazie a tale fondamentale documento, diventano attivi con il mandato specifico, attraverso la propria testimonianza, di aiutare l’umanità ferita da tante tragedie a credere in Dio e a saperlo amare.
Dall’evento conciliare ad oggi indubbiamente dei passi avanti che ne hanno realizzati contenuti si sono compiuti: gli importanti documenti sulla Vita Consacrata che ne sono seguiti, la ricca riflessione teologica in merito che ha caratterizzato questi ultimi decenni, l’inserimento dei religiosi in tante attività pastorali, l’esistenza della C.I.S.M. e dell’US.M.I., gli incontri tra i vari Istituti.., costituiscono solo alcuni esempi del fruttuoso cammino che in questi 35 anni si è percorso.
Indubbiamente vi sono poi anche zone d’ombra che devono ancora essere illuminate quali soprattutto il fatto che il mondo religioso non deve essere apprezzato tanto per ciò che opera, quanto per ciò che è, come così pure non sempre è facile far capire a chi chiede collaborazione alle persone consacrate che va rispettato il carisma specifico dell’istituto e non bisogna considerare il religioso come soltanto personale sostitutivo e supplettivo.
In ambito più vicino alla realtà che si vive nella nostra diocesi, i partecipanti all’incontro si sono mostrati tutti interessati all’organizzazione di questo tipo di assemblee visto l’arricchimento reciproco che sicuramente ne scaturisce. Per realizzare ciò occorre superare una certa diffidenza iniziale, anche tra religiosi stessi, e aprirsi con maggior slancio e impegno.
I. Evangelizzare oggi significa ricucire lo stappo tra cultura e Vangelo.
2. La capacità di comunicare la Lieta Novella misura la fedeltà della Chiesa alla sua missione.
3. La Lumen Gentium propone una ecclesiologia di comunione che esalta la Ministerialità come servizio.
4. La celebrazione dei sacramenti, frutto e segno della fede, rende vivo e attuale il mistero redentivo di Cristo.
5. La Chiesa locale e i movimenti di fronte alle sfide del terzo millennio. E’ importante integrare più che contrapporre; accogliere la diversità come arricchimento per dare respiro alla Chiesa e autenticità ecclesiale all’azione dei movimenti.
6. La Famiglia è il luogo teologico privilegiato dove si incarna la “Parola” e si impara a vivere il rapporto di amore con Dio.
7. I giovani, portatori di valori che fanno la storia, sono motivo di provocazione e di speranza per la Chiesa locale, nella quale essi devono imparare a crescere nella fede sentendosi protagonisti di un cammino comune.
8. La Chiesa dei poveri deve essere una chiesa che vive ‘la povertà”.
9. La Caritas
parrocchiale: antenna delle povertà nel territorio.
10. I Religiosi, con il carisma della perfezione escatologica sono chiamati, da una parte, a dare evidenza al valore storico e di incarnazione del Regno e, dall’altra, a sottolineare il valore di trascendenza dei limiti della storia.