DIOCESI DI AVERSA

                           

Spunti di riflessione

sulla

LUMEN GENTIUM

 

a cura dei

VICARI EPISCOPALI

                           

Anno Pastorale 2001/2002

Sommario:

 

                     &  Il Concilio, dono di Dio alla Chiesa

                     &  Le principali linee di svolgimento della Lumen Gentium

                     &  La permanente validità della Missione

                     &  La celebrazione della salvezza nello spirito della Lumen Gentium

                     &  I Laici

                     &  La missione di carità e di servizio della Chiesa alla luce della LG

                     &  I religiosi e le religiose della Diocesi di Aversa a confronto con la LG

                     &  Tematiche dei gruppi di studio

 Õ  By P.S. Pat2001

 

 

 

 

 

IL CONCILIO, DONO DI DIO ALLA CHIESA

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“A Giubileo concluso sento più che mai il dovere di additare il Concilio, come la grande grazia di cui la Chie­sa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino che si apre”. Così scrive Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, n. 57. In verità egli aveva, in preparazione al Grande Giubileo, chiesto alla Chiesa di interrogarsi sulla recezione del Concilio, «Evento prov­videnziale» nel cammino della storia. «L’esame di co­scienza non può non riguardare anche la recezione del Concilio, questo grande dono dello Spirito alla Chiesa sul finire del secondo millennio». Il passare degli anni non fa perdere nè valore nè smalto ai testi conciliari, al­lora è importante che «vengano letti in maniera appro­priata, che vengano conosciuti e assimilati, come testi qualificanti e normativi del Magistero, all’interno della Tradizione della Chiesa» (N. M. I., n. 57).

Un adeguato esame di coscienza sulla “receptio” pre­suppone una conoscenza dei documenti e, per conver­so, l’assimilazione è premessa di una recezione sempre più completa. L’invito, quindi, a continuare a guardare al Concilio non è frutto di nostalgia del passato ma cer­tezza che esso ha la forza di una sorgente, capace di acqua fresca e pura. E’ un pericolo da evitare quello di  prendere con sufficienza il portato conciliare, quasi come un ricordo già illanguidito, che ha poco da dire per i problemi all’orizzonte dell’oggi.

Il Concilio è un seme fecondo che va maturando se­guendo il movimento del tempo e della vita. Va acco­stato a quei fatti epocali che non solo seguono il proprio tempo ma orientano un intera epoca con la propria ric­chezza da continuamente interpretare e tradurre nella prassi. Non è un retaggio del passato ma una realtà in­compiuta che resta ancora davanti a noi.

Paolo VI, il 15 dicembre del 1965, una settimana dalla chiusura del Concilio, parlando dalla sua finestra in Piaz­za S. Pietro, diceva: «Il Concilio non è evento effimero e passeggero, come tanti eventi sono nella cronaca del­la Chiesa e del mondo, è un evento che prolunga i suoi effetti ben oltre il periodo della sua effettiva celebrazio­ne, deve durare, deve farsi sentire, deve influire sulla vita della Chiesa e cioè sulla nostra, se davvero noi vo­gliamo essere buoni e fedeli membri della chiesa stes­sa». (OR. 16 dic. 1965).

E Giovanni Paolo Il, nel giorno stesso della sua ele­zione, precisò: « Anzitutto desideriamo insistere sulla permanente importanza del Vaticano II e ciò è per noi un formale impegno di dare ad esso la dovuta esecuzio­ne» (Insegnamenti di G.P.II, VoI. 1; 1978).

“Il Concilio è nelle vostre mani” è il titolo di un libro che ne salutò la chiusura. Noi possiamo ripetere, oggi, il Conci­lio è nelle nostre mani. La sua recezione, anche là dove ha segnato la vita della Chiesa, non è ancora completata.

Il nostro compito di Chiesa locale è, perciò quel­lo di riuscire a cogliere quanto lo Spirito ha sugge­rito alla Chiesa tutta e porci dinanzi ad esso come un atto provvidenziale.

A conferma di questo “avvertito” impegno, nel febbra­io scorso l’Azione Cattolica, in due giorni di riflessione (20-21) ha riproposto a se stessa il tema: “Il Concilio è il nostro programma”. Mons. Sudar, ausiliare di Serajevo, ha affermato che “le difficoltà della recezione del Concilio sono direttamente proporzionali alle novità e alle aperture enormi». Se facciamo fatica ad intenderlo e ad accettarlo, ha precisato Mons. Sudar, è perché il Concilio «è un dono troppo grande dello Spirito» (Avvenire 20 febbraio 2001).

 

Inizio del Concilio

   L’ 11 Ottobre 1962, Giovanni XXIII, in un’atmosfera di grande entusiasmo, dava inizio ai lavori del Concilio Vaticano Il che si rileverà il tatto più importante della Chiesa Cattolica del Novecento.

«Il più grande evento ufficiale in cui la Chiesa è giunta a realizzarsi come Chiesa universale», ha scrit­to Karl Rhaner. (Concilium, 4/1993, p.12). Per la prima volta il mondo intero era rappresentato in un’Assi­se Conciliare. Un dato questo, decisivo per lo svolgi­mento e il significato del Concilio stesso.

Si trattò di un fatto profondamente “nuovo” tanto da poterlo considerare come una “rivoluzione copernicana” nella vita della Chiesa e, per molti aspetti, nella storia del Cristianesimo e dell’umanità.

 

Documenti Conciliari

    La mole dei documenti del Vaticano II è di gran lun­ga superiore a quella di tutti gli altri Concili: 4 Costitu­zioni, 9 decreti, 3 dichiarazioni. In tutto 16 documenti, tutti egualmente elaborazioni conciliari ma con una di­versa importanza.

Le 4 Costituzioni espongono la dottrina della Chie­sa nei suoi principi fondamentali, nelle sue linee essen­ziali e complete dandone una visione globale:

“Sacrosantum Concilium”- sulla Sacra Liturgia; “Lumen Gentium”-sulla Chiesa; “Dei Verbum”- sulla Divina Rivelazione; “Gaudium et Spes” - sulla Chiesa nel mon­do contemporaneo.

I 9 Decreti sono, in genere, di ordine pratico; fissano regole e norme disciplinari deducendole dai principi te­ologici. Sono soggetti al logorio del tempo:

“Inter Mirifica” - sugli strumenti di Comunicazione Sociale; “Unitatis Redintegratio” -sull’ ecumenismo; “Orientalium Ecclesiarum “- sulle Chiese orientali cat­toliche; “Christus Dominus” - sull’ufficio dei Vescovi e il governo delle diocesi; “Perfectae caritatis” - sulla vita religiosa; “Optatam Totius’ - sui seminari; “Apostolicam Actuositatem’ - sull’apostolato dei laici; “Ad Gentes” - sulle missioni; “Presbjterorum Ordinis” -           sui Sacerdoti.

Le tre dichiarazioni riguardano argomenti che non sono solo di interesse ecclesiale e specificano alcune verità orientative della condotta cristiana in relazione al contesto storico-sociologico del nostro tempo:

‘Gravissimum aeducationis” - sull’educazione cristia­na; “Nostra aetate’ - sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane; “Dignitatis humanae” - sulla li­bertà religiosa.

 

Novità del Concilio

    Ma la “novità” del Concilio non va intesa come rot­tura col passato e, quindi, con la continuità vitale della Tradizione. In realtà esso ha inteso ritornare alle «sor­genti» della Chiesa, rimodellandola sulla Sacra Scrittu­ra, sulla Tradizione apostolica e sulla Teologia dei Pa­dri della Chiesa.

Sotto questo aspetto, il Concilio è «antico», perché riprende la visione ecclesiologica che già fu della Chie­sa primitiva e della Chiesa patristica. Il suo insegna­mento non si distacca da quello dei passati Concili e del recente magistero della Chiesa. Il Vaticano Il è «nuo­vo» rispetto al più recente passato della Chiesa, vale a dire all’epoca post-tridentìna, della quale segna la fine.

Rispetto all’epoca post-tridentina, rappresenta una «novità» così profonda da potersi dire che con esso ha inizio un nuovo periodo della storia della Chiesa.

Certamente non nasce come un fungo autunnale. Il nuovo atteggiamento della Chiesa verso il mondo mo­derno era iniziato con Leone XIII (Rerum novarum); portato avanti con coraggio da Pio XII, aveva trovato la sua piena espressione in Giovanni XXIII, che può essere considerato il Copernico della Chiesa contem­poranea. Significative le parole del suo discorso di apertura del Concilio (1l ottobre 1962): «Sempre la Chiesa si è opposta agli errori; spesso li ha anche con­dannati con la massima severità. Al giorno d’oggi tut­tavia, la Sposa di Cristo preferisce far uso della medi­cina della misericordia piuttosto che della severità: essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina piuttosto che la condan­na» (O. Alberigo - A. Melloni, L’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII in: Fede tradizione profezia, Paideia, Brescia 1984, pp. 185-283).

Ancora più significativo l’ampliamento delle prospetti­ve nel discorso di Paolo VI all’ apertura del secondo perio­do, 29 settembre 1963: La Chiesa guarda al mondo “con profonda comprensione, con sincera ammirazione e con schietto proposito non di conquistarlo, ma di servirlo; non di disprezzarlo ma di valorizzarlo; non di condannano, ma di confortarlo e di salvarlo”.

La prima “novità” del Concilio riguarda l’ecclesiologia, la concezione della natura della Chiesa e della sua costituzione. La Lumen Gentium, infatti, propone un’ecclesiologia di comunione, che non nega la costituzione gerarchica della Chiesa, ma situa la Ge­rarchia all’interno del popolo di Dio col triplice compi­to di predicare il Vangelo, santificare il popolo di Dio e governarlo.

Del popolo di Dio, sottolinea l’indole sacerdotale con una forte accentuazione del sacerdozio comune (n. 10).

Insiste sulla natura collegiale dei vescovi, successori degli Apostoli e non semplici rappresentanti del Papa. La Lumen Gentium è insomma un vero ritorno alla ecclesiologia patristica.

La seconda grande «novità» del C.V. II è la Costitu­zione Dei Verbum sulla rivelazione. In essa si legge «La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono strettamente tra loro congiunte e comunicanti» (Dei Verbum, n.9) e «costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa» (n. 10)

Il magistero della Chiesa ha una funzione “ministeriale”, esso “interpreta autenticamente la paro­la di Dio” ma «non è superiore alla parola di Dio, bensì ad essa serve, insegnando soltanto ciò che è stato tra­smesso» (n. 10). Non si parla più di due fonti della Ri­velazione ma di unica fonte, costituita dalla Tradizione e dalla S. Scrittura.

Forse la Dei Verbum è quella meno nota tra le quat­tro Costituzioni, fuori degli studi teologici, perché non ha determinato clamorosi cambiamenti, come quelli avu­tisi nella liturgia, nè ha creato forme nuove di compren­sione della Ecclesiologia, come la Lumen Gentium, ne ha avuto immediati riflessi nella cultura laica. Ma per molti teologi - come De Lubac - può essere considerata “il capolavoro” del Concilio, «il portale d’ingresso e il fondamento» di tutti gli altri documenti. (H. De Lubac, La Rivelazione divina e il senso dell’uomo, Jaca Book, Milano 1985).

La terza grande novità è la Costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium che consacra le istanze ma­turate nel corso del novecento.

Con essa vengono introdotte usanze da sempre in vi­gore nella Chiesa d’oriente e accettate esigenze avvertite da tempo nella Chiesa cattolica: la celebrazione della li­turgia nella lingua parlata dal popolo; l’accettazione del pluralismo e del principio della decentralizzazione; la re­staurazione della concelebrazione e della comunione sotto le due specie; l’affermazione della centralità della Scrit­tura nella liturgia. Soprattutto significativa è l’ispirazio­ne teocentrica e cristocentrica di tutta la Costituzione li­turgica e l’affermazione che nella Liturgia si trova la fon­te e il culmine di tutta la vita della Chiesa.

Altra «novità» di rilievo riguarda il rapporto che la Chiesa vuole stabilire con la società civile e con gli Sta­ti. La Chiesa, dice la Gaudium et Spes, facendo pro­prie «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi» si sente «realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (G.S., n. 1). Desidera, perciò, instaurare con l’umanità “un dia­logo” sui problemi umani, «arrecando la luce che viene dal Vangelo» per «salvare la persona umana e rinnova­re l’umana società» (G.S., n.3).

Importante sul piano dei principi e di fruttuose con­seguenze è l’atteggiamento di «dialogo», di riconosci­mento dei rispettivi «valori», di collaborazione, che, col Concilio, la Chiesa cattolica ha assunto nei confronti delle Chiese e Confessioni cristiane non cattoliche, come pure nei confronti delle religioni non cristiane.

Nel decreto Unitatis redintegratio viene indicato come uno «dei principali intenti» il ristabilimento del­l’unità tra tutti i cristiani. Così nella dichiarazione No­stra aetate (n.2) si afferma che la Chiesa «nulla rigetta di ciò che è vero e santo nelle religioni non cristiane», che «considera con sincero rispetto» convinta che esse «non raramente riflettono un raggio della verità che il­lumina tutti gli uomini».

Paolo VI, in uno straordinario discorso ai Padri conciliavi diceva: «Questo Concilio è stato vivamente interessato allo studio del mondo moderno. Mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il biso­gno di conoscere, di avvicinare e di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circo­stante e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento. Vogliamo notare come la reli­gione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità.., tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta uni­camente in una direzione: “servire l’uomo”. In questa stessa lunghezza d’onda la nostra Chiesa locale ripren­de in mano i testi di quella Grande Assise per essere più pronta e generosa nel «servire l’uomo».

 

LE PRINCIPALI LINEE DI SVOLGIMENTO DELLA LUMEN GENTIUM

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La Costituzione «sulla Chiesa», la Lumen Gentium è unanimemente riconosciuta come la pietra angolare di tutti i decreti pubblicati, che direttamente o indirettamen­te confluiscono in essa o di essa sono diramazioni.

Essa è contemporaneamente un punto di arrivo e un pun­to di partenza. Una risposta alle attese già presenti e un’ aper­tura di animo e di amore all’esercizio dello Spirito.

In verità il Concilio tutto nasce dalla straordinaria intuizione di Giovanni XXIII che la Chiesa necessita di «aggiornamento», perché non al passo con il mondo mo­derno. Di qui l’invito a riflettere sui compiti più urgenti e a liberare la propria organizzazione dall’isolamento nel quale correva il rischio di chiudersi.

Contrariamente a quanto avvenuto con il Concilio di Trento, il Vaticano II riuscì a precedere la crisi e ad in­dicare i rimedi, prima ancora che i sintomi del male di­ventassero evidenti.

Il Concilio esaminò ed indicò la dottrina rivelata nel­lo stato in cui l’aveva condotta lo Spirito. A noi spetta far crescere l’intelligenza della fede in modo sempre più profondo ed efficace.

Può essere utile cercare di individuare le linee prin­cipali di questo documento, innovatore e insieme fede­le alla tradizione:

 

a)  La Parola di Dio, fonte della Rivelazione

Il Concilio è ripartito dalla Rivelazione, cioè dalla Paro­la di Dio in sé, predicata all’inizio e messa in iscritto sotto l’azione dello Spirito, e, poi, trasmessa entro la Chiesa dal­la tradizione viva degli Apostoli, dei Padri, dei Concili, della liturgia, degli atti del magistero. Il Concilio ha guar­dato alla Parola stessa, nella misura in cui la si percepisce alla lettura della Scrittura, in seno alla tradizione e alla Chiesa vivente. Ha preferito non parlare di fonti, al plurale, ma della fonte della Rivelazione, che è la: Parola di Dio.

 

b) La Chiesa come «mistero»

Nella Lumen Gentium, particolare rilevanza ha l’impostazione trinitaria del discorso sulla Chiesa, che parte dal misterioso disegno di salvezza del Padre, ma­nifestato al mondo dal Figlio Gesù Cristo e attuato nel­lo Spirito Santo. Interessante è la nuova visione della Chiesa come mistero e comunione e non tanto come società gerarchica.

La dottrina rivelata riguardo alla Chiesa prende forma ed unità guardando il punto centrale del mistero trinitario, da cui tutto scaturisce: Trinità, creazione, peccato origina­le, Incarnazione del Figlio, Redenzione, diffusione del mes­saggio, lo Spirito Santo che agisce nella Chiesa come sor­gente di grazia e di vita eterna mediante i sacramenti. An­che la morale poggia, con chiarezza, sulla Parola di Dio.

In una parola, nella Chiesa tutto comincia e si con­clude con la Santissima Trinità.

 

c)  La dimensione storica

La nostra fede non è fatta di verità astratte, noi credia­mo in un Dio trinitario presente nella storia umana. Tutta la Bibbia è lo sviluppo di una lunga serie di eventi, dalla creazione nel tempo, che rivelano l’intervento concreto di Dio nell’umanità. Egli è il Pastore che guida il gregge ver­so i pascoli e lo conduce all’ovile; è il Vignaiolo che ha cura della sua vigna, è un Architetto che, pietra su pietra, costruisce il tempio santo. La Chiesa è la famiglia di Dio, e la Sposa di Cristo «santa e pur sempre bisognosa di purificazione» che è in cammino verso la Patria celeste ma impegnata a far crescere, nel tempo, il regno di Cristo.

La dimensione storica permette di capire la nascita e lo sviluppo degli eventi della salvezza, delle verità rivelate e dell’importanza della Chiesa, responsabile di un tempo che va redento e orientato a Cristo, protagonista della storia.

 

d) Aspetto comunitario

La Chiesa è corpo organico di Cristo, ma resta com­posta di persone distinte e in relazione reciproca entro un quadro di forme giuridiche. Il mistero, che pure ne costituisce la natura, non si oppone a questo quadro ma gli conferisce un potenziale vitale nuovo. Questo corpo istituzionale, senza essere smantellato, deve essere ani­mato dallo Spirito.

La Chiesa è un’organizzazione ma deve poter esse­re viva e vivificante. Se le strutture legali diventano ipertrofiche non solo non favoriscono la vita della co­munità ma minacciano di spegnerla. La Lumen Gentium ci invita ad una ecclesiologia eucaristica in cui l’esercizio del potere ecclesiale si manifesta sem­pre più come servizio. E’ incompatibile, oggi, con lo spirito comunitario autentico il ricorso al principio d’autorità, che si identifica spesso col puro esercizio del comando.

 

e) Apertura agli altri

Il Vaticano II ha aperto le porte e le finestre della Chiesa a tutta l’umanità: alle chiese sorelle, ai non cri­stiani, ai non credenti.

La Lumen Gentium ha preparato con naturalezza mol­teplici applicazioni pastorali, che si ritrovano nella se­conda parte della Gaudium et Spes.

In essa c’è un atteggiamento di accoglienza, che si apre direttamente a tutti, senza distinzione. La Chiesa, al servizio di ogni uomo, chiama a sé e accoglie il pec­catore, vedendo in lui l’uomo da salvare. Senza la Lumen Gentium sarebbero restati impensabili i contatti e il cam­mino che si è fatto sul piano dell’Ecumenismo.

Nel Capitolo sul Popolo di Dio, il documento saluta con piacere qualsiasi elemento di contatto esistente con le Chiese sorelle, afferma che l’unità si colloca al di là delle discussioni e che va affidata all’azione dello Spirito Santo.

Parole sincere di pace vengono rivolte ad ebrei e musulmani. E nella parte finale del capitolo sul Popolo di Dio si trovano accenti molto significativi per i cre­denti non cristiani e, persino, per gli atei.

Un accento nuovo, in questa nuova tensione spirituale, acquista l’aspetto missionario della Chiesa. Si rinuncia ai termini di conquista, ci si preoccupa molto di rispettare i valori culturali dei vari popoli e, di conseguenza, si supera la mentalità di pensare che la civiltà occidentale sia indi­spensabile al cristianesimo.

L’atteggiamento giusto di apertura agli altri ha determi­nato però, particolarmente per quanto riguarda la missionarietà della Chiesa, qualche problema. La sottolineatura della volontà universale di salvezza, da parte di Dio, ha come sminuito nei cristiani il dovere di evangelizzare e di portare la salvezza a tutta l’umanità.

 

LA PERMANENTE VALIDITÀ DELLA MISSIONE

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Non poche né irrilevanti sono le domande determina­te dalla riflessione teologica, seguita alle straordinarie aperture del Concilio, rispettivamente alle altre Chiese e Religioni, anche non cristiane, e alla libertà di coscienza.

Ci si è chiesto: «E’ ancora attuale la missione tra i non cristiani? Il dialogo inter-religioso non è sufficien­te a sostituirla? Il rispetto della coscienza e della libertà non esclude la proposta di conversione e di adesione alla Chiesa cattolica? Non è possibile salvarsi in qualsi­asi religione? Quale, allora, la necessità o l’utilità della missione?

Queste domande scaturiscono da un pericoloso plu­ralismo religioso, che, superando la questione de fatto, afferma un pluralismo di principio, per cui tutte le reli­gioni sarebbero vie che portano a Dio, comunque val­ide alla salvezza.

La persona e l’opera di Gesù viene così relativizzata, perché si fa di Lui uno dei salvatori dell’umanità e il cristianesimo diventa una delle vie di salvezza. Nella Chiesa cattolica non vi sarebbe la «sussistenza» dell’uni­ca Chiesa di Cristo.

Tale problematica, già presente nell’Esortazione apo­stolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI (1975), è all’ origi­ne dell’Enciclica Redemptoris Missio di G. Paolo II, pub­blicata nel 1990. In essa il Papa riafferma che «Cristo è l’unico Salvatore di tutti, colui che solo è in grado di ri­velare Dio e di condurre a Dio», che «Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini», perciò «gli uomini non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l’azione dello Spirito Santo». Inoltre “que­sta sua mediazione unica e universale, lungi dall’essere di ostacolo al cammino verso Dio è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza”. Per quanto concerne le altre mediazioni, esse «attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (n.5). A proposito della Chiesa è detto che la sua necessità “in ordine alla salvezza” è una verità da non scindere da quella che afferma “la reale possibilità della salvezza in Cristo per tutti gli uomini” (n.9), perché “la Chiesa è sacramen­to di salvezza per tutta l’umanità e la sua azione non si restringe a coloro che ne accettano il messaggio” (n.20).

Il  permanere di un atteggiamento relativistico di fronte al modo di percepire la verità, nella forma logica della non-contraddizione o in quella simbolica della compo­sizione e della coesistenza degli opposti, tipica della mentalità orientale, che può toccare la sostanza stessa della verità; e il considerare l’Incarnazione del Figlio di Dio come non definitiva e unica, hanno determinato il documento Dominus Jesus (6 agosto 2000), da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, ratifi­cato e confermato da Giovanni Paolo lI.

La Dichiarazione afferma che non è accettabile quan­to emerge nella riflessione teologica contemporanea cir­ca Gesù di Nazaret, considerato come una figura storica non esclusiva ma complementare ad altre presenze rive­latrici e salvifiche. Non è secondo fede pensare che Dio

si manifesterebbe all’umanità in tante figure storiche e che Gesù sarebbe una di esse. Né si può sostenere una duplice economia della salvezza, quella del Verbo incar­nato, limitata ai cristiani, e quella del Verbo eterno, vali­da anche fuori della Chiesa e indipendente da essa.

Il 20 gennaio 2001, Giovanni Paolo II, chiudendo un Simposio sul decennale della Redemptorìs missio (1990-2000) ha detto « sono passati dieci anni da quando, con l’enciclica Redemptoris missio, intese mobilitare la Chiesa ad una globale missione ad gentes. Ripeto questo invito ora, all’inizio di un nuovo secolo e millennio».

La ragione di questa viva preoccupazione missiona­ria è determinata dal fatto che “La Chiesa, radicata nel­l’amore trinitario, è missionaria per natura, ma occorre che lo diventi di fatto in tutte le sue attività. E lo sarà se vivrà pienamente la carità che lo Spirito diffonde nel cuore dei credenti” (Civ. Catt. 2001,1, 341). Le parole di Giovanni Paolo II ci richiamano ad un esame di co­scienza singolo e collettivo. Ciò che spinge la Chiesa ad essere missionaria è l’amore per il suo Cristo e per coloro per la cui salvezza è morto. Ma una Chiesa de­bole nella fede non può essere missionaria, perché le manca la fonte dell’amore.

Con amarezza il Papa aveva scritto: ”La missione di Cri­sto Redentore, affidata alla Chiesa, è ancora lontana dal suo compimento. Al termine del secondo millennio della sua venuta uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impe­gnarci con tutte le forze al suo servizio” (R.M. n.l).

Questa considerazione riguarda, certo, il mondo in­tero ma tocca da vicino anche noi, come Chiesa che è in Italia. Il Papa, infatti, va da tempo ripetendo che s’im­pone una nuova evangelizzazione anche dei paesi di vecchia tradizione cristiana. Ad un attento osservatore non sfugge che anche il nostro territorio — come in ef­fetti tutta l’italia — risente di un mutamento spirituale che emargina i contenuti dottrinali e morali cristiani. La vita si va organizzando mettendo al centro i valori del­l’individuo, della mondanità e del pluralismo.

Anche se in forma non esplosiva, per quanto riguar­da la nostra Chiesa locale, la proposta cristiana, sul pia­no di una accettazione che si traduce nella vita quoti­diana, diventa sempre meno incisiva. Tale situazione va affrontata con decisione. Non è sufficiente solo un im­pegno maggiore nella direzione di sempre, è necessario misurarsi con la presente civiltà e confrontarsi con i paradigmi che fanno da punto di riferimento per la sto­ria a noi contemporanea. Ci troviamo dinanzi ad una rivoluzione epocale che sta dando luogo ad un mondo nuovo, del quale siamo parte anche noi, nel nostro pic­colo. La sensazione è che non abbiamo preso coscienza di tutto questo. E pur avendo teoricamente riscoperto la natura missionaria della Chiesa, siamo attardati sulle modalità del cammino che si vuole percorrere.

La pastorale di oggi è nuova più nelle parole che nei metodi, troppo legati al passato, e perciò chiusa in se stessa. Non si intravede ancora una pastorale col respiro decisamente missionario ed universale, capace di farci pensare che l’interesse di Cristo si identifica con l’interesse dell’uomo, e di farci guardare al di là del nostro piccolo orto, convinti che il compito affida­toci è quello di portare Cristo a tutti gli uomini.

Una pastorale degna della nuova evangelizzazione non può contentarsi di conservare. Forte fu il richiamo del Papa a Palermo: «Non è più il tempo della semplice conserva­zione dell’esistente, ma della missione» (Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno ecclesiale di Palermo, 2).

Il tentativo — in verità — di porre l’annuncio al cen­tro della vita delle comunità cristiane era cominciato nella Chiesa italiana già negli anni settanta, come testi­moniano i piani pastorali Evangelizzazione e sacra­menti, e, successivamente, Comunione e Comunità (1980), Evangelizzazione e testimonianza della Ca­rità (1990), e, il più recente, Con il dono della carità dentro la storia (1996).

Questo nostro tempo va considerato «come un nuo­vo avvento missionario», scrivono i Vescovi nel docu­mento del dopo Palermo (n.2). Serve, perciò, stare den­tro la storia con amore per rinnovarla. La carità, che anima i cristiani, anela ad una perfetta “comunione con le Persone divine nell’eternità” (n.6), ma li impegna anche a “collaborare con tutti gli uomini per la costru­zione dì un mondo più umano” (n.6). Allo stesso modo per permeare la storia con la parola di Dio è importante aggiornare i programmi pastorali, i linguaggi e gli stru­menti di comunicazione, ma ciò che veramente serve è «una fioritura di santità» (n. 10). Il Vangelo può farsi storia se diventa capace di formare una mentalità cri­stiana, un modo di pensare motivato dalla carità e dalla fede, in grado di cogliere i problemi reali della gente rispondendo alle esigenze vere.

Si tratta di fare una scelta coraggiosa, che si basi su di una diversa impostazione dei rapporti tra Chiesa e mondo, superando ogni contrapposizione, nel tentativo di riportare a Cristo le ricchezze di questa società e le contraddizioni di questo tempo. Il tuffarsi nella storia con il «Vangelo della carità» ha come conseguenza una responsabilizzazione sempre più crescente del laicato, del popolo dì Dio, chiamato a saldare fede e cultura, fede e vita quotidiana, fede e storia.

La CEI, nella Nota pastorale Le aggregazioni laicali, (1993), indica i laici come i soggetti della “nuova evangelizzazione” e il mondo quale luogo della loro vo­cazione ecclesiale. La Christifldeles laici (1988), al n.34, fissa i termini di questo impegno: rifare «il tessu­to cristiano delle stesse comunità cristiane»; «spalanca­re le porte a Cristo» via, verità e vita dell’uomo; forma­re «comunità ecclesiali mature».

La nostra società — gli uomini del nostro territorio — hanno sete di laici capaci di una sintesi vitale nel trattare i problemi come la vita, la famiglia, la scuola, il mondo giovanile, il lavoro, la politica, l’economia.

Per questa ragione essi devono entrare sempre più nel cuore della Chiesa, per entrare nel cuore del mondo con la speranza della Chiesa.

La sfida che ci aspetta, anche come Chiesa locale, è quella di non lasciarsi emarginare dalla storia nè di con­fondersi e perdersi nel suo fluire ma di vivere nella sto­ria da soggetto attivo, orientandola in senso cristiano.

Nella situazione che ci troviamo a vivere, contraddistinta dai problemi della globalizzazione e dalle complesse real­tà determinate dall’intreccio di popoli e culture diverse, s’impone la necessità di forme nuove di annuncio della Parola — ci ricorda il Papa nella lettera apostolica Novo Millennio Ineunte. E’ necessario, perciò, «coinvolgere la responsabilità di tutti i membri del popolo di Dio». (n.40). Il Cristianesimo del terzo millennio, nell’ assoluta fedeltà al dettato del Vangelo, ha dinanzi a sé il difficile compito di operare una nuova inculturazione della fede nel mutato e mutevole contesto storico e culturale. Questo sarà possi­bile solo ad una Chiesa che si senta veramente missiona­ria, tesa verso l’orizzonte che Cristo le ha dato e capace di essere sale della terra e luce del mondo.

 

LA CELEBRAZIONE DELLA SALVEZZA  NELLO SPIRITO DELLA LUMEN GENTIUM

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La Liturgia, con i suoi riti, i suoi gesti e parole, è una speciale epifania (manifestazione) della Chiesa: espres­sione e realizzazione del suo mistero di salvezza univer­sale (cfr. MESSALE ROMANO ‘Messa per la chiesa Universale’ [1] -Colletta). Per questo, è soprattutto nel­le celebrazioni liturgiche che essa appare, più chiaramente e più efficacemente, «come un sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’ unità di tutto il genere umano» (LG 1).

Infatti, l’essere Chiesa esige - come segno e realiz­zazione ottimale - una comunità formata e riunita, «nel­l’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (LG 4; MESSALE ROMANO “Messa per la Chiesa Universale”, [3] - Colletta). Questo risulta evidente anche dall’analisi dei testi del NT che si riferiscono a momenti cultuali, in cui si constata che il primo e fon­damentale atto di ogni celebrazione cristiana è la riu­nione del popolo di Dio in assemblea (es. cfr. At 2,42-47; 20,7 ss.) in mezzo al quale lo stesso Cristo si fa presente (cfr. Mt 18, 20). Ed essendo Cristo il capo della Chiesa, li dov’è presente Lui, capo e pastore, lì sono presenti tutte le membra del corpo ecclesiale (cfr. 1Cor 12, 12).

Necessariamente, il segno dell’assemblea liturgica ha delle coordinate spazio temporali: essa è sempre l’espres­sione di una comunità locale, o almeno è un raduno dì cristiani provenienti da diverse comunità. L’intero mi­stero della Chiesa è presente nelle singole Chiese, e dun­que nelle assemblee locali (cfr. LG 26), poiché «in esse e da esse è costituita l’unica Chiesa cattolica» (LG 23). Per questo l’assemblea liturgica non solo è la ma­nifestazione più alta, e allo stesso tempo più semplice, della comunità locale, specialmente quando è riunita intorno al Vescovo, ma è evento concreto, e dunque vi­sibile, della Chiesa universale «una santa cattolica ed apostolica”.

Questa Chiesa che è «pellegrina nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono alla storia presente, porta in sé la figura provvisoria dì questo mondo e vive in mezzo alle creature, le quali ancora oggi gemono e soffrono come in parto ed attendono la rivelazione dei figli di Dio» (LG 48). Questa Chiesa radunata in santa assemblea, preannunzia ed anticipa nel suo culto terreno la gloria della Gerusalemme cele­ste.

Dunque, è soprattutto nell’assemblea liturgica che la Chiesa si esprime e si rende visibile al mondo come comunità nata dalle acque del battesimo: «stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si e acquistato perché proclami le opere meravigliose diluì» (1Pt 2,9).

In effetti, se è vero che il sacerdozio battesimale del popolo cristiano si esercita prima di tutto nella vita e nell’attività di ogni giorno, è nell’assemblea liturgica che si manifesta in pienezza, si realizza e si alimenta questo carattere sacerdotale dì tutto il popolo di Dio che si offre e rende grazie al Padre per mezzo di Cri­sto, nello Spirito Santo. Avendo Cristo fatto del nuovo popolo «un regno e dei sacerdoti per Dio, suo Padre» (Ap 1,6; cfr 5,9-10), i battezzati attraverso il lavacro di rigenerazione e l’unzione dello Spirito «vengono consacrati a formare una dimora spirituale un sa­cerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere del cristiano, spirituali sacrifici e far conoscere i pro­digi di colui che dalle tenebre li chiamo all’ammirabile sua luce (cfr lPt 2,4-10» (LG 10).

Non deve essere comunque dimenticato che «al sa­cerdozio di Cristo, sia i ministri sia il popolo cri­stiano partecipano in vari modi» (LG 62). Ciò non deve ingenerare confusione, quasi come se ci fosse più di un sacerdozio di Cristo; ma “l’uno e l’altro (quello comune e quello ministeriale), ognuno a suo proprio modo, partecipano all’unico sacerdozio di Cristo - dif­feriscono essenzialmente, pur essendo - ordinati l’uno all’altro» (LG 10). Infatti gli stessi ministri della Chie­sa sono tratti dal popolo dei battezzati e restano al suo servizio (cfr LG 11), secondo il proprio grado e ministero a cui sono stati chiamati.

Questa assemblea così convocata - comunità sacer­dotale del popolo di Dio - si alimenta, cresce e si irrobustisce «per mezzo dei sacramenti e delle virtù» (LG 11). Infatti oltre alla Parola di Dio, la vita della Comunità è profondamente segnata dalla celebrazione dei 7 sacramenti, che, quasi come della tappe, segnano le varie fasi e momenti della vita cristiana. Da ognuno di essi «tutti i fedeli d’ogni stato e condizione, - rice­vono tutto il bene spirituale secondo la condizione della propria vocazione e - sono chiamati dal Signore, ognu­no per la sua via, a quella perfezione di santità di cui è perfetto il Padre celeste» (LG 11).

Da quanto sintetizzato risulta evidente quale sia la preoccupazione del Concilio, quella, cioè di far prende­re sempre più coscienza che il nostro adunarci per la celebrazione liturgica - lungi dall’essere una mera ag­gregazione sociale - è la manifestazione piena del no­stra realtà ultima e definitiva. Ecco perché la liturgia, a buon diritto, è detta fonte e culmine della vita della Chie­sa, in quanto il mistero redentivo di Cristo è reso sem­pre vivo e attuale. Questo esige una sempre maggiore consapevolezza, da parte di tutta l’assemblea celebran­te, dì ciò che nelle azioni liturgiche si è chiamati ad espri­mere e a vivere. Così le nostre celebrazioni torneranno ad essere luoghi privilegiati dell’educazione alla fede attraverso la mistagogia.

 

I LAICI

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Benché i laici costituiscano da sempre la gran parte del popolo di Dio, ben raramente prima del Concilio Vaticano II la teologia e il magistero hanno preso in esa­me la loro specifica condizione.

Il Vaticano II, spinto anche da un processo storico di emancipazione dei laici in tutti i campi dell’attività uma­na, ha riletto i dati della rivelazione e ha rifondato lo statuto della dignità laicale nella Chiesa.

Il capitolo IV della Lumen Gentium è interamente dedicato ai laici e da esso si possono ricavare le linee fondamentali della fisionomia e della stessa teologia del laicato. non perché sia l’unico testo del Vat. II che tratti dell’argomento - si può dire che in ogni documento tro­viamo importanti riferimenti sul tema ma perché esso rappresenta un po’ la sintesi di un cammino lungo e fa­ticoso portato avanti per anni dalla riflessione teologica e dall’impegno apostolico di eminenti figure laicali, che hanno contribuito a scrivere la storia della Chiesa negli ultimi due secoli.

Con il linguaggio sintetico dei documenti, la Lurnen Gentium al n. 31 dà una definizione ricca e complessa della figura del laico, nella quale, di pri­mo acchito, sembra emergere una descrizione in ne­gativo: laico è colui che non è né religioso, nè chie­rico. Ma subito dopo si coglie “in positivo” la sottolineatura di ciò che rappresenta la prima carat­teristica del laico: la sua ecclesialità. I laici sono fedeli incorporati a Cristo in forza del battesimo, e costituiti popolo di Dio, per cui ciò che si dice del popolo di Dio è da applicarsi anche ai laici. Essi eser­citano, in una loro misura particolare, quella missio­ne profetica, sacerdotale, e regale che è di Cristo stesso e dell’intero popolo di Dio (LG 31).

La “particolarità” della loro missione viene precisa­ta subito dopo con un’affermazione divenuta celebre: “l’indole secolare è propria e peculiare dei laici... Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”.

Il carattere secolare, dunque, è il secondo elemento caratterizzante la definizione del laico ed implica che egli è chiamato a vivere la sua ecclesialità in “modo secolare”, ossia a riconoscere nel “mondo” il luogo pri­mario dove è chiamato a compiere la sua missione, dan­do il giusto valore alle cose create. Se il laico non rico­nosce, infatti, i valori temporali, non può ordinarli se­condo Dio; non è disattendendo tali valori, ma vivendoli evangelicamente che egli vive da cristiano. E i valori in questione sono la famiglia, la professione, il lavoro, la società, la politica, l’economia, vale a dire tutte le circostanze ordinarie che costituiscono la trama quoti­diana dell’esistenza.

Ciò non impedisce che i laici possano essere chia­mati a cooperare più immediatamente con l’apostolato della gerarchia (LG 33) e a collaborare con i Pastori: “ai pastori manifestino le loro necessità e i loro desi­deri, con quella libertà e fiducia che si addice a figli di Dio e a fratelli in Cristo. Nella misura della scien­za, della competenza e del prestigio di cui godono essi hanno il diritto, anzi anche il dovere di far conoscere il loro parere su ciò che riguarda il bene della Chiesa” (n 37).

In quest’ottica trovano collocazione i tanti fedeli laici impegnati nei vari gruppi, movimenti e associazioni, di antica e nuova formulazione, che lo Spirito Santo suscita all’interno della Chiesa.

In definitiva, l’esistenza e la missione del laico sono rette da due componenti, che definiscono la sua fisiono­mia: presenza nella Chiesa e presenza nel mondo con uno stile proprio, cioè laicale.

 

Per aiutare a riflettere

I laici costituiscono la gran parte del popolo di Dio. Nell’attuarsi della missione della Chiesa, tuttavia, non appare cosi evidente che essi siano i principali protago­nisti; anzi spesso la loro azione è marginale, il loro sen­so di appartenenza alla comunità ecclesiale scarso. Si trat­ta di un fenomeno legato al tempo, oppure esso è costitutivo della loro vocazione?

E stato più volte ripetuto che senza una compiuta assunzione di responsabilità da parte del laicato è im­possibile per la Chiesa assolvere alla sua missione nell’attuale contesto di crescente secolarizzazione. Come aiutare i laici a divenire sempre più consapevoli della loro vocazione per viverla con maggiore intensità e pie­nezza? E come aiutare le comunità cristiane a capire meglio la risorsa che i laici possono oggi rappresenta­re per la loro vita e la loro missione?

 

LA MISSIONE DI CARITA E DI SERVIZIO DELLA CHIESA ALLA LUCE DELLA LUMEN GENTIUM

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“Dio è amore”

La carità ha un’origine e una struttura trìnitaria. La SS.ma Trinità è principio e modello della carità e quindi della comunità ecclesiale. Il “protagonista” della vita della chiesa è Gesù Cri­sto, morto e risorto, presente in mezzo a noi che ci orienta e ci porta al Padre. “Lo Spirito produce e stimola la carità tra i fedeli” (LG 7).

Il primo dono di Dio è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrasse­gnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo (cfr LG 41).

Lungo il cammino della storia, Dio non cessa di amare i suoi figli. Egli è sempre un Dio misericordioso e fedele che “ascolta il grido degli oppressi”, dei debo­li, dei perseguitati, dei vinti. Di fronte alla sofferenza dell’uomo Dio ma­nifesta il suo amore che ci salva, ci redime, ci ria­bilita.

Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà “da ricco che era si fece povero” (2Cor 8,9) così pure la chiesa circonda di affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza. Anzi rico­nosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di solle­varne l’indigenza e in loro cerca di servire il Cristo (cfr LG 8).

 

La carità pastorale

I sacerdoti, chiamati per vocazione alla santità median­te il quotidiano esercizio del proprio ufficio, crescano nel­l’amore di Dio e del prossimo in un servizio umile e na­scosto (cfr LG 41). Chiamati per servire. ‘lo sono in mezzo a voi come colui che serve’. Cristo figlio di Dio e figlio dell’uomo è venuto a servire e a dare la sua vita in riscatto per molti (Mc 10,45).

I presbiteri, chiamati a servire il popolo di Dio nella comunione di vita, di lavoro e di carità, sì ricordino che devono con la loro quotidiana condotta e con la loro sol­lecitudine presentare ai fedeli e infedeli, cattolici e non cattolici, l’immagine di un ministero veramente sacerdo­tale e pastorale conforme a quello esercitato da Cristo.

Così pure i diaconi, ai quali sono imposte le mani non per il sacerdozio, ma “per il servizio” devono dedi­carsi all’ufficio di carità e di assistenza. “Essere attivi, misericordiosi, camminare secondo la verità del Signo­re, il quale si è fatto servo di tutti” (S. Policarpo). L’ ufficio affidato dal Signore ai pastori del suo popolo e un vero servizio (cfr LG 20.24.27.28).

I fedeli si consacrino al servizio del prossimo c manifestino nel servizio temporale la carità (cfr LG 40. 41. 42).

L’impegno caritativo deve diventare espressione di “come Dio guarda l’uomo”.

Ne consegue il passaggio dal concetto di carità come elemosina. al concetto di carità come

condivisione. L’uomo dì fronte a Dio è povero: se manca questa convinzione, viene treno il fondamento della vita cri­stiana. L’amore verso il prossimo è il prolungamento del­l’amore di Dio, che ama tutti e vuole da noi quest’amo­re, che vincola tutti.

 

I.a carità all’alba del terzo millennio

La Chiesa deve esprimere forme nuove di testi­monianza, di solidarietà e dì condivisione alla carità. Le tecniche scientifiche sono molto avanzate ... la scienza del Vangelo, che tocca tutto l’uomo, non tiene il passo...Occorre far crescere il figlio di Dio in noi, accogliere le proposte e le esperienze del suo Vangelo.

All’inizio del terzo millennio, occorre program­mare una nuova reale e autentica testimonianza della carità nelle comunità parrocchiali; opporre resistenza alla società consumistica che propone prepotentemente i suoi falsi valori; ricostruire una chiesa ricca di povertà evangelica, che si mette al servizio dei poveri e annun­cia il Vangelo dell’amore.

Solo così la carità diventa revisione di vita, forza di amore, realizzazione di pace e speranza per un mondo migliore.

 

“Organizzare la carità” “proposte operative”

Compito della Caritas parrocchiale è:

-   programmare un cammino permanente di formazione alla carità e promozione della dignità della persona;

-   educare i giovani alla sensibilizzazione e alla solidarietà (volontariato motivato, attivo e responsabile);

-   costituire un efficiente centro di ascolto parrocchiale;

-   un osservatorio delle povertà sul territorio;

-   dalla rilevazione poi dei bisogni, passare alle risposte concrete di solidarietà.

 

I RELIGIOSI E LE RELIGIOSE DELLA DIOCESI DI AVERSA A CONFRONTO CON LA LUMEN GENTIUM

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Una commissione composta di religiosi e religiose appartenenti a diversi Istituti si sono confrontati sulla Costituzione dogmatica Lumen Gentium in vista del prossimo Convegno Pastorale Diocesano.

Ne è emersa una discussione costruttiva e condivi­sa, di stile familiare e con tono sereno, che ha posto in evidenza i seguenti punti principali:

Nello sfondo di rinnovamento che ha caratterizza­to tutto il Concilio Vaticano II, la Lumen Gentium, nella sua impostazione lineare con cui descrive la Chiesa considerata come “Mistero”, per la prima volta si parla in modo diverso della vita religiosa conside­randola come un dono che fa parte, a pieno titolo, della sua struttura sacramentale e carismatica. Scardinando quella idea che c’era in passato di con­siderare tale realtà quasi come marginale e apprez­zandola più per le opere dì carattere caritativo e so­ciale che per il suo significato evangelico, profetico ed escatologico, anche i religiosi vengono chiamati a collaborare all’interno della pastorale ecclesiale. Da soggetti passivi di evangelizzazione, grazie a tale fon­damentale documento, diventano attivi con il man­dato specifico, attraverso la propria testimonianza, di aiutare l’umanità ferita da tante tragedie a credere in Dio e a saperlo amare.

Dall’evento conciliare ad oggi indubbiamente dei passi avanti che ne hanno realizzati contenuti si sono compiuti: gli importanti documenti sulla Vita Consa­crata che ne sono seguiti, la ricca riflessione teologica in merito che ha caratterizzato questi ultimi decenni, l’inserimento dei religiosi in tante attività pastorali, l’esi­stenza della C.I.S.M. e dell’US.M.I., gli incontri tra i vari Istituti.., costituiscono solo alcuni esempi del fruttuoso cammino che in questi 35 anni si è percorso.

Indubbiamente vi sono poi anche zone d’ombra che devono ancora essere illuminate quali soprattutto il fat­to che il mondo religioso non deve essere apprezzato tanto per ciò che opera, quanto per ciò che è, come così pure non sempre è facile far capire a chi chiede collabo­razione alle persone consacrate che va rispettato il carisma specifico dell’istituto e non bisogna considera­re il religioso come soltanto personale sostitutivo e supplettivo.

In ambito più vicino alla realtà che si vive nella nostra diocesi, i partecipanti all’incontro si sono mo­strati tutti interessati all’organizzazione di questo tipo di assemblee visto l’arricchimento reciproco che sicu­ramente ne scaturisce. Per realizzare ciò occorre supe­rare una certa diffidenza iniziale, anche tra religiosi stes­si, e aprirsi con maggior slancio e impegno.

 

TEMATICHE DEI GRUPPI DI STUDIO

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I.  Evangelizzare oggi significa ricucire lo stappo tra cultura e Vangelo.

2. La capacità di comunicare la Lieta Novella misura la fedeltà della Chiesa alla sua missione.

3. La Lumen Gentium propone una ecclesiologia di comunione che esalta la Ministerialità come servizio.

4. La celebrazione dei sacramenti, frutto e segno della fede, rende vivo e attuale il mistero redentivo di Cristo.

5. La Chiesa locale e i movimenti di fronte alle sfide del terzo millennio. E’ importante integrare più che con­trapporre; accogliere la diversità come arricchimento per dare respiro alla Chiesa e autenticità ecclesiale all’azio­ne dei movimenti.

6. La Famiglia è il luogo teologico privilegiato dove si incarna la “Parola” e si impara a vivere il rapporto di amore con Dio.

7. I giovani, portatori di valori che fanno la storia, sono motivo di provocazione e di speranza per la Chiesa locale, nella quale essi devono imparare a crescere nella fede sen­tendosi protagonisti di un cammino comune.

8. La Chiesa dei poveri deve essere una chiesa che vive ‘la povertà”.

9. La Caritas parrocchiale: antenna delle povertà nel territorio.

10. I Religiosi, con il carisma della perfezione escatologica sono chiamati, da una parte, a dare evidenza al valore storico e di incarnazione del Regno e, dall’al­tra, a sottolineare il valore di trascendenza dei limiti del­la storia.

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