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Marx e la dittatura del proletariato

La critica più radicale e rigorosa del capitalismo, come si è detto, venne formulata da Marx nell'opera il Manifesto del partito comunista. In collaborazione con Engels, Marx nel mettere in rilievo la funzione storica della borghesia nell'abbattere il sistema feudale, affermava che il sistema capitalistico era di ostacolo alla futura espansione dell'industria in quanto aggravava le condizioni materiali di vita della nuova classe da esso creata: il proletariato. Al capitalismo andava sostituito un nuovo sistema sociale: il "comunismo", caratterizzato dall'abolizione della proprietà privata e dalla socializzazione dei mezzi di produzione. Sui metodi per accedere a questo nuovo sistema sociale Marx ammise una gamma di possibilità, legate alle specificità storico-nazionali.

Le tappe per raggiungere il traguardo finale comportavano tre fasi distinte: anzitutto, il proletariato doveva prendere coscienza del suo ruolo di classe oppressa e, attraverso la rottura rivoluzionaria dell’ordine costituito, doveva distruggere lo Stato borghese; una volta conquistato il potere politico attraverso la formula della dittatura del proletariato, doveva provvedere a socializzare i mezzi di produzione, eliminando i residui della vinta borghesia; infine avrebbe dovuto prendere il via la società senza classi con il trionfo completo del comunismo.

Violenta o pacifica che sia la rivoluzione proletaria doveva, per Marx, tuttavia, mirare all’abbattimento dello Stato borghese e delle sue forme istituzionali. Questo netto ed inequivocabile rifiuto delle forme istituzionali dello stato borghese, prende corpo nella dottrina della dittatura del proletariato. La dittatura del proletariato per Marx si configurava, però, solo come la misura politica fondamentale per la transizione dal capitalismo al comunismo. A fondo del comunismo marxista vi è dunque un’ideale di tipo anarchico: a differenza di Bakunin, Marx riteneva tuttavia che l’auspicata società senza Stato non si poteva raggiungere subito, ma solo in una prospettiva futura. Il modello marxista si differenziava così dal modello socialdemocratico, contro il quale Marx aveva affermato che il proletariato doveva “spezzare” la democrazia ed il parlamentismo borghese, e dal modello anarchico, contro il quale aveva affermato che non era pensabile distruggere immediatamente lo Stato senza passare prima attraverso un lungo periodo di dittatura proletaria, che coincideva con il farsi della rivoluzione.

Il passaggio dalla dittatura della borghesia alla dittatura del proletariato non poteva avvenire, per Marx, semplicemente attraverso la conquista del potere statale, cioè di quel apparato di cui la borghesia si era servita per esercitare il proprio dominio, ma esigeva la distruzione di quelle istituzioni e la loro sostituzione con istituzioni completamente diverse.

Sui caratteri del nuovo stato Marx ha dato alcune indicazioni tratte dall’esperienza della Comune:

In Marx il tema della dittatura del proletariato è strettamente connesso a quello dell’estinzione dello Stato. Tutti gli stati esistiti sono sempre stati dittature di una classe. A questa regola non fa eccezione lo Stato in cui classe dominante diventa il proletariato; ma a differenza delle altre dittature la dittatura del proletariato, in quanto dittatura della stragrande maggioranza degli oppressi sugli oppressori, è una forma di Stato che ha come obiettivo l’eliminazione dell’antagonismo di classe. Lo stato di transizione è caratterizzato da due elementi diversi che debbono essere tenuti distinti: esso pur distruggendo lo Stato borghese precedente, non distrugge lo stato in quanto tale; eppure costruendo un nuovo stato, già pone le fondamenta della società senza Stato.

Questi due caratteri servono a contraddistinguere la teoria di Marx da quella socialdemocratica e da quella anarchica. La prima ritiene che compito del movimento operaio sia quello di conquistare lo Stato dall’interno; la seconda ritiene che si possa distruggere lo Stato in quanto tale senza passare attraverso lo Stato di transizione.

Contro la teoria socialdemocratica Marx sostiene che lo Stato non possa essere conquistato ma debba essere prima distrutto; contro la teoria anarchica sostiene che ciò che deve essere distrutto è lo Stato borghese.

Ai principi del giusnaturalismo e del razionalismo settecentesco e alla concezione filosofica dell’idealismo (soprattutto hegeliano), Marx contrapponeva quindi una filosofia della prassi, volta a considerare ogni aspetto dell’attività umana come un fenomeno sociale, che si volge all’insegna di un continuo movimento dialettico e trova nella rivoluzione lo strumento per superare le contraddizioni esistenti a inaugurare un nuovo sistema di rapporti individuali e collettivi.

Primo risultato della lotta politica e ideologica sostenuta dalla corrente marxista va considerata la costituzione della Prima Internazionale, sorta a Londra nel 1864, la cui lacuna principale fu la debolezza organizzativa che fu sottolineata da H. Cole nell’opera Storia del pensiero socialista.

Cole affermava, infatti, che era ormai svanita la prospettiva di un’insurrezione irlandese, che per Marx costituiva il necessario presupposto di una rivoluzione in Gran Bretagna.

Negli ultimi decenni dell’ottocento in tutti gli stati europei, in corrispondenza del grande sviluppo dell’industria e dell’urbanesimo, si sviluppò il movimento operaio organizzato nei partiti e nei sindacati (Trade-Union). Nacquero inoltre numerosi partiti socialisti di ispirazione marxista nei diversi stati europei, quasi ovunque superando l’ideologia anarchica che era stata invece ben presente alcuni decenni prima.

Il più importante di questi partiti fu quello socialdemocratico tedesco nato nel 1875, il quale con l’unità della sua ideologia identificantesi con il marxismo gli diedero una grande influenza.

Fatta eccezione per il socialismo rivoluzionario russo e per il socialismo laburista inglese, largamente influenzato dall’illuminismo utilitaristico della Fabrian Society, la visione del socialismo scientifico, tipica del marxismo, aveva finito per assurgere a ideologia ufficiale dei partiti e movimenti politici operai sorti in Europa ed entrati a fare parte della seconda Internazionale, dove non mancarono di manifestarsi tendenze interpretative discordi circa i tempi e le modalità di attuazione della conquista del potere e della dittatura del proletariato.

La seconda Internazionale e i partiti socialisti costituirono un rapporto abbastanza significativo in quanto i principali dibattiti che animarono la vita del socialismo europeo fino alla prima guerra mondiale ebbero sede nelle riunioni dell’Internazionale socialista.

Tuttavia dopo la sconfitta della Comune (1871) si formano due correnti destinate a contrapporsi nella scelta delle tattiche da seguire per edificare la società del futuro. A destra, dopo al nascita della socialdemocrazia tedesca e lo sviluppo della seconda Internazionale (1889), prevalsero i gruppi riformisti, convinti che la violenza rivoluzionaria non sempre era indispensabile ma che l’allargamento del suffragio elettorale e il diffondersi dei movimenti sindacali rappresentavano i mezzi più efficaci per far sentire la presenza determinante delle forze operaie nella vita politica. A sinistra si affermano gruppi del comunismo contemporaneo, decisi a respingere qualunque compromesso coi nuclei borghesi e pronti a utilizzare il conflitto mondiale, per trasformarlo in una gigantesca guerra civile, con cui portare alla vittoria il proletariato internazionale.


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