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Verga e il Realismo

Il Realismo contraddistingue l’indirizzo generale della cultura europea della seconda metà dell’800, allorché si diede importanza esclusivamente ai fatti concreti, abbandonando i problemi metafisici, l’idealismo e i sentimentalismi tipici del romanticismo. Il Realismo assume il nome di Positivismo in filosofia, Naturalismo nella letteratura francese e Verismo nella letteratura italiana.

Il suo sorgere fu determinato da:

L’arte deve rappresentare il reale: c’è l’abbandono del romanzo storico in luogo del romanzo sociale, inteso a rappresentare obbiettivamente personaggi, caratteri e costumi della società. Vengono esclusi i commenti dell’autore, nel nome dell’impersonalità dell’opera.

In Francia il Naturalismo aveva carattere di indagine critica e denuncia sociale, con Edmond e Jules de Gouncourt, Emile Zola, Guy de Maupassant.

In Russia si afferma la grande narrativa, dal carattere psicologico e di critica sociale, con Fedor Dostoevskij, Lev Tolstoj, Anton Cechov.

In Italia il Verismo ha carattere provinciale e non polemico; il realismo è accettato come metodo ma non come sistema, i maggiori teorici sono Capuana e De Sanctis che affermano la necessità di un giusto equilibrio tra reale e ideale. Il rinnovamento deve rivolgersi alle lingue del popolo, i dialetti, più vivi e immediati, perché il popolo afferra le conclusioni e sopprime le premesse, traducendo tutto in immagini.

Il maggiore esponente del Verismo è Giovanni Verga (Catania 1840-1922). Nella sua attività letteraria si possono distinguere tre periodi: romantico-patriottico, romantico-passionale (Storia di una capinera), verista. Quest’ultimo inizia con la novella Nedda, con la quale Verga si avvicina per la prima volta ai personaggi umili. Comprende inoltre le raccolte di Vita dei campi e Novelle rusticane e i due capolavori: I Malavoglia e Mastro-Don Gesualdo, primi due capitoli del ciclo dei Vinti, ai quali sarebbero dovuti succedere La Duchessa di Leyra, L’Onorevole Scipioni e L’Uomo di lusso.

Verga ha una concezione tragica e pessimistica della vita, non contempla la possibilità di esistenza di un salto sociale e questa concezione immobilista la esprime nella teoria della fiumana del progresso, secondo la quale l’uomo deve vivere la vita a cui è destinato senza cercare di cambiare l’ordine della società, ma rassegnandosi al suo destino (fatalismo):

“Allorquando uno di quei piccoli…volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di mondo, il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui.” (da Fantasticheria)

Verga non nega però il progresso, ma lo riduce alle sole forme esteriori.

I suoi “vinti” sono differenti dagli “umili” manzoniani, perché questi ultimi sono i poveri, i deboli, gli oppressi in opposizione agli oppressori, confortati dalla credenza nella provvida sventura, mentre i personaggi verghiani non hanno fede religiosa che li possa risollevare e non appartengono ad una precisa classe sociale, in quanto vinto è chiunque decida di cambiare l’ordine della propria vita, sia esso facente parte della borghesia in ascesa, avida e ambiziosa, oppure dell’aristocrazia in declino.

Anche i vinti presentano elementi positivi:

Questi sono tutti elementi che sono presenti in personaggi come Padron ‘Ntoni e il nipote Alessi, legati alla tradizione, naturali rappresentanti dell’ideale dell’ostrica che non si stacca dallo scoglio, in opposizione a figure come il giovane ‘Ntoni e Mastro-Don Gesualdo, che si ribellano all’immobilismo dell’ambiente in cui vivono e nei confronti dei quali Verga usa un pessimismo più cupo e totale, in quanto l’avidità chiude il cuore dell’uomo, lo rende opportunista, calcolatore e spietato e lo fa precipitare nella solitudine.


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