intervista ad Arturo Paoli
Il
dramma dell’opulenza
di Alberto Bobbio
Cosa succede se la Chiesa diventa troppo
"organica" alla logica delle società capitalistiche occidentali?
Trascura i poveri e perde coraggio e radicalità nell’annuncio del Vangelo. Un profeta
dei nostri giorni analizza lo stato di salute di una comunità ecclesiale che
corre il rischio di essere molto "visibile" e potente ma poco
autorevole.
Lui dice che basta guardarsi in giro per persuadersi
che i risultati di una società fondata sull’egoismo sono disastrosi. Ed è anche
convinto che lo saranno sempre di più. «A meno che…».
Arturo Paoli, 90 anni, una vita intensa di prete e di
profeta, erede di Carlo Carretto (2 aprile 1919 - 4 ottobre 1988) tra i Piccoli
Fratelli di Charles de Foucauld, "Giusto delle nazioni" per Israele
per aver salvato la vita a un ebreo a Lucca nel 1944, sacerdote da 62 anni,
scrittore e conferenziere in tutto il mondo, uomo che da 40 anni condivide la
vita con i boscaioli, i contadini dello Stato del Paranà in Brasile, spiega
cosa ha guidato la sua vita e cerca di spendere qualche parola sulla fede in
questa intervista che è un po’ come un testamento. Il nostro incontro con
Arturo Paoli prende le mosse da un libro, l’ultimo dei suoi, intitolato Quel che muore, quel che nasce (Ega,
lire 22.000).
Cominciamo da quell’"a meno che…". Cosa vuol dire?
«A meno che non prendiamo su di noi il peccato del
mondo. Concretamente, senza pensare che il raddrizzamento delle situazioni che
non vanno, insomma che la redenzione dell’umanità, sia qualcosa affidata, come
si diceva, al sangue di Cristo. Bisogna lasciarsi guidare dai volti delle
persone, bisogna andare nei sotterranei della Storia dove vivono le persone.
Dobbiamo occuparci delle vittime e non gioire per la bravura dello stratega».
C’è troppa angoscia in giro oggi?
«Sì, angoscia e paura. Ossessioni. Siamo ossessionati
dal denaro, dal sesso, dal gioco e anche da santi buoni e un po’ antichi che
pensiamo ci possano risolvere tutti i problemi. Compreso quello della nostra
sicurezza. In ogni campo. Ma la nostra angoscia più grande è data dalla
incapacità, che ci rode dentro, di prevedere il futuro. Facciamo finta di
essere spavaldi, perché non riusciamo a calcolare tutto. Umberto Eco ricorre
alla fantascienza per pensare, solo pensare, al futuro».
Come si fa a guardare nei sotterranei della Storia?
«Ci si riesce solo se al centro della vita il
cristiano mette il Regno di Dio e non se stesso. Insomma facendo quello che
coerentemente ci consiglia il Concilio Vaticano II. Bisogna far sparire l’io
come preoccupazione personale, che provoca angoscia. Quanti sono quelli che
credono che lo Spirito agisce nella Storia e la trasforma? Quanti credono al
Vangelo che dice "chi vuol salvare la propria anima la perderà"? È un
tema centrale perché rimanda alla polemica che Gesù ha aperto con il mondo
religioso della sua epoca. Gli ebrei rimandavano continuamente al passato, ad
Abramo, a Mosé, ai profeti. Lui no, si occupa delle persone. Dice che Dio è qui
davanti a voi: il povero, la vedova... La carità non deve servire a me, non è
un rimedio alla mia angoscia. Perché si può essere caritatevoli senza essere
giusti, se si mantengono le distanze».
La Chiesa è responsabile di una religiosità della
distanza?
«Certo. La Chiesa – non tutta – ha ritirato Dio in
cielo. Dice agli uomini: consolati, il Regno di Dio è vicino. Nelle omelie dei
preti si parla di cose lontane. I sacramenti sono parole e non simboli. Dov’è
lo Spirito che sprona a fare? Il Vangelo ha raccomandato l’annuncio attraverso
la persona, non attraverso le parole. È la persona che parla. La parola è solo
rimedio d’emergenza. Se la mia vita non testimonia, io non posso neppure
parlare».
Come sta la Chiesa?
«Male. Non ha seguito fino in fondo l’ordine dello
Spirito Santo e del Vangelo. Il centro della predicazione si è spostato: dal
Regno di Dio alla visibilità della Chiesa, alla sua grandezza, al suo potere.
Parla molto la Chiesa, scrive molto. Non si può dire che non si occupi dei
poveri: mai sono state prodotte tante parole sull’argomento, mai tanti
documenti. Viviamo una religiosità opulenta, anche dal punto di vista
intellettuale. Sappiamo come affrontare i problemi, sappiamo come risolverli,
da soli, sempre da soli, senza contare sugli altri. I poveri, i barboni, gli
esuli, cosa contano per me intellettuale, per la mia teologia, per la mia
pastorale? Il Vangelo è ridotto a manifestazioni rituali o metafisiche. Voglio
fare una provocazione e dire ai credenti: spogliatevi anche della vostra fede e
allora comincerete a capire cos’è la gratuità».
Ma tutta la Chiesa è così?
«Non tutta. Nei Paesi poveri modelli di Chiesa
diversi sono stati soffocati, ma non distrutti. Alla Chiesa era stata servita
su un piatto d’argento la teologia della liberazione, ma è stata rifiutata.
Ripeto: soffocata, non distrutta».
Eppure la riflessione attorno a un nuovo umanesimo è stata portata avanti…
«E con grande forza, per esempio da Giovanni Paolo
II, soprattutto negli ultimi anni in modo profetico. Ma la Chiesa è troppo
legata all’Occidente. Ha dovuto mantenere buone relazioni con il capitalismo.
Gesù dice che saremo giudicati non sull’obbedienza, ma se l’avremo visto nudo,
affamato, prigioniero, schiavo. Tutto lì. Vederlo sta solo a me».
Lei è dunque contro la Chiesa, i suoi dogmi?
«No. Per me l’obbedienza non è un problema. Ma dico
che il concetto di "santo" non coincide necessariamente con
"religioso". Il giudizio va dato sulla costruzione del Regno di Dio:
beati i poveri, i miti… Io sento che sarò giudicato su questo, non sul devozionalismo,
che in questo secolo non ha impedito guerre e sangue. È sull’uso della mia
libertà che mi si chiederà conto. Se uno risponde "Eccomi", è santo.
Diventare santi è drammaticamente difficile appunto per l’estrema semplicità
della risposta. È difficile obbedire a Dio piuttosto che agli uomini».
La Chiesa tuttavia oggi è molto visibile, di essa si
parla e si scrive. Allora cosa c’è che non va?
«La Chiesa gode di grande prestigio. Vorrei dire che
il carisma del prestigio è sceso sugli Stati e sui popoli. Molti stanno ad
ascoltare le parole del Papa. Molti restano ammirati dalla sua figura e dalle
cose che dice. Ma la disobbedienza formale e la noncuranza rispetto ai suoi
insegnamenti è enorme. Nella Chiesa quelli che prendono sul serio la
responsabilità di fare la giustizia, di difendere il diritto dei poveri, molto
spesso vengono emarginati. E di solito fanno molto meno di quello che è scritto
nei documenti. Prenda il Brasile, Paese visitato tante volte dal Papa: che
riscontro hanno avuto le sue parole forti sulla giustizia, sulla distribuzione
della terra, sui popoli oppressi? Zero. Chi oggi è convinto che amore per gli
altri significa uso sobrio dei beni? Molti credenti nel mondo praticano una
buona spiritualità individuale, ma poi sono assolutamente sfrenati nell’uso del
denaro, anarchici nell’uso dei beni. Non si può giustificare il primato di Dio,
sopra tutti gli altri diritti».
Parliamo del Concilio. Perché lei spesso dice che è
stato tradito?
«È stato il Concilio Vaticano II a richiamare i
credenti sulla centralità del Regno di Dio e sul ruolo dello Spirito Santo. Il
Concilio ci ha chiesto di aprire le porte e non soltanto di parlare di Dio, ma
di camminare con gli uomini, di affermare il diritto a una vita piena, di
esaminarci in base alla giustizia o all’ingiustizia. Non ci ha insegnato a
consolarci con la religione. Quando Gesù va via da Nazareth non si mette a fare
il guru, non va nel tempio di Gerusalemme ad ascoltare, ma ad attaccar briga,
dando la prova tremenda del suo unico interesse: costruire il Regno di Dio. Noi
invece ci ritiriamo sul culto, a volte in modo narcisista».
Ma le responsabilità sono dei preti o dei laici?
«Di entrambi. Cominciamo dai preti, che sono educati
secondo forme rigidamente borghesi. I preti – non tutti – stanno troppo bene.
Si occupano di sé stessi. C’è troppa paura di perdere vocazioni. Vengono
allenati ad avere coscienza di sé, a essere altro rispetto al mondo. Ecco
l’insistenza sul sacramento dell’Ordine che vale di più di altri sacramenti,
compreso quello del matrimonio. Stanno chiusi nei seminari e vanno nel week-end
nelle parrocchie. Io domando: quando si calano sulle piaghe di Cristo? È
sicuramente migliorata la formazione intellettuale. Le omelie sono più colte,
più dotte che in passato. Ma sono spesso anche più lontane dalla vita reale che
nel passato. La Chiesa ha come paura di essere invadente, di essere esigente.
Non si può dire che i giovani rifiutano la Chiesa. Se si analizzano le cose in
profondità, si vede che essi non capiscono, non ci comprendono. Dio non c’è nel
loro orizzonte».
E il laicato?
«Manca di audacia. Passa da un ritiro spirituale a un
altro, ma poi non si interroga sulla propria responsabilità davanti alla
società. Non si può essere contro la manipolazione della vita, contro una
bioetica sbagliata, e poi dichiarare valido il sistema economico che arriva a
queste aberrazioni, quello che succhia il sangue dei poveri, che è la benzina
di cui ha bisogno il nostro mondo troppo ricco per vivere. Vogliamo una società
nuova, ma poi applaudiamo al politico di turno. Siamo troppo miopi, non siamo
capaci di guardare avanti. Il laico che vive la sua responsabilità politica con
autonomia, sapendo che di essa deve dar conto solo davanti a Dio, oggi è
scomparso. Naufragate le ideologie, il laicato religioso è stato inglobato
nella Chiesa, che ne ha marcato la clericalizzazione».
Lei quali esempi indica?
«Ho ammirato De Gasperi, La Pira, Dossetti come
cattolici. Uomini che sapevano distinguere l’area religiosa da quella politica
e la propria autonomia e responsabilità dall’obbedienza dovuta alla Chiesa.
Uomini che erano convinti di rispondere al Vangelo e non al prestigio della
Chiesa nel Paese in cui abitavano. Dov’è finita la tradizione che loro hanno
incarnato? Il laico credente – uomo o donna che sia – non deve rifugiarsi sotto
le ali della Chiesa per stare al caldo e dimostrare che sa fare. Ha una
responsabilità adulta, libera, autonoma, di rendere il mondo più umano della
quale risponderà solo a Dio».
Alberto Bobbio
Arturo Paoli ha raccolto, insieme a
Carlo Carretto, morto il 4 ottobre 1988, l’eredità di padre Charles de
Foucauld. Secondo Paoli, è stato il fondatore dei Piccoli Fratelli «a indicare
gli orientamenti essenziali di ogni vita religiosa: il servizio sacerdotale,
assetato di giustizia, deve suscitare una gioventù che vuole una società
differente».
Arturo Paoli è autore di oltre trenta
opere, tra cui Camminando s’apre cammino
(Cittadella editrice), Facendo verità
(Gribaudi), Dialogo della liberazione
(Morcelliana), Il sacerdote e la donna
(Marsilio), Gesù amore (Borla), Cercando libertà. Castità, obbedienza,
povertà (Gribaudi), Il grido della
terra (Cittadella editrice).
Da Jesus – dic.2001