Smarrimenti individuali, fortezze etniche,
comunicazione interrotta...
La
globalizzazione uccide l'incontro.
Qualche idea per un'economia non competitiva
di PIETRO BARCELLONA
ordinario
di Filosofia del diritto presso l'università di Catania
Il lavoro è stato nella modernità il centro di riferimento di
ogni teoria politico-sociale e anche del grande pensiero filosofico, assai più
che in qualsiasi altra epoca.
Al di là di ogni diversità di prospettive, si può dire con
certezza che il lavoro ha rappresentato sia il titolo per l'attribuzione di un
reddito, sia il presupposto della cittadinanza, sia il misuratore del
contributo di ciascuno al processo di produzione e riproduzione della vita.
Il lavoro è stato, sotto questo profilo, il principio di
organizzazione della società moderna e il significato essenziale di ogni
autorappresentazione individuale e collettiva.
Per queste ragioni ogni riflessione che ne colga solo aspetti
parziali è inevitabilmente riduttiva. Piuttosto mi sembra necessario chiedersi
in che modo il lavoro è ancora il punto di riferimento delle
autorappresentazioni individuali e del rapporto fra l'individuo e la
“comunità”, intesa in senso ampio come partecipazione sociale del processo di
produzione e riproduzione della vita.
C'è un rischio che non bisogna correre se
da questa discussione si vuole trarre qualche risultato: quello di riprodurre
astratte alternative, come quella fra liberals e comunitaristi, o di
abbandonarsi a eleganti costruzioni di modelli.
Credo, invece, che bisogna prendere le
mosse dai “fatti”, da una, possibilmente accurata, indagine fenomenologica dei
modi in cui si strutturano le immagini influenti del nostro tempo nelle
pratiche individuali e collettive.
Mai come nell'epoca presente l'individualismo coincide con l'auto-rappresentazione
della maggioranza degli abitanti dell'Occidente e, tuttavia, nonostante una
così profonda interiorizzazione di siffatto modello culturale, è altrettanto
diffusa la sensazione che gli individui siano di fatto in balìa di poteri,
apparati, corporazioni, ecc. che rendono assai labile il significato della loro
individualità e assai esiguo lo spazio effettivo della loro libertà.
Con una battuta si può dire che paiono
scomparsi dalla scena sia gli individui, sia le scelte collettive. Questa è l'epoca
nella quale al posto degli individui liberi sono rimasti numeri, serie,
frammenti, e al posto delle scelte collettive ci sono tribù, clan, mafie chiuse
come fortezze. Al di sopra di questo magma naviga in Internet la società
globale, che apparentemente non intrattiene rapporti né con gli individui, né
con i clan e le tribù.
Con quali categorie possiamo descrivere e comprendere i fatti che sono
squadernati sotto i nostri occhi?
Penso alle categorie della filosofia
politica e del diritto che ripropongono le tradizionali coppie oppositive:
Stato-mercato, libertà-vincolo, e credo che con queste categorie non si va
molto lontano. Eppure c'è chi ritiene che sta arrivando al pettine l'antico
modo del rapporto fra libertà e coazione e ha paragonato la vittoria
dell'Occidente sul comunismo come la vittoria di Atene su Sparta, della società
civile-mercato sullo Stato-Caserma. Il riferimento ai greci è sempre di moda
nelle fasi di transizione. Atene come anticipazione borghese, come società
civile, mercato, e Sparta come caserma, anticipazione dello Stato totalitario
moderno. Una analogia fuorviante e pericolosa perché applica le categorie del
passato a “figure” e concetti che sono propri di un diverso contesto culturale
e sociale.
Ricordando la lezione di Vernant mi pare
che lo spazio pubblico della polis si ponga come spazio alternativo alla
cultura del palazzo miceneo e che sia irriducibile al mercato moderno, alla
fiera del levante o alla fiera di Milano. Non a caso il centro dello spazio
pubblico greco era il teatro, ed è difficile immaginare un itinerario che ci
porta dai greci alla libertà dell'individuo moderno. Hannah Arendt ha descritto
la vita dell'uomo greco che si riconosce nella partecipazione reciproca allo
spazio pubblico come spazio della “rappresentazione” reciproca. Lo spazio
pubblico non può essere un ipermercato. Nella definizione dello spazio
pubblico, si colloca il problema della scelta collettiva e del rapporto tra
l'individuo e il gruppo e si può vedere non l'antinomia tra l'individuo e il gruppo,
ma la loro complementarità.
Cos'è allora lo spazio pubblico?
Per descrivere lo spazio pubblico Bauman
ha fatto riferimento al “lavatoio” dove le donne lavavano i panni insieme e
contemporaneamente producevano l'elaborazione del codice morale collettivo, si
scambiavano informazioni sull'educazione dei figli, sul modo di stare insieme,
sull'alimentazione e sulle relazioni affettive.
Non si tratta ovviamente di valutare i
successi della tecnica e del mondo moderno con la nostalgia del “lavatoio”, ma
è curioso che Francesco Alberoni, in un articolo intitolato “L'impresa
planetaria e la fine dei luoghi comuni”, descrive la propria vita, e i suoi
incontri mattutini e richiama l'attenzione sulla progressiva sostituzione degli
incontri personali con i circuiti informatici e gli automatismi della Rete e
con la scena di un di un ipermercato affollato di acquirenti.
Alberoni continua osservando che questo
fenomeno è rilevante anche per i “saperi” che si sono completamente separati
dalla “produzione”; le cose che si vendono negli ipermercati non si producono
più in quella regione, in quel “luogo”, e le informazioni sono standardizzate e
inaridite. I saperi tradizionali sono divenuti sterili perché non hanno più un
“oggetto” su cui misurarsi.
Spesso anch'io quando parlo ai miei
studenti di diritto, Stato, libertà debbo confessare che non so bene di che
cosa parlo perché i nostri concetti sfuggono continuamente all'enorme
accelerazione dei mutamenti.
Sembra finita la civiltà dello spazio pubblico in cui gli uomini si ritrovavano
all'interno di un confine fisico, che definiva il rapporto fra la campagna e la
vita urbana, e dove l'esser pubblico non significava avere un “ruolo”, ma
partecipare pubblicamente del proprio esserci, direbbe Ernesto de Martino.
Lo spazio virtuale di cui si parla oggi
non ha niente a che vedere con lo spazio pubblico perché quest'ultimo è
caratterizzato dalla simultanea presenza della parola e del corpo. La
corporeità, il nostro essere fisico ha una rilevanza decisiva nella definizione
dello spazio pubblico. Lo spazio pubblico è uno spazio in cui conta il confine
fisico e la presenza affettiva dei corpi.
Gli affetti sono il grande assente del
mondo moderno, nel senso che non sono più rappresentati nel mondo della Rete.
Sono negati, occultati, e perciò esplodono nelle forme terribili della violenza
moderna che è una violenza anonima, impersonale, seriale, sempre più
immotivata: una violenza fredda.
C'è, a mio parere, il rischio di una
grande catastrofe di senso in questa scomposizione triadica della società:
quella in cui gli individui atomizzati non riescono più a sapere se stanno
comunicando effettivamente con qualcuno; quella delle tribù che si sono chiuse
nelle fortezze etniche, territoriali; quella globale che viaggia in Internet
senza alcun riferimento al mondo di carne e sangue di quella che “una volta” si
chiamava la “realtà”.
Perché è accaduto questo mutamento
radicale?
Quando cadde il muro di Berlino sembrò a
tutti che finalmente la storia umana fosse diventata unica. Certamente è bello
pensare a una storia umana universale, come è bello pensare di essere cittadini
del mondo, ma resta l'interrogativo se si può essere cittadini senza
appartenere a una “città”, a una “patria” nel senso di Geertz.
La globalizzazione, infatti, ha distrutto
le culture particolari e anche la tradizione europea rischia di essere
indefinibile. Lefebvre scrive che è in crisi la grande nazione europea, non
quella degli Stati, ma l'Europa continentale che viene dalla tradizione ebraica
e da quella greca. L'uomo del continente europeo è greco ed ebreo perché greci
ed ebrei sono i suoi antenati e non già pirati e mercanti, come gli uomini del
mondo anglosassone.
Sulla libertà di abitare la terra ha
prevalso la libertà di navigare in rete; sulla libertà del cittadino, la
libertà del mercato. Con la globalizzazione l'impresa si è separata dal
territorio; gli investitori si sono liberati di ogni vincolo con i fornitori,
con i consumatori, coi lavoratori, col paese.
Il vero soggetto libero è adesso il denaro
virtuale. In meno di un mese cinque grandi multinazionali decidono di spostare
i loro stabilimenti dall'Europa all'Asia o all'America del Sud e
improvvisamente un milione e mezzo di persone si trovano senza lavoro. Come si
può pensare a scelte collettive, a politiche sociali, a politiche
dell'occupazione? mentre il capitale si muove con la velocità dei nuovi mezzi
di comunicazione, gran parte degli uomini e delle donne del pianeta sono
“segregati” nei loro territori.
La velocizzazione dell'informazione ha
distrutto il concetto di distanza e anche i concetti tradizionali su cui si
fondava l'informazione legata all'apparato sensoriale, e dunque al corpo. Il
corpo vive e trascrive, vede e ricorda, elabora emozioni e le trascrive nella
memoria. La distruzione della distanza attraverso la rete informatica, sta
distruggendo la memoria, le singole culture particolari, e così sta
distruggendo la possibilità di essere individui e di essere anche gruppi,
giacché individuo e gruppo non si possono pensare separatamente. È una pura fantasia
pensare che l'individuo si autocostituisce o che il soggetto autocertifica la
propria esistenza. La presenza si certifica attraverso un rapporto di
generazione.
Siamo tutti nati da una coppia,
all'interno di un contesto che ci ha trasmesso (come dice Lefebvre) culture,
visioni, stili di vita, che non sono la somma delle deliberazioni individuali,
ma l'espressione del collettivo umano che è sempre plurale e anonimo.
La città ateniese non era una comunità
organica, ma una moltitudine contenuta in uno spazio pubblico comune.
La distruzione della memoria ha
determinato la sostanziale omologazione e la convinzione assurda di vivere in
una sorta di presente eterno dove non c'è la responsabilità del passato, né la
responsabilità verso il futuro.
Non possiamo continuare a baloccarci con
le categorie classiche della filosofia del diritto, della filosofia politica e
della scienza della politica per vedere se bisogna avere una legge elettorale
maggioritaria o una legge proporzionale.
Ci troviamo di fronte a uno squilibrio
crescente tra le dinamiche economiche e le dinamiche culturali; lo Stato non è
più il contenitore del rapporto tra produzione e consumo. Si è realizzata una
scissione totale della produzione dalle forme di vita, dal luogo in cui si
consuma e gli uomini sono diventati dei contenitori di beni di consumo.
L'individuo moderno, come dice Lasch, è un
individuo debole, un piccolo Narciso che ha bisogno continuamente di oggetti
nuovi da consumare feticisticamente.
Occorre allora cercare di capire meglio
cos'è la "globalizzazione" e quale impatto ha sulla
autorappresentazione degli individui.
Informazione, spazio pubblico e territorio
Si sono scritte oramai migliaia di pagine
sulla globalizzazione. Credo che la cosa più interessante l'abbia scritta Furio
Colombo commentando i libri di Paolo Virno e di una filosofa americana. Nel
libro di Paolo Virno sul tempo si legge che il tempo si è come accorciato,
concentrato nel presente senza passato e senza futuro. La filosofa americana,
invece, parla della superiorità della filosofia analitica su quella
continentale fatta da grandi “racconti” e da visioni generali come la filosofia
tedesca. La filosofia analitica cerca le “strutture metastoriche” del
linguaggio per promuovere una sorta di “igiene linguistica”. Secondo Furio
Colombo questi due libri hanno in comune la celebrazione della vittoria degli
abitatori del tempo sugli abitatori dello spazio.
Chi sono gli abitatori del tempo? Sono
coloro che non subiscono i vincoli della terra. Sono i marinai, i predoni, i
“navigatori del tempo” che non hanno vincoli di territorio e si contrappongono
agli abitatori dello spazio, del luogo, ortung.
Come dice Bauman la globalizzazione è il
risultato della battaglia condotta dal Capitale per rendersi indipendenti dallo
spazio e rendersi inafferrabile dalla Politica. La globalizzazione opera su due
piani: il mondo che si muove alla velocità dell'informazione e il mondo della
localizzazione forzata di chi resta fuori dalla rete.
La favola del “villaggio globale” serve
solo ad occultare ciò che è realmente accaduto: la vittoria del capitale e
dell'impresa che cessa di essere un luogo dove gli investitori si incontrano
con i lavoratori, i consumatori, i fornitori ecc. L'impresa appartiene solo ai
grandi investitori e gli investitori non hanno più patrie come le imprese
transnazionali.
La globalizzazione è stata realizzata
dalla classe degli investitori che ha realizzato una libertà assoluta, senza
vincoli di territorio, senza i vincoli del luogo dove prima si svolgeva
l'attività produttiva e derivanti dal rapporto con i lavoratori, i fornitori e
i consumatori. Questa libertà del capitale sta ridisegnando la gerarchia del
mondo e sta incidendo in profondità sulla vita delle persone.
Quando si afferma che il problema è produrre ricchezza per poi re-distribuirla
si pone un falso problema: il problema non è affatto o almeno non è soltanto
quello della distribuzione della ricchezza prodotta.
Un contadino del Sud che ha costruito la
sua cultura, il suo sapere, la sua dignità, il suo modo di essere, la sua
capacità di dare significati al trascorrere delle giornate, e persino al colore
del cielo, in relazione alla sua attività produttiva, non può essere compensato
da una borsa piena di dollari. È accaduto e sta accadendo qualche cosa di più
profondo che riguarda la capacità di autorappresentarsi: cioè di dire sono
siciliano, marocchino, laotiano, coreano, ecc., e provengo da una terra dove
c'è una storia, un passato, dove ci sono monumenti persino precedenti alla
civiltà moderna.
L'accelerazione dell'informazione ha
cancellata la memoria della comunità. La velocità dell'informazione distrugge
la capacità di memorizzazione, giacché la nostra memoria è legata
all'esperienza, al vissuto. La velocizzazione dell'informazione accorcia le
distanze e annichilisce lo spazio, rendendo possibile un movimento vorticoso di
capitali che non ha bisogno di essere localizzato.
Di fronte al Cyberspazio ci sono alcuni
miliardi di uomini che non conoscono un sistema di trasmissione
dell'informazione come il nostro. Il mondo globalizzato non riguarda affatto
l'intero pianeta. In Vietnam o in Corea se ci si sposta fuori dalla città non
esiste un vero e proprio sistema postale e le notizie si trasmettono ancora
attraverso messaggi orali. Nel film di K.Coster, che è stato boicottato dagli
Stati Uniti, si rappresenta una società del futuro nella quale è saltato il
sistema delle comunicazioni e occorre tornare ai postini a cavallo. Il film è
una metafora della “catastrofe” del villaggio globale: l'informazione è la posta
in gioco del nostro esistere. L'informazione è strutturalmente legata alla vita
e la vita è anche conflitto per il controllo dello “spazio fisico” e dello
“spazio mentale”.
Gli investitori di capitali hanno vinto la
guerra per il controllo dell'informazione e tutti gli altri sono divenuti
incapaci di produrre informazione, anche se apparentemente si assiste a
un'alluvione di informazioni.
Le nuove élites che partecipano al mondo
dell'informazione trattata non hanno più rapporto con i territori e vivono in
uno “spazio proprio”. I luoghi dove abitano le élites sono inaccessibili,
fortificati, mentre il resto delle popolazioni si aggrega per lo più secondo
criteri etnici.
Non c'è più la città continentale della
tradizione europea dove i cittadini di diverse “nazioni” si incontravano nello
spazio pubblico. Oggi si va in piazza e allo stadio perché c'è un concerto,
perché un privato gestisce il nostro essere pubblico. Anche le elezioni sono
diventate una finzione; non c'è partecipazione alla vita politica collettiva.
Appena qualche decennio fa quando si andava in una sezione di partito di un
piccolo centro della Sicilia, si incontravano ancora braccianti analfabeti, ma
capaci di parlare con competenza dell'esercito industriale di riserva, del
capitale monopolistico, perché c'era stata una trasmissione orale del sapere
sociale, attraverso gli agitatori e i dirigenti. Quando un bracciante affermava
che la disoccupazione era effetto dei movimenti del capitale monopolistico, che
aveva bisogno di un esercito industriale di riserva per utilizzare i lavoratori
in modo flessibile (lo diceva ancora negli anni '60), esprimeva una “versione”
del mondo che gli era stata trasmessa all'interno di un gruppo umano e di
un'esperienza collettiva.
Come possiamo oggi fare esperienza se
ciascuno vive praticamente isolato?
Desideriamo incontrare solo il nostro
“alter ego”, cioè praticamente vederci riflessi in uno specchio.
La nuova gerarchia produce un nuovo tipo
di conflitto: il conflitto tra le élites globalizzate che vivono nelle loro
fortezze dorate e che non hanno più nessuno interesse verso il territorio, e
quanti sono condannati alla localizzazione coatta e che non hanno nessuna
effettiva possibilità di movimento.
Le élites transnazionali hanno fatto
“secessione” – come dice Lasch – dal popolo e non hanno interesse alla
“bellezza” della città. La città oramai è in mano ai pianificatori
funzionalisti, che devono risolvere sia i problemi del trasporto urbano e dei
rifiuti sia i problemi dell'intrattenimento degli anziani e dei bambini (un bel
parco, un giardino zoologico, ecc.). Non c'è più l'idea della città come spazio
condiviso dove si creano insieme i significati che danno “senso” alla vita.
Bauman ricorda come si formavano i valori
quando le donne andavano al “lavatoio”: mentre sciacquavano i panni parlavano
dei loro problemi, dell'educazione dei figli, del rapporto con il marito, del
tradimento e della fedeltà, e non si scambiavano solo informazioni, ma creavano
significati e producevano norme collettive. Questo modo d'essere della comunità
è cambiato non appena l'acqua è stata erogata attraverso le tubazioni e il
servizio pubblico e le lavandaie non si sono più incontrate. Ovviamente non si
tratta di rimpiangere il lavatoio e i “bei tempi andati”, ma non c'è dubbio che
nell'epoca attuale sono scomparsi i luoghi dell'incontro e si è prodotta una
espropriazione della capacità umana di dare significato al mondo circostante.
Non si tratta soltanto del problema della
distribuzione della ricchezza dai più ricchi ai più poveri, perché la ricchezza
è una connotazione molto relativa. Possedere cellulari, televisori piatti,
navigare in Internet significa forse essere ricchi? Una volta si diceva che
hanno importanza anche i valori dello spirito, e che gli uomini hanno dignità
perché sono capaci di creare senso e significati per la propria esistenza e
diventare così liberi e autonomi. Oggi tutto questo non ha più senso.
Sta scomponendo la città continentale
della tradizione europea dove cittadini di “diverse nazioni” si incontrano
nello spazio pubblico.
Attraverso la globalizzazione, la nuova
gerarchia dello spazio e il governo dell'informazione, hanno provocato un altro
genere di impoverimento. è evidente che nel momento in cui si deve consumare
soltanto il maiale danese che corrisponde a un prototipo alimentare brevettato,
il contadino che produce il maiale in Sardegna si trova fuori mercato e i figli
saranno costretti a cercare lavoro altrove e il terreno diventerà arido.
L'impoverimento è anche una conseguenza del controllo monopolistico della nuova
genetica alimentare e del controllo delle “informazioni scientifiche”. Le
campagne del Sud sono state abbandonate e il deserto cresce in zone che prima
erano ubertose e “civili”.
Molte culture stanno per essere
“sterminate” perché le culture sono legate alle colture. Una filosofa indiana
ha scritto uno straordinario libro sulla monocultura della mente e ha
dimostrato che la specializzazione delle coltivazioni territoriali ha
impoverito non solo i terreni (i terreni utilizzati con il sistema della
rotazione di colture diverse trattenevano l'acqua molto più di quanto non
facciano i terreni sottoposti alla monocoltura), ma ha impoverito anche la
mente, perché si è perduta la capacità di selezionare le erbe e i prodotti
spontanei del suolo secondo i diversi usi tradizionali. In questa “ricchezza
della terra” si presentava la complessità del mondo e si esprimeva l'idea di
una molteplicità irriducibile al semplice, di una differenza non omologabile.
la monocoltura del terreno corrisponde invece alla monocultura della mente (non
a caso si parla di pensiero unico).
Il pensiero unico è la conseguenza del
fatto che siamo eterodiretti dall'informazione dei media e non abbiamo accesso
all'esperienza plurale dei “fatti”. La guerra del Kosovo è stata una vicenda
esemplare: all'inizio sembrava che dovesse essere brevissima e nei salotti
televisivi si organizzavano persino dibattiti con l'ambasciatore serbo e il
kosovaro disperato. Dopo qualche giorno l'informazione è scomparsa ed è rimasta
soltanto la litania sulla guerra umanitaria.
In realtà, in questa guerra non erano in
gioco i diritti umani, ma qual cosa di più profondo. Come si è visto i diritti
umani separati da un ordinamento positivo e da uno Stato che li “riconosce”, da
una organizzazione che li garantisce, da un consenso che li legittima, sono
soltanto uno strumento di prevaricazione da parte di chi si arroga il diritto
di decidere che cosa è umano e cosa non è umano.
Kolakowski ha scritto che due grandi miti che attraversano ciclicamente
l'umanità: il mito dei diritti e il mito dei doveri. Il mito dei diritti
corrisponde alle società rampanti in cui ciascuno pensa di essere in credito
verso il mondo (il mito dei predatori), e il mito dei debitori che pensano che
la loro esistenza dipende da “altri”, dalla coppia che li ha generati, dagli
amici che li hanno sostenuti, dal maestro che ha insegnato loro qualcosa.
Il mito dei debitori è fonte del legame
sociale: chi pensa di avere un debito, sente anche il dovere di restituire: il
legame garantisce la reciprocità. Una società dei diritti è una società senza
legami e nessuno è veramente garantito nelle proprie aspettative: è la guerra
di tutti contro tutti.
I diritti umani sono diventati lo strumento per la frantumazione delle vecchie
unità statali. Come dice Bauman, la parcellizzazione della sovranità è l'altra
faccia della globalizzazione; piccoli stati che non contano niente e diventano
centri dell'economia criminale. Così gli Stati che stanno nascendo nella ex
Jugoslavia sono deboli di fronte al mondo globale dove invece si realizzano
enormi concentrazioni di potere esposti al dominio di bande criminali.
In Argentina e in Brasile gli agricoltori
si sono impoveriti perché sono state privatizzate l'acqua, la luce, le strade,
i trasporti e perché attraverso le tariffe le imprese transnazionali hanno
cominciato ad appropriarsi di tutta la ricchezza prodotta.
L'alternativa alla globalizzazione non può che essere la costruzione di grandi
“regioni” (come dice Amoroso) di aree a economia cooperativa non competitiva.
Non si tratta del problema dello sviluppo sostenibile (non ci sono sviluppi
sostenibili), ma di uno sviluppo adeguato alle esigenze di ogni comunità, di
ogni gruppo umano e ai valori che esso esprime nelle sue pratiche vitali.