«ANCORA RESISTENZA»
intervista a frei Betto
«Cardoso
governante ha «completamente dimenticato il Cardoso sociologo, che trent'anni
fa criticava a fondo il capitalismo». Frei (frate) Betto‑teologo,
giornalista e scrittore – è deluso dal presidente brasiliano Fernando Henrique
Cardoso.
All'epoca della dittatura in Brasile (1964‑1985),
il brillante professore, esiliato in Europa, scriveva importanti saggi sulla
tragica situazione del suo Paese e dell'intera America latina, mentre il
giovane frate Betto, domenicano, tra studi di teologia e giornalismo, cospirava
contro il regime militare brasiliano. A 56 anni, Betto conserva l'entusiasmo e
l'idealismo del ventenne. E ricorda.
Ricorda che, con altri frati ed
ecclesiastici (tra i quali l'attuale arcivescovo di Paraíba, dom Marcelo Pinto
Carvalheira), negli anni della dittatura si schierò subito contro i generali
oppressori, sostenne Carlos Marighella (il leader comunista che lottò con le
armi contro la dittatura), aiutò parecchi oppositori ad espatriare
clandestinamente. Per questo finì in carcere e vi passò quattro anni.
Gli furono compagni altri sei
domenicani, che vennero anche ferocemente torturati. II più angariato fu frei
Tito de Alancar, talmente percosso nel fisico e nella psiche da non poter più
uscire dal pozzo nel quale gli aguzzini lo avevano gettato: morì suicida in
Francia nel 1974 (aveva 29 anni). Qualche giorno prima di impiccarsi, frei Tito
aveva scritto: «È meglio morire che perdere la vita».
Di queste vicende e di molto altro
racconta frei Betto nel suo libro Battesimo di sangue, edito da Sperling
& Kupfer, con prefazioni di monsignor Luigi Bettazzi e del cardinale Paulo
Evaristo Ains. Nei giorni scorsi, l'autore è stato in Italia per presentare il
volume in varie città. Lo abbiamo incontrato a Roma.
‑
Frei Betto, con quali sentimenti ricorda oggi gli anni di cui racconta in
questo libro?
«Anzitutto, sono grato a Dio d'aver
avuto vent'anni nel decennio dei Sessanta che, non solo in Brasile, fu un
periodo importante per creatività e speranza di cambiare il mondo. Sono contento
d'aver partecipalo a quel grande movimento».
‑
Una partecipazione che l'ha portata anche in carcere. Che cosa )danno
significato nella sua vita quei quattro anni passati dietro le sbarre?
«Mi hanno cambiato molto: nella mia
spiritualità, nella maniera di guardare il mondo, nel rendermi ancora più
deciso a lottare contro l'oppressione di oggi».
‑
Ma ora in Brasile c'è la democrazia...
«Oggi non abbiamo una dittatura
politica. Abbiamo però una dittatura economica. Perché sotto gli aggiustamenti
imposti dal Fondo monetario internazionale, accettati supinamente dal Governo
Cardoso, il popolo continua a non contare niente e a patire. La memoria degli
anni della dittatura aiuta a coltivare nei giovani l'impegno per una vita che
sia realmente migliore, contro i tentativi del neoliberalismo di soffocare la
speranza».
‑
Negli anni della dittatura brasiliana, lei e altri religiosi avete aiutato chi
scelse la lotta armata contro il regime militare. Oggi lo rifarebbe?
«Nell'attuale situazione del Brasile, la
lotta armata può convenire soltanto a due settori: i fabbricanti di armi e
l'estrema destra. Oggi ci sono spazi per lotte legali e giuste. E anche per
lotte, come quella del movimento dei Seni terra (senza ferra), che possono
avere aspetti di illegalità, ma che sono e rimangono lotte giuste. Non
giustificabile oggi, la lotta armata lo era invece durante la dittatura, non
essendovi altra possibilità di protesta. Paragono la nostra lotta di allora a
quella della Resistenza antifascista durante la seconda guerra mondiale in
Europa. Ricordo che, in un discorso per i cinquant'anni dell'ultima guerra
mondiale, il Papa ha lodato la Resistenza antifascista, riconoscendo così che
in determinate circostanze la lotta armata, come ha insegnato il mio
confratello Tommaso d'Aquino, è l'estrema risorsa per riconquistare la libertà
e la democrazia.
‑
Se non in Brasile, ci sono altrove situazioni di ingiustizia o di oppressioni
tali da spingere alla lotta di liberazione armata?
«Vediamo in che mondo viviamo. Su sei
miliardi di persone, un miliardo e 200 milioni vivono con un reddito mensile
inferiore a 30 dollari, due miliardi e 800 milioni hanno meno di 60 dollari al
mese. Questo significa che i diritti puramente animali ‑ animali, non
umani ‑ di mangiare, allevare le proprie creature, proteggersi dal freddo
o dal caldo, non sono assicurati alla maggior parte dell'umanità. D'altra
parte, l'apparato militare che ci circonda (con armi capaci di distruggere 36
volte il pianeta) è lì per mantenere questa situazione iniqua. C'è da
meravigliarsi, allora, se scoppiano sollevazioni e guerre di resistenza? La
guerra è sempre un male, ma in circostanze estreme può essere un male
necessario».
‑
Torniamo al Brasile. Nel suo Paese, come è possibile raggiungere maggiore
democrazia e abbattere la dittatura economica di cui parlava prima?
«Nelle
Comunità ecclesiali di base siamo soliti dire che l'avvio già in questa terra
del Regno di Dio possiede cinque strumenti: i movimenti pastorali (la Pastorale operaia, contadina, dell'infanzia e altre
pastorali sociali); i movimenti popolari, e oggi soprattutto quello dei Serri
terra, che guida con originalità la lotta di 15 milioni di contadini privi di
terra (e per questo il Governo lo teme e lo perseguita); i movimenti sindacali;
i partiti politici progressisti; le amministrazioni pubbliche davvero impegnate
a servire la popolazione. Tutti questi movimenti sono necessari per vincere lo
scandalo in cui viviamo. Siamo la decima potenza economica mondiale, ma tanti
brasiliani patiscono la fame. Non siamo più i campioni mondiali del calcio, ma
lo siamo della disuguaglianza sociale: il 20 per cento più ricco dispone del 65
per cento del reddito nazionale, mentre il 20 per cento più povero deve
sopravvivere dividendosi il 2,5 per cento della ricchezza nazionale».
‑
Ha nominato le Comunità ecclesiali di base. Non sono in crisi?
«No. Va ricordato che, durante la
dittatura militare, l'unico modo per i poveri di organizzarsi, senza patire una
repressione diretta, era quello delle Comunità ecclesiali di base, che quindi
apparivano come l'unico attore della contestazione sociale. Ora sulla scena ci
sono molti altri movimenti, ed è un bene. Ma le Comunità ecclesiali di base
continuano e non sono in crisi. Lo scorso luglio hanno tenuto il loro decimo
Incontro nazionale: c'erano 13.000 delegati di base, 82 vescovi, centinaia di
preti e religiosi. È stata una festa della fede, della speranza, dell'amore e
di una grande comunicazione tra le varie realtà. Le Comunità ecclesiali di base
fanno meno notizia perché oggi, più che di organizzare la protesta, si occupano
di formazione dei leader. E questi operano non nelle Comunità, ma nei movimenti
pastorali e sociali di cui dicevo prima».
‑
Che atteggiamento ha la Chiesa nel suo insieme verso questi movimenti?
« La Chiesa è una vera madre per questi
movimenti. E questo vale anche per la gerarchia. Nella nostra Conferenza
episcopale (350 vescovi) continua a prevalere una grande apertura al sociale e
ai più poveri. Iniziative da essa promosse, come la Campagna della fraternità
(in Quaresima) e il "Grido degli esclusi" (7 settembre, festa
nazionale), hanno vasta risonanza nel Paese. In quest'anno giubilare, i nostri
vescovi hanno promosso il "Plebiscito sul debito estero", che ha
superato i sei milioni di firme, e una campagna per la delimitazione delle
proprietà rurali, al fine di impedire il moltiplicarsi dei latifondi».
Renzo Giacomelli
FC n.46 19 novembre 2000