LA
CRISI FINANZIARIA GLOBALE
il confine estremo del capitale
Esistono prove inconfutabili che con
l'entrata in scena della "globalizzazione"è iniziato il processo
finale e sempre piu' accelerato della crisi del
saggio di profitto e del capitale. Prima di entrare nel merito della
questione, dobbiamo constatare che con la globalizzazione l'accumulazione di
capitale sul mercato mondiale ha assunto un significato decisivo per il
destino di ogni singola economia nazionale, indipendentemente dal grado di
sviluppo di ciascuna di esse. L'esperienza comune di tutte le economie
esistenti, e in primo luogo di quelle avanzate, ha dimostrato che l'unico modo
di combattere le conseguenze della crisi crescente del saggio di profitto sul
proprio mercato - e cioè quello nazionale - fino ad un certo punto, consiste
nell'assicurare la crescita del saggio di profitto sul mercato
mondiale. Sino a ieri non era questo il caso. Dopo la rivoluzione
industriale, per oltre due secoli, il mercato nazionale è Stato in qualche
misura in grado di garantire il capitale e quest'ultimo assicurava la crescita
economica. Oggi, invece, anche le economie più avanzate, come quella degli Usa,
del Giappone o dei paesi della Ue, devono confrontarsi con la tendenza
costante al calo di profitti e accumulazione di capitale sui propri mercati.
D'altra parte, la prassi dimostra che, dal momento in cui il mercato mondiale
ha assunto il ruolo dominante e decisivo nella concorrenza, le economie arretrate
per sviluppo e capacita di concorrere sui mercati con i propri prodotti, non
riescono in alcun modo ad arginare il crescente dramma economico e sociale.
Ricordiamo che la crisi generale
di accumulazione di capitale si è manifestata in tutte le economie
nazionali con una serie di fenomeni inediti, quali la crescita assoluta della
disoccupazione, il calo degli investimenti reali e degli standard di vita,
l'aumento della povertà, la crisi generalizzata del debito, il deficit di bilancio e
la crescente insostenibilità da parte dello Stato delle spese per i bisogni
della comunità: sanità, assistenza sociale, pensioni e istruzione. In
definitiva si è giunti, com’é noto, allo smantellamento del Welfare State in
tulle le economie avanzate. Ciò è avvenuto dopo il crollo di quelle che si
chiamavano "economie socialiste". Sicché è lecito concludere che la
"globalizzazione" ha significato una crisi generale dei mercati
nazionali e che la competizione sul mercato globale è diventata decisiva per
futuro di ogni singola economia nazionale.
La "globalizzazione o, per essere più precisi, il ruolo
determinante per il destino di ogni singola economia nazionale del mercato
mondiale - si è verificata, com'è noto, dopo l'applicazione massiccia di
nuove tecnologie e della rivoluzione informatica nelle economie dei paesi più
avanzati del mondo. Con un risparmio impensabile di forza lavoro umana e di
capitale per ogni unità di prodotto, la concorrenza sfrenata è stata spinta
fino all'estremo limite nelle economie dei paesi avanzati. In altri termini,
la globalizzazione, per quanto inaspettata, non è altro che la conseguenza
logica dell'azione dell'economia di mercato. Perciò il pensiero economico
dominante non è in grado di rispondere alla domanda sul futuro dell'economia
nazionale. Tanto meno è in grado di dire dove la globalizzazione porterà il sistema
economico mondiale. Del resto fino a poco tempo fa, il fenomeno della
globalizzazione, non era trattato nei manuali di economia.
Il fatto che il mercato globale abbia
assunto il ruolo di guida decisivo nell'accumulazione del capitale non può
significare altro che la crisi finale di profitto nell'ambito dell'economia
nazionale e dello Stato nazionale, con tutte le conseguenze sociali e
politiche, come la prassi dimostra in ogni dove. Non è superfluo ricordare che
prima della globalizzazione anche per le più potenti economie del mondo, come
quella Usa, i proventi dall'esportazione di merci e servizi sul mercato
mondiale sono stati relativamente poco significativi - di qualche punto
percentuale soltanto - per il reddito nazionale. Oggi, a detta del presidente
Clinton, le nuovi tecnologie - risultato della rivoluzione informatica - hanno
permesso al suo paesi di acquisire un potere concorrenziale di primo piano sul
mercato mondiale per uni serie di prodotti di largo consumo. La crescita delle
esportazioni su questa base, come afferma lo stesso Clinton, "è diventata
la chiave della crescita economica e del benessere degli Usa". Negli Usa,
secondo i dati ufficiali, a partire dal 1995, terzo della crescita
economica e un posto di lavoro su sette sono dovuti alla crescita delle
esportazioni: 1200 miliardi di dollari nel 1997 esclusivamente dalle
esportazioni.
Siamo testimoni del fatto che tutte le
altre economie avanzate tendono a risolvere nello stesso modo la crisi
pluriennale del saggio di profitto sul mercato nazionale, un tasso divenuto
insufficiente ad assicurare una crescita economica reale, che; presuppone non
solo la crescita della produttività, ma anche la crescita dell'occupazione,
degli investimenti e del benessere dei cittadini. Ricordiamo che anche il cosiddetto
"miracolo giapponese si verificò grazie al fatto che questo paese per primo
aveva cominciato ad applicare in modo massiccio le tecnologie avanzate della rivoluzione
informatica che gli avevano consentito di affermarsi nella concorrenza sul
mercato mondiale. Oggi anche questa economia affronta una crisi pluriennale
senza la speranza di ripetere ciò che gli Stati Uniti sono riusciti a fare. Ne
vedremo anche le cause.
Il fallimento delle economie seguite al
crollo del sistema politico dei paesi che si chiamavano socialisti si è
verificato proprio in concomitanza con l'affacciarsi della rivoluzione
informatica e del ruolo decisivo del mercato mondiale per ogni economia
nazionale. Se si considera che oggi la sostanza di ogni riforma, anche in quei
paesi, si riduce allo sforzo di ottenere i prezzi concorrenziali sul mercato
mondiale, sembra non occorrano altri argomenti per provare che il fallimento
delle loro economie è avvenuto a causa del drastico ritardo del potere
concorrenziale delle loro merci sul mercato mondiale, nel momento in cui
questo mercato è divenuto decisivo per la posizione, nonché la sopravvivenza,
di ogni economia nazionale. Il mercato mondiale non ha fatto altro che rendere
palese la loro realtà - quella di una produttività non redditizia, cioè tale da
non assicurare profitto - con tutte le conseguenze che hanno generato una
crisi alla quale non si riesce a trovare soluzione.
La prassi ha dimostrato che prima della
globalizzazione e del ruolo dominante del mercato mondiale era possibile, anche
in regime di concorrenza, uno sviluppo autarchico di quelle economie, e non
soltanto di quelle. È
un'ulteriore prova del fatto che il ruolo dominante del mercato
globale nella concorrenza ha provocato il crollo delle economie di quei paesi.
Se si considera che nelle economie avanzate, con l'applicazione delle
tecnologie labour saving della rivoluzione informatica, l'apporto di
forza-lavoro umana alla produzione di un'automobile si è ridotto di dieci volte
nella somma produttiva finale, sicché con il lavoro di un operaio viene
prodotta un'automobile al giorno, e che, per produrre un televisore, l'apporto
di forza-lavoro umana è ridotta di sei volte, ecc. si può intuire quali enormi
cambiamenti si siano verificati nella concorrenza con l'applicazione delle
tecnologie della nuova rivoluzione industriale. Come si vede, tutto in ultima
istanza si riduce al prezzo di concorrenza delle merci. Vediamo come vanno le
cose.
Nella teoria e nella prassi dell'economia
di mercato, già da tempo, sulla base dell'esperienza, si erano accorti che
l'applicazione delle innovazioni tecnologiche porta al risparmio di
forza-lavoro e di capitale (del lavoro morto, come lo aveva chiamato
Marx) per unità di prodotto (automobile, televisore, tonnellata di grano, cioè
qualsiasi quantità determinata di merce) e che, al tempo stesso, si ottiene un
prezzo concorrenziale delle merci e, di conseguenza, si ottengono tutti gli
altri vantaggi che il potere concorrenziale porta all'economia nazionale sul
piano macroeconomico. E noto anche che imboccando questa strada si riesce a
contrastare la caduta del saggio di profitto. Anche se sono noti fino al
dettaglio e misurabili con estrema precisione tutti gli effetti delle
innovazioni, paradossalmente la teoria economica non ha la benché minima idea
di cosa determini le leggi che si celano nell'applicazione di queste
innovazioni. Si ritiene che il risparmio ottenuto corrisponda ad una legge elargita
dalla provvidenza divina, la quale garantirebbe l'eterna accumulazione del
capitale. Visto che con le tecnologie labour saving si investe sempre
meno e si ottiene sempre più denaro, si è arrivati a coniare il seguente
slogan: investi dimeno per guadagnare di più!
La dottrina appena esposta non si rende
conto, però, che l'applicazione delle innovazioni tecnologiche, col risparmio
di lavoro vivo e di lavoro già svolto prima (capitale), porta inesorabilmente
all'eccedenza di "forza-lavoro" gratuita della tecnologia e che
proprio quel lavoro che la tecnologia svolge gratuitamente rende possibile la
riduzione del prezzo di una determinata merce e, in séguito, tutti gli a
vantaggi che un tale prezzo, concorrenziale al massimo, porta al proprietario
del c pitale e all'economia nazionale, Si può concludere che tutto il mistero
nell'ottenere il prezzo concorrenziale (e su questo, com'è noto, è il dissenso
nella scienza economica, a partire da Smith, e in particolare da Marx, che fa
dipendere il valore delle merci esclusivamente dalla forza-lavoro
umana) si cela nella scoperta che col risparmio di lavoro umano vivo e col
risparmio di capitale si ottiene per ogni unità ~ prodotto il risparmio del costo
in denaro, il quale risparmio copre le spese dell'innovazione tecnologica
nonché dell'ammortamento, mentre al tempo stesso, con le nuove
tecnologie, si ottiene una quantità eguale o ancora maggiore di forza-lavoro
per un prezzo inferiore.
La medesima o anche maggiore quantità
di forza-lavoro per un costo inferiore - per minor denaro - non significa altro
che ottenere un 'eccedenza di forza lavoro non pagata. E stata pagata la
tecnologia, ma non la sua "forza-lavoro". Quest'ultima non ha
prezzo, essa è gratuita, ma continua a svolgere la stessa funzione produttiva
che prima aveva svolto la forza-lavoro umana con le vecchie tecnologie. Se così
non fosse, il risparmio di forza-lavoro umana e di capitale non avrebbe alcun
senso. Nessuna dottrina economica ha finora spiegato la formazione del prezzo
delle merci basandosi sulla "forza-lavoro" della tecnologia. A dire
il vero, la dottrina dell'utilità marginale, di cui si serve l'economia di
mercato, misura con molta precisione qual è il contributo del lavoro umano e
quale quello della tecnologia (capitale) nella formazione del saggio di
profitto. Però, senza una chiara cognizione di come qui entri in gioco la
"forza-lavoro" della tecnologia, rimane del tutto oscura la spiegazione
delle leggi che governano l'economia e la realtà che viviamo. Aggiungiamo che nell'econometria
della produttività marginale abbiamo ancora una conferma dell'esattezza di ciò
che stiamo spiegando.
Non è il caso di entrare qui in una
spiegazione più particolareggiata di questa scoperta cruciale, ma per l'analisi
in corso rimane essenziale dimostrare che cosa determini il rapporto di scambio
delle merci e delle valute. Posto che ciascuna unità di
"forza-lavoro" della tecnologia costituisce il prodotto, e con il
prodotto il denaro come espressione del valore intrinseco del prodotto,
la stessa regola vale per ogni unità di forza-lavoro umana. Se ne deve dedurre
che per mezzo del denaro le due differenti forme di lavoro - delle quali quella
umana ha valore di scambio e quella tecnologica ha valore d'uso si scambiano rispettando il principio delle
quantità eguali, con il correttivo della domanda, la quale regolarmente, in una
o in altra direzione, porta alla deroga del detto principio. Si scambia lavoro
umano, che ha valore di merce, con lavoro della tecnologia, che non ha quel
valore, che è gratuita.
Cosi veniamo a conoscere ciò che è già
confermato dalla prassi: attraverso le cosiddette valute forti, che
hanno l'assoluta supremazia del potere concorrenziale basato sul lavoro
gratuito delle tecnologie, confluiscono nelle economie avanzate i capitali di
tutte le altre economie, soprattutto di quelle non sviluppate, cioè quelle
fondate su una partecipazione maggiore di forza4avoro umana per unità di
prodotto (materie prime, prodotti agricoli, o provenienti da paesi con
tecnologie obsolete che impiegano una quantità maggiore di forza-lavoro umana
per unità di prodotto).
E non è tutto. Mentre la
"forza-lavoro" gratuita della tecnologia nel proprio paese comporta
l'aumento della produttività, la crescita degli investimenti e l'aumento di
valore del denaro nello scambio internazionale delle merci - con la parità del
valore espressa in denaro -, la stessa "forza-lavoro" gratuita della
tecnologia comporta regolarmente la diminuzione di valore del denaro in tutte
le economie che impiegano una quantità maggiore di forza-lavoro umana per unità
di prodotto. Da qui deriva l'inflazione cronica mai domata delle economie in
via di sviluppo. Il crollo del sistema monetario in Messico, nei paesi del
sudest asiatico, in Brasile, in Russia, ecc. non è altro che il risultato
diretto di questa ferrea legge. Di qui politiche monetarie sempre più
restrittive con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
D'altra parte, il saggio d'inflazione
eccezionalmente basso nelle economie avanzate non è altro che il risultato del
ruolo dominante che ha la "forza-lavoro" gratuita della tecnologia
nella formazione del prezzo del prodotto finale. Questo è diventato ancora più
esplicito dopo l'applicazione massiccia delle tecnologie informatiche. La
"forza-lavoro" gratuita, a differenza della forza-lavoro umana, in
nessun caso può portare all'aumento dei prezzi. Essa può portare soltanto alla
diminuzione dei prezzi, come abbiamo già sottolineato.
Però, nella realtà di una sempre più
ampia globalizzazione dei mercati, nonché del sistema monetario basato sulle
regole vigenti e dettate dal Fmi, si ripercuotono inevitabilmente le scosse
inflazionistiche che subiscono le economie in via di sviluppo - mentre è
sempre più forte la presenza sul luogo di capitali provenienti da paesi
sviluppati - producendo effetti boomerang anche sui sistemi monetari
delle economie avanzate. Con l'integrazione sempre maggiore del mercato
mondiale e del sistema monetario, le leggi economiche non conoscono più i
limiti delle economie nazionali.
Visto che il destino del saggio di
profitto sul mercato mondiale non può differenziarsi da quello che ha già
avuto sul mercato nazionale, occorre porre seriamente la questione di dove
tutto ciò possa portare l'economia nazionale e l'ordine economico mondiale e
sociale. Non c'è bisogno di conoscere a menadito la scienza economica per
capire che il risparmio di forza-lavoro umana e di capitale non sia, né possa
essere, un processo infinito, persino nel caso in cui fosse possibile produrre
tutte le merci senza impiego di forza-lavoro umana. La prassi ha già
fornito conferma di questo semplice fatto.
L'apparizione del nuovo fenomeno della
cosiddetta "stagflazione", cioè della stagnazione della crescita
della produzione e dell'occupazione accompagnata nello stesso tempo dalla
crescita di una nuova forma di inflazione dei prezzi (cost push), fenomeni
sconosciuti in passato, rappresenta una conferma ulteriore e decisiva della crisi
finale del saggio di profitto e del capitale. La prassi di tutti i paesi
avanzati ha fornito prove inconfutabili che ogni crescita di produzione e di
occupazione in queste condizioni porta all'inflazione e che ogni manovra
contro questa nuova forma di inflazione, attuata attraverso politiche monetarie
e fiscali, porta senza scampo alla diminuzione della produttività e
dell'occupazione, sicché "la medicina è peggiore della malattia
stessa", come aveva constatato il premio Nobel Paul Samuelson. Il fatto
che la stagflazione sia apparsa proprio quando non esisteva più alcuna possibilità
di acquisire il potere concorrenziale e di contrastare la caduta del saggio di
profitto applicando le tecnologie labour saving apparse con
la seconda rivoluzione industriale, è la prova che la fine del risparmio di
lavoro umano e di capitale doveva per forza approdare alla crisi finale del
saggio di profitto.
Molti economisti di prestigio, anche se
non sapevano spiegare la stagflazione, hanno interpretato cosi la sua
apparizione. La stagflazione è l'ultimo atto della tendenza storica alla
riduzione del saggio di profitto. L'applicazione di nuove tecnologie di
risparmio della rivoluzione informatica non ha fatto altro che confermare
questa realtà, e si è spinta sino al proprio termine, con tutte le conseguenze
nefaste che questo termine comporta per il destino del saggio di profitto del
capitale, con l'aumento delle crisi finanziarie e del possibile caos
inflazionistico.
Incapace di spiegare la causa della
stagflazione e nel tentativo di contenere l'aumento incontrollato
dell'inflazione e salvaguardare ad ogni costo il valore della moneta e
l'attuale modo di produzione, il pensiero economico dominante, come pure la
prassi, non aveva altra scelta che affidare, nelle politiche economiche
generali, il ruolo guida alla sfera monetaria invece che alla sfera produttiva.
In tal modo, la salvaguardia del valore del denaro, anche a costo di una
diminuzione del benessere e dei consumi pubblici, dell'aumento della povertà e
della disoccupazione, con l'aggiunta di altri fattori di recessione, è
diventato il senso, o per meglio dire il non senso, delle
politiche economiche di tutti i paesi del mondo.
Nelle condizioni della crisi finale del
saggio di profitto, il ruolo dominante della sfera monetaria
non poteva alla fine portare a nient'altro che alla crisi
finanziaria globale. Questa crisi non è che l'atto finale
e logico del capitale. Solo dei cambiamenti immediati nella politica globale
dei prezzi e nella politica monetaria potrebbero impedire le ineluttabili e
fatali conseguenze della fine del saggio di profitto e del capitale. Il ruolo
dominante della produzione di beni necessari alla so-pravvivenza, infine, è
stato assunto dalla '~forza-lavoro" della tecnologia, imponendo al
prodotto la propria forma di valore dominante.
Cosi diviene chiaro perché la
“forza-lavoro" della tecnologia, risparmiando la forza-lavoro umana fino
all'estre-mo limite, abbia dovuto ineluttabilmente provocare la fine del
saggio di profitto, ma nello stesso tempo la crescita globale, una crescita in
termini assoluti, della disoccupazione. E un pericoloso errore propagare la
convinzione che la su citata esperienza degli Usa rappresenti un esempio che
tutti possano imitare per trovare una soluzione. Proprio analizzando questa
economia è possibile vedere chiaro cosa succede realmente. Nello scontro finale
per i profitti sul mercato globale, proprio l'economia nordamericana, con la
concorrenzialità irraggiungibile di gran parte dei suoi prodotti e dei suoi
servizi, non fa altro che accelerare la recessione generale.
Questo fatto viene confermato dalle
economie più avanzate, come quella giapponese o dei paesi dell'Unione europea,
per non tornare all'agonia crescente delle altre economie. Finita la gara
concorrenziale nelle economie avanzate, questa naturalmente diviene
irripetibile in altre economie, visto che un tale fatto rinnegherebbe
l'esistenza stessa della concorrenzialità. Il trasferimento in massa di
capitali non produttivi (o inoperanti, per esattezza) dalle economie
avanzate nelle quali il risparmio di
lavoro umano e di capitale è terminato - verso paesi con forza-lavoro a buon
prezzo, per ottenere profitti sfruttando il lavoro degli altri, non è che la
con-ferma di quanto sopra detto.
Nella crisi finale del saggio di
profitto è ben comprensibile che in tutte le economie si siano trovati sotto
tiro in primo luogo i capitali di proprietà statale, poiché meno efficienti; ma
la sostanza del problema, com'è evidente, non è nella proprietà. La
proprietà privata non ha mai salvato nessun capitale non concorrenziale. Il
falli-mento totale dei capitali di Stato intervenuto qualche anno fa e il
crollo delle economie non concorrenziali rappresenta la prova inconfutabile
che si è giunti al termine del saggio di profitto.
La crisi terminale del capitale
dell'economia nazionale, nonché dello Stato nazionale, non ha potuto non
provocare una crisi generale dell'attuale sistema di rapporti sociali e
politici. L'aumento sempre più massiccio di poveri e il numero sempre più
ristretto di ricchi, sia a livello mondiale che nazionale, non è che una delle
conseguenze inevitabili della crisi finale del saggio di profitto e del
capitale.
L'incapacità di trovare una via
d'uscita alla crisi economica ha reso possibile la comparsa di un pensiero
politico irrazionalistico, ha rievocato mitologie del passato, miti
appartenenti ad una coscienza politica obsoleta, antecedente alla rivoluzione
industriale e alla società civile. Per spiegare la crisi della propria economia
nazionale si cercano responsabilità nelle politiche altrui, si accusano altri
Stati e nazioni, si riesumano ideologie e politiche del passato. Ciò ha
provocato la crescita del nazionalismo e dello sciovinismo, della xenofobia e
dell'intolleranza razziale e religiosa, fino a provocare guerre e genocidi. Il
fondamentalismo religioso, il terrorismo, la criminalità, nonché la corruzione
in aumento costante, ma anche la crisi sempre più profonda di valori e
moralità, hanno le stesse radici.
La tendenza dei paesi economicamente
avanzati, che riescono ancora a controllare le proprie economie, ad imporre i
propri interessi e i propri modelli politici, in un modo o nell'altro, con
maniere forti e senza disdegnare il ricorso alle armi, allo scopo di
assicurarsi la continuità di un ordine economico e sociale giunto oramai alla
fine, non fa che accrescere la crisi globale sul piano sociale e politico. E
genera un caos ancora maggiore.
La scomparsa del profitto ottenebra
ogni orizzonte. Non si capisce se si trovano in maggiore ansia o incertezza per
il proprio domani coloro che già godono i frutti del benessere materiale o
coloro sui quali si affaccia lo spettro della morte per fame. Sostenere che la
globalizzazione sia la panacea che offrirà a tutti pari opportunità sulla
strada dell'aumento del benessere è non solo privo di senso, ma porta
di-rettamente all'inferno e questo sia per i ricchi che per i poveri, che alle
porte dell'inferno si trovano già.
Sulla base del capitale e del profitto
si sono costituite le classi sociali, gli Stati, le ideologie,
i partiti e i movimenti politici. Per il profitto si sono fatte spartizioni
e redistribuzioni del globo, si sono armati eserciti sempre più potenti e
costruite armi sempre più micidiali per conquistare altri paesi. Per il
profitto l'uomo è diventato lupo per l'altro uomo. Oggi tutto questo è
condannato ad essere archiviato nella storia, insieme con il profitto. Il
profitto era la strada per giungere alla società che abbiamo chiamato civiltà
moderna. La fine del profitto, del capitale e della società civile non significa
necessariamente fine del mondo. Anche se può sembrare un paradosso, è
solo con la fine del capitale che si aprono possibilità insperate di benessere
generale, tanto materiale che spirituale, per tutti gli uomini del globo.
I limiti
della crescita del profitto sono stati sempre anche i limiti possibili dei beni
necessari alla sopravvivenza. E finché il prodotto veniva creato entro i limiti
consentiti dal profitto, la società umana non poteva uscire dalla povertà,
dagli interessi contrapposti, dalle spartizioni e dalla disuguaglianza. Oggi questo
diviene più chiaro che mai. Visto che si sa perché ciò avviene, dovrebbe essere
altrettanto chiaro che con nessuna forza al mondo, e nemmeno con la forza
delle armi e della guerra, sarà possibile mantenere a lungo andare l'ordine
mondiale esistente fondato sul dominio del capitale.
Con la liberazione del lavoro umano
quale merce determinante i rapporti sociali, la società umana ha creato le
condizioni - basandosi sul ruolo dominante e sulla quantità infinita di lavoro
svolta dalla tecnologia, che ha caratteristiche intrinseche identiche a quelle
della natura creatrice e mai ferma - di identificare nuovamente la propria
produzione con quella delle leggi naturali. Il pensiero filosofico, come pure
quello religioso, ognuno a suo modo, hanno già anticipato da tempo questa
chiusura del cerchio.
Soltanto sulla crescita sempre più
equilibrata dei rapporti di riproduzione, con l'interscambio di lavoro e
materie tra uomo e natura, sarà possibile creare un nuovo sistema mondiale
unico e univoco di produzione e di rapporti sociali. L'uomo di oggi, con lo
sviluppo della scienza e della tecnologia, ha creato le condizioni necessarie
per restituire il debito alla natura, portata al limite del collasso dalla
corsa ai profitti del capitale; e questo è avvenuto proprio quando si è giunti
al limite del collasso del capitale stesso.
L'umanità è in grado non solo di
restituire il debito alla natura, ma di farla diventare più bella e più
rigogliosa di quello che essa di per sé avrebbe potuto diventare. Non c'è
alcun dubbio che si tratta di una sfida senza precedenti nella storia della
società umana; essa è paragonabile soltanto all'atto della creazione. In questo
è anche il senso dell'esistenza dell'uomo sulla terra, l'unico essere dotato di
COscienza. Non occorre sottolineare che solo da un'azione cosciente e
soggettiva di tutta quanta l'umanità e soprattutto dei paesi avanzati - che
hanno un ruolo di primissimo piano nel disporre del capitale mondiale - dipende
se l'umanità si dirigerà verso una società ditale tipo, o se, in caso
contrario, le forze elementari dello squilibrio, nonché l'incapacità di porre
fine al caos, la porterà ad un'apocalissi generale, simile a quella che sta
vivendo il mio paese.
Aggiungiamo infine che, non a caso,
l'esperienza jugoslava dimostra a chiare lettere a che cosa potrebbe approdare
l'intera umanità con la fine del capitale. Quale unico paese al mondo in cui
coesistevano più economie nazionali, ognuna delle quali disponeva a proprio
piacimento dei propri capitali in un sistema monetario unico, un paese con
diversità culturali, religiose, di costumi e tradizioni - in altre parole un
paese che era il mondo in miniatura, un microcosmo sui generis - questo
paese, con la sua tragica esperienza, sta mostrando all'intera comunità umana
dove la fine del capitale potrebbe portare il mondo.
Naturalmente, nel caso non si capisca
in tempo cosa sta succedendo e dove è possibile cercare l'unica soluzione
esistente.
LA CONTRADDIZIONE no.77 mag-giu.2000