"SIAMO
IL POPOLO DELLE CONTROPROPOSTE".
L’INTERVENTO DI UMBERTO GUIDOTTI ALLA MARCIA PER LA GIUSTIZIA DI
QUARRATA
Vorrei dire con Gesù: ho pena di questo popolo che dalle sei ha camminato ed
ora è qui al freddo, dopo essere stato al sole; è stanco, ha sonno ed ora deve
ancora sopportare un altro discorso.
Anch’io sono stato a Porto Allegre e vi
parlerò della mia esperienza.
Vorrei prima di tutto fare un riassunto delle idee emerse sul tema "Un altro mondo è
possibile" e poi aggiungere alcune mie riflessioni per poter andar
via di qui con qualche indicazione chiara, con un po’ di entusiasmo, con
qualche preoccupazione e anche con qualche compito da fare.
Alcune idee fondamentali.
Non siamo contro la globalizzazione, non vogliamo essere identificati come i contras o i no-global. Noi siamo per un’altra globalizzazione o per una
globalizzazione altra. Non siamo più soltanto il popolo di Seattle, siamo il
popolo di Porto Alegre. Perché non siamo portatori di contestazione, siamo
portatori di proposte.
Porto Alegre ha dimostrato che siamo arrivati già alla terza fase della
contestazione neoliberista: quella delle controproposte. È finito il consenso
di Washington. È iniziato il dissenso di Porto Alegre, anzi il consenso di
Porto Alegre. La prima fase è stata quella della comprensione del fenomeno, poi
la fase della contestazione, ora quella delle proposte.
Nella fase della comprensione ci siamo domandati: stiamo vivendo un’epoca di
cambiamenti o il cambiamento di un’epoca? Aggiornando le affermazioni di Marx
sull’ultima tesi di Feuerbach si è detto: i non filosofi, i tecnici, i
politici, gli economisti si sono fino ad oggi occupati di trasformare il mondo;
è arrivato il momento di comprendere il mondo… ora globalizzato. Un contributo
fondamentale a questa comprensione l’hanno dato gli economisti del gruppo di
Lisbona (rappresentati qui dal prof. Riccardo Petrella), e l’equipe del
giornale "Le monde diplomatique" (Bernard Cassen e Ignacio Ramonet).
La fase della contestazione ha già scritto pagine gloriose e battaglie
storiche: Seattle (29/11/99), Washington (16/4/2000), Praga (26/9/2000), Nizza
(6-7/12/2000), Bangkok (12-19/2/2000), Ginevra (22-25/6/2000), Porto Alegre
(27-30/1/2001), Goteborg (15/6/2001), Genova (20/7/2001). A questo punto, però,
assieme a Gianni Minà, vorrei rivendicare che l’inizio e la paternità della
contestazione spetta non al popolo di Seattle ma agli indios del Chiapas e al
sub-comandante Marcos, quando, nel gennaio del 1994, in occasione della firma
del trattato Nafta, ha lanciato la contestazione al neoliberismo. La
contestazione ha girato attorno a quattro punti: la terra e l’ambiente sono in
crisi profonda; il modello di sviluppo e il modello economico sono in crisi; la
democrazia rappresentativa è in crisi; le condizioni sociali dei poveri e di
tre quarti dell’umanità sono in crisi.
E la grande stampa non può continuare a tacere su questo: Alberto Ronchei, che
continua a scrivere sul suo "Corriere della Sera". "Quelle
proteste senza proposte", fa parte di quella schiera di giornalisti che sa
scrivere ma che deve ancora imparare a leggere.
Porto Alegre ha detto: "Un altro mondo è possibile". Ed è possibile
perché, se è vero che oggi ci sono nuovi problemi, è anche vero che ci sono
nuovi attori e si presentano nuove soluzioni.
Ci sono nuovi problemi e li conosciamo; ci sono nuovi attori e li conosciamo,
ci conosciamo: anche noi qui siamo questi nuovi attori. I nuovi attori formano
un collegamento eterogeneo, multi-religioso, multi-ideologico, multi-partitico.
E che cosa vogliono, che cosa vogliamo?
L’obiettivo prima di tutto non è più la lotta di classe. L’obiettivo è salvare
la vita del pianeta, salvare la vita dei poveri. L’obiettivo non è più la lotta
di classe: l’obiettivo è dire al mondo "i consumi dei ricchi uccideranno
la terra e uccideranno i poveri". Questa è la nuova questione sociale: la
nuova questione sociale non è più la lotta di classe, ma è la difesa della vita
della terra e la difesa della vita dei poveri della terra.
Che cosa vogliamo, che cosa vuole questa galassia multicolore? Vuole
partecipazione, vuole democrazia partecipativa, come è stato ricordato.
Qualcuno in passato ha detto che la guerra è una cosa troppo seria per
lasciarla fare ai generali. Analogamente: la crisi della terra, la crisi della
nostra società è una cosa troppo seria per lasciarla nelle mani
dell’Organizzazione mondiale del commercio, del Fondo monetario internazionale,
della Banca mondiale o del G8.
Questo collegamento vuole provare una mobilitazione mondiale davanti
all’internazionale del capitalismo e vuol costruire una internazionale dei
cittadini, una internazionale della umanità, per risolvere i problemi globali
che nessun popolo, nessuna nazione, nessun governo può oggi risolvere da solo.
Durante i cinque giorni del Forum sociale mondiale di Porto Alegre sono state
fatte al mattino 80 conferenze per opporsi al pensiero unico neoliberista.
Grandi pensatori (Petrella, Frei Betto, Galeano, Matellar, Marcuse, Fillio)
hanno proposto idee alternative. E al pomeriggio 400 laboratori per portare e presentare
soluzioni su tutti i grandi problemi del mondo: su energia, acqua, bambini,
giustizia, trasporti, alimenti, agricoltura, problemi urbani, scuola, indios.
Importante è ripetere che il popolo di Porto Alegre è cosciente che queste
nuove proposte, queste nuove soluzioni passano ancora attraverso la
contestazione delle attuali soluzioni neoliberiste e di mercato, che sono
presentate come le uniche possibili e come le soluzioni migliori.
Bisogna continuare questa contestazione e
dire: le vostre soluzioni non sono le uniche e non sono le migliori. Questo non
vuol dire che non bisogna riconoscere che il sistema capitalista non ha saputo
produrre cose buone: ha lanciato sul mercato tanti prodotti utili, ha prodotto
democrazia, ha prodotto libertà, ha prodotto diritti umani; ha vinto.
Ha vinto ma non ha convinto. E non ha
convinto perché non possiamo dimenticare che in fin dei conti questo sistema è
un sistema che sa produrre, ma non sa distribuire. Sa produrre cose e beni, ma
non sa distribuire né beni, né democrazia, né libertà, né diritti umani per
tutti. In questo mondo della globalizzazione neoliberista non c’è posto per
tutti, le sue proposte, le sue soluzioni non sono globali, sono parziali,
perché sono buone solo per alcuni; in questo sistema c’è posto solo per un
miliardo e duecento milioni di persone: il mercato funziona soltanto per loro.
Questo sistema sa migliorare la qualità
dei prodotti, ma non sa migliorare la qualità della vita delle persone. Questo
sistema si sta rivelando nemico dei poveri e nemico della terra. Questo sistema
si interessa di denaro, di prodotti, ma si interessa meno della persona umana:
nel mondo d’oggi sono più liberi i soldi delle persone, più le automobili che i
cittadini. Questo sistema vuol formare dei consumatori e non dei cittadini; ha
bisogno di persone insoddisfatte nelle quali possa nascere il bisogno di nuovi
prodotti.
Questo sistema vuole una società aggregata
sugli interessi e non sui valori. Quando in questo sistema voi parlate di
valori loro intendono quelli della "borsa". È un sistema che dice: un
albero in piedi non vale nulla, un albero in terra vale soldi. A chi dice così
ha già risposto un indio nord-americano quando ha detto: "Quando l’uomo
bianco avrà venduto e distrutto tutta la terra, le piante, gli animali e le
acque si accorgerà che non si possono mangiare i soldi". Gli ultimi dieci
anni di storia ci hanno mostrato chiaramente come funziona questo sistema:
abbiamo visto per esempio che, affinché questa mano invisibile del mercato
funzioni, è necessario che funzioni anche la mano di ferro della Nato; affinché
la Mc Donald’s funzioni è necessario che funzioni anche la Mc Douglas che
produce gli F15.
Abbiamo visto infine che in pratica è un sistema, come ha ricordato Arturo
Paoli, che lavora per esportare in tutto il mondo il modello culturale
nord-americano, l’egemonia culturale nord-americana. Il mondo corre il rischio
di essere tutto nord-americanizzato. E avremo così la coca cola alla Mc
Donald’s, ma avremo anche la Mc Sanità, la Mc Educazione, la Mc Religione, la
Mc Cultura. A Porto Alegre un sindacalista nord-americano ha detto: "Il
modo nord-americano di vivere è un prodotto tossico, dovrebbe esserne proibita
l’esportazione".
Le soluzioni proposte da questo sistema non sono le uniche e non sono neanche
le migliori. Altre soluzioni sono possibili, un altro mondo è possibile. Ma la
costruzione di queste soluzioni alternative richiede idee chiare sui fini e sui
mezzi; richiede un prezzo da pagare, non cade dal cielo e richiede la
partecipazione di molti, molti di più di quanti noi siamo qui, molti di più di
quanti sono stati a Porto Alegre e a Genova.
Che fare, direbbe Lenin, di nuovo che fare?
Prima di tutto reagire al tentativo di
criminalizzare il nostro movimento e ribadire il nostro diritto di protestare e
di contestare. Noi abbiamo il diritto di scendere in piazza. I politici fanno
politica nei loro gabinetti e nel Parlamento, il popolo fa politica nella
piazza e nella strada. La piazza è del popolo da sempre: dall’Agorà greca a
Menenio Agrippa, alla rivoluzione francese. Quello che dobbiamo fare con
urgenza è spiegare alla gente, visto che la grande stampa non lo fa, che esiste
una distinzione tra la violenza, che deve essere respinta, e l’illegalità;
illegalità che deve essere accolta e accettata tutte le volte che i mezzi
legali non siano disponibili o siano insufficienti.
Tutti noi lo sappiamo: il capitalismo globale, mentre da un lato smonta e
modifica le leggi dell’economia, del commercio e del lavoro, dall’altra impone
una nuova legalità che, per esempio, fa diventare illegale l’entrata dei
lavoratori. Qualcuno, e Gianni Minà l’ha già fatto, un giorno dovrà parlare
della vergogna del muro che c’è tra il Messico e gli Stati Uniti. Il grande
muro della vergogna di oggi, questa nuova "legalità" del mondo
neoliberista fa diventare illegali i diritti dei lavoratori (l’art. 18 sui
licenziamenti), fa diventare illegale proteggere l’ambiente (gli Stati Uniti si
rifiutano di firmare l’accordo di Kyoto, gli Stati Uniti non hanno firmato
quasi nessun trattato internazionale: né il trattato dell’Organizzazione
internazionale del lavoro, né quello per la creazione del Tribunale penale
internazionale, se ne fregano della legalità internazionale e delle Nazioni
Unite). È bene ricordare ai signori del mondo che tutti i grandi movimenti
democratici sono cominciati con azioni illegali: manifestazioni, scioperi non
autorizzati e disobbedienza civile.
Gandhi diceva: in India 300 milioni di indiani sono dominati da 300 mila
inglesi. Ma questo non sarebbe possibile senza la complicità e il consenso dei
300 milioni di indiani. Partendo da questa analisi Gandhi considerò che il
problema centrale per poter liberare l’India era restituire ai 300 milioni di
indiani la coscienza dei loro diritti e la fiducia nelle loro possibilità. Oggi
è lo stesso: 500 multinazionali dominano 5 miliardi di persone con il consenso
muto di queste ultime.
Perché questa situazione? Questo è il nostro compito: lavorare per suscitare
nel popolo il protagonismo intellettuale, morale e religioso, che è la
condizione e la fonte del protagonismo politico ed economico e non il
contrario. La battaglia decisiva sarà combattuta non con mezzi militari e
neanche, come si pensa, nel campo economico, ma sarà combattuta sul terreno
delle idee, dei valori e dell’etica.
Questo ha delle conseguenze per noi in tutto il mondo, anche in Italia. È di
fondamentale importanza in Italia risolvere i tre problemi cruciali: il
problema del conflitto di interessi, il problema del controllo sociale sui
mezzi di comunicazione e quello della riforma della scuola (Berlusconi ha detto
che il suo modello di scuola è quello delle tre I: impresa, inglese, internet).
Se questo modello di scuola si impianta, se continuerà il dominio di Berlusconi
sui media, gli italiani continueranno ad essere sempre più consumisti e sempre
più egoisti, e nessun cambiamento sarà più possibile.
Diciamocelo chiaramente, difficilmente la maggioranza del popolo italiano
voterebbe oggi un uomo politico che avesse il coraggio di dire: non prometto
nulla in più di ciò che abbiamo, perché nel mio programma politico è
prioritaria una logica più equa di redistribuzione delle risorse, e questo vuol
dire togliere ai ricchi per dare ai poveri. Meno che mai si voterebbe un
politico che promettesse non meno tasse, ma più tasse per arrivare ad investire
nei Paesi poveri quello 0,7% del prodotto interno lordo che tutti i Paesi
ricchi, compresa l’Italia, hanno promesso e che non hanno mai dato; l’Italia dà
solo lo 0,2%. L’ultima campagna elettorale, con la vittoria di Berlusconi, ci
ha dimostrato che gli italiani non sarebbero disposti a pagare sulla propria
pelle il prezzo della soluzione dei problemi del mondo.
Un’ultima considerazione la vorrei fare partendo da una affermazione
dell’economista Klugman. Analizzando la vittoria del capitalismo sul socialismo
sovietico, Klugman ha detto che il problema fondamentale non è stato quello
tecnico, ma quello morale: il comunismo è fallito come sistema perché il popolo
aveva smesso di credere nel sistema. La differenza fondamentale col sistema di
mercato, e la sua superiorità consisterebbe nel fatto che il sistema di mercato
funziona, che il popolo ci creda oppure no. Anzi - dice Klugman - il
capitalismo può funzionare, e se volete può perfino fiorire, in una società di
cinici e di egoisti. Ma una economia non di mercato no. Una economia solidale
non può fiorire in una società di cinici e di egoisti. Il capitalismo funziona
perché non ha bisogno di stare attento né alle persone né ai valori umani,
basta osservare le regole di mercato; il mercato è qualcosa di naturale e anche
attraverso il cinismo, l’indifferenza, l’ingiustizia, funziona sempre; il
modello sociale invece no: ha bisogno delle persone, ha bisogno dell’etica, ha
bisogno di valori, ha bisogno delle virtù umane della solidarietà e della
condivisione.
Qui c’è posto, ci sarebbe posto e ci deve essere posto e c’è tutto lo spazio
per l’azione delle chiese, per l’azione della Chiesa: attenta, inedita, esperta
in cultura e in valori. Ma qui allora bisognerebbe perdere un’altra ora per
parlare non di un altro mondo, ma per parlare di un’altra Chiesa, come ha detto
fratel Arturo (Paoli). C’è bisogno di un’altra Chiesa, c’è bisogno di un altro
Vaticano, c’è bisogno di un altro papa. C’è bisogno di un’altra Chiesa che nomini
diversamente i vescovi e che nomini vescovi diversi da quelli che sono nominati
in America Latina. C’è bisogno di una Chiesa che non perseguiti i teologi, che
non perseguiti la Teologia della liberazione, c’è bisogno di una Chiesa che non
rinunci all’opzione per i poveri, ma rinunci al potere. Ma tutto questo ci
porterebbe lontano.
Andiamo via di qui perlomeno con un
compito: preghiamo e lavoriamo perché diminuisca la Chiesa oggi maggioritaria
in Italia, che gira intorno al trinomio Vita – Famiglia – Scuola, che è anche
la Chiesa che va bene a Berlusconi, che va a braccetto con Berlusconi. E
preghiamo perché cresca sempre di più la Chiesa che gira intorno al quadrinomio
Pace – Giustizia – Ecologia – Solidarietà, che è la Chiesa che va a Genova, è
la Chiesa che sta qui e che non piace a Berlusconi e al suo mondo.
Ho finito, ho finito: andiamo a casa.
UMBERTO GUIDOTTI
ADISTA – ottobre 2001