Informazione e potere di manipolazione
Allarghiamo gli spazi di libertà
Pochi giganti dell’informatica e delle telecomunicazioni si
contendono il dominio nel settore dei media. E mirano alla creazione di un
mercato mondiale, retto dalle logiche del capitalismo. Come opporsi a questa
nuova tirannia?
di
Piero PISARRA (giornalista e docente alla Catho di Parigi)
C'è uno slogan che fa arrabbiare lo studioso francese Paul
Virilio. È la pubblicità di una marca di telefoni cellulari: «La terra non è
mai stata così piccola». Filosofo e urbanista, autore di numerosi saggi sui
nuovi scenari della comunicazione, Virilio suona il campanello d'allarme:
"II fenomeno dell'immediatezza, dell'instantaneità è uno dei problemi più
importanti del nostro tempo. È un fatto gravissimo, una rivoluzione che sta
cambiando la nostra visione del mondo". Etichettato come catastrofista o
come “apocalittico", Virilio denuncia nei suoi libri i pericoli della
"bomba informatica” per la democrazia e la convivenza civile. "La
bomba dell'informazione sarà più potente della bomba atomica", diceva
Einstein. E Virilio ritiene che si debba prendere sul serio quella profezia. Se
la terra è davvero più piccola, se per effetto delle nuove tecnologie le
distanze si sono accorciate, se gli stessi messaggi circolano da un continente
all'altro condizionando valori, comportamenti, modelli culturali, allora - dice
Virilio - siamo all'alba di un mutamento di cui ancora non cogliamo la portata
e i rischi o il pericolo di un nuovo tipo di tirannia. I termini
"globalizzazione" e "mondializzazione", secondo il
filosofo, sono miraggi, specchietti per le allodole, perché il vero cambiamento
riguarda la nostra concezione del tempo: "Tutto si svolge ormai nella
prospettiva del tempo reale, un tempo unico, il tempo mondiale”. Se la storia è
così ricca, è perché è locale, legata a uno spazio e a un tempo precisi; ora,
invece, siamo in una fase in cui domina l'ideologia dell'istantaneità, di una
comunicazione in diretta, senza barriere o frontiere.
Ancor prima e ancor più che economico, il mutamento è dunque
antropologico, riguarda il nostro sentire, la nostra percezione della realtà.
Che si significa “globalizzazione” applicato agli strumenti alle
tecniche del comunicare? Non è forse una nuova ideologia usata per
dissimulare problemi ben più complessi e reali?
Cerchiamo di comprendere il senso di questo brutto neologismo al
di là degli accenti catastrofisti di virilio. Già nel 1962, in un libro
intitolato La Galassia Gutenberg, Marshall McLuhan parlava di "villaggio
globale" per dire che ormai tutto il pianeta riceveva le stesse notizie,
poteva celebrare gli stessi miti e gli stessi riti, condividere gli stessi
valori, gli stessi modelli di comportamento. Ma eravamo solo agli inizi. Quella
di Mcluhan era un'illusione ottica, un miraggio ingigantito dall'entusiasmo.
La rivoluzione delle tecnologie satellitari era ancora lontana. E
lontano era anche l’avvento della nuova società informatica. Ma
quell'espressione ingannevole ebbe fortuna, nonostante il riaccendersi dei
nazionalismi e dei conflitti etnici, nonostante il divario di ricchezze e di
beni di consumo tra il nord e il sud del mondo. Altri studiosi usarono quella
metafora. E l'ideologia del villaggio globale divenne una specie di cavallo di
Troia al servizio di modelli forgiati da chi possedeva gli struménti di
comunicazione e poteva imporre la propria cultura e i propri prodotti ai
quattro angoli del pianeta e la propria lingua come lingua franca.
“La base della potenza americana, - scriveva il politologo e poi
segretario di stato Zbgniew Brzezinski, - è per larghissima parte il suo
dominio del mercato mondiale delle comunicazioni. Questo crea una cultura che
ha forza di imitazione politica” (Armand Mattelart, Le nouveaux scénarios de la
communication mondiaie, Le Monde Diplomatique, agosto 1995). Gli esempi a
illustrazione di questa tesi si potrebbero moltiplicare: dalla hollywoodiana
fabbrica dei sogni ai serial televisivi, dalle agenzie di stampa all'industria
del tempo libero, lo stile di vita americano ha dettato i suoi codici di
comportamento, proposto le sue mode a cittadini sparsi ai quattro angoli del
pianeta.
E ora? Più di trent'anni dopo, cosa è cambiato? L'avvento delle
tecnologie satellitari ha reso più facili le comunicazioni con i luoghi più
remoti della terra.
Ma come negare che il divario tra le aree super-informate e le
aree sotto-informate, tra i paesi che dominano il mercato della comunicazione e
gli altri, sembra ancora un fossato incolmabile?
Negli anni '70, in un rapporto dell'Unesco (il famoso rapporto
MacBride che suscitò l'opposizione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e
provocò qualche tempesta diplomatica), si invocava un “Nuovo ordine mondiale
dell'informazione e della comunicazione” (Nomic), cioè una distribuzione più
equa delle risorse. Ma quella richiesta rimase lettera morta. II Nuovo ordine
mondiale dell'informazione e della comunicazione si è realizzato non per
iniziativa delle Nazioni unite, ma per effetto del progresso tecnologico. In
pochi decenni lo scenario è mutato in maniera radicale. Le autostrade
telematiche e lo sviluppo della grande ragnatela di Internet contribuiscono ora
a disegnare un nuovo paesaggio.
E anche l'opposizione Nord-Sud per alcuni sembra far parte di un
vecchio dibattito. "Ragionare in termini di opposizioni regionali,
continentali e, a maggior ragione, Nord-Sud è già un anacronismo” scrive
l'economista e sociologo Philippe Engelhard nel documentatissimo libro L'homme
mondial. Les
humaines peuvent-elles survivre? (Parigi,
Arlea, 1996). "Il problema è di sapere come evitare che certi gruppi
finiscano per imporre il loro monopolio in materia di comunicazione e di
informazione". La differenza tra la mondializzazione dell'informazione e
quella che riguarda altri prodotti, altri beni di consumo è che la prima,
secondo Engelhard, può avere conseguenze più gravi per la democrazia e per la
libertà di espressione. Il nodo da sciogliere (e quale nodo!) è, dunque, la
concentrazione degli strumenti di comunicazione in poche mani. Quanti sanno,
per esempio, che l'agenzia britannica Reuters (fondata da Paul Julius Reuter
nel 1851 e oggi presente coi suoi corrispondenti in 91 paesi) dispone di un
numero di canali satellitari da far invidia a molte superpotenze e domina di fatto
l'informazione economica nel mondo intero?
Il mercato planetario della comunicazione è retto dalla logica del
capitalismo, del potere in mano a pochi.
Da un capo all'altro del pianeta pochi giganti dell'informatica e
delle telecomunicazioni si combattono senza esclusione di colpi per la
conquista di nuove fette di mercato. È una guerra senza quartiere per il
dominio dei nuovi territori del ciberspazio (quelli di Intemet e della realtà
virtuale) e delle nuove tecnologie digitali. Una nuova febbre dell'oro sembra
essersi impadronita dell'universo della comunicazione e l'oro, in questo caso,
si chiama multimedia, cioè la nuova industria e i nuovi programmi nati dal
matrimonio a tre fra il computer, il telefono e la televisione. "Chi si
occupava di telefoni vuol fare televisione e viceversa; tutte le imprese del
settore delle comunicazioni aspirano al controllo di una parte del nuovo
Eldorado: il multimedia”, scrive Ignacio Ramonet che dalle colonne di Le Monde
Diplomatique si batte contro i pericoli del pensiero unico, cioè di
quell'ideologia che considera il trionfo del mercato e delle sue logiche come
un fatto ineluttabile, appartenente all'ordine delle cose. "I giganti
industriali dell'informatica, della telefonia e della televisione”, continua Ramonet,
“sanno che i profitti del futuro si trovano in questi giacimenti nuovi che la
tecnologia digitale apre davanti ai loro occhi affascinati e avidi”.
La globalizzazione anche nel settore dei media è dunque in primo
luogo la creazione di un mercato planetario, retto dalle logiche del
capitalismo (quello che i sostenitori del neoliberismo invocano come global
marketplace). E se i toni apocalittici di Virilio quando parla di
narco-capitalismo dell'elettronica possono sembrare eccessivi, i pericoli di
standardizzazione, di impoverimento o di omologazione delle culture dei vari
gruppi etnici sono purtroppo reali. Grazie alle antenne paraboliche, gli stessi
programmi, le stesse telenovelas, gli stessi film, le stesse notizie possono
essere captati in ogni angolo della terra. Con quali conseguenze
antropologiche? Quale incidenza sui miti e i riti di ogni popolo, sul suo modo
di far festa, di giocare, di ridere, di celebrare, di concepire i rapporti con
gli altri e col mondo?
L'aspetto positivo dell'informazione senza frontiere è
l'impossibilità del black-out sulle notizie scomode. Ma un nuovo rischio si
profila...
II governo di Pechino non potrebbe nascondere a lungo la notizia
dello sbarco sulla luna, come invece fece nel luglio del '69. E alcune
dittature non sono forse crollate per effetto, tra l'altro, dei programmi
captati di nascosto da cittadini stanchi della propaganda di partito e avidi di
notizie non ufficiali?
La diffusione delle antenne paraboliche ha privato i regimi
totalitari della terribile arma del segreto sulle reali condizioni di vita nel
proprio paese e nel resto del mondo; ha reso possibili i paragoni e ha
accelerato il disfacimento di sistemi ormai corrosi dall'interno. Ma il
rovescio della medaglia è che nella maggior parte dei casi la comunicazione è a
senso unico: dai paesi ricchi ai paesi poveri, dal Nord al Sud del mondo. “La
maggior parte dei bambini americani non fa alcuna differenza tra il Baltico e i
Balcani, non sa chi fossero i Visigoti e ignora dove abitasse Luigi XIV. E
allora? Perché dovrebbe essere così importante? Forse voi sapete che Renon è a
Ovest di Los Angeles?" ha scritto Nicholas Negroponte, direttore del Media
Lab, il laboratorio del Massachussets Institute of Technology dove si
sperimentano le invenzioni che cambieranno la nostra vita di comunicatori.
Ma si potrebbe rispondere a Negroponte che se la globalizzazione è
a questo prezzo, al prezzo cioè di una beata ignoranza sulla cultura e la stona
degli altri, di chi è lontano da noi non soltanto geograficamente ma per
mentalità, allora essa è povera cosa. In un futuro ormai prossimo, sarà più
facile per tutti percorrere le cosiddette autostrade dell'informazione. Le
comunicazioni telefoniche costeranno di meno, per effetto dei progressi
tecnologici. Ma vedremo forse apparire due nuove classi: gli info-ricchi e gli
info-poveri, cioè coloro che potranno disporre di un grande numero di dati, di
informazioni, di notizie e coloro che saranno privi di risorse, condannati
all'indigenza.
La sfida della libertà: usare la nostra testa per districarsi
nell'universo di notizie che ci piovono addosso. Contro il pensiero unico che
rischia di uniformarci.
Come dice Engelhard, “ciò che rischia di discriminare gli
info-poveri dagli info-ricchi risiede meno nell'accesso all'informazione che
nella capacità di cogliere il senso di ogni informazione, dunque di essere
sufficientemente educati per formulare le domande che richiedono risposte
informative appropriate".
Uno degli effetti della globalizzazione, e non il meno importante,
è l'accumulo di dati secondari, di dettagli, insomma di conoscenza inutile.
Come districarsi nella marea di dati che si riversano quotidianamente nelle
nostre case? Come orientarsi? Come non perdere la bussola ed essere capaci di
gerarchizzare, di stabilire priorità tra le notizie che ci vengono proposte?
Quali strumenti dovremo inventare per non essere travolti dal fiume di notizie?
E come evitare di subire il fascino di messaggi anastetizzanti?
La sfida ancora una volta riguarda i modelli educativi da
sviluppare, cioè la capaci di trovare risposte adatte alla nuova situazione.
Per non lasciarsi ammaliare dalle sirene del pensiero unico. E smascherare gli
effetti perversi di una rivoluzione che
rischia di restringere gli spazi di libertà, invece di allargarli.
Piero Pisarra
Dio Ha cura del mondo, e tu? – CIMI Istituti
Missionari Italiani – 1998