Uno spettro di nome Karl

 

di Vittoria Prisciandaro – Jesus giugno 2001

 

Nella seconda metà dell'Ottocento, l'esplosione della Rivoluzione industriale e l'affacciarsi sulla scena di una nuova classe sociale, quella del proletariato, creano le premesse per la nascita del movimento socialista e delle teorie marxiste. Impaurita dalle tendenze atee del nuovo movimento, la Chiesa cattolica si contrapporrà frontalmente, per un secolo e mezzo, al comunismo. In ogni sua versione. È la storia di un incontro mancato e delle sue tante "vittime" anche in ambito ecclesiale: dai preti operai ai teologi della liberazione.

 

Uno  sguardo ammirato lo avranno gettato entrambi al­la splendida facciata gotica dell'Hotel de Ville. Avranno passeg­giato nelle stradine della città me­dievale, tra il mercato del pane, la chiesa di St. Michel-et-Gudule e la cattedrale, Notre-Dame-de-la-Chapelle. L'uno con il passo determina­to del giovane, rampante nunzio pontifìcio. L'altro con il fare frettoloso e guardingo di chi frequenta compagnie poco raccomandabili agli occhi della legge. Sulla soglia dei trent'anni sia il futuro papa Leo­ne XIII sia l'autore del Manifesto del partito comunista transitarono per Bruxelles. Gioacchino Pecci vi arriva nel 1843 e ne riparte dopo tre anni, in seguito a vari infortuni diplomatici. Karl Marx, espulso dalla Francia, approda nella cittadi­na belga nel 1845. La dovrà lascia­re nel '48 come "persona non gradi­ta". Non sappiamo se le strade dei due si siano mai incrociate. Di cer­to, quando papa Leone scriverà la Rerum novarum, quasi cinquant'anni dopo, lo farà anche per recuperare terreno su quei proletari a cui si appellano Marx ed Engels nel Manifesto per la Lega dei Giusti, poi Lega Comunista, steso in quegli anni e presentato a Lon­dra nel '48. D'altra parte l'incipit del testo non esita a inserire il suc­cessore di Pietro tra i nemici da combattere: «Uno spettro si aggira per l'Europa: lo spettro del comuni­smo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono coalizzate in una sa­cra caccia alle streghe contro que­sto spettro: il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi».

 

È un'Europa che cambia quella con cui deve fare i conti il successo­re di Pio IX. Nascono gli Stati mo­derni, la rivoluzione industriale fa le sue vittime, allora in Europa co­me oggi nei Paesi in via di sviluppo: «L’industria spezza nella classe proletaria ogni legame di famiglia e  trasforma i fanciulli in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro», scriverà Marx. Ciò che era valso da Costantino il Grande fino alla Rivoluzione francese, dice Hubert Jedin nella sua Storia della Chiesa, e cioè che «la Chiesa poteva assumere nel proprio organismo o fare propri tutti gli ordinamenti po­litici, ora non vale più per lo Stato costituzionale liberale e democrati­co, né per la crescente società indu­striale, con il suo incessante cam­biamento di strati sociali».

 

D'altra parte, proprio le mutate condizioni storiche favoriscono la nascita dei diversi cattolicesimi eu­ropei, che tentano di ripensare il rapporto Stato-Chiesa e di fare i conti con la neonata "questione operaia". Dai progetti di Carl von Vogelsang a quelli di Albert de Mun e Latour du l'in fino a Giusep­pe Toniolo, le varie teorie, talvolta contrastanti tra di loro, finirono tutte per influenzare la Rerum novarum e per determinarne, scrive Jedin, «l'astrattezza neoscolastica presente in molte sue parti». Nonostante i limiti, l'enciclica segna una tappa di non ritorno nel  magistero sociale della Chiesa, con il riconosci­mento del diritto-dovere dello Sta­to di intervenire nell'economia e quello dei lavoratori di coalizzarsi tra di loro.

 

«La gente più bisognosa era sem­pre stata vicina alla Chiesa. In que­sto momento ci si rende conto che "gli organizzatori dell'ateismo", co­me venivano definiti i comunisti, stavano penetrando tra i poveri. E questo era una vera e propria sfida», dice Gian Luigi Brena, gesuita del centro studi filosofici di Gallarate. La politica di Leone XIII e la sua attenzione al mondo del proletariato industriale era in netta opposizione al pensiero marxista: «Le esperienze  che si richiamavano strettamen­te al comunismo sono sempre sta­te censurate. L'atteggiamento criti­co verso la modernità era qui più che giustificato dal fatto che il mo­vimento comunista dichiarava un ateismo programmatico e militan­te», continua Brena. «I cattolici che si sono avvicinati ai program­mi socialisti sono sempre stati emarginati nella Chiesa, la quale semmai, anche nel secolo scorso, è stata più sensibile al liberalismo». D'altra parte, sostiene il gesuita, «anche il socialismo non ha mai fatto un tentativo serio di andare incontro al mondo cattolico. An­che quando intorno al 1970 si è par­lato di cattolicesimo di sinistra, era la potenzialità rivoluzionaria insi­ta nel cristianesimo che veniva va­lorizzata, non l'ispirazione religio­sa». Eppure, riflette padre Brena, «se prendiamo oggi quello che re­sta della sinistra, un'aspirazione all'uguaglianza anche su basi economiche, questo programma è così esigente che a lungo andare sini­stra e cristianesimo non potranno che convergere. E sarebbe un ritor­no alle radici: perché già ai tempi di Marx prima del socialismo scien­tifico c'era l'idea cristiana di una fraternità universale».

 

Non si tratta di questioni di altri tempi: «Oggi la situazione del pro­letariato è trasversale in tutto il mondo. E il Papa ha sostenuto l'im­pegno della solidarietà con la stes­sa forza di quello per la vita, anche se per questa battaglia non sono in molti a scaldarsi!», dice il gesuita. Quale potrebbe essere il ruolo del­la Chiesa contro la globalizzazione della povertà? «La Chiesa e il movi­mento ecumenico avranno un ruo­lo enorme: bisogna però coltivare una nuova sensibilità per l'etica pubblica e per l'ecologia. Insomma, assumere la responsabilità per le istituzioni e per il creato. Ma que­sta dimensione è ancora piuttosto trascurata», dice Brena.

 

Sulle compatibilità tra le due "Chiese", tra il popolo socialista e quello cristiano, sono stati fatti mol­ti studi e riflessioni. Tra la scomuni­ca del 28 giugno '49 e le aperture conciliari passano anni difficili, che mietono vittime illustri, come ricorda la dolorosa vicenda dei pre­ti operai. Nati dalla Mission de France creata dal cardinale Suhard nel 1941 con lo scopo di evangelizzare le regioni scristianizzate, ben pre­sto i sacerdoti coinvolti in questo ministero si resero conto di dover condividere fino in fondo la scelta della fabbrica. Il coinvolgimento nelle attività sindacali, a fianco dei "compagni", portò nel '54 a una rot­tura con Roma, poi rientrata nel '68. «La nostra condizione è cam­biata di pari passo con quella della classe operaia a cui appartenia­mo», dice padre Bernard Marchal, 62 anni, che ha lavorato come ope­raio meccanico dal 1976 al 1999. Bernard è stato ordinato nel '68, ha fatto il parroco per otto anni, poi è andato a lavorare in fabbrica. Rivendica con orgoglio il suo impe­gno nel sindacato e l'attività politica per il partito comunista: «Sì, ho sempre combattuto nel partito con­tro l'imposizione del modello sovie­tico, per la democrazia. Ma dopo la caduta dell'Unione sovietica, oltre alle giuste critiche, oggi dobbiamo dire che il sogno che avevamo, in un mondo più giusto, nella promo­zione della classe più povera, è an­cora possibile. Dobbiamo proporlo ai giovani perché il rischio vero è che anche gli operai aderiscano al neoliberismo», spiega Bernard.

 

La pensa diversamente Maurice Bubendorf, 37 anni, prete dal '91, postino nella periferia di Strasburgo: «Questa è un po' la differenza tra la generazione di Bernard e la mia, la politica non rientra nelle mie preoccupazioni. Ho scelto di fare il prete-operaio perché volevo condividere la vita delle persone semplici. Prima ero in un'impresa di pulizie, oggi faccio il postino. Non dico che sono prete, ma qual­cuno lo ha scoperto da solo. È que­sta la mia evangelizzazione. E cre­do che la Chiesa dovrebbe impara­re ad ascoltare la nostra voce, il no­stro ministero originale».

 

Anche di questo, di come trova­re un maggior raccordo con la co­munità ecclesiale, si parlerà nel pri­mo incontro internazionale dei preti operai, in programma a Strasburgo dal 2 al 4 giugno. Uno dei partecipanti sarà Mathieu Ruyer, 65 anni, che ne ha spesi 19 come manutentore in un supermercato: «Non ho mai avuto bisogno della tessera del partito, perché per il mio padrone ero già comunista!», dice sorridendo. «Ho lavorato tan­to nel sindacato e oggi penso che le cose non siano migliorate, anzi, con la globalizzazione c'è uno sfruttamento maggiore. Ma la pro­testa non arriva più dagli operai, bensì dalla classe media che, come dimostra il movimento di Seattle, si sta rendendo conto dei danni prodotti dal capitalismo», nota Mathieu. Uniti in équipe a livello loca­le, i preti operai in questi anni nel loro cammino di approfondimen­to e formazione hanno incrociato i percorsi della teologia della libera­zione. «Il contesto europeo è diver­so da quello latinoamericano, ab­biamo solo alcuni punti in comu­ne. E per quel che mi riguarda», di­ce Mathieu, «la mia liberazione è avvenuta grazie agli operai: il lavo­ro sindacale mi ha aiutato a libera­re gli altri e me stesso».

 

Non è un caso se l'esperienza francese, poi diffusa anche in altri Paesi, sia finita nel mirino di Ro­ma al pari della teologia della libe­razione. Nata dopo il Concilio e accusata di simpatie marxiste, que­sta teologia ha fatto finire molti teo­logi sotto accusa. Per fare chiarez­za era intervenuto anche il Genera­le dei gesuiti, Pedro Arrupe, con una lettera dell'8 dicembre 1980 su "Cristiani e analisi marxista", indirizzata ai provinciali della Compa­gnia in America latina e a tutti i su­periori dell'Ordine. Il testo spiega che se «l'analisi marxista nel suo complesso non è accettabile», ai fi­ni dell'analisi della società «possia­mo accettare un certo numero di indicazioni metodologiche, a con­dizione che non attribuiamo a esse un carattere esclusivo». I punti su cui padre Arrupe ritiene si debba convenire sono chiari: «L'attenzio­ne ai fattori economici, alle struttu­re della proprietà, agli interessi economici che possono muovere que­sto o quel gruppo; la sensibilità per lo sfruttamento di cui sono vittime intere classi sociali; l'attenzione al posto che la lotta di classe occupa di fatto nella storia; l'attenzione che l'ideologia possa servire a nascondere determinati interessi e persino ingiustizie». D'altra parte, scrive il Generale, occorre porsi in atteggiamento critico non solo di fronte all'analisi marxista, ma an­che nei confronti di altre analisi della società, in particolare quelle che «si praticano abitualmente nel mondo liberale», le quali «implica­no una visione individualistica e materialistica del mondo, anch'es­sa opposta ai valori e ai comporta­menti cristiani».

 

Infine Arrupe invita a fare atten­zione, a evitare accuse indiscrimi­nate di comunismo, con una lungi­miranza che rende ancora oggi il suo pensiero di straordinaria attua­lità: «Dobbiamo opporci con fer­mezza ai tentativi di quanti voles­sero servirsi delle riserve che abbia­mo nei confronti dell'analisi marxi­sta per stimare meno o addirittura per condannare come "marxismo" o "comunismo" l'impegno per la giustizia e per la causa dei poveri, la difesa che gli sfruttati fanno dei loro diritti, le giuste rivendicazioni. Non abbiamo, forse, notato con frequenza forme di anticomu­nismo che altro non sono se non paraventi per coprire l'ingiusti­zia?».

 

Vittoria Prisciandaro

Jesus – giugno 2001