I limiti del nostro dominio

Albert Jacquard

 

Il primo a comprendere e a dare voce all'attuale mutazione dell'umanità non è stato né un responsabile politico, né un uomo di scienza, ma un poeta. Nel 1945, in Regards sur le monde actuel, Paul Valéry scriveva: «Inizia il tempo del mondo finito». È urgente trarre le conseguenze di questa constatazione: entriamo in una fase nuova della storia degli esseri umani.

Fino a poco tempo fa, era possibile pensare il mondo a noi accessibile come un dominio praticamente infinito, quasi inesauribile. Le carte geografiche del pianeta mostravano grandi macchie bianche: era la cosiddetta Terra incognita che ci offriva beni rinnovabili all'infinito; cacciati da un territorio potevamo trovarne un altro, altrove. Ma ormai non abbiamo più un altrove.

Gli ottimisti pensano che potremo sfuggire alla nostra finitudine andando ad installarci su un altro pianeta. Ma conoscendo bene quelli del sistema solare, sappiamo che nessuno potrebbe ospitare l'umanità in modo stabile; quanto a quelli che gravitano attorno ad altre stelle, sono così lontani che l'andata e ritorno di un esploratore richiederebbe diversi secoli. La saggezza sta nell'ammettere che siamo definitivamente destinati a risiedere sulla Terra. Dobbiamo organizzarci tenendo conto dei vincoli che questo ci impone. Certo, sarà possibile muovere ancora qualche passo sulla Luna o visitare Marte, ma si tratterà di un'esplorazione e non di una conquista.

Questa constatazione non è affatto una cattiva notizia: ci permette di definire con lucidità i termini del contratto matrimoniale tra la Terra e l'umanità e di stendere un progetto realistico sul modo di vivere gli uni con gli altri.

La Terra; ormai la conosciamo bene; ne abbiamo percorso i minimi recessi, ne abbiamo ricostituito la storia, abbiamo cominciato l'inventario delle sue ricchezze.

 

L'umanità: questo termine non indica solo i circa sei miliardi di individui attualmente viventi, ma la totalità degli esseri umani passati, presenti e soprattutto, non dimentichiamolo, futuri. Il che rappresenta, si spera, un effettivo di varie migliaia di miliardi di individui (almeno nell'ipotesi che si eviti il suicidio collettivo attualmente in preparazione da parte di quegli stati che le armi di distruzione di massa le detengono veramente, in particolare nucleari).

È vero che gli umani non ancora nati non possono esprimere la propria opinione, ma, se vogliamo realizzare una democrazia che si estenda nel tempo e nello spazio, bisogna tener conto dei loro bisogni, ascoltarli malgrado l'assenza di parole.

Il numero di umani, oggi molto elevato, maschera la fragilità della nostra specie. Per quasi tutta la sua storia è stata rappresentata da un numero limitato di individui; le caotiche pressioni dell'ambiente avrebbero potuto farla sparire. Ma, contrariamente a tutto ciò che ci circonda, noi siamo capaci di non subire passivamente la sorte.

Recentemente, poco più di diecimila anni fa, inventando l'agricoltura abbiamo saputo ottenere dalla Terra più alimenti di quanti non ce ne desse spontaneamente. Il nostro numero ha potuto crescere e superare, all'inizio dell'era cristiana, i due o trecento milioni di individui.

È rimasto costantemente a questo livello fino a quando, nel corso degli ultimi secoli, si è realizzato un aumento così rapido della popolazione da far parlare di «esplosione demografica».

Esplosione che, nel corso della seconda metà del XX secolo, poteva sembrare preoccupante: corrispondeva a un raddoppiamento del nostro effettivo ogni quaranta anni, un ritmo che evidentemente non poteva durare. Per fortuna sta diminuendo più rapidamente di quanto non pensassero i demografi. Le previsioni attuali parlano di una stabilizzazione prima della fine del XXI secolo, a un livello di nove miliardi di umani. Il problema è perciò chiaro: come rendere compatibili i nostri bisogni e le risorse del pianeta?

 

La domanda viene spesso posta in questi termini: la Terra potrà nutrire tanta gente? Si dà il caso che la risposta sia positiva. Anche in assenza di una nuova «rivoluzione verde», la quantità di alimenti disponibile sarà sufficiente. Certo molti esseri umani oggi hanno fame, ma questo è assai più un problema di ripartizione che di produzione.

Di fatto, le scarsità più pericolose riguardano non il cibo, ma beni che gli economisti di un tempo consideravano senza valore perché inesauribili, l'aria e l'acqua. Il modo di vita occidentale, generalizzandosi, ha rivelato la vulnerabilità del clima, da cui questi due beni dipendono; lungi dall'essere inesauribili, sono alla mercé dell'inquinamento che il nostro comportamento stende come un sudario attorno al pianeta.

 

Solo ora abbiamo capito, vedendo l'evoluzione del clima, l'avvertimento di Paul Valéry: le conseguenze dei nostri atti superano ciò che il nostro ambiente può sopportare; queste conseguenze sono sovente irreversibili.

È perciò urgente che questi atti siano decisi collettivamente. E questo vale per tutti i beni che la Terra ci offre, ma che è capace di offrirci una volta sola. Distruggerli significa privarne definitivamente i nostri discendenti. Tutto ciò che è non-rinnovabile dovrebbe essere considerato come «patrimonio comune dell'umanità».

 

L'idea è stata lanciata dall'Organizzazione delle Nazioni unite per l'educazione, la scienza e la cultura (Unesco) a proposito delle opere d'arte. I templi, le cattedrali non appartengono veramente a individui o a collettività, appartengono all'umanità. Nessuno ha il diritto di distruggerli. Ciò che tutti accettano per il tempio di Borobodur o la cattedrale di Chartres, opera degli uomini, dovrebbe valere per la foresta amazzonica o per un qualsiasi giacimento di petrolio, opera della natura.

 

Non si tratta di proibire ogni gesto che modifichi il pianeta, ma di passare all'atto solo dopo averne misurato le conseguenze e preso in considerazione gli interessi di tutti, che siano già nati o meno.

Come costituire una lobby, incaricata di parlare a nome di coloro che non hanno voce perché non ancora nati, ma che nondimeno sono interessati?

 

Per fortuna, la necessità di una gestione ragionata dei beni di famiglia, da parte dell'umanità, comincia ad essere sentita. Alcune misure sono state prese in questa direzione. L'Antartide ne è un esempio.

Eppure la questione era partita male. Sulle carte, questa immensa distesa si presentava come una torta tagliata a fette; una dozzina di nazioni se ne disputavano la sovranità per il fatto che le avevano esplorate. Il buonsenso ha finalmente prevalso quando, nel 1959, è stato firmato un accordo internazionale. Questo continente è ora protetto; tutto ciò che potrebbe turbare in modo duraturo gli equilibri locali è sottoposto a severe restrizioni; è riconosciuto come facente parte del patrimonio comune. Niente impedisce di estendere poco a poco questo riconoscimento a tutti i continenti.

 

Per gli umani sarà più difficile intendersi tra loro che con il pianeta.

La prima conseguenza della finitudine del loro dominio è l'inevitabile interdipendenza. L'assunzione della finitudine non è solo imposta dal recente aumento della popolazione, ma soprattutto dagli straordinari progressi dei mezzi di comunicazione. La durata degli spostamenti che si contava in settimane o in mesi, si misura ormai in ore o in minuti; le informazioni sono trasmesse istantaneamente: siamo i testimoni diretti di fatti che avvengono in altri continenti. Non è più possibile immaginare un qualsiasi splendido isolamento. Le decisioni di uno, che sia un individuo, una collettività o una nazione, hanno necessariamente conseguenze, prima o poi, per tutti gli altri. Ognuno ha dunque la sua parola da dire sulle decisioni di tutti. È una costrizione che può sembrare pesante. In realtà è la chiave d'accesso di ognuno di noi a uno statuto veramente umano. Voler sfuggire sarebbe rinunciare a una ricchezza fondamentale, la nostra «umanitudine» non ricevuta dalla natura, ma costruita da noi.

 

«Non si nasce uomini, lo si diventa», dice Erasmo. In effetti, la natura ci offre tutte le informazioni necessarie per costruire un membro della specie Homo sapiens; ma un'altra fonte è necessaria per accedere alla coscienza di essere. Questa fonte non biologica, non può essere che l'incontro con gli altri umani. Ciò di cui parliamo quando diciamo «Io» non è il solo parlante: è una persona fatta di tutti i legami che risultano dai suoi incontri. La nostra specificità, la performance che ci distingue radicalmente dagli altri viventi è la ricchezza dei nostri scambi. Isolati siamo dei primati; gli incontri fanno di noi degli umani.

 

L'interdipendenza imposta dai limiti del nostro dominio crea condizioni favorevoli alla moltiplicazione degli incontri; è perciò un'occasione, ma bisogna essere capaci di trarne vantaggio. Incontrare è un'arte difficile; s'impara; insegnarlo a tutti è il primo compito di ogni comunità. Succede però che il modello di società attualmente dominante, il modello occidentale, può certo vantare successi straordinari quanto all'efficacia; ma ha fallito del tutto quando si tratta di mettere gli umani faccia a faccia. Ha commesso l'errore di scegliere la competizione come motore, vale a dire la lotta di ognuno contro tutti.

 

Nel corso di un'avventura umana, tutto si gioca al momento degli incontri. Ricondurli a uno scontro da cui risulterà un vincente e un perdente vuol dire privarsi di tutta la ricchezza di uno scambio che potrebbe essere salutare per tutti. Eppure, è questo che la società ci propone come una necessità. Lo spazio incredibile che i media offrono agli avvenimenti insignificanti, come i risultati sportivi, è l'esempio estremo di questa deformazione caricaturale. La vita di ciascuno, individuo o collettività, è così ridotta a una successione di lotte, talvolta vinte, ma che sfociano in una guerra, persa a priori. Che spreco! È urgente sostituire il modello della competizione con quello dell'emulazione, cioè della lotta contro di sé con l'aiuto degli altri. Per noi occidentali questo implica una rivoluzione; può essere non-violenta se è intrapresa a partire dalla scuola.

 

Abbiamo una chance: siamo partecipi di un cambiamento epocale. Che lo vogliamo o no, l'umanità si avvia su un nuovo cammino. La scelta della direzione non può che essere collettiva. Bisogna dunque creare strutture di governo planetario il cui embrione è rappresentato dall'Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) e da alcuni organismi specializzati, come l'Unesco o l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Ma per dare all'organizzazione tutti i poteri resi necessari dall'interdipendenza degli umani, bisognerà operare una trasformazione radicale del suo funzionamento.

 

Sarà naturalmente necessario un lavoro di lungo respiro. Tuttavia è possibile, con misure simboliche, marcare subito la necessaria rottura con l'attuale organizzazione. Per cominciare con qualcosa di facile, questa rottura potrebbe riguardare la localizzazione dell'Onu.

La penisola di Manhattan - simbolo di una cultura della competizione, di un'economia trionfante e di una finanza spietata - non è sicuramente il luogo adatto a ospitare gli incontri che vedranno manifestarsi le angosce e le speranze di tutti i popoli. Alla ricerca di un luogo più conforme, molti saranno gli uomini il cui sguardo si spingerà lontano da New York, lontano dalla nazione oggi più arrogante. Magari verso una di quelle colline dove gli uomini hanno saputo esprimere, nel corso dei secoli, la loro ossessione del destino della comunità umana: come Gerusalemme.

 

Le monde diplomatique (Maggio 2004)