Il socialismo dietro la macchina da presa

 

Intervista di Vittoria Prisciandaro a KEN LOACH

Jesus Giugno 2001

 

È il regista dei diseredati di tutto il mondo. Per primi quelli di ca­sa sua - l'Inghilterra degli slums, degli operai disoccupati, delle fa­miglie in mano agli usurai - e poi di quelli d'Oltreoceano, i messica­ni clandestini negli States della globalizzazione e i popoli latinoa­mericani, pedine senza valore sul­lo scacchiere internazionale.

Ken Loach è un signore dal­l'aria mite, dal look un po' dimes­so, lontano dallo stereotipo del re­gista alla moda e salottiero. È esat­tamente come te lo aspetteresti ve­dendo i suoi film: nessun cedimen­to alle formalità e all'happy end, di­retto nel parlare, pronto a smorza­re ogni tentativo di trasformarlo in un divo.

 

Loach è un intellettuale militan­te e non lo nasconde. Il suo cine­ma usa le vicende minime, le sto­rie dei poveri con nome e cogno­me, per farne una parabola dei meccanismi generali di sfrutta­mento della dignità della persona, a ogni latitudine. Un'analisi che però non cede al cinico disincan­to, ma piuttosto mette in luce i ten­tativi di resistenza da parte dei "piccoli", degli oppressi, alle pre­se con i soprusi non solo dei poten­ti, ma anche di chi dovrebbe difen­derli.

 

Invitato a Parma dal centro cul­turale Edison, nell'ambito delle ce­lebrazioni verdiane, il regista bri­tannico non esita a mettere in chiaro il suo "credo": «Capisco che per organizzare un evento sia importante chiedere il sostegno di istituzioni private, ma i miei colla­boratori e io siamo sempre stati molto critici verso un sistema che finanzia la cultura con il supporto delle banche». Passato il momen­to di imbarazzo generale, l'incon­tro con la stampa procede senza problemi. E alla fine, nel tempo rubato al pranzo, Loach è disponi­bile per un'intervista.

 

Nei suoi film, ad esempio in Ter­ra e libertà, la sinistra si dilania in lotte intestine, mentre "fuori" la destra prende il potere. È la sto­ria della sinistra un po' in tutta Europa. Divisioni che rischiano di distogliere l'attenzione da pro­blemi più grandi. Quali sono, a suo parere, le radici di queste di­visioni?

 

«Per rispondere bisognerebbe prima capire cosa intendiamo per sinistra. A mio parere, infatti, le persone che oggi rivendicano di essere di sinistra pensano in real­tà con categorie di destra. E sono tanti. Mi riferisco ai socialdemo­cratici, per esempio al Labour Par­ty nel mio Paese. L'analisi fonda­mentale da fare è come ci si rela­ziona al progredire del capitali­smo. Mi sembra che l'agenda che segue la cosiddetta sinistra sia quella di adeguarsi, pensando che se gli affari vanno a gonfie vele cresce la ricchezza e migliorano le condizioni di vita per tutti. Questo modo di pensare è di destra. La sinistra, come la concepisco io, vuole cambiare, non pensa che il capitale debba progredire, ma che si debba andare in un'altra direzione, opposta, che possiamo definire socialismo. Ma questa si­nistra, quella vera, è minoritaria».

 

 

Che cosa intende oggi lei per so­cialismo?

 

«È difficile dare una risposta breve. Direi in sintesi che è una de­mocrazia completa, cioè sia politi­ca sia economica. In altre parole vuol dire poter decidere cosa pro­durre, come farlo, per chi, a quali condizioni, e come usare le risor­se naturali e poi la ricchezza pro­dotta democraticamente. Perché le risorse sono in comune, di tutti, e lo stesso i mezzi di produzione. Ma esattamente come arrivare a tutto ciò? Dipende da come ci op­poniamo a ciò che oggi è sbaglia­to, quali strade e quali mezzi usia­mo per fare resistenza e operare il cambiamento. Ma questo dipen­de da noi. Ed è una grande sfida».

 

 

Si parla del cosiddetto popolo di Seattle. È il nuovo spettro che si aggira per il mondo?

 

«Le manifestazioni che abbia­mo visto a Seattle, o i cosiddetti "movimenti di strada" contro la globalizzazione, sono abbastanza fragili dal punto di vista ideologi­co, ma hanno un vero senso di re­sistenza. Per la sinistra oggi la sfi­da potrebbe essere unirsi a questo movimento e aiutarlo a sviluppa­re il suo pensiero. Aiutarlo a cre­scere, senza sostituirsi a esso».

 

 

Chi sono i proletari oggi?

 

«Basta guardarsi intorno per ve­dere chi è proletario: nelle strade, fuori dalle fabbriche, tra i clande­stini...».

 

 

Al centro dei suoi film ci sono po­veri e oppressi. Quanto questa scelta l'ha ostacolala nella produ­zione delle sue opere?

 

«La mia esperienza è che l'eco­nomia influenza la politica, che a sua volta influenza la cultura. In termini di cinematografia, questo significa che i film vengono inter­pretati come prodotti che devono soddisfare l'idea che i produttori hanno del mercato. L'effetto del­l'ideologia dominante è che oggi li­bertà significa libero mercato. Quelli che come me cercano di sovvertire questo sistema sono nell'occhio del ciclone, perché vanno controcorrente, proprio co­me le manifestazioni del popolo di Seattle. L'esperienza di noi tut­ti è che i temi propri della vita del­la gente non vengono riportati nei film, ma neanche nel teatro, forse indirettamente nella musica popo­lare. L'esperienza della disoccupa­zione, il problema della distruzio­ne dell'ambiente, o quello della po­vertà vengono ignorati, tranne in rari casi. Il motivo è che parlare di poveri non è commerciale, non promette guadagni. Così il proble­ma per un regista è cosa e chi met­tere sullo schermo e perché. Se prendere le star di Hollywood o in­vece scegliere degli operai, delle persone di servizio, degli attori non professionisti, come ho fatto in alcuni film. La scelta è se fare ci­nema seriamente o far aumentare il bilancio di una banca».

 

 

Nei suoi film non manca l'appa­rizione di qualche sacerdote con­trocorrente. In generale, secondo lei, quale il ruolo delle Chiese nel porre un argine all'egemonia del mercato?

 

«La Chiesa non ha avuto un ruo­lo fondamentale nell'opposizione al fascismo in Europa, anzi al con­trario... D'altra parte la teologia della liberazione è partita da sa­cerdoti impegnati con la gente, con i poveri, e non so quanto sia stata approvata da Roma. Alcune esperienze, come i preti operai o altre che sono venute dal basso, dalle comunità di base, sono im­portanti, ma secondo me la Chie­sa come istituzione è fondamen­talmente repressi va».     

 

Vittoria Prisciandaro Jesus Giugno 2001

 

 

 

II regista inglese Ken Loach è nato a Nuneaton, nel Warwickshire, il 17 giugno 1936. Durante gli studi di giurisprudenza a Oxfbrd ha iniziato a lavorare come attore e aiuto regista teatrale. Dopo una serie di documentar! per la televisione inglese, negli anni '80 si afferma come autore di film incentrati sulla situazione della classe operaia durante l'era thatcheriana.

Tra le opere più famose del regista inglese si segnalano Riff Raff, Piovono pietre, Ladybird Ladybird, My name is Joe, Terra e libertà e La canzone di Carla. L'ultimo film, Bread and Roses, è dedicato ai messicani che lavorano negli Usa.