François Houtart
LOTTA DI CLASSE E AMORE PER
I NEMICI
Quale contributo può offrire un sociologo alla
riflessione sull'amore per i nemici, precetto evangelico legato a un
atteggiamento personale, in relazione più che altro con la psicologia? L'importante
è che la domanda non si ponga unicamente in termini di relazioni individuali.
In realtà, il nemico può essere colui che ha causato
un danno a un'altra persona; ma può anche trattarsi di una collettività, cioè
un gruppo sociale, etnico o nazionale. (…)
Ciò detto, vogliamo concentrarci su un aspetto preciso, quello delle lotte
sociali. Si può amare il nemico ed essere impegnati in una lotta per la
giustizia, senza contraddirsi? In realtà, entrambe le dimensioni esistono
all'interno del cristianesimo. Diciamolo chiaramente: possiamo preconizzare
l'amore per il prossimo e per i nemici, prendendo al tempo stesso parte attiva
alla difesa degli oppressi nel contesto di una lotta
di classe?
La lotta di classe è ancora attuale?
In Europa e nell'insieme delle società occidentali o di cultura
occidentalizzata, il termine è scomparso dal vocabolario politico. Attualmente, l'espressione "lotta di classe"
appare superata. Più inquietante ancora è il fatto che
le categorie di analisi sociale che tale termine veicolava sembrano anch'esse
venute meno. Allora, perché tornare a dare loro valore?
Inoltre, la nozione stessa di classe è cambiata. Non ci troviamo
più esclusivamente di fronte all'opposizione tra una borghesia frutto
dell'economia di mercato e un proletariato industriale. Le classi si sono diversificate qualitativamente. Con la crescita dei servizi
legati alle nuove tecnologie, i cosiddetti "colletti bianchi" sono
diventati più numerosi dei "colletti azzurri". Robert Reich, ex
ministro del lavoro degli Stati Uniti e professore ad
Harvard, riporta come esempio l'apparizione di un nuovo gruppo sociale che egli
chiama "manipolatori di simboli", ossia tutti coloro che operano nel
campo finanziario o informatico. Infine, se diamo uno sguardo ai continenti del
Sud, constatiamo che la maggior parte dell'attività economica sembra sfuggire a
questo tipo di concettualizzazione. In effetti, il cosiddetto settore
informale, i senza terra e i piccoli contadini co-stituiscono l'essenziale dei
produttori in una situazione di grande fluidità
sociale, in cui gli individui passano da una categoria all'altra. Quello che
Marx chiamava la sotto-missione formale del lavoro al capitale
si è esteso a tutti i gruppi umani del Sud come del Nord, diventando una delle
caratteristiche fondamentali della globalizzazione neo-liberista. (…).
Dalla fine degli anni '70 e sotto l'influenza del cosiddetto Consenso di
Washington, la costruzione dell'economia mondiale contemporanea si è orientata
verso un modello neoliberista. I patti sociali del dopoguerra, tra impiegati,
lavoratori e Stato, ottenuti dopo decenni di lotte sociali, sono stati
progressivamente svuotati. Si tratta di rafforzare l'accumulazione di capitale,
risultato della diminuzione della crescita della
produttività. Nel Terzo mondo, il grande progetto di
sviluppo nazionale (che Samir Amin chiama modello di Bandung, dal nome della
conferenza realizzata dopo la decolonizzazione dei Paesi dell'Africa e
dell'Asia e che in America Latina chiamiamo desarrollismo), si esaurisce
rapidamente sotto l'effetto delle relazioni economiche diseguali tra Nord e
Sud. Quanto al progetto socialista come si realizza nell'Europa dell'Est,
questo crolla sotto il peso delle pressioni esterne e delle proprie
contraddizioni. Il capitalismo trionfante può allora presentarsi come l'unico
sistema possibile, senza alternative.
Orbene, un semplice sguardo allo stato del mondo mostra che il terzo millennio
ha inizio con una situazione economica poco brillante. Mai il numero dei poveri
è stato tanto grande.
L'offensiva del capitale
È evidente che esiste una lotta intensa tra coloro che
promuovono attualmente l'accumulazione di capitale, principalmente
finanziario, e coloro che vivono del proprio lavoro. Questi ultimi si diversificano sempre di più, il che dà l'impressione che
un'analisi di classe sia obsoleta se si applicano gli stessi parametri
dell'industrializzazione del XIX secolo. In Occidente, la diminuzione dei
vantaggi sociali, la flessibilità, la disoccupazione, i bassi salari, la
delocalizzazione hanno segnato la dimensione sociale
del fenomeno. Culturalmente parlando, la pubblicità a favore
di un consumismo basato sulla creazione di desideri più che sulla soddisfazione
delle necessità ha completato il quadro. Questa situazione si manifesta
nel Sud attraverso il subappalto realizzato in condizioni inumane e attraverso
relazioni indirette capitale/lavoro e anche mediante meccanismi come la
fissazione dei prezzi delle materie prime e dei prodotti agricoli, il peso del
debito, il rimpatrio dei profitti capitalistici, l'evasione dei capitali locali
ecc., il che riduce l'incidenza dei lavoratori sul
prodotto sociale e permette un'enorme fuga di capitali dal Sud al Nord. Questi
sono gli aspetti di cui è rivestita oggi l'offensiva del capitale contro il
lavoro, con l'obiettivo di accrescere la sua parte nella ripartizione delle
ricchezze.
L'offensiva del capitale si è esercitata anche contro lo Stato regolatore, che
era il garante dei patti sociali. Frequentemente, le privatizzazioni generalizzate
hanno ottenuto non solo di far retrocedere considerevolmente l'idea del
servizio pubblico, ma anche di far man bassa del
patrimonio collettivo, soprattutto nel Sud, per iniziativa dei detentori di
capitale, locali o stranieri. Nello Sri Lanka,
Dire che la lotta di classe è un concetto del passato
è allora una maniera comoda di rifiutarsi di vedere che questa si è
semplicemente trasformata. Di conseguenza, non si può pensare di abbandonare la
lotta. Al contrario, è necessario intensificarla, perché solo
un'altra correlazione di forze può cambiare la realtà. Di fronte alla
globalizzazione di un'economia dominata dal capitale, è necessario globalizzare
le resistenze e le lotte ed è questo che emerge da eventi come quello di Seattle.
Fin da subito è importante analizzare bene la situazione, allo scopo di
determinare il più chiaramente possibile quali sono gli attori individuali o
sociali che intervengono in questo scontro che provoca oggi tante vittime. Per
gli uni, quest'ultimo continua a porsi in termini molto astratti: collocare
capitali, speculare in borsa, trasferire i luoghi di produzione, stabilire le
leggi del funzionamento economico. Per gli altri, invece, questo si traduce
concretamente nella povertà, nell'angoscia per il futuro, nell'esclusione,
nella miseria.
Gesù e gli oppressori
Nella società palestinese, Gesù ha indicato coloro che erano
la causa dell'oppressione del popolo degli a'himsas (i poveri). Si trattava,
sul piano economico, dei grandi mercanti e proprietari, i sadducei (membri del
Sinedrio), e anche del sistema tributario che assorbiva gran parte del prodotto
sociale. Sul piano politico, si trattava del Sinedrio e del Tempio; sul piano
religioso, della casta sacerdotale e dei grandi padri, tutti riuniti in un
potere locale potente, appoggiato dall'ideologia politica dei farisei e degli
scribi e sottoposto al potere coloniale di Roma. È dalla coalizione
di tutti questi poteri, malgrado i loro interessi divergenti, che Gesù venne
giudicato pericoloso e alla fine condannato a morte. Questa condotta di Gesù ci invita a scoprire quali siano i meccanismi
dell'ingiustizia e ad indicare chi siano gli attori. La complessità della
situazione mondiale rende questo esercizio più
difficile e implica l'utilizzo delle scienze umane. È la direzione presa per
esempio dalla Teologia della Liberazione. La fede cristiana, lungi dalla
rinuncia ad indicare il nemico, esige al contrario grande
chiarezza riguardo alle opposizioni di classe che esistono oggi su scala
mondiale. Tuttavia, Gesù predica l'amore per i nemici.
La lotta di classe nella dottrina sociale cristiana
Prima di tornare sulla questione, va notato che il concetto stesso di lotta tra
classi sociali è stato fortemente rifiutato dal pensiero sociale cristiano.
Questo si deve a varie ragioni, tra cui quella della sua origine marxista.
La prima è l'identificazione tra sociale e
individuale. Tuttavia, lotta di classe non significa che gli individui si aggrediscano agli angoli delle strade. I meccanismi sono
sociali e la prima esigenza è quella di riconoscere la loro esistenza in quanto
parte della lotta di classe, come i movimenti del capitale finanziario che
passa da un angolo all'altro del mondo in funzione dei profitti immediati e
l'organizzazione dei sindacati operai o dei movimenti
contadini. Anche se gli attori sociali non si incontrano
mai, la lotta di classe non è per questo meno reale. Sul piano concettuale, la
lotta di classe è soprattutto uno strumento di analisi.
Un secondo significato, in base al pensiero social-cristiano,
è quello della difesa degli interessi corporativi a spese degli
altri gruppi della società. Nel 1983, Giovanni Paolo II, nel suo discorso ai
contadini di Panama parlò della "lotta egoista delle classi". Si può
parlare in questi termini quando si tratta di gruppi
oppressi socialmente? Questo tipo di concezione si appoggia su una visione
della società in termini di strati giustapposti tra cui bisognerebbe assicurare
una coesistenza creatrice di bene comune. La società
capitalista è una struttura in cui gli elementi sono articolati in maniera
contraddittoria.
Per creare il
bene comune, è necessario attaccare la logica capitalista che fa del più forte
il vincitore e della competitività il valore chiave, non solamente delle
attività economiche, ma anche della mercificazione di tutte le relazioni umane
collettive.
Una terza ragione si trova nella soggettivizzazione
delle classi sociali, cioè la loro identificazione con
l'odio per il nemico, personale o collettivo. In questa prospettiva, il
concetto stesso di lotta significa il contrario dell'amore, in contraddizione
con il messaggio evangelico. È vero che alcuni discorsi di lotta contengono
elementi di odio inaccettabili per una coscienza
cristiana, ma non bisogna confondere denuncia e odio. Tocca allo psicologo
aiutarci a fare questa distinzione esistenzialmente possibile. Il Vangelo di
Matteo è ricco di un linguaggio di denuncia. È forse pieno di
odio?
Le lotte sociali sono spesso identificate nella letteratura cristiana con l'uso
diretto della violenza. Ma non è necessariamente così.
Per prima cosa, possiamo dire che i metodi di lotta di
classe dominanti sono prima di tutto istituzionali: i meccanismi economici, le
disposizioni giuridiche, l'azione politica e, quando è necessario, la
repressione, la dittatura politica, la guerra. I metodi dei gruppi sociali subalterni diventano violenti in due casi: quando è in gioco
la sopravvivenza fisica (soprattutto nel caso dei contadini) o quando
l'avversario utilizza la forza repressiva. Senza dubbio, ciò non esclude
l'apparizione di meccanismi di psicologia collettiva imparentati con azioni di
sacrificio o l'esplosione di odio collettivo, ma le
lotte sociali non li implicano obbligatoriamente, al contrario. A lungo
termine, la loro efficacia dipende dal loro carattere non violento, cioè dal rifiuto di considerare la violenza come un mezzo
necessario e intenzionalmente esercitato contro le persone. L'opposizione alla
violenza non può allora costituire un argomento contro l'impegno nelle lotte
sociali.
Per risolvere le apparenti contraddizioni, si
potrebbe dire che l'amore per i nemici riguarda le
persone e non i sistemi. Ma tutti sanno che questi ultimi sono diretti da
attori sociali, cioè da persone. Allora, come fare una
distinzione tanto sottile senza cadere nell'incoerenza? La risposta è ovvia: amare il nemico che si identifica
con un sistema odioso consiste nel lottare contro un meccanismo che lo aliena
al punto di spogliarlo della sua umanità.
Convertire il nemico
Il Vangelo è chiaro: la salvezza delle persone può giungere solo dalla loro
conversione. Nel campo che ci riguarda, questa consiste nel ristabilire
un'uguaglianza di condizioni tra gli esseri umani: il Magnificat fa chiaramente
allusione a un'inversione dell'ordine sociale; Zaccheo
va a distribuire la metà dei suoi beni e a ristabilire la giustizia; il giovane
ricco è invitato ad abbandonare i suoi averi; le beatitudini invocano la
giustizia; il giudizio finale ha come parametro la preoccupazione materiale per
i poveri.
Tuttavia, una conversione così delineata non dipende unicamente dalle condotte
individuali. È indispensabile che le persone siano in primo
luogo consapevoli del ruolo esatto che giocano nella costruzione di un
sistema di ingiustizia e poi che esse siano capaci di contribuire al cambiamento.
Questo dipende dall'organizzazione sociale dei sistemi economici e dalle
ideologie che li sostengono. Perché se si è persuasi del fatto che l'economia
di mercato capitalista è la migliore organizzazione possibile, che la libertà
di mercato, come madre di tutte le libertà, è il fondamento della democrazia,
che l'iniziativa individuale è la base esclusiva dell'attività economica,
"la mano invisibile" che regola in ultima istanza
i principali squilibri sociali, allora si è disposti a considerare gli effetti
negativi del capitalismo come accidenti e, di conseguenza, a ritenerli
rimediabili. L'amore per il prossimo consiste allora nel correggere i difetti.
Questo è stato il discorso degli ultimi due direttori del Fondo Monetario
Internazionale e della Banca Mondiale, che sulla base di
un discorso religioso giustificavano la condotta di queste due istituzioni
chiave della globalizzazione capitalista.
Se l'ideologia può essere trasformata dall'analisi non
possiamo dire lo stesso nel caso delle relazioni sociali. Qui
quello che conta è la forza rispettiva dei termini della relazione. È
sorprendente constatare che gli attori economici del "capitalismo dal
volto umano", tanto celebrato dai sostenitori della "Terza via",
siano gli stessi che praticano un "capitalismo
selvaggio" nei luoghi in cui lo sfruttamento continua ad essere possibile.
Non è sufficiente convertire i cuori. La peggiore delle situazioni è quando eccellenti persone dipendono da cattive
istituzioni. Un imprenditore di Santo Domingo, testimone di Geova, che andava
di porta in porta tutte le domeniche per convertire il prossimo, diceva:
"Io chiamo maghi i miei operai, perché non so come possano vivere con il
salario che pago loro". (…).
Amare il proprio nemico significa allora volere la sua conversione. Cioè, fargli prendere coscienza della sua responsabilità
nella creazione delle ingiustizie, così come portare avanti una lotta che
trasformi le relazioni in modo da rendergli possibile la conversione, se ne
avesse l'intenzione. (…) Finché una persona è
prigioniera del sistema o fino a quando ponga i suoi interessi al di sopra
della giustizia, essa non può convertirsi. Lo sviluppo di spiritualità di
sostituzione, sia isolando l'individuo dal suo contesto,
come si vede in alcuni movimenti carismatici cattolici o protestanti, o peggio
ancora esaltando l'eccellenza delle élite a capo della società come l'Opus Dei
e altre istituzioni simili, possono solo rafforzare le relazioni sociali
esistenti e far credere, come nella Palestina del tempo di Gesù, che i nemici
dei poveri sono eletti da Dio.
Quale riconciliazione?
Nessuno dubita che la riconciliazione sia una maniera di testimoniare l'amore. E se l'amore deve rivolgersi ai nemici, la riconciliazione
con questi ultimi è anch'essa necessaria. Ma, una
volta ancora, non si tratta di un processo individuale. Quando
la dimensione è sociale, essa esige soluzioni di questa natura. Trasformare il
ristabilimento di relazioni sociali in un insieme di condotte individuali è una
maniera di far pesare sulle coscienze il peso dei cambiamenti sociali e anche
di ignorare la loro consistenza reale. Così, quando in Nicaragua la guerra
civile volgeva al termine, la riconciliazione sociale divenne il leitmotiv del
nuovo potere politico. Ma si trattava, tra altre cose,
di chiedere ai contadini di riconciliarsi con i proprietari tornati con la
controrivoluzione, desiderosi di riprendersi le terre e quindi di ricostruire
le relazioni sociali anteriori.
In Cile, il richiamo alla
riconciliazione poggiava sulla legge dell'impunità, che significava dimenticare
le condizioni politiche nelle quali "il miracolo economico" si era
costruito. La riconciliazione
divenne allora l'ideologia delle classi dominanti.
Non c'è riconciliazione possibile senza trasformazione parallela delle
condizioni che hanno originato il conflitto e l'inimicizia. La prima esigenza è
il riconoscimento degli errori, che può essere seguito dal perdono e poi dalla
riconciliazione.
Aiutare il nemico a recuperare la sua umanità
(…). Il cambiamento delle condizioni esige non l'odio del nemico, ma l'uso
della forza collettiva. Nelle condizioni attuali delle relazioni di classe,
questo si traduce nel rafforzamento e nella globalizzazione delle resistenze e
delle lotte sociali. È quello che permetterà di creare relazioni sociali
costruite sulla giustizia e di istituire un universo in cui tutti possano contribuire al bene comune. Questo potrà sembrare
utopico, ma si tratta di un'utopia necessaria, quella che nel Vangelo si
traduce nei valori del Regno. Non è questa la sola maniera di dare ai nemici
dei poveri un senso di umanità e di amarli?