I
COMANDAMENTI DI NOE'
Sette sono
i comandamenti indicati da Noè, dopo l'esperienza del diluvio e ad evitarne il
ripetersi, anche se l'apparizione dell'arcobaleno dovrebbe assicurarci che
quella distruzione non ci sarà comunque. Sei sono costituiti da proibizioni -
non far questo, non far quello - che Mosè confermerà. L’ultimo impone un fare:
formare delle assemblee di giustizia. In quella formulazione è racchiusa
l'esigenza di giustizia tra gli uomini e di una loro giusta convivenza:
giustizia vera si dà, infatti, solo in una società giusta.
Che
fossimo avviati indefettibilmente alla sua costituzione era incrollabile
convinzione dell'ultimo dei philosophes e protagonista della rivoluzione
francese, Condorcet. Proprio nelle pagine finali dell'opera, scritta mentre si
sottraeva alla cattura da parte delle istituzioni rivoluzionarie, che aveva
contribuito ad instaurare - cattura che avvenne e ne provocò la morte -, indica
i fondamenti di tale convinzione: la fine dell'ineguaglianza tra le nazioni, il
progresso verso l'eguaglianza in ogni popolo ed, infine, il perfezionamento
reale dell'uomo.
Ad oltre
due secoli dalla morte di Condorcet non sembra che questi punti fondamentali
siano realizzati o in via di realizzazione. L’ineguaglianza tra le nazioni ed
all'interno di ogni popolo non fa che accrescersi: un dato riassuntivo ci
ricorda che le 358 persone più ricche del mondo hanno redditi annuali superiori
alla somma dei redditi di 2 miliardi e 300 milioni di persone, cioè il 45 %
della popolazione mondiale (quasi la metà dell'umanità). Quanto al
perfezionamento reale dell'uomo, esame di coscienza a parte, basta ci guardiamo
attorno o accendiamo la televisione perché ci venga incontro il nostro orrore
quotidiano, frutto delle nostre azioni ed omissioni. Questa la situazione
attuale, segnata, oltre che dalla fame e dalle malattie per tanta parte della
popolazione del mondo, da conflitti armati e da vere e proprie guerre. Esse
appaiono endemiche nei paesi detti, forse con involontaria ironia, in via di
sviluppo, e particolarmente minacciose tra i paesi dell'ex blocco comunista, e
ci coinvolgono anche più direttamente, come nella recente vicenda del Kosovo.
II secolo che si chiude è stato il secolo di due guerre mondiali, dei campi di
sterminio, di una lunga guerra fredda, nella quale i due contendenti hanno
confrontato i muscoli alla periferia dei rispettivi imperi, sulla pelle delle
popolazioni coinvolte. Né i conflitti armati sono cessati con il crollo del
muro di Berlino, ma continuano, lo si è detto, a riproporsi.
"Come
il XX secolo ha conosciuto l'apogeo della violenza politica con l'omicidio
armato di più di 100 milioni di persone, il XXI secolo potrebbe assistere
all'apogeo della violenza economica con l’uccisione per fame ed epidemia di
molte centinaia di milioni di persone". Sono numerosi gli elementi a
sostegno della cupa previsione che J.Attali, già consigliere speciale di
Mitterand, formula nel suo Dizionario del XXI secolo. Sono noti e non starò a
ripeterli: già solo le malattie prodotte dall'acqua non potabile provocano 25
mila morti al giorno.
I governi
che si incontrano in imponenti ed impotenti conferenze mondiali, ieri a Tokio
sulla salute del pianeta ed oggi a Seattle sul libero commercio, concludono i
loro incontri affidando al mercato, alla sua crescita e libertà, il compito di
sanare tutti i mali, compresi quelli che esso stesso provoca. Così il massimo
risultato ottenuto a Tokio è stato quello di consentire ai paesi ricchi di
continuare ad inquinare, purché acquistino dai paesi poveri le quote di inquinamento
possibile, che questi, ancora, non sfruttino.
Così è
facile prevedere che, anche dopo Seattle, il W.T.O. - in italiano
l’Organizzazione Mondiale del Commercio - continuerà a ritenere che le grandi
imprese ed i grandi operatori finanziari hanno solo diritti e produttori,
consumatori, cittadini solo doveri.
Le grandi
società multinazionali e transnazionali, con il sostegno convinto e decisivo
dei governi dei paesi più importanti, assumono a livello planetario il ruolo
che Stati totalitari si arrogavano, e si arrogano, nei confronti dei loro
cittadini. Sono loro - denuncia Pontara - che ci sfruttano, ci manipolano, ci
indottrinano, ci condizionano dal momento in cui nasciamo fino al momento in
cui moriamo. Sono loro, assieme, che garantiscono il nostro benessere, perché
questo è il solo modello economico che ha provato sul campo di poter
funzionare. Guai a interferire perciò col suo funzionamento. Di qui lo
scatenamento della tecnica, libera da ogni vincolo etico e da ogni
responsabilità sociale. Quello che tecnicamente si può fare si deve fare. Agli
effetti indesiderati sarà lo stesso progresso tecnico a porre rimedio. Di qui
anche una competizione senza confini, che ignora i disastri umani, sociali,
ambientali che provoca, nell'asserita convinzione che la mano invisibile del
mercato metterà tutto a posto.
La
competizione è molto crudele e pronta a trasformarsi in guerra aperta, giacché
nel Nord del mondo si compete per non perdere posizioni di privilegio, e
possibilmente incrementarle, e nel Sud per agganciarsi, costi quel che costi,
ad una possibilità dì sviluppo e perfino di sopravivenza. A battersi sono gli
individui, i gruppi di interesse, le comunità locali e statali, secondo
opportunità che si presentano e che lacerano precedenti solidarietà e fanno
emergere nuove bellicose identità. In queste condizioni il momento pubblico, la
politica, la stessa giustizia, a scala mondiale e locale, tendono a ridursi ad
amministrazione e garanzia del progresso tecnico-economico a vantaggio dei più
forti. Anche se non è indifferente che ciò avvenga con qualche rispetto delle
persone, di loro diritti fondamentali, attraverso qualche forma di consenso,
come nelle nostre democrazie, ovvero in assenza di uno o più di tali elementi,
come è in molta parte del mondo. Petrella ci ricorda che competizione
originariamente significava cercare insieme, non distruggere il competitore. I
ragazzi di don Milani ci dicevano che riconoscere il problema degli altri
eguale al mio ed uscirne assieme è la politica, uscirne soli è l'avarizia. Dal
loro maestro avevano appreso che neppure è giusto fare parti eguali tra
diseguali, perché la giustizia mira all'eguaglianza effettiva. La competizione
ha dunque rinnegato la propria etimologia, la politica si fa sempre più avara,
la giustizia fa effettivamente parti diseguali, ma solo per consegnare le
migliori a chi già ha di più. La competizione è un ottimo strumento di
miglioramento dell'economia e non solo, ma non può divenire regola e fine di
una società, nella quale la politica sancisce la ripartizione in vincenti e
perdenti e la giustizia afferma il diritto del più forte: might is right, per
dirlo nella lingua dell'impero.
Con la
caduta del sistema cosiddetto socialista sono infatti gli Stati Uniti a
proporsi come modello di società, al quale anche l'Europa si va, più o meno
felicemente, adattando, mentre ad opporsi sembrano residuare solo stati
autoritari, incapaci di assicurare dignità, libertà e benessere ai propri
cittadini. E' un modello in ogni caso irraggiungibile: se tutti vivessero come
gli abitanti degli U.S.A., nei quali comunque profonde e crescenti sono le
differenze economiche e sociali, ci vorrebbero almeno altri due pianeti come la
terra solo per produrre le risorse, assorbire i rifiuti, mantenere i servizi
essenziali. Sono sempre gli Stati Uniti a proporsi, e ad essere richiesti, come
giudici e solutori dei conflitti tra stati ed all'interno degli stati, anche
per l'alta tecnologia dell'industria militare e per la professionalità degli
addetti ai sistemi d'arma. La mano invisibile del mercato è pronta a
trasformarsi in un pugno invincibile quando necessario per difendere, di volta
in volta, la sovranità nazionale, la democrazia, i diritti umani, valori
effettivamente offesi, prima, durante o dopo gli interventi, che si fanno per
ragioni di Stato e Mercato.
La miseria
della politica nazionale è sotto i nostri occhi. Si invocano riforme della
Costituzione per far funzionare meglio l'Azienda Italia, per renderla più
competitiva nell'arena globale. La Repubblica democratica, voluta dai
costituenti, ripartita in Regioni, Province, Comuni, con il precipuo compito di
"rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di
fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" è detta
vecchia e superata. Un tempo, non così lontano, si pensava di portare la
garanzia dei diritti e la democrazia all’interno dell'impresa. Oggi è alla
culture di impresa che ci si rivolge per un surrogato della democrazia. Spot,
sondaggi e customer satisfaction sostituiscono il confronto e il dibattito in
sedi pubbliche e condivise. Si profilano riforme elettorali, che diminuiscono
la già ridotta rappresentatività della nostra democrazia, e proposte di
referendum, che alimentano logiche plebiscitarie.
Si
pretende, così, di porre rimedio, aggravandola, alla disaffezione dalla
politica, che deriva dalla realistica percezione della politica come cosa che
riguarda i suoi professionisti, vecchi e nuovi, estranea, quando non ostile,
alla gente comune. Del resto la promessa che le forze politiche, tra loro in
consociazione o in alternanza, fanno è quella di trattare gli elettori non più
da sudditi, ma da clienti. Di considerarli cittadini non se ne parla. La
costituzione materiale è già questa, quella formale si adeguerà. La
competizione tra le forze politiche, anche se non tutte le proposte si
equivalgono, è soprattutto su chi smantellerà le gestioni pubbliche, spesso
insoddisfacenti, di servizi importanti e vitali, non per progettarne altre,
adeguate ai contenuti ed alle finalità, ma per consegnarne le parti più
appetitose alla speculazione e lasciare le parti non redditizie alla
filantropia, alla beneficenza, alla generosità del volontariato.
Né le cose
vanno meglio in Europa. A 10 anni dal rapporto Delors, trasformatosi poi nel
Trattato di Maastricht, l'Europa si è ridotta ad Euro: alla moneta unica.
Nessuna attuazione delle politiche, nel rapporto previste, di garanzia della
concorrenza, riduzione dei divari tra regioni e paesi, coordinamento delle
azioni a livello comunitario, riparo ai limiti e fallimenti del mercato stesso.
A far compagnia alla moneta unica è rimasto solo il taglio dei bilanci pubblici
dei singoli stati. A questa mutilazione del programma economico, che resta la
base della costruzione europea, corrisponde l'impasse sul piano politico. Unica
novità è l'impegno per un'integrazione delle forze militari: la preparazione
della guerra, come risposta alla difficoltà di costruire una società più
giusta. II superamento degli stati nazionali, delle concezioni e pratiche che
li hanno accompagnati e sorretti, la costruzione di una casa comune,
democratica, civile, tollerante, aperta ai paesi dell'Est, capace di forte
collaborazione con gli altri paesi del mediterraneo e del vicino oriente è
invece un elemento di grande rilievo per assicurare pace e giustizia nel mondo.
E' anche la condizione per un rilancio effettivo del prestigio e dell'azione dell'ONU.
Che a una globalizzazione degli affari,
delle culture, della scienza e della tecnica, dei modi di vivere debba
corrispondere una società civile globale ed una altrettanto globale democrazia,
capacità di governo e di rendere giustizia, è intuitivo ed appartiene al senso
comune. II problema è se questo possa essere oggetto di una pur faticosa
ricerca, che ha nell'ONU (nel suo funzionamento e superamento assieme) un
importante terreno di verifica. Dichiarazioni universali di diritti,
istituzioni di tribunali internazionali, vanno in questa direzione, ma occorre
ben altro impegno di governi e società. L’alternativa è la rassegnazione ad un
mondo dominato, per ora, da una superpotenza, sempre più diviso tra paesi
integrati e paesi esclusi, segnato dal conflitto tra fondamentalismi, che si
pretendono religiosi, e il non meno pericoloso fondamentalismo della
competitività quale sola regola.
L'ONU, ha
proclamato il 2000 anno per una cultura di pace ed il decennio 2001-2010
decennio per la cultura di pace e nonviolenza per i bambini del mondo.
Dell'incontro
necessario tra pace e giustizia già ci aveva parlato a Ferrara Samuel Ruiz, il
vescovo del Chiapas, quando venne per il premio assegnatogli dall'associazione
Ferrara-Terzo Mondo. La cultura della pace è, secondo una bella definizione
dell'Unesco, una cultura della convivialità e della condivisione, fondata sui
principi di libertà, giustizia e democrazia, di tolleranza e solidarietà. Una
cultura che rifiuta la violenza, cerca di prevenire i conflitti all'origine e
di risolvere i problemi attraverso il negoziato. Infine una cultura che
assicura a tutti il pieno godimento di tutti i diritti e dei mezzi per
partecipare pienamente allo sviluppo endogeno della società. Un gruppo di premi
Nobel per la pace, nel 50° della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, ha
proposto un Manifesto, con l'obiettivo di raggiungere 100 milioni di firme (le
raccoglie l'Unesco) per l'Assemblea generale dell'Onu nel settembre 2000. Lega
strettamente pace, giustizia e tutela dell'ambiente. Chiede a ciascuno di
riconoscere la propria responsabilità e di assumere impegni non delegabili, né
all'autorità né al mercato. II primo passo è sempre questo: si comincia sempre
da uno e al centro dell'agire sono persone, amava ripetere Aldo Capitini.
Daniele
Lugli
TERRA DI
NESSUNO (Dic.99)