Dal libro UN’ECONOMIA PER IL BENE COMUNE di H.E.DALY e J.B.COBB jr. – RED edizioni - Como

 

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Iniziative possibili

 

 

Questo libro si occupa della possibilità di imprimere all'economia una nuova direzione, per il bene degli esseri umani e di tutta la biosfera. Il prossimo capitolo, che è anche quello conclusivo, affronterà le problematiche teoriche decisive, quelle religiose e filosofiche. Crediamo infatti che la nostra risposta collettiva ai fatti nudi e crudi sia innanzi tutto una questione di convinzioni e di visioni religiose. Riteniamo che la nostra visione affiori qua e là in tutto il corso del libro, ma finora non l'abbiamo né presentata né difesa in modo organico, e neppure l'abbiamo posta in relazione con altri tipi di visione.

     Nel frattempo, in questo capitolo, ci muoveremo in una direzione diversa, occupandoci delle attività da intraprendere nel contesto attuale per orientarci verso politiche desiderabili per la comunità. Affronteremo quindi le questioni delle riforme universitarie possibili, del rafforzamento delle comunità locali, dei progressi in direzione di un'economia nazionale relativamente autosufficiente come primo passo verso un ulteriore decentramento, della promozione di forme di consapevolezza pubblica circa il problema della scala dell'economia, e del cambiamento degli indicatori di successo economici.

 

     Il primo e più importante passo verso il riorientamento dell'economia deve essere la diffusa consapevolezza che qualcosa non va, che le attuali politiche non funzionano, che i fatti nudi e crudi devono essere presi sul serio. Il nostro libro ha dato per scontato questo passo, e si rivolge principalmente a coloro che già condividono tale consapevolezza. Esiste un'ampia letteratura che descrive la gamma dei problemi da affrontare e che mostra come, continuando sulla strada seguita finora, non faremo che peggiorare la situazione.

 

     Purtroppo, sia il grande pubblico sia i leader politici non sono ancora arrivati al primo passo. Nonostante il profondo disagio, si ostinano ad aggrapparsi ai vecchi modelli di pensiero. I politici o non capiscono che la situazione è mutata o temono di affrontare la questione pubblicamente. La stampa di tanto in tanto riporta i fatti nudi e crudi, ma poi ritorna alle solite notizie come se niente fosse successo.

     Forse è inevitabile che sia così, dal momento che i problemi appaiono isolati l'uno dall'altro. La gente si sforza di risolverli caso per caso, e inevitabilmente, nella ricerca di una soluzione, adotta la stessa prospettiva che è all'origine di tali problemi. La gente sembra turbata dal numero e dalle dimensioni dei problemi, ma ciò, anziché stimolare una riflessione più approfondita sulle cause, alimenta il bisogno psicologico di evasione. Non avendo soluzioni a portata di mano, e dubitando anche che possano esistere, molti cercano di procurarsi adesso quello che possono pensando che i posteri si arrangeranno. Altri trovano conforto nell'ottimismo tecnologico.

 

     Il secondo passo è la diffusa consapevolezza che molti dei problemi che oggi l'umanità si trova ad affrontare sono interconnessi e hanno in realtà la stessa origine. Questo libro si propone di facilitare tale passo. Intraprendendolo, lo smarrimento e l'angoscia generalizzata avvertiti da coloro che hanno già compiuto il primo passo, o che vi hanno opposto resistenza, possono essere mitigati. La sensazione di essere schiacciati da forze senza nome viene superata. Grazie ad una nuova prospettiva, è possibile trovare una spiegazione a ciò che succede. Le cause possono essere identificate e chiamate col loro nome, e le responsabilità umane emergono chiaramente.

 

     Il terzo passo consiste nel comprendere che gli esseri umani hanno ancora la possibilità di scegliere un futuro vivibile per se stessi e per i propri discendenti. L'umanità non è prigioniera di un destino inesorabile. La gente può essere attratta da nuovi modi di organizzare l'esistenza, e anche sollecitata dalla consapevolezza di quello che succederà se non si decide a cambiare. Su questo terzo passo il nostro libro ha ancora molto da dire. Noi crediamo che un barlume di speranza possa aiutare le persone a intraprendere il primo e il secondo passo senza farsi prendere dal panico e dalla tentazione di negare l'evidenza. Riteniamo inoltre che il terzo passo, così come l'abbiamo definito, sia in stretta relazione con quell'insieme di visioni del mondo che si è sviluppato e diffuso rapidamente negli ultimi anni negli ambienti femministi, ambientalisti e in varie correnti del pensiero religioso, e che ha punti di contatto anche con le teorie della liberazione diffuse nel Terzo Mondo. Tali idee si sono diffuse attraverso canali informali e hanno dato vita a un grande movimento culturale, ormai pronto a emergere e a pesare sulle scelte politiche nazionali. Esso sta diventando una forza politica in grado di dare una risposta al bisogno, avvertito dalla collettività quasi a livello inconscio, di una nuova visione e di una nuova classe politica. Può darsi che non sia così lontano il momento in cui verranno seriamente discusse a livello nazionale delle politiche desiderabili per la comunità. Tuttavia gli ostacoli sono enormi. Consuetudini mentali vecchie di un secolo non possono sparire da un momento all'altro, specialmente quando sono radicate in tutti i centri di potere e di prestigio.

 

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Rafforzare la comunità

 

     L’obbiettivo dei cambiamenti proposti in questo libro è una società a forte partecipazione democratica, una comunità di comunità con base locale e dimensioni relativamente piccole. Le politiche che noi auspichiamo dovrebbero tendere a rafforzare le comunità locali più piccole. Ma non è il caso di attendere che questo rafforzamento sia l’esito di decisioni piovute dall’alto. Molto più si può fare fin da ora a livello locale, nonostante i vincoli posti dalla vita economica e politica. In effetti, se le comunità non esercitano ora il potere che detengono per sostenere e migliorare le loro condizioni di vita, c’è il rischio che poi non riescano ad utilizzare in modo efficace il contesto favorevole che noi proponiamo venda loro fornito. Fortunatamente le iniziative comunitarie già in corso sono numerose. Citeremo alcuni esempi.

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     Un programma particolarmente interessante è stato avviato all’interno del Meadwcreek Project di Fox, nell’Arkansas. Tra i suoi obbiettivi c’è anche quello di mostrare che, persino all’interno dell’attuale sistema economico, «l’acquisto di prodotti agricoli coltivati localmente non è solo una simpatica idea. Esso ha una sua ragion d’essere. In media un prodotto alimentare viaggia per 1300 miglia dal luogo in cui è coltivato al luogo dove è consumato. Spedire per camion un carico di prodotti attraverso il paese costa fino a 4500 dollari. Inoltre ogni dollaro speso in prodotti locali circola nell’economia locale, generando da 1,81 a 2,78 dollari negli altri settori» (Passmore).

     Il Meadwcreek Project ha collaborato con lo Hendrix College di Conway, nell’Arkansas, per riorientare i suoi acquisti a favore dei prodotti locali. Nel giro di un anno l’istituto ha aumentato dal 9% al 40% i suoi acquisti di beni alimentari prodotti all’interno dello stato. Un progetto analogo è stato avviato assieme all’Oberlin College dell’Ohio. In entrambi le scuole, l’analisi delle politiche di acquisto ha coinvolto gli studenti in un ampio esame delle problematiche economiche ed ecologiche.

 

     L’ostacolo principale al tentativo di abbreviare le linee di distribuzione e di incoraggiare l’economia locale è la convenienza a conservare il modello attuale. In primo luogo c’è la convenienza del gestore di un servizio alimentare ad acquistare diversi tipi di prodotti dallo stesso distributore, che a sua volta è legato ai sistemi di distribuzione nazionali. In secondo luogo, c'è la convenienza ad acquistare alimenti già trattati. Per avviare una politica di acquisti locali bisogna prendere l'iniziativa di contattare i fornitori locali ed aumentare la mole di lavoro nelle proprie cucine. Tuttavia, il miglioramento della qualità è una ricompensa più che sufficiente per i fastidi e i piccoli costi aggiuntivi sopportati.

     Il passo successivo, secondo David Orr, direttore del Meadowcreek Project, sarà un'estensione del programma per analizzare tutti i flussi di alimenti, energia, materiali, acqua e rifiuti relativi a cinque istituti scolastici diversi, con particolare attenzione ai costi sociali e ambientali. L'intento è quello di proporre alternative più sostenibili rispetto ai modelli attuali. Gli obiettivi più generali di questi programmi sono i seguenti: «(1) Condizionare il potere d'acquisto di istituzioni chiave, di grande visibilità; (2) cambiare i contenuti e i metodi del processo educativo coinvolgendo l'intera comunità scolastica in un'analisi dei meccanismi con cui tali metodi e contenuti esercitano il loro influsso sulla realtà»

 

Cambiare le politiche commerciali

 

Per quanto si possa e si debba fare molto per cambiare le istituzioni e per rafforzare la comunità ovunque sia possibile, è anche urgente avviare nuove politiche a livello nazionale. Questo non sarà possibile finché nei circoli politici più influenti noti si comincerà a riconsiderare gli obiettivi dell'economia americana. II dibattito sul commercio e la protezione dell'industria americana è l'ambito più adatto per l'introduzione di queste nuove idee.

     Finora tale dibattito è stato molto unilaterale. Da un lato vi sono coloro che adottano una visione ampia e di lungo periodo. Costoro sono sicuri che il libero scambio sia l'unica procedura in grado di procurare benefici alla popolazione nel suo insieme. Pur riconoscendo che ciò porta alla chiusura di molte fabbriche e sconvolge la vita di milioni di persone, sono convinti che questo sia un prezzo necessario da pagare. Il libero scambio porterà a una maggiore produttività e alla crescita economia, e questo andrà a vantaggio di tutta la popolazione.

     Dall'altra parte vi sono coloro che vedono distrutti i propri mezzi di sussistenza o comunque diminuiti i propri redditi. Questi gruppi si trovano costretti a perorare la propria causa presso il governo, chiedendo protezione nei confronti della concorrenza straniera unicamente in nome del proprio benessere privato. Costoro non offrono alcuna giustificazione teorica per le loro richieste, se non i propri bisogni particolari. Talvolta si scusano, affermando che la protezione di cui necessitano è solo temporanea e professando la loro fede nel libero scambio come ideale e come norma. Tale gruppo è formato dai lavoratori e dai proprietari delle imprese che operano nei settori più minacciati dalla concorrenza estera, ma non ancora completamente sconfitti da essa. In questo modo i politici rappresentano davanti all'opinione pubblica la classica parte di coloro che devono mediare tra la pressione degli interessi particolari e il loro senso del bene generale. Il risultato è un intrico di compromessi che riflette più l'influenza politica di tali interessi particolari che non un giudizio obiettivo circa i meriti della causa della protezione di particolari prodotti. Qualsiasi protezione si presenta come una deviazione occasionale da un ideale la cui validità deve restare indiscussa.

 

     La nostra opinione è che questo gioco delle parti sia la conseguenza di valutazione errata del ruolo del libero scambio internazionale. Tale scambio comporta certamente dei vantaggi, ma anche effetti negativi. In realtà la validità del principio dei vantaggi comparati, a cui si fa spesso appello per giustificarlo, è tutta da dimostrare. Oggi le dimensioni e il contenuto del libero scambio hanno superato la soglia oltre la quale esso danneggia, anziché avvantaggiare. la maggior parte delle nazioni che lo praticano. Questo vale ormai anche per gli Stati Uniti.

 

     Sarebbe assai auspicabile che i gruppi consapevoli di essere danneggiati dall'assoluta libertà di importazione prendessero anche coscienza del fatto che coloro che invece ne traggono vantaggio a loro spese non hanno alcuna giustificazione teorica. Allora diventerebbe possibile mutare i termini del dibattito. Anziché scusarsi per aver mendicato un'eccezione alla regola generalmente accettata, tali gruppi potrebbero mettere in questione proprio la regola. Siamo convinti infatti che la regola generale non reggerebbe a una discussione obiettiva, e solo allora diventerebbe possibile analizzare su basi empiriche l'impatto del libero scambio sull'economia nazionale e considerare le eventuali alternative.

     Il risultato di un dibattito del genere non sarebbe deciso unicamente sulla base di considerazioni di ordine logico. Gli interessi dei diversi settori della società vi giocherebbero un ruolo importante. È essenziale a questo punto capire quali sono i gruppi che potrebbero schierarsi a favore di un'economia nazionale.

 

     Uno dei gruppi che resterebbero più turbati da un'attenta analisi di ciò che sta accadendo è quello che ha a cuore la sicurezza nazionale. Anche quando quest'ultima è intesa in senso strettamente militare, nessuno può essere indifferente rispetto alla capacità di un paese di produrre da sé le proprie armi. È stato proprio in base a una preoccupazione di questo tipo che si è deciso di vietare al Pentagono di rivolgersi per gli acquisti a imprese non statunitensi. Ciò apparentemente garantisce la sicurezza delle forniture, ma in realtà molti componenti cruciali degli armamenti sono a loro volta importati. Un'interruzione delle forniture in qualche remota parte del mondo potrebbe quindi bloccare la produzione.

     Un altro gruppo di alleati naturali sono tutti quegli industriali che già da ora chiedono protezione. Si tratta di un gruppo in continuo aumento, almeno finché la concorrenza non l'avrà spazzato via definitivamente. Esso ha una notevole influenza politica, come testimonia la legge sul commercio approvata negli USA.

 

     Ma la componente più importante tra quelle interessate a riconsiderare la politica economica nazionale è rappresentata dai lavoratori. Purtroppo essi hanno già sofferto profondamente a causa del libero scambio, al punto che i sindacati si sono indeboliti e la loro immagine pubblica è sfata danneggiata. Finché i lavoratori continueranno ad accettare l'ideologia che li sta distruggendo, la loro capacità di resistere alle conseguenze di tale ideologia sarà scarsa. Ma quando riconosceranno che quella ideologia non è valida, che sussistono ottimi motivi per ridefinire l'economia nazionale in modo da proteggere il loro ruolo relativo all'interno della società e attribuire loro un nuovo ruolo all'interno della comunità, il movimento dei lavoratori riprenderà forza.

 

     Ognuna di queste alleanze presenta qualche rischio. Per esempio, pur concordando sul fatto che un paese dovrebbe essere capace di fabbricare da sé le proprie armi, non vorremmo certo incoraggiare la tendenza statunitense a dominare il mondo.

     Inoltre, pur riconoscendo che i settori minacciati dalla concorrenza, in generale, dovrebbero essere protetti dalle importazioni in modo che il paese possa incamminarsi sulla via dell'autosufficienza, vorremmo che questo fosse compensato da un notevole aumento della concorrenza tra i produttori americani e da un decentramento della produzione e del controllo.

     Infine, pur battendoci perché i lavoratori siano tutelati e si mantengano le conquiste ottenute nell'arco di un secolo, non vorremmo che si riaccendesse una fase di lotte sindacali finalizzate unicamente a conquistare una fetta maggiore di torta a spese della popolazione in generale. E pur essendo decisamente a favore della transizione a un'economia nazionale, speriamo che ciò si possa realizzare gradualmente e in modo ordinato, per ridurre al minimo il danno inferito alle economie dei nostri partner commerciali. Ci auguriamo inoltre che la nazionalizzazione dell'economia possa accompagnarsi a un rafforzamento dell'internazionalizzazione per quanto riguarda i temi di rilevanza mondiale. Un indebolimento della tendenza al dominio e del commercio internazionale dovrebbe accompagnarsi a un aumento dell'interesse per là soluzione comune dei problemi.

     Vogliamo aggiungere un quarto gruppo il cui sostegno non dipende da interessi egoistici di tipo economico: una rete di persone che hanno preso coscienza grazie alla partecipazione ai movimenti femministi e ambientalisti, che non hanno mai smesso di credere ai valori della sobrietà e del self-reliance, che hanno sempre desiderato che il potere fosse più vicino alla gente e che questa avesse voce in capitolo nelle decisioni politiche ed economiche che ne influenzano l'esistenza. Senza la guida di queste persone impegnate, una coalizione politica di gruppi che rappresentano interessi settoriali non avrà mai successo.

Un altro dei gruppi di cui desideriamo l'appoggio è formato da quel numero piuttosto ristretto di persone bene informate che hanno a cuore il destino del Terzo Mondo. Non ci riferiamo a coloro che hanno conosciuto il Terzo Mondo solo mediante i corsi di studio nella madrepatria e attraverso il dialogo con le élites locali, ma piuttosto a coloro che hanno avuto a che fare con le popolazioni e che sono stati testimoni della trasformazione delle loro condizioni di vita indotta dallo sviluppo. Abbiamo bisogno del loro sostegno non certo perché siano numerosi o perché abbiano una grande influenza politica diretta, ma a motivo della loro saggezza e autorità morale. Pensiamo in particolare al genere di persone che hanno collaborato alla stesura del Rapporto Brundtland (Our Common Future) richiamando l'attenzione sull'idea di sviluppo sostenibile, che abbiamo esaminato nel capitolo 3. Quando tale concetto sarà definito con maggior precisione, presenterà molte somiglianze con la prospettiva da noi delineata di un'economia al servizio della comunità.

     L'autorità morale di queste persone ci sarà utile per neutralizzare l'accusa di immoralità che sarà rivolta alla nostra proposta di avviare la transizione ad un'economia nazionale. Ci diranno che vogliamo sbarrare la porta alle importazioni del Terzo Mondo e condannare le loro popolazioni alla miseria proprio quando alcune di esse, grazie all'industrializzazione, cominciano a beneficiare di un certo benessere. Ci diranno che stiamo cercando di conservare il tenore di vita americano come nostro privilegio esclusivo a spese dei lavoratori del Terzo Mondo, proprio quando il trasferimento di tecnologia comincia a colmare il divario tecnologico. Ci diranno che dopo aver attirato queste popolazioni nell'ambito del commercio internazionale le abbandoniamo proprio quando imparano a guadagnarci qualcosa.

     Queste durissime accuse non sono del tutto prive di fondamento, e questo ci preoccupa. Siamo coscienti del fatto che gli Stati Uniti hanno una grande responsabilità nei confronti di questi popoli, e saremmo addolorati se il nostro paese, nel passaggio a un'economia nazionale, non lo riconoscesse. Gli Stati Uniti dovrebbero incoraggiare l'autosufficienza, almeno agricola, in tutti quei paesi del Terzo Mondo che perseguono tale obiettivo. Per agire in modo costruttivo dobbiamo servirci della guida di coloro che comprendono ‘dal basso’ i bisogni del Terzo Mondo.

 

     Ma anche se gli Stati Uniti voltassero le spalle al resto del mondo ritirandosi in un nuovo isolazionismo, ciò forse sarebbe un guadagno per gli altri popoli se si considerano le pressioni attualmente esercitate su questi dai primi in nome dello sviluppo. Poiché l'unica cosa che può aiutare le grandi masse del Terzo Mondo è un profondo cambiamento sociale, e poiché nel nome dell'internazionalismo gli Stati Uniti osteggiano e spesso impediscono questo cambiamento, la fine di tale internazionalismo può essere un dono del cielo, e potrebbe portare a quello 'sganciamento' (delinking) che tanti leader del Terzo Mondo ormai invocano.

 

     È importante anche prevedere quali gruppi si opporranno al cambiamento. Innanzi tutto, esso incontrerà l'opposizione della comunità finanziaria. Le istituzioni finanziarie sono diventate la forza più potente nell'economia mondiale degli ultimi anni, soppiantando l'industria, che ormai è diventata poco più di una pedina nelle mani del capitale internazionale. Coloro la cui fonte di guadagno è la mobilità del capitale non avranno che da perderci con il passaggio ad un'economia nazionale. Questi finanzieri sono oggi i grandi cosmopoliti, che celebrano l'interdipendenza universale di tutte le parti del mondo, e che criticheranno aspramente l'eventualità di ripiegare nell’’isolazionismo'.

     Costoro saranno appoggiati da tutti quegli ideologi dell'economia che si rifiutano di credere che la struttura della loro disciplina accademica sia fallace. Essi conferiranno una grande rispettabilità accademica agli interessi egoistici della comunità finanziaria. Spesso lo faranno in perfetta buona fede. Tra gli economisti la fede nel libero scambio ha una valenza quasi religiosa, che non si lascerà facilmente sradicare né dall'evidenza dei fatti né da argomenti di tipo razionale.

Un altro appoggio alla comunità finanziaria proverrà da particolari gruppi di interesse, in primo luogo dagli importatori. Costoro in effetti saranno danneggiati dal cambiamento, benché questo, se realizzato in modo graduale e opportunamente preannunciato, non dovrebbe costituire un grosso problema economico. Tuttavia, la loro attività diventerà meno redditizia di quanto è ora, e quindi è bene includerli nel gruppo degli oppositori. Anche gli esportatori si lamenteranno quando capiranno che gli Stati Uniti non potranno espandere le esportazioni contemporaneamente a un taglio delle importazioni, poiché sono le nostre importazioni che permettono agli altri paesi di guadagnare i dollari con cui pagare le nostre esportazioni.

     Un gruppo molto più numeroso che vedrà la restrizione delle importazioni di beni come una perdita è quello dei negozianti al dettaglio. Per questi la perdita sarà minore, poiché potranno passare gradualmente ai prodotti nazionali. Tuttavia, anche per loro gli affari diventeranno meno redditizi rispetto a oggi.

 

     Un sostegno di massa alla concezione tradizionale del libero scambio verrà da parte di coloro che si identificano essenzialmente nell'Homo oeconomicus tradizionale degli economisti, il consumatore razionale. Infatti i beni prodotti dai lavoratori le cui retribuzioni sono ai livelli statunitensi costeranno sicuramente più di quelli importati da paesi a bassi livelli salariali ed esenti da dazio. Anche se la riduzione della concorrenza internazionale sarà compensata dall'aumento della concorrenza interna, per molti prodotti sarà minore la possibilità di scelta, almeno per un certo periodo. Infine, la qualità di molti prodotti statunitensi è inferiore e questa situazione probabilmente si protrarrà fino a quando i migliori ricercatori americani non verranno trasferiti dalla ricerca militare a quella civile e finché i lavoratori e i dirigenti non assomiglieranno maggiormente a una comunità che collabora per migliorare i propri prodotti.

     Siamo convinti che l'attuale abbondanza di prodotti d'importazione non potrà durare in eterno per tutta la popolazione statunitense. Prima o poi si dovrà intervenire per sanare il grave disavanzo della bilancia commerciale, e in un modo o nell'altro questo ridurrà la capacità della maggior parte degli americani di acquistare tali beni. I lavoratori, in generale, probabilmente capiranno che la protezione che richiedono comporta anche il fatto di pagare i prodotti americani a prezzi più alti. Ma nel settore dei servizi in cui le retribuzioni sono basse, l'unico settore in crescita della nostra economia, molti lavoratori che non vedono le importazioni come una minaccia per il proprio posto di lavoro malediranno i dazi all'importazione perché determinano un aumento del costo della vita. La loro ostilità sarà fomentata dai finanzieri e dai loro ideologi.

 

     A questo punto si presenta un grave problema. Con la distruzione della comunità a ogni livello, gli esseri umani sono diventati molto più simili a come li dipingeva il modello dell'Homo oeconomicus. Lo shopping è diventato il passatempo nazionale per eccellenza. Gli unici posti in cui gli americani sono sicuri di essere accolti con calore sono gli empori commerciali. Il prestigio nasce dal fatto di scovare prodotti insoliti a prezzi insoliti. Pertanto qualsiasi cambiamento che minaccia le persone nel loro ruolo di consumatori, anche se non impedisce la soddisfazione dei loro bisogni materiali, suscita una notevole ostilità emotiva. Ciò può rendere molto difficile qualsiasi discussione in merito ai modi di affrontare questo problema nazionale.

     Con i loro acquisti dissennati e la loro svendita massiccia dei beni capitali della nazione, gli americani hanno dissipato la propria eredità e impoverito i propri figli; e lo hanno fatto unicamente per sostenere il loro attuale livello di consumo, per il piacere dello shopping che di tale modello di consumo è parte integrante, e soprattutto per rimandare il momento di mettere in questione l'efficacia del libero scambio e della crescita infinita. In qualche modo bisogna rendere chiara all'opinione pubblica la sproporzione tra ciò che si guadagna e ciò che si perde attraverso comportamenti del genere. La disponibilità ad accettare restrizioni all'importazione dipenderà dalla capacità di trovare immagini che facciano presa sulle masse e che mostrino perché l'attuale ricchezza è un'illusione e perché è necessaria un'economia nazionale.

 

L'attuale ricchezza, per quanto illusoria, suggerisce che questo non è forse il momento giusto per sollecitare dei cambiamenti. È invece il momento adatto per smascherare gli errori teorici e pratici del principio dei vantaggi comparati come è applicato alla situazione attuale. Ma la gente sarà più disponibile al cambiamento quando la fragilità di questo modello economico sarà più facilmente e pubblicamente riconoscibile.

 

 Ciò non mancherà di verificarsi.