Dal libro UN’ECONOMIA PER IL
BENE COMUNE di H.E.DALY e J.B.COBB jr. – RED edizioni - Como
Giungere alla meta
Questo libro si occupa della possibilità di imprimere
all'economia una nuova direzione, per il bene degli esseri umani e di tutta la
biosfera. Il prossimo capitolo, che è anche quello conclusivo, affronterà le
problematiche teoriche decisive, quelle religiose e filosofiche. Crediamo
infatti che la nostra risposta collettiva ai fatti nudi e crudi sia innanzi
tutto una questione di convinzioni e di visioni religiose. Riteniamo che la
nostra visione affiori qua e là in tutto il corso del libro, ma finora non
l'abbiamo né presentata né difesa in modo organico, e neppure l'abbiamo posta
in relazione con altri tipi di visione.
Nel
frattempo, in questo capitolo, ci muoveremo in una direzione diversa,
occupandoci delle attività da intraprendere nel contesto attuale per orientarci
verso politiche desiderabili per la comunità. Affronteremo quindi le questioni
delle riforme universitarie possibili, del rafforzamento delle comunità locali,
dei progressi in direzione di un'economia nazionale relativamente
autosufficiente come primo passo verso un ulteriore decentramento, della
promozione di forme di consapevolezza pubblica circa il problema della scala
dell'economia, e del cambiamento degli indicatori di successo economici.
Il primo e
più importante passo verso il riorientamento dell'economia deve essere la diffusa
consapevolezza che qualcosa non va, che le attuali politiche non funzionano,
che i fatti nudi e crudi devono essere presi sul serio. Il nostro libro ha dato
per scontato questo passo, e si rivolge principalmente a coloro che già
condividono tale consapevolezza. Esiste un'ampia letteratura che descrive la
gamma dei problemi da affrontare e che mostra come, continuando sulla strada
seguita finora, non faremo che peggiorare la situazione.
Purtroppo,
sia il grande pubblico sia i leader politici non sono ancora arrivati al primo
passo. Nonostante il profondo disagio, si ostinano ad aggrapparsi ai vecchi
modelli di pensiero. I politici o non capiscono che la situazione è mutata o
temono di affrontare la questione pubblicamente. La stampa di tanto in tanto riporta
i fatti nudi e crudi, ma poi ritorna alle solite notizie come se niente fosse
successo.
Forse è
inevitabile che sia così, dal momento che i problemi appaiono isolati l'uno
dall'altro. La gente si sforza di risolverli caso per caso, e inevitabilmente,
nella ricerca di una soluzione, adotta la stessa prospettiva che è all'origine
di tali problemi. La gente sembra turbata dal numero e dalle dimensioni dei
problemi, ma ciò, anziché stimolare una riflessione più approfondita sulle
cause, alimenta il bisogno psicologico di evasione. Non avendo soluzioni a
portata di mano, e dubitando anche che possano esistere, molti cercano di
procurarsi adesso quello che possono pensando che i posteri si arrangeranno.
Altri trovano conforto nell'ottimismo tecnologico.
Il secondo
passo è la diffusa consapevolezza che molti dei problemi che oggi l'umanità si
trova ad affrontare sono interconnessi e hanno in realtà la stessa origine.
Questo libro si propone di facilitare tale passo. Intraprendendolo, lo
smarrimento e l'angoscia generalizzata avvertiti da coloro che hanno già
compiuto il primo passo, o che vi hanno opposto resistenza, possono essere
mitigati. La sensazione di essere schiacciati da forze senza nome viene
superata. Grazie ad una nuova prospettiva, è possibile trovare una spiegazione
a ciò che succede. Le cause possono essere identificate e chiamate col loro
nome, e le responsabilità umane emergono chiaramente.
Il terzo
passo consiste nel comprendere che gli esseri umani hanno ancora la possibilità
di scegliere un futuro vivibile per se stessi e per i propri discendenti.
L'umanità non è prigioniera di un destino inesorabile. La gente può essere
attratta da nuovi modi di organizzare l'esistenza, e anche sollecitata dalla
consapevolezza di quello che succederà se non si decide a cambiare. Su questo
terzo passo il nostro libro ha ancora molto da dire. Noi crediamo che un
barlume di speranza possa aiutare le persone a intraprendere il primo e il
secondo passo senza farsi prendere dal panico e dalla tentazione di negare
l'evidenza. Riteniamo inoltre che il terzo passo, così come l'abbiamo definito,
sia in stretta relazione con quell'insieme di visioni del mondo che si è
sviluppato e diffuso rapidamente negli ultimi anni negli ambienti femministi,
ambientalisti e in varie correnti del pensiero religioso, e che ha punti di
contatto anche con le teorie della liberazione diffuse nel Terzo Mondo. Tali
idee si sono diffuse attraverso canali informali e hanno dato vita a un grande
movimento culturale, ormai pronto a emergere e a pesare sulle scelte politiche
nazionali. Esso sta diventando una forza politica in grado di dare una risposta
al bisogno, avvertito dalla collettività quasi a livello inconscio, di una
nuova visione e di una nuova classe politica. Può darsi che non sia così
lontano il momento in cui verranno seriamente discusse a livello nazionale
delle politiche desiderabili per la comunità. Tuttavia gli ostacoli sono
enormi. Consuetudini mentali vecchie di un secolo non possono sparire da un
momento all'altro, specialmente quando sono radicate in tutti i centri di
potere e di prestigio.
(... ... ...)
Rafforzare la comunità
L’obbiettivo
dei cambiamenti proposti in questo libro è una società a forte partecipazione
democratica, una comunità di comunità con base locale e dimensioni
relativamente piccole. Le politiche che noi auspichiamo dovrebbero tendere a
rafforzare le comunità locali più piccole. Ma non è il caso di attendere che
questo rafforzamento sia l’esito di decisioni piovute dall’alto. Molto più si
può fare fin da ora a livello locale, nonostante i vincoli posti dalla vita
economica e politica. In effetti, se le comunità non esercitano ora il potere
che detengono per sostenere e migliorare le loro condizioni di vita, c’è il
rischio che poi non riescano ad utilizzare in modo efficace il contesto
favorevole che noi proponiamo venda loro fornito. Fortunatamente le iniziative
comunitarie già in corso sono numerose. Citeremo alcuni esempi.
(... ... ...)
Un
programma particolarmente interessante è stato avviato all’interno del
Meadwcreek Project di Fox, nell’Arkansas. Tra i suoi obbiettivi c’è anche
quello di mostrare che, persino all’interno dell’attuale sistema economico,
«l’acquisto di prodotti agricoli coltivati localmente non è solo una simpatica
idea. Esso ha una sua ragion d’essere. In media un prodotto alimentare viaggia
per 1300 miglia dal luogo in cui è coltivato al luogo dove è consumato. Spedire
per camion un carico di prodotti attraverso il paese costa fino a 4500 dollari.
Inoltre ogni dollaro speso in prodotti locali circola nell’economia locale,
generando da 1,81 a 2,78 dollari negli altri settori» (Passmore).
Il
Meadwcreek Project ha collaborato con lo Hendrix College di Conway, nell’Arkansas,
per riorientare i suoi acquisti a favore dei prodotti locali. Nel giro di un
anno l’istituto ha aumentato dal 9% al 40% i suoi acquisti di beni alimentari
prodotti all’interno dello stato. Un progetto analogo è stato avviato assieme
all’Oberlin College dell’Ohio. In entrambi le scuole, l’analisi delle politiche
di acquisto ha coinvolto gli studenti in un ampio esame delle problematiche
economiche ed ecologiche.
L’ostacolo
principale al tentativo di abbreviare le linee di distribuzione e di incoraggiare
l’economia locale è la convenienza a conservare il modello attuale. In primo
luogo c’è la convenienza del gestore di un servizio alimentare ad acquistare
diversi tipi di prodotti dallo stesso distributore, che a sua volta è legato ai
sistemi di distribuzione nazionali. In secondo luogo, c'è la convenienza ad
acquistare alimenti già trattati. Per avviare una politica di acquisti locali
bisogna prendere l'iniziativa di contattare i fornitori locali ed aumentare la
mole di lavoro nelle proprie cucine. Tuttavia, il miglioramento della qualità è
una ricompensa più che sufficiente per i fastidi e i piccoli costi aggiuntivi
sopportati.
Il passo
successivo, secondo David Orr, direttore del Meadowcreek Project, sarà
un'estensione del programma per analizzare tutti i flussi di alimenti, energia,
materiali, acqua e rifiuti relativi a cinque istituti scolastici diversi, con
particolare attenzione ai costi sociali e ambientali. L'intento è quello di
proporre alternative più sostenibili rispetto ai modelli attuali. Gli obiettivi
più generali di questi programmi sono i seguenti: «(1) Condizionare il potere
d'acquisto di istituzioni chiave, di grande visibilità; (2) cambiare i
contenuti e i metodi del processo educativo coinvolgendo l'intera comunità
scolastica in un'analisi dei meccanismi con cui tali metodi e contenuti
esercitano il loro influsso sulla realtà»
Cambiare le politiche commerciali
Per quanto si possa e si debba fare molto per
cambiare le istituzioni e per rafforzare la comunità ovunque sia possibile, è
anche urgente avviare nuove politiche a livello nazionale. Questo non sarà
possibile finché nei circoli politici più influenti noti si comincerà a
riconsiderare gli obiettivi dell'economia americana. II dibattito sul commercio
e la protezione dell'industria americana è l'ambito più adatto per
l'introduzione di queste nuove idee.
Finora
tale dibattito è stato molto unilaterale. Da un lato vi sono coloro che
adottano una visione ampia e di lungo periodo. Costoro sono sicuri che il
libero scambio sia l'unica procedura in grado di procurare benefici alla
popolazione nel suo insieme. Pur riconoscendo che ciò porta alla chiusura di
molte fabbriche e sconvolge la vita di milioni di persone, sono convinti che
questo sia un prezzo necessario da pagare. Il libero scambio porterà a una
maggiore produttività e alla crescita economia, e questo andrà a vantaggio di
tutta la popolazione.
Dall'altra
parte vi sono coloro che vedono distrutti i propri mezzi di sussistenza o
comunque diminuiti i propri redditi. Questi gruppi si trovano costretti a
perorare la propria causa presso il governo, chiedendo protezione nei confronti
della concorrenza straniera unicamente in nome del proprio benessere privato.
Costoro non offrono alcuna giustificazione teorica per le loro richieste, se
non i propri bisogni particolari. Talvolta si scusano, affermando che la
protezione di cui necessitano è solo temporanea e professando la loro fede nel
libero scambio come ideale e come norma. Tale gruppo è formato dai lavoratori e
dai proprietari delle imprese che operano nei settori più minacciati dalla
concorrenza estera, ma non ancora completamente sconfitti da essa. In questo
modo i politici rappresentano davanti all'opinione pubblica la classica parte
di coloro che devono mediare tra la pressione degli interessi particolari e il
loro senso del bene generale. Il risultato è un intrico di compromessi che
riflette più l'influenza politica di tali interessi particolari che non un
giudizio obiettivo circa i meriti della causa della protezione di particolari
prodotti. Qualsiasi protezione si presenta come una deviazione occasionale da
un ideale la cui validità deve restare indiscussa.
La nostra
opinione è che questo gioco delle parti sia la conseguenza di valutazione
errata del ruolo del libero scambio internazionale. Tale scambio comporta
certamente dei vantaggi, ma anche effetti negativi. In realtà la validità del
principio dei vantaggi comparati, a cui si fa spesso appello per giustificarlo,
è tutta da dimostrare. Oggi le dimensioni e il contenuto del libero scambio
hanno superato la soglia oltre la quale esso danneggia, anziché avvantaggiare.
la maggior parte delle nazioni che lo praticano. Questo vale ormai anche per
gli Stati Uniti.
Sarebbe
assai auspicabile che i gruppi consapevoli di essere danneggiati dall'assoluta
libertà di importazione prendessero anche coscienza del fatto che coloro che
invece ne traggono vantaggio a loro spese non hanno alcuna giustificazione
teorica. Allora diventerebbe possibile mutare i termini del dibattito. Anziché
scusarsi per aver mendicato un'eccezione alla regola generalmente accettata,
tali gruppi potrebbero mettere in questione proprio la regola. Siamo convinti
infatti che la regola generale non reggerebbe a una discussione obiettiva, e
solo allora diventerebbe possibile analizzare su basi empiriche l'impatto del
libero scambio sull'economia nazionale e considerare le eventuali alternative.
Il
risultato di un dibattito del genere non sarebbe deciso unicamente sulla base
di considerazioni di ordine logico. Gli interessi dei diversi settori della
società vi giocherebbero un ruolo importante. È essenziale a questo punto
capire quali sono i gruppi che potrebbero schierarsi a favore di un'economia
nazionale.
Uno dei
gruppi che resterebbero più turbati da un'attenta analisi di ciò che sta
accadendo è quello che ha a cuore la sicurezza nazionale. Anche quando
quest'ultima è intesa in senso strettamente militare, nessuno può essere
indifferente rispetto alla capacità di un paese di produrre da sé le proprie
armi. È stato proprio in base a una preoccupazione di questo tipo che si è
deciso di vietare al Pentagono di rivolgersi per gli acquisti a imprese non
statunitensi. Ciò apparentemente garantisce la sicurezza delle forniture, ma in
realtà molti componenti cruciali degli armamenti sono a loro volta importati.
Un'interruzione delle forniture in qualche remota parte del mondo potrebbe
quindi bloccare la produzione.
Un altro
gruppo di alleati naturali sono tutti quegli industriali che già da ora
chiedono protezione. Si tratta di un gruppo in continuo aumento, almeno finché
la concorrenza non l'avrà spazzato via definitivamente. Esso ha una notevole
influenza politica, come testimonia la legge sul commercio approvata negli USA.
Ma la
componente più importante tra quelle interessate a riconsiderare la politica
economica nazionale è rappresentata dai lavoratori. Purtroppo essi hanno già
sofferto profondamente a causa del libero scambio, al punto che i sindacati si
sono indeboliti e la loro immagine pubblica è sfata danneggiata. Finché i
lavoratori continueranno ad accettare l'ideologia che li sta distruggendo, la
loro capacità di resistere alle conseguenze di tale ideologia sarà scarsa. Ma
quando riconosceranno che quella ideologia non è valida, che sussistono ottimi
motivi per ridefinire l'economia nazionale in modo da proteggere il loro ruolo
relativo all'interno della società e attribuire loro un nuovo ruolo all'interno
della comunità, il movimento dei lavoratori riprenderà forza.
Ognuna di
queste alleanze presenta qualche rischio. Per esempio, pur concordando sul
fatto che un paese dovrebbe essere capace di fabbricare da sé le proprie armi,
non vorremmo certo incoraggiare la tendenza statunitense a dominare il mondo.
Inoltre,
pur riconoscendo che i settori minacciati dalla concorrenza, in generale,
dovrebbero essere protetti dalle importazioni in modo che il paese possa
incamminarsi sulla via dell'autosufficienza, vorremmo che questo fosse
compensato da un notevole aumento della concorrenza tra i produttori americani e
da un decentramento della produzione e del controllo.
Infine,
pur battendoci perché i lavoratori siano tutelati e si mantengano le conquiste
ottenute nell'arco di un secolo, non vorremmo che si riaccendesse una fase di
lotte sindacali finalizzate unicamente a conquistare una fetta maggiore di
torta a spese della popolazione in generale. E pur essendo decisamente a favore
della transizione a un'economia nazionale, speriamo che ciò si possa realizzare
gradualmente e in modo ordinato, per ridurre al minimo il danno inferito alle
economie dei nostri partner commerciali. Ci auguriamo inoltre che la
nazionalizzazione dell'economia possa accompagnarsi a un rafforzamento
dell'internazionalizzazione per quanto riguarda i temi di rilevanza mondiale.
Un indebolimento della tendenza al dominio e del commercio internazionale
dovrebbe accompagnarsi a un aumento dell'interesse per là soluzione comune dei
problemi.
Vogliamo
aggiungere un quarto gruppo il cui sostegno non dipende da interessi egoistici
di tipo economico: una rete di persone che hanno preso coscienza grazie alla
partecipazione ai movimenti femministi e ambientalisti, che non hanno mai
smesso di credere ai valori della sobrietà e del self-reliance, che hanno
sempre desiderato che il potere fosse più vicino alla gente e che questa avesse
voce in capitolo nelle decisioni politiche ed economiche che ne influenzano
l'esistenza. Senza la guida di queste persone impegnate, una coalizione
politica di gruppi che rappresentano interessi settoriali non avrà mai successo.
Un altro dei gruppi di
cui desideriamo l'appoggio è formato da quel numero piuttosto ristretto di
persone bene informate che hanno a cuore il destino del Terzo Mondo. Non ci
riferiamo a coloro che hanno conosciuto il Terzo Mondo solo mediante i corsi di
studio nella madrepatria e attraverso il dialogo con le élites locali, ma
piuttosto a coloro che hanno avuto a che fare con le popolazioni e che sono
stati testimoni della trasformazione delle loro condizioni di vita indotta
dallo sviluppo. Abbiamo bisogno del loro sostegno non certo perché siano
numerosi o perché abbiano una grande influenza politica diretta, ma a motivo
della loro saggezza e autorità morale. Pensiamo in particolare al genere di
persone che hanno collaborato alla stesura del Rapporto Brundtland (Our Common
Future) richiamando l'attenzione sull'idea di sviluppo sostenibile, che abbiamo
esaminato nel capitolo 3. Quando tale concetto sarà definito con maggior
precisione, presenterà molte somiglianze con la prospettiva da noi delineata di
un'economia al servizio della comunità.
L'autorità
morale di queste persone ci sarà utile per neutralizzare l'accusa di immoralità
che sarà rivolta alla nostra proposta di avviare la transizione ad un'economia
nazionale. Ci diranno che vogliamo sbarrare la porta alle importazioni del
Terzo Mondo e condannare le loro popolazioni alla miseria proprio quando alcune
di esse, grazie all'industrializzazione, cominciano a beneficiare di un certo
benessere. Ci diranno che stiamo cercando di conservare il tenore di vita americano
come nostro privilegio esclusivo a spese dei lavoratori del Terzo Mondo,
proprio quando il trasferimento di tecnologia comincia a colmare il divario
tecnologico. Ci diranno che dopo aver attirato queste popolazioni nell'ambito
del commercio internazionale le abbandoniamo proprio quando imparano a
guadagnarci qualcosa.
Queste
durissime accuse non sono del tutto prive di fondamento, e questo ci preoccupa.
Siamo coscienti del fatto che gli Stati Uniti hanno una grande responsabilità
nei confronti di questi popoli, e saremmo addolorati se il nostro paese, nel
passaggio a un'economia nazionale, non lo riconoscesse. Gli Stati Uniti
dovrebbero incoraggiare l'autosufficienza, almeno agricola, in tutti quei paesi
del Terzo Mondo che perseguono tale obiettivo. Per agire in modo costruttivo
dobbiamo servirci della guida di coloro che comprendono ‘dal basso’ i
bisogni del Terzo Mondo.
Ma anche
se gli Stati Uniti voltassero le spalle al resto del mondo ritirandosi in un
nuovo isolazionismo, ciò forse sarebbe un guadagno per gli altri popoli se si
considerano le pressioni attualmente esercitate su questi dai primi in nome
dello sviluppo. Poiché l'unica cosa che può aiutare le grandi masse del Terzo
Mondo è un profondo cambiamento sociale, e poiché nel nome
dell'internazionalismo gli Stati Uniti osteggiano e spesso impediscono questo
cambiamento, la fine di tale internazionalismo può essere un dono del cielo, e
potrebbe portare a quello 'sganciamento' (delinking) che tanti leader del Terzo
Mondo ormai invocano.
È
importante anche prevedere quali gruppi si opporranno al cambiamento. Innanzi
tutto, esso incontrerà l'opposizione della comunità finanziaria. Le istituzioni
finanziarie sono diventate la forza più potente nell'economia mondiale degli
ultimi anni, soppiantando l'industria, che ormai è diventata poco più di una
pedina nelle mani del capitale internazionale. Coloro la cui fonte di guadagno
è la mobilità del capitale non avranno che da perderci con il passaggio ad un'economia
nazionale. Questi finanzieri sono oggi i grandi cosmopoliti, che celebrano
l'interdipendenza universale di tutte le parti del mondo, e che criticheranno
aspramente l'eventualità di ripiegare nell’’isolazionismo'.
Costoro
saranno appoggiati da tutti quegli ideologi dell'economia che si rifiutano di
credere che la struttura della loro disciplina accademica sia fallace. Essi
conferiranno una grande rispettabilità accademica agli interessi egoistici
della comunità finanziaria. Spesso lo faranno in perfetta buona fede. Tra gli
economisti la fede nel libero scambio ha una valenza quasi religiosa, che non
si lascerà facilmente sradicare né dall'evidenza dei fatti né da argomenti di
tipo razionale.
Un altro appoggio alla
comunità finanziaria proverrà da particolari gruppi di interesse, in primo
luogo dagli importatori. Costoro in effetti saranno danneggiati dal
cambiamento, benché questo, se realizzato in modo graduale e opportunamente
preannunciato, non dovrebbe costituire un grosso problema economico. Tuttavia,
la loro attività diventerà meno redditizia di quanto è ora, e quindi è bene
includerli nel gruppo degli oppositori. Anche gli esportatori si lamenteranno
quando capiranno che gli Stati Uniti non potranno espandere le esportazioni
contemporaneamente a un taglio delle importazioni, poiché sono le nostre
importazioni che permettono agli altri paesi di guadagnare i dollari con cui
pagare le nostre esportazioni.
Un gruppo
molto più numeroso che vedrà la restrizione delle importazioni di beni come una
perdita è quello dei negozianti al dettaglio. Per questi la perdita sarà
minore, poiché potranno passare gradualmente ai prodotti nazionali. Tuttavia,
anche per loro gli affari diventeranno meno redditizi rispetto a oggi.
Un
sostegno di massa alla concezione tradizionale del libero scambio verrà da
parte di coloro che si identificano essenzialmente nell'Homo oeconomicus
tradizionale degli economisti, il consumatore razionale. Infatti i beni
prodotti dai lavoratori le cui retribuzioni sono ai livelli statunitensi
costeranno sicuramente più di quelli importati da paesi a bassi livelli
salariali ed esenti da dazio. Anche se la riduzione della concorrenza
internazionale sarà compensata dall'aumento della concorrenza interna, per
molti prodotti sarà minore la possibilità di scelta, almeno per un certo
periodo. Infine, la qualità di molti prodotti statunitensi è inferiore e questa
situazione probabilmente si protrarrà fino a quando i migliori ricercatori
americani non verranno trasferiti dalla ricerca militare a quella civile e
finché i lavoratori e i dirigenti non assomiglieranno maggiormente a una
comunità che collabora per migliorare i propri prodotti.
Siamo
convinti che l'attuale abbondanza di prodotti d'importazione non potrà durare
in eterno per tutta la popolazione statunitense. Prima o poi si dovrà
intervenire per sanare il grave disavanzo della bilancia commerciale, e in un
modo o nell'altro questo ridurrà la capacità della maggior parte degli
americani di acquistare tali beni. I lavoratori, in generale, probabilmente
capiranno che la protezione che richiedono comporta anche il fatto di pagare i
prodotti americani a prezzi più alti. Ma nel settore dei servizi in cui le
retribuzioni sono basse, l'unico settore in crescita della nostra economia,
molti lavoratori che non vedono le importazioni come una minaccia per il
proprio posto di lavoro malediranno i dazi all'importazione perché determinano
un aumento del costo della vita. La loro ostilità sarà fomentata dai finanzieri
e dai loro ideologi.
A questo
punto si presenta un grave problema. Con la distruzione della comunità a ogni
livello, gli esseri umani sono diventati molto più simili a come li dipingeva
il modello dell'Homo oeconomicus. Lo shopping è diventato il passatempo
nazionale per eccellenza. Gli unici posti in cui gli americani sono sicuri di
essere accolti con calore sono gli empori commerciali. Il prestigio nasce dal
fatto di scovare prodotti insoliti a prezzi insoliti. Pertanto qualsiasi
cambiamento che minaccia le persone nel loro ruolo di consumatori, anche se non
impedisce la soddisfazione dei loro bisogni materiali, suscita una notevole
ostilità emotiva. Ciò può rendere molto difficile qualsiasi discussione in
merito ai modi di affrontare questo problema nazionale.
Con i loro
acquisti dissennati e la loro svendita massiccia dei beni capitali della
nazione, gli americani hanno dissipato la propria eredità e impoverito i propri
figli; e lo hanno fatto unicamente per sostenere il loro attuale livello di
consumo, per il piacere dello shopping che di tale modello di consumo è parte
integrante, e soprattutto per rimandare il momento di mettere in questione
l'efficacia del libero scambio e della crescita infinita. In qualche modo
bisogna rendere chiara all'opinione pubblica la sproporzione tra ciò che si
guadagna e ciò che si perde attraverso comportamenti del genere. La
disponibilità ad accettare restrizioni all'importazione dipenderà dalla
capacità di trovare immagini che facciano presa sulle masse e che mostrino
perché l'attuale ricchezza è un'illusione e perché è necessaria un'economia
nazionale.
L'attuale ricchezza,
per quanto illusoria, suggerisce che questo non è forse il momento giusto per
sollecitare dei cambiamenti. È invece il momento adatto per smascherare gli
errori teorici e pratici del principio dei vantaggi comparati come è applicato
alla situazione attuale. Ma la gente sarà più disponibile al cambiamento quando
la fragilità di questo modello economico sarà più facilmente e pubblicamente
riconoscibile.
Ciò non mancherà di verificarsi.