IL MONDO AI CITTADINI

 

dal libro Il mondo non è in vendita

 

di Josè Bovè e Francois Dufour - Feltrinelli Editore Sett.2000 - lit.20000

 

 

UNA DITTATURA PLANETARIA

 

L'aumento degli scambi commerciali dopo la caduta del Muro di Berlino ha provocato una concentrazione su scala mondiale delle grandi multinazionali. Questa corsa di colossi non risparmia l'agricoltura, anzi, 1 avvento delle biotecnologie ha accelerato il fenomeno. Poche multinazionali agrochimiche controllano a monte il mercato alimentare mondiale. Il loro scopo è il controllo del mercato. Come definite la mondializzazione?

 

François Dufour: Più che di "mondializzazione" preferirei parlare di "globalizzazione", ma questa seconda espressione nel linguaggio comune simboleggia tutti i mali provocati dalla sfrenata liberalizzazione dei mercati. La globalizzazione è dunque la volontà dei liberisti di poter disporre del pianeta come di un immenso territorio completamente deregolamentato, assolutamente libero, con la possibilità dello scambio di merci senza limiti e senza dover tenere conto di alcuna dimensione sociale, territoriale o etica. È una volontà di egemonia del commercio che consiste nel volere divorare tutto.

 

Josè Bovè: Le relazioni internazionali sono in funzione delle tecniche del momento e del luogo in cui ci si colloca. Ai tempi dell'impero romano, il mondo era circoscritto al bacino del Mediterraneo. Poi si è allargato, mentre venivano scoperti gli altri continenti fino al pianeta intero, creando una visione del mondo in cui gli scambi e l'appropriazione di territori sono a vantaggio del "centro" coloniale, un centro autoreferenziale. È questo il rapporto che terrà l'Europa, terra di viaggiatori, con le Americhe, i Caraibi, l'Africa, l'Oceania e parte dell'Asia. Oggi i mezzi di trasporto e di comunicazione rendono il territorio del mercato davvero planetario. E per i global leaders tutto questo spazio deve sottostare alle leggi del mercato. I grandi cambiamenti che subiamo oggi intendono trasformare tutte le attività che avvengono sulla terra in merci e mercati. La resistenza a tale tendenza è all'origine della nostra battaglia.

Se ogni attività umana diventa un problema di mercato, la lotta avviene tra due concezioni della società. Una è quella che consente al mercato, con le proprie regole, di organizzare la società e integrare tutte le attività umane ‑ sanità, cultura, educazione, ecc. ‑ alla legge del denaro e come fase suprema ‑ proposta agli accordi internazionali del Wto ‑la mercificazione della materia vivente. L'altra è quella dei cittadini, delle istituzioni politiche, secondo cui la vita e gli altri problemi come l'ambiente e la cultura devono essere al centro dell'organizzazione della società.

 

F.D.: Globalizzazione è anche uniformazione verso il basso, deregulation attraverso il progressivo degrado dei diritti fondamentali, in pratica è il commercio portato agli estremi disinteressandosi completamente dei bisogni vitali degli uomini. Quando si vede per esempio in che condizioni politiche queste lobby hanno cercato di imporci di nascosto L'ami, è chiaro che è la dittatura del re denaro a guidare chi vuole trarre profitto da ogni cosa.

 

J.B.: È una dittatura planetaria: se non siete nell'orbita del mercato non esistete. Non siamo più in una gestione classica dei territori o dei conflitti tra gli stati, ma in una situazione di guerre tra potenze private, con un campo di battaglia che si chiama mercato. Per misurarne le conseguenze, basta osservare la circolazione del denaro in rapporto alle tradizionali attività di produzione e commercio. Oggi il denaro lavora su se stesso: ogni volta che gira intorno al mondo, produce dei benefici. Dov'è la creazione di beni, di ricchezze per gli altri? È il denaro, il potere degli azionisti, dei fondi pensione, degli speculatori e dei predatori di ogni sorta a imporre i tassi di profitto alle imprese, costringendole a licenziare anche se sono in attivo ‑lo si è visto in Francia con Michelin e Valéo. È una nuova specie di parassiti, vampiri assetati di denaro! Sono dei drogati del profitto.

 

Di questa globalizzazione, denunciate più la circolazione del denaro o lo scambio delle merci?

 

J.B.: Noi denunciamo un modello globale dettato dalle multinazionali. Ma torniamo all'agricoltura: meno del 5% della produzione agricola va sul mercato mondiale. Ora, sono i responsabili di questo 5% degli scambi internazionali che vogliono organizzare il 95% della produzione destinata ai commerci nazionali o tra paesi vicini e sottometterli alla loro logica. È una volontà totalitarista.

 

 

IL PROGETTO LIBERISTA dell'ORGANIZZAZIONE MONDIALE  DEL COMMERCIO

 

In questo gruppo di liberisti ritroviamo gli Stati Uniti e il gruppo di Cairns, 36 qual è il ruolo dell'Europa?

 

J.B.: Bisogna ripercorrere un po' la storia europea e quella del Gatt Nel 1957 è stato creato il Mercato agricolo comune per rispondere al bisogno di autosufficienza alimentare. Come si è visto questa organizzazione si fonda

su un mercato unico tra i paesi europei che, grazie alle comuni organizzazioni di mercato per ogni prodotto, offre prezzi garantiti più o meno remunerativi: molto buoni per i produttori di cereali e di barbabietole, medi per i produt­tori di latte, mediocri per quelli di carne bovina, inefficaci se non assenti per le altre produzioni. Questo mercato co­mune è stato ben protetto dall'esclusiva comunitaria: le importazioni sono tassate alle frontiere non con diritti di dogana fissi, ma con un prelievo fiscale che varia a seconda dello scarto tra il prezzo garantito all'interno e le fluttua­zioni dei prezzi mondiali. Anche per le eccedenze da esportare si è utilizzato lo stesso sistema: "restituzioni" variabili, versate a industriali e commercianti per compensare la differenza di prezzo tra mercato interno e mercati mondiali.

Questo sistema ha funzionato grazie al solidarismo fi­nanziario tra gli stati membri dell'Unione europea: ogni paese contribuisce al bilancio europeo a seconda del proprio Pil e a partire dalla percentuale di introiti sull'Iva. Co­sì, assicurati i prezzi e i guadagni, l'agricoltura e l'industria agroalimentare europee, che hanno preso la piega del produttivismo, hanno cercato di incrementare le eccedenze da esportare per aumentare la loro fetta di mercato mondiale, e questo ha fatto esplodere il bilancio europeo. Bisogna dire che tali politiche sono state ampiamente incentivate, per esempio in Francia girava lo slogan: "Produrre per esportare: l'agricoltura è il petrolio verde della Francia".        

Piuttosto che mettere in campo una politica di controllo delle produzioni, l'Europa sottomessa alla lobby agroalimentare, ha lasciato fare. Tuttavia, di fronte alle critiche provenienti dall'interno e dall'esterno e di fronte al deficit, l'Europa ha riformato nel 1992 la politica agricola comunitaria (Pac), attraverso un ribasso dei prezzi che permet­tesse di dirigersi verso un'apertura dei mercati mondiali, Questa riforma è stata un primo passo verso il "liberismo totale": smantellamento parziale, ma consistente, del sisterna di grande protezione delle tassazioni variabili e in­troduzione di diritti di dogana fissi. Però l'agricoltura eu­ropea, anche la presunta cerealicoltura competitiva del Ba­cino di Parigi, è di fatto incapace di tenere il passo con la concorrenza del mercato mondiale, e così l'Europa ha avviato misure di aiuto diretto ai produttori. Per i liberisti questa riforma era solo la prima tappa per rendere conformi i propri regolamenti con quelli del Gatt.

 

F.D.: Il Gatt è il padre del Wto. Non si può propriamente parlare di un'organizzazione, masi tratta di un accordo cui hanno deciso di aderire, volontariamente, i paesi della terra. Fino all'Uruguay Round, nel 1986, l'agricoltura e l'alimentazione non erano materie di intervento del Gatt: ogni paese, o gruppi di paesi, erano liberi di adottare una politica agricola di propria scelta. Dopo aver soggiogato alle proprie regole liberiste le merci industriali, il Gatt, con la sua brama di controllare gli scambi mondiali, ha introdotto l'agricoltura, i servizi, la proprietà intellettuale e gli investimenti, nel programma di liberismo sfrenato che propone. Da qui l'obbligo per l'Unione europea, che aderisce al Gatt, di riformare la propria politica agricola comune.

La filosofia e il fondamento del Gatt sono chiari: il libero scambio. Bisogna abbassare i diritti doganali ‑ lo stato deve considerare equivalenti i prodotti importati ed esportati ‑ e abolire gli accordi preferenziali tra gli stati, ovvero la clausola della "nazione più favorita". Prendiamo l'esempio della guerra delle banane che coinvolge Europa e Stati Uniti: settanta paesi di Africa, Caraibi e del Pacifico (detti "Acp") sono legati all'Unione europea dalla convenzione di Lomé. Alcuni prodotti provenienti da ex colonie europee (Martinica, Guadalupe, Canarie) sono pagati ai produttori a prezzi molto superiori rispetto al mercato mondiale, per aiutare i paesi Acp e proteggere la loro agricoltura; questi paesi beneficiano dunque di un'importazione in Europa di 857.000 tonnellate di banane. Ma l'accordo non sta bene alle multinazionali americane come Chiquita o Dole che hanno grandi piantagioni nell'America del Sud, dove producono, con danni sociali e ambientali, banane a miglior mercato. Risultato: nell'aprile del 1999 gli Stati Uniti hanno ottenuto la condanna dell'Ue dall'Organo di risoluzione delle controversie del Wto, l'Ord.

Secondo questa filosofia, il libero scambio deve stimolare la crescita economica e contribuire al benessere di tutti. Eppure la crescita non è sinonimo di sviluppo, come afferma la Cnuced, che denuncia la crescita delle disuguaglianze nel mondo dopo la creazione del Wto nel 1995. Allargando i suoi campi d'intervento, quest'ultimo non cerca più di controllare solo gli scambi commerciali, ma cerca anche di imporre un modello di società liberista che arriva persino a richiedere agli stati le necessarie deregulation. In questa prospettiva, in materia di agricoltura e alimentazione, uno stato non può imporsi all'importazione di prodotti che non desidera, se non ricorrendo alla necessità di proteggere la salute degli uomini degli animali del proprio paese. Naturalmente a condizione di saper avanzare argomentazioni scientifiche riconosciute da esperti internazionali... anch'essi riconosciuti dal Gatt.

La ragione d'essere del codex alimentarius è quella di stabilire le norme sanitarie. All'interno di quest'istituzione, nelle delegazioni nazionali, si sono infiltrati molti rappresentanti dell'industria agroalimentare che dettano le proprie leggi. L'Unione europea e gli Stati Uniti rappresentano da soli il 60% dei delegati, per un 15% di popolazione mondiale. Valga come esempio il fatto che il codex alimentarius, nel giugno del 1997, aveva posto all'ordine del giorno, una proposta degli Stati Uniti per impedire la circolazione internazionale di prodotti elaborati a base di latte crudo.

 

J.B.: la riforma della Pac, nel 1992, è caratterizzata da un abbassamento della protezione comunitaria che si traduce in un abbassamento delle rendite per tutti i contadini, una situazione che, secondo i liberisti, dovrebbe portarli a sostenere degli "sforzi" per la competitività. Per ammortizzare lo shock, l'Europa ha attivato una serie di aiuti diretti in relazione a elevate quantità di produzione: si è trattato di misure d'aiuto superficiali. Per i cereali e i prodotti oleosi non erano elargite e dipendevano dai rendimenti regionali, una misura per compensare una consistente perdita di introiti nelle regioni più ricche e per sostenere chi gestisce superfici irrigate... in pratica, si è scelto di aiutare coloro che erano già ricchi. Questo, invece di ridurle, ha contribuito ad accrescere le disuguaglianze tra gli agricoltori.

Il "premio per la produzione cereali" è così di più di 3.000 franchi per ettaro in alcuni dipartimenti del Bacino di Parigi, mentre è di circa 2.000 franchi in Borgogna dove, a parità di coltura, i rendimenti sono in media molto più scarsi; per il mais coltivato il divario va dai 600 ai 1.000 franchi per ettaro a seconda dei dipartimenti. È un vero scandalo autorizzato dall'Unione europea e imposto al governo francese dalla Fnsea. In ogni caso questo ha avuto il merito di far emergere le quantità e le finalità dei contributi pubblici all'agricoltura (ricordiamolo, 70 miliardi di franchi annui di aiuti diretti) e porre la questione della legittimità di questi aiuti, di cui l'80% va al 20% di agricoltori che seguono il modello del produttivismo.

Il calo della protezione comunitaria non ha sistemato le cose nei settori in cui era già deficitaria, per esempio per la frutta e la verdura, produzioni trasferite nei paesi del Maghreb, o nella produzione di carne ovina.

 

F.D.: Nel marzo del 1999 a Berlino, per preparare i negoziati del Millenium Round che si sarebbero tenuti a Seattle nel contesto del Gatt, ormai divenuto Wto, l'Unione europea ha proposto un losco liberismo battezzato "approfondimento della riforma della politica agricola comune" alfine di presentarsi bene a Seattle. Ha dunque accentuato il ribasso sistematico dei prezzi (dal ‑10% al ‑20%) con un abbassamento della protezione comunitaria parzialmente compensata da aiuti diretti.

 

 

ALLA GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI, RISPONDE UNA RIVENDICAZIONE GLOBALE

 

Nel novembre del 1999, l'Europa è dunque andata a Seattle, al vertice del Wto, con l'incarico di definire i contenuti e le forme delle future liberalizzazioni. Ci siete andati anche voi. Perché?

 

F.D.: Quegli accordi erano fondamentali, soprattutto quelli dedicati all'agricoltura e allo sfruttamento delle foreste, perché decidevano le sorti dei contadini del mondo intero. Siamo andati a Seattle perché nell'incontro di Marrakech che nell'aprile del 1994 istituiva il Wto, era stato firmato un accordo settennale, in base al quale, in materia di agricoltura, ogni paese doveva ridurre del 36% il suo protezionismo doganale e lasciare obbligatoriamente entrare nel proprio mercato, a imposte doganali ridotte, almeno il 5% del volume del proprio consumo per ogni tipo di prodotto: il liberismo sa essere dirigista quando si tratta dei propri interessi, specie per quanto riguarda quelli delle multinazionali agroalimentari. A ciò si aggiunge la riduzione del 21 % delle quantità di esportazioni sovvenzionate e del 36% del loro ammontare. In pratica una consistente riduzione del sostegno ai prezzi interni.

 

J.B.: Prima di cominciare un nuovo round a Seattle, l'accordo prevedeva anche che fosse stilato un bilancio su quanto gli accordi di Marrakech avevano necessariamente apportato al benessere universale. Lo stiamo ancora aspettando! Comunque non abbiamo bisogno di un bilancio ufficiale ‑ che comunque continuiamo a reclamare ‑ per avere un'idea della portata dei danni. Basta un solo dato dell'agricoltura europea: dal 1992, primo anno del nuovo orientamento della Pac verso il mercato mondiale, al 1998 ‑ a più di mezza strada dagli accordi di Marrakech ‑ l'Europa ha fatto registrare nell'agricoltura un milione di lavoratori in meno, di cui 300.000 in Francia.

I paesi del Sud sono i grandi perdenti di questi accordi, perché non hanno la possibilità di finanziare gli aiuti diretti ai loro contadini: l'apertura delle frontiere annienta le loro colture e aggrava l'esodo rurale, mettendo in discussione la loro autonomia alimentare. Faccio degli esempi: la Corea del Sud, le Filippine, paesi che erano ampiamente autosufficienti per quanto riguarda il riso, sono costretti a importare riso di bassa qualità che costa meno del riso lo cale e provoca squilibri sul mercato nazionale. L'India e il Pakistan, grandi produttori tessili e di cotone, sono obbligati a importare fibre sintetiche che sono in concorrenza con la loro produzione. Allo stesso modo, in Europa, il controllo della produzione di latte (con la politica delle quote latte inaugurata nel 1984) è messo in discussione dalla clausola che obbliga a importare almeno il 5% del latte consumato: aggiunto alla produzione interna, questo 5% trasforma l'offerta controllata in offerta di eccedenza e pesa sui prezzi pagati agli allevatori europei, in continuo ribasso negli ultimi tre anni.

Ecco perché, insieme a più di mille organizzazioni provenienti da più di cento paesi diversi, la Confédération paysanne chiedeva, che prima di ogni nuovo accordo commerciale del Wto fosse fatto un bilancio degli accordi di Marrakech, con una valutazione delle loro conseguenze sociali, ambientali ed economiche.

 

Quindi eravate a Seattle per dire "no al Wto"...

 

F.D.: Non solo. Volevamo anche seguire questi negoziati mondiali per riflettere e anticipare le loro ripercussioni concrete sui contadini e in modo particolare sulla Pac. Per fare ciò la Confédération paysanne ha scelto una delegazione di quattro persone (Patrice Vidieu, segretario generale, Christian Boisgontier, il nostro rappresentante al Coordinamento agricolo europeo,` José e io), una delegazione che il governo francese ha fatto accreditare alla conferenza del Wto. Siamo andati a Seattle con una serie di analisi e delle proposte da discutere con le altre organizzazioni contadine che appartengono a Via Campesina.

 

Potete riassumere le vostre proposte?

 

F.D.: Anzitutto affermiamo il diritto dei popoli di provvedere alla propria alimentazione e scegliere liberamente e democraticamente il tipo di agricoltura che preferiscono.

L'abbondanza dei beni e del cibo è a livelli mai raggiunti prima, ma l'elevato numero di persone senza casa, senza lavoro e impossibilati a sfamarsi è anch'esso senza precedenti. L'Europa ha fondato la propria politica agricola sull'autosufficienza alimentare proteggendo il proprio mercato interno dalla concorrenza estera. Noi pensiamo che sia un diritto legittimo: tutti i gruppi di paesi o i singoli paesi del mondo hanno il diritto di scegliere il tipo di agricoltura che intendono proteggere per arrivare al soddisfacimento completo dei fabbisogni alimentari interni e hanno il diritto di gestire l'equilibrio città‑campagna.

Questo implica anche il potere di opporsi al trasferimento delle produzioni, come sta facendo l'industria agroalimentare europea collocando, per esempio, porcili, pollai, serre di verdura, ecc., nei paesi in cui i costi sono ridotti e le normative meno attente alla protezione sociale. Nella maggior parte dei casi, queste pratiche provocano squilibri nelle agricolture locali, distruggono l'ambiente, diminuiscono le risorse naturali e minacciano la sicurezza alimentare del paese in questione perché si tratta solitamente di produzioni destinate all'esportazione. Cosa succede quando una grande impresa agricola prende il posto di mille contadini riuscendo a produrre le stesse quantità, se non di più, e le mette sul mercato mondiale? La quantità prodotta è inversamente proporzionale al soddisfacimento delle richieste alimentari del paese; in Brasile, grande esportatore di prodotti agricoli, si registra una parte crescente della popolazione che soffre di malnutrizione. Ci sono anche famiglie private dell'accesso alla terra, della loro attività di contadini e della nutrizione stessa. Ogni gruppo di paesi, o singolo paese, deve poter arrivare al livello più alto possibile di garanzie sull'alimentazione di tutti i suoi cittadini. È un principio fondamentale della sovranità alimentare.

È facile capire che tutto ciò passa per una protezione delle importazioni, inoltre è una delle condizioni indispensabili per l'equità degli scambi internazionali.

 

J.B.: Ecco il secondo principio: la ricerca di un commercio equo come strumento per governare tutti gli scambi internazionali. Questo dovrebbe essere il monito di un Wto dei cittadini! Commercio equo significa pagare la merce al costo reale della produzione, mentre attualmente i prezzi mondiali sono di dumping: artificiali, fissati dai paesi ricchi a grazie agli aiuti alle esportazioni o ad altri aiuti interni mascherati. Queste pratiche fanno spesso parte delle strategie di potenti imprese finanziate con i soldi dei contribuenti per abbassare i prezzi nei paesi in cui vorrebbero impiantarsi; prezzi che poi alzeranno una volta messa fuori gioco da questo dumping l'agricoltura locale. Per esempio l'esportazione di carne congelata europea, molto sovvenzionata, ha dimezzato gli allevamenti dei paesi subsahariani. Noi chiediamola pura e semplice soppressione delle sovvenzioni all'esportazione.

Gli effetti degli accordi di Marrakech dimostrano che la liberalizzazione degli scambi agricoli non ha reso più stabili i mercati mondiali, né ha migliorato le provvigioni dei paesi più poveri. II commercio equo implica il divieto di tutte le forme di esclusione; non si possono abbassare i prezzi provocando gravi conseguenze sociali e ambientali.

 

F.D.: La situazione di monopolio, o quasi monopolio, cioè quando un gruppo di imprese si divide il mondo, è incompatibile con il principio del commercio equo. Prendi l'esempio dell'acqua: alcune multinazionali controllano la maggior parte delle risorse idriche. In Francia, il gruppo Vivendi ha messo le mani su importanti settori come il trattamento e la gestione delle acque, dei rifiuti, delle comunicazioni, della gestione di ospedali... e allarga i propri poteri anche in paesi del Terzo mondo. Con il gioco delle fusioni‑acquisizioni, alcune multinazionali assumono più potere economico di quello di molti stati. Così avviene per la General Motors il cui giro d'affari è superiore al Pil della Thailandia; o per la Cargill che, dopo la sua fusione con Continental, avrà assicurato il 40% delle esportazioni mondiali di mais, un terzo di quelle di soia e il 20% di quelle di grano; in più l'alleanza con Monsanto gli darà il controllo di tutta la catena alimentare dal seme al piatto.

Le situazioni di monopolio, con le fortune economiche che sviluppano, sono anche un insulto alla morale e all'eguaglianza perché aumentano le disparità. La storia degli ultimi vent'anni è esemplificativa. Per capirlo basta sapere

che i membri dell'Ocse, cioè il 19% della popolazione mondiale, controllano il 71 % degli scambi mondiali; inoltre le 225 persone più ricche del mondo controllano insieme l'equivalente del reddito annuale del 47% degli abitanti più poveri del pianeta, ovvero 2,5 miliardi di esseri umani.

 

Voi chiedete l’abolizione dei sussidi alle esportazioni. Su questo punto siete dunque d accordo con il Wto e gli americani...

 

F.D.: Di fatto noi chiediamo la soppressione di tutti i componenti sulle esportazioni. In questo siamo d'accordo con il Wto, ma ci fermiamo qua. Perché, come ha appena detto José, abolire le sovvenzioni alle esportazioni deve essere accompagnato dal diritto dei paesi di innalzare barriere doganali per proteggere il tipo di agricoltura che hanno scelto. Bisogna poter variare le tariffe doganali in funzione del livello di sviluppo, i paesi in via di sviluppo potrebbero avere tariffe superiori a quelle dei paesi sviluppati, e libertà a questi ultimi di stipulare accordi con i paesi del Sud, così come l'Europa fa con i paesi dell'Acp. In tal modo si potrà avere un mercato mondiale, o internazionale che dir si voglia, che abbia qualcosa a che vedere con la realtà dei costi di produzione dei paesi esportatori. A partire da qui è possibile organizzare un commercio equo. Non si tratta di protezionismo, questa è l'unica politica compatibile con uno sviluppo durevole per tutti i continenti. Bisogna finirla di mettere i contadini di tutto il mondo in guerra tra loro.

 

J.B.: Alcuni paesi ‑ non molti ‑ tenuto conto delle condizioni agroclimatiche e dei loro orientamenti economici, fanno la scelta di un'agricoltura da esportazione; altri si trovano nella situazione contraria a causa della grande densità di popolazione o delle condizioni geoclimatiche (isole, deserti). La sicurezza alimentare di questi paesi dipende dall'approvvigionamento esterno. Ma, qualunque sia la causa, ciò non giustifica la possibilità d'imporre la stessa regola di libero scambio a tutti i paesi del mondo.

 

F.D.: L'Unione europea esporta, e vorrebbe esportare in misura sempre maggiore prodotti base come i cereali, la

carne bianca, il latte in polvere, la carne bovina. Tuttavia questi mercati sono già alimentati dalle eccedenze agricole dei paesi produttori (Ue, Canada, Stati Uniti) o dalle produzioni di paesi che hanno modelli agricoli fondati sul ranching o il latifondismo (Australia, Nuova Zelanda, America Latina). Non crediamo che la vocazione dell'Europa sia di produrre per esportare prodotti base; se ci sono produttori che vogliono impegnarsi in questo settore, non devono essere sovvenzionati. Pensiamo che sia completamente irresponsabile far pagare ai contribuenti il prezzo di un'agricoltura europea alla conquista dei mercati. Per noi si tratta anche di un dovere di solidarietà con i contadini di tutto il mondo, per non partecipare allo squilibrio dei loro mercati locali. Un contadino degno di questo nome non usurpa la vita degli altri.

 

J.B.: Al contrario, l'Unione europea dispone di un notevole potenziale agricolo che le permetterebbe di esportare bene in altri campi. Grazie alle capacità dei suoi contadini, l'Europa è al primo posto nel mondo per molti prodotti agricoli ad alto valore aggiunto, come i vini e i superalcolici, i formaggi, la senape, il paté ecc. Questi ultimi spesso corrispondono a produzioni specifiche, in zone geografiche ben identificate, e spesso a una cultura locale molto legata alla loro economia. Tali esportazioni non sono sovvenzionate e conquistano mercati con la qualità e i loro prezzi. Non c'è alcuna ragione perché questa situazione cambi e, in più, ciò non toglie possibilità ai paesi del Sud di potersi sviluppare.

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