NEOLIBERIAMOCI
ORA
Globalizzazione
come neoimperialismo del mondo occidentale: intervista al sociologo
statunitense James Petras.
d Marta CARAVANTES - "EL
CHILENO", (9/7/2001).
Qual è la sua proposta in alternativa al sistema
neoliberista?
Il grande paradosso del sistema
è che il capitalismo non può controllare i suoi capitali. Di fronte a questa
situazione abbiamo due possibilità: o capitolare davanti al progetto
neoliberista o radicalizzarci, cioè intervenire nelle decisioni strategiche dell’economia.
Questo comporta una "risocializzazione", una trasformazione dello
Stato gestore che abbiamo oggi, in uno Stato sociale, superando la versione del
passato. Non credo in un’economia del benessere sociale di stile
"keynesiano". In questo concordo con la destra! ma da un’altra
prospettiva. Lo Stato "keynesiano" non è praticabile poiché non è in
condizione di fissare regole che le multinazionali rispettino. Le imprese
devono essere socializzate ma con un imprenditore. Così le grandi decisioni si
prenderebbero seguendo criteri ecologici, sociali, pensando al consumatore e ai
lavoratori, ma anche con autonomia e una visione imprenditoriale.
Il capitalismo è compatibile con il progresso
sociale?
La risposta la offre l’analisi
storica. Se prendiamo in esame gli ultimi due decenni constatiamo che ci sono
vent’anni di ritardo in tutti i settori del sociale: sanità, lavoro, sussidi,
ecologia… In vent’anni non abbiamo l’esempio di un solo governo al mondo che
abbia potenziato la legislazione sociale; non in Svezia né in un altro Paese
europeo, non negli Stati Uniti, non in America Latina. I benefici dello Stato
sociale sono stati ridotti, e ovunque si è avuta una regressione. Tutti i
governi suonano la stessa musica: quelli conservatori, quelli democratici
cristiani e quelli socialdemocratici.
Di fronte a questo panorama in cui il ruolo della
società viene sempre più subordinato al potere finanziario, crede che la
trasformazione delle organizzazioni internazionali come la Nazioni Unite possa
essere la soluzione, o dobbiamo inventare nuove formule politiche a livello
mondiale?
Non credo nella trasformazione
delle Nazioni Unite: basta osservare come si sta comportando l’Onu di fronte ai
laboratori farmaceutici che negano i medicinali a milioni di malati di Aids in
Africa, o al ruolo svolto durante gli attacchi della Nato in Jugoslavia. Kofi
Annan è un segretario generale subordinato ai grandi poteri, è il fattorino
degli Stati Uniti. Nell’incontro di Davos ha dichiarato che il libero commercio
è la soluzione del problema. La riforma dell’Onu perciò è difficile se prima
non si riformano le strutture di potere che sono al di fuori. Non si può creare
un progetto internazionale finché non si produce un cambiamento all’interno
delle nazioni. Per proporre nuove istituzioni internazionali non si può
prescindere dall’avere una base solida in ogni Paese o regione. Da una politica
reazionaria non possiamo aspettarci una legislazione più equa, non ha senso.
Come vede le relazioni tra i tre blocchi di potere:
Usa, Europa e Giappone?
Non ci sono tre blocchi
economici, ma due: Europa e Stati Uniti. Il Giappone è caduto e la sua economia
non mostra capacità di recupero. L’Europa e gli Usa sono rivali nella politica
di abbassare le barriere del commercio e proteggere le proprie imprese.
L’Europa sta imitando con grande successo la tendenza statunitense di fondere
le multinazionali per concentrare il potere. Quanto al settore militare, gli
Usa intendono imporre la loro impostazione politica ed economica attraverso la
Nato ed esigono che l’Europa aumenti la sua presenza e le sue spese militari,
ma, sia ben chiaro, sempre sotto il mandato di Washington. Gli europei, sebbene
si preoccupino per il potere finanziario, vogliono contare sull’appoggio
militare degli Stati Uniti quando ne hanno bisogno. Quello su cui si sono
trovati d’accordo è l’utilizzo di soldati africani, arabi ed asiatici per le
forze terrestri, che fanno il lavoro sporco dei loro "eserciti di
pace", mantenendo sempre però il controllo strategico, tecnologico e
militare.
Come valuta gli ultimi processi elettorali in America
Latina e le recenti mobilitazioni popolari che si sono verificate in numerosi
Paesi come Ecuador, Messico o Perù?
L’America Latina sta entrando in
un periodo di grande turbolenza, legata alla crisi politica che avanza
rapidamente. A causa del debito estero, della coniugazione di prezzi del primo
mondo con salari da terzo mondo e dell’austerity si stanno producendo brecce
nell’apparato dello Stato e delle Istituzioni e la disintegrazione dei meccanismi
di controllo. C’è un indebolimento del potere effettivo di controllo dello
Stato, che ha toccato la punta più drammatica con la marcia pacifica degli
indigeni dell’Ecuador che sono riusciti a prendere il Parlamento senza sparare
un colpo. In Colombia le Farc e l’Eln controllano la metà del Paese. In
Venezuela si vive una fase di radicalizzazione a partire dal tradimento sociale
legato ai governi precedenti. Il Sud del Messico è un’altra zona convulsa,
piena di rivendicazioni sociali a fronte di una militarizzazione brutale. In
Brasile, il Paese chiave dell’America per la sua importanza economica e
strategica, la campagna si sta infiammando e le mobilitazioni avanzano verso le
città, non con violenza ma con intelligenza politica, formando alleanze.
In qualcuno dei suoi articoli ha criticato le Ong
perché indeboliscono e tolgono vigore ai movimenti popolari.
Le buone opere che realizzano le
Ong, se si guarda superficialmente sembrano positive, ma in realtà stanno
bloccando la lotta di vari progetti nazionali. La maggior parte di esse riceve
finanziamenti dai governi e collabora con essi; sono in subappalto e ricevono
milioni di dollari per svolgere alcune attività che prima facevano gli Stati.
Osservandole dal punto di vista del denaro che muovono, le organizzazioni
umanitarie fanno da complemento alle attività delle organizzazioni imperialiste
e inoltre attraggono gli intellettuali che prima erano critici verso il
sistema. Nelle zone dove le Ong sono forti non esistono movimenti popolari
rilevanti. Inoltre portano avanti progetti privati che non sono in grado di
risolvere i grandi mali del mondo. Per esempio nel settore della sanità, si
costruiscono cliniche per alcune comunità, ma ci sono milioni di persone che
non hanno accesso alle medicine fondamentali per salvare la propria vita per
colpa dei laboratori.
Come si possono canalizzare le risorse e le proposte
delle Ong per contribuire alla giustizia sociale?
Le Ong devono indirizzare le
loro risorse a rafforzare i movimenti popolari dei Paesi impoveriti; però molte
organizzazioni - progressiste o reazionarie - preferiscono controllare,
comandare, imporre. Molte organizzazioni locali si sono lamentate che i collaboratori
delle Ong si presentano come dei re, con la prepotenza e la ferma convinzione
di conoscere meglio i problemi del luogo. Questo li porta ad imporre la loro
visione particolare. Si tratta di un nuovo colonialismo. Le Ong prendono
decisioni che riguardano la popolazione locale emarginando i movimenti
popolari.
Tuttavia si stanno creando forti reti ed alleanze tra
le Ong per frenare il potere finanziario.
Non bisogna confondere le
rivendicazioni di alcune organizzazioni che protestano e si mobilitano contro
la Omc (Organizzazione mondiale del commercio) o la Banca mondiale, con la
maggioranza delle Ong che finiscono per collaborare con esse, sebbene molte
volte non ne sono consapevoli. È certo che esiste un processo di riflessione e
di lotte tra le stesse Ong. Quelle di natura assistenzialista e conservatrice
non vogliono che quelle progressiste rivolgano critiche alle multinazionali e
alle organizzazioni internazionali, all’imperialismo in definitiva.
Un intellettuale come lei, così critico verso il
sistema, come sopravvive negli Stati Uniti?
È molto difficile essere
intellettuali di sinistra negli Stati Uniti. In primo luogo perché è una
società molto chiusa ed è complicato accedere ai mass media. Capita la stessa
cosa al politologo Noam Chomsky. Mentre pubblichiamo articoli e rapporti in
decine di periodici e riviste di tutto il mondo, negli Stati Uniti ce lo
rendono molto difficile. Negli ultimi vent’anni mi hanno pubblicato solo due
articoli sul "New York Times" e i paragrafi che parlavano degli Stati
Uniti sono stati censurati o soppressi.
Adista luglio 2001