UN PIANETA IN PERICOLO

 

Sviluppo sostenibile, un'idea snaturata

 

Il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile, organizzato dalle Nazioni unite a Johannesburg (Sudafrica) alla fine dell'agosto scorso, ha messo in luce i limiti di questo concetto. Lanciato in pompa magna, il vertice non ha portato all'elaborazione di alcuna misura vincolante, anche perché eventuali decisioni in tal senso avrebbero comportato una ridiscussione totale della globalizzazione neo-liberista. Già al vertice di Kyoto del 1997 la pressione delle grandi imprese e dei paesi più inquinanti - come gli Stati uniti - hanno svuotato di ogni efficacia gli obiettivi di riduzione delle emissione di gas a effetto serra. Sempre più lontano dai suoi scopi dichiarati, lo sviluppo sostenibile è forse diventato un alibi per mantenere una crescita devastatrice per l'ambiente?

 

di Sadruddin Aga Khan

 

Il dogma dello sviluppo sostenibile è per sua stessa natura fuorviante: inganna le nostre menti così come, a suo tempo, le ha ingannate l'idea che la terra fosse piatta, ma con conseguenze infinitamente più gravi per la nostra sopravvivenza.

Infatti, malgrado tutti i discorsi sui bisogni vitali e sulla lotta contro la povertà - per non parlare dei tanti decenni ufficialmente dedicati allo sviluppo - il numero di persone che vivono nella più abietta indigenza continua ad aumentare. Il concetto stesso di «sostenibilità» si è trasformato in una sorta di litania religiosa, invece di incitare ad un'azione urgente e concreta, come sarebbe stato opportuno e doveroso.

Tuttavia, la realtà è incontestabile: 80 paesi hanno un reddito pro capite inferiore a quello di dieci anni or sono; il numero di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno non diminuisce (1,2 miliardi), mentre quello degli individui con un reddito inferiore a due dollari al giorno si avvicina ai 3 miliardi. Pertanto, ci vorrebbero 109 anni perché un povero riesca a guadagnare quello che il Pallone d'oro Zinedine Zidane può intascare in appena ventiquattro ore! Lo sviluppo sostenibile è stato snaturato in cinque maniere diverse: innanzitutto dal mondo della finanza, che l'ha trasformato in sinonimo di crescita sostenibile. Si tratta di un ossimoro che ben rispecchia il conflitto tra una visione commerciale e una visione ambientale, sociale e culturale del mondo. È diventato quindi uno slogan caro alle multinazionali ed agli ambienti dell'alta finanza. Peggio ancora, ha spianato la strada a una «reazione verde», cioè al progressivo inquinamento del movimento ambientalista a opera di un cosiddetto «realismo d'impresa». Il termine stesso di ambientalista e quello di «difensore della natura» attualmente possono ormai designare anche chi distrugge le foreste o uccide gli animali per impadronirsi della loro pelle. Tali comportamenti attualmente sono ammantati da ambigui eufemismi, come rendimenti, raccolta dei frutti della fauna e della flora naturale.

 

In secondo luogo, l'idea di sviluppo sostenibile è stata snaturata dall'idea di «utilizzo sostenibile», un vero e proprio abominio orchestrato da una corrente che si fa promotrice di un sedicente «uso razionale», quando invece si tratta di camuffare prassi completamente diverse.

Questo movimento offre un comodo alibi a comportamenti devastanti e, in modo assolutamente deplorevole, è riuscito ad infiltrare ambienti chiave quali la Convenzione sul commercio internazionale delle specie di flora e di fauna in pericolo di estinzione (Cites) e la Commissione internazionale sulle balene (Cbi). Così, «l'utilizzo sostenibile» della fauna naturale ha dato vita a un'industria molto redditizia della carne di animali selvatici, in particolare in Africa. Gli adepti dell'utilizzo sostenibile sperano di riuscire a convincere gli africani e gli asiatici poveri a non uccidere animali che rendono loro una cifra equivalente a parecchi anni di stipendio, quando invece i ricchi europei e americani, appassionati collezionisti di trofei, li cacciano per mero divertimento.

In nome di un ambientalismo «serio e scientifico», alcuni ecologisti hanno preso le distanze dalle questioni morali (riservate agli idealisti emotivi) quali il commercio delle pellicce o i circhi. Orbene, il fatto che un'attività sia economicamente sostenibile non la rende automaticamente auspicabile, e neppure accettabile sul piano etico.

In una allocuzione pronunziata al cospetto dei delegati della Cbi, il vice direttore generale dell'Agenzia giapponese della pesca - che è anche il rappresentante del suo paese presso la Cbi - ha rivelato che Tokyo aveva firmato accordi di pesca con 8 paesi e aveva speso 400 milioni di dollari in aiuti. Come dire, a caccia di voti per la caccia alle balene.

 

In terzo luogo, le imprese dei paesi dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) verserebbero ogni anno circa 80 miliardi di dollari di tangenti per procurarsi vantaggi o stipulare contratti.

Si tratta di una somma paragonabile a quella che, a detta delle Nazioni unite, consentirebbe di sradicare completamente la povertà. Il commercio illecito di animali vivi e dei prodotti derivati dalle loro carcasse è diventato la seconda fonte di reddito su scala mondiale, subito dopo il narcotraffico, per la criminalità organizzata. Si tratta di un traffico lucroso e a basso rischio, che ha già spinto a un passo dall'estinzione tigri, rinoceronti ed altre specie animali.

 

Consumo sempre più sfrenato In quarto luogo, l'idea di sviluppo sostenibile favorisce la longa manus delle grandi corporations internazionali. Il nuovo credo sarà allora: «chi paga il lobbista, comanda». Basti pensare allo scambio di cortesie che si è verificato con il grande business americano dopo l'elezione di George W. Bush. In occasione del Forum economico mondiale di New York nel febbraio scorso, Richard Parsons, presidente di Time Aol, ha dichiarato - senza trovarvi nulla di anormale o di preoccupante - che «in un'altra epoca le Chiese avevano svolto un ruolo determinante nella nostra vita, poi sono venuti gli stati, attualmente è il turno delle imprese». Ovunque, per risolvere i mali del pianeta, si esaltano i meriti delle soluzioni basate sul mercato: filantropia, autocontrollo, responsabilità sociale delle aziende, codici volontari di buona condotta. Tuttavia, nessuna di queste proposte è in grado di sostituirsi alla responsabilità statale, alle politiche e alla regulation imposte dagli stati.

Perfino le Nazioni unite hanno aderito a questo movimento, con iniziative quali il Global Compact, con la partecipazione di cinquanta delle più grandi imprese del mondo (1). Come ha potuto scrivere il Guardian di Londra, «le Nazioni unite stanno per diventare una sorta di gendarme dell'economia mondiale, che aiuta le aziende occidentali a penetrare i nuovi mercati aggirando i regolamenti, l'unico mezzo che le costringeva a rendere conto del loro operato. Facendo la pace con il potere, l'Onu dichiara la guerra a chi non ha potere».

Infine, la filosofia dello sviluppo sostenibile ha anche trovato spazio per promuovere un'idea esecrabile: quella del consumo sostenibile.

 

Quando dappertutto non si parla altro che di denaro e di consumi sfrenati, questo vocabolo illustra fino a che punto il concetto stesso di sostenibilità si sia perso lungo la strada della neo lingua tanto cara ad Orwell. Lo sviluppo sostenibile, così com'è definito dal rapporto Brundtland (2), non si accontenta di continuare con il ritmo di crescita attuale, ma vuole che lo si acceleri da cinque a dieci volte.

Ottocento milioni di persone soffrono di malnutrizione, quando una piccola percentuale soffoca di sovralimentazione. Il problema dell'industria alimentare mette in luce l'importanza di temi quali la tutela dei consumatori, le disuguaglianze mondiali e l'indebolimento dei poteri pubblici. L'apertura di un grande mercato mondiale in nome del libero scambio, le norme dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e il controllo degli aiuti consolidano e centralizzano ancora di più l'industria alimentare: il 60% di questo settore (semi, concimi, pesticidi, industrializzazione, spedizione) è controllato da appena dieci società.

Attualmente esistono circa 200 trattati internazionali sull'ambiente, tre quarti dei quali sono stati ratificati negli ultimi trent'anni.

 

Tuttavia, nella maggior parte dei casi, gli impegni presi sotto i riflettori dei mass media - in particolare alla Conferenza di Rio del 1992 - sono rimasti lettera morta. Peggio ancora, la loro efficacia è troppo spesso vanificata dalla vaghezza dei loro contenuti e dal lassismo con cui dovrebbero essere fatti rispettare. Forse è già troppo tardi per qualsiasi tipo di «sostenibilità». Molti processi probabilmente sono già irreversibili. La risposta ai disastri ambientali, come ai cambiamenti climatici, non sta ad aspettare in eterno che noi raccogliamo dati scientifici «definitivi». Forse è giunto il momento di decretare una moratoria per tutte le innovazioni scientifiche o tecnologiche che comportino potenziali effetti negativi sul pianeta e sulla società.

Certo, la scienza - o quel che si può temere di dover chiamare «scienza aziendale» - è sempre sul punto di fare una scoperta importante che, per quanto sembri pericolosa, è inevitabilmente accompagnata da una congerie di commenti rassicuranti sui suoi potenziali benefici (per curare il cancro, annullare i cambiamenti climatici, eliminare la fame dal mondo) a patto che si continui ad alimentare il flusso di contributi alla ricerca.

Non possiamo prendere un'altra strada? Una strada che si basi sulla rigenerazione piuttosto che sulla sostenibilità di uno status quo insopportabile, su un buon «economato» (una sorta di «economia economa») (3) dell'esistente, invece che sullo sviluppo e la crescita senza freni? L'economato presenta il vantaggio di andare al di là dei meri principi economici - importantissimi - ristabilendo un equilibrio, dedicando altrettanta attenzione all'ambiente, all'etica e alla spiritualità, che sono gli elementi vitali di qualsiasi civiltà degna di questo nome.

 

 

note:

 

* Zio di Karim Aga Khan IV, quarantanovesimo capo spirituale degli ismaeliti, il principe Sadruddin Aga Khan ha lavorato all'Unesco, è stato alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati, capo missione del segretario generale delle Nazioni unite e membro della commissione dei Diritti umani. Attualmente è presidente della Fondazione di Bellerive, particolarmente attenta ai problemi ambientali.

 

(1) Creato dalle Nazioni unite nel luglio 2000, Global Compact è un forum che riunisce imprese leader nel loro settore, organismi delle Nazioni unite, organizzazioni non governative e sindacali.

Si prefigge lo scopo di «contribuire a far emergere valori e principi condivisi, per un mercato mondiale dal volto umano». www.unglobalcompact.org.

 

(2) Dal nome di Gro Halem Brundtland che, nel 1983, ha presieduto la Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, è stato il rapporto di base della Conferenza delle Nazioni unite per l'ambiente e lo sviluppo del 1992 (il «Vertice di Rio»).

 

(3) Si legga Jean-Marie Harribey, L'économie économe. Le développement soutenable par la réduction du temps de travail, L'Harmattan, coll.

«Logiques économiques», Parigi, 1998.

 

LE MONDE diplomatique – Dicembre 2002 - http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/