ECONOMIA EQUA

di Francesco GESUALDI

 

 

Sono Francesco Gesualdi e pur non avendo una laurea in economia non mi sento meno abilitato a parlare di economia, dei laureati in questa disciplina. Personalmente, trovo aberrante che debba esistere l'economista di professione. L'economia è infatti una materia strettamente connessa alla politica e siccome a mio parere tutti dobbiamo fare politica, ne deriva anche che dobbiamo occuparci di economia ed esprimere così la nostra opinione in merito. La ritengo una scelta di democrazia, o meglio una scelta che sta alla base di una democrazia sostanziale.

 

L'economia non è una disciplina neutra.

L'economia non è una disciplina neutra, bensì rispecchia gli interessi e la visione politico‑filosofica della classe dominante. In questo senso, il capitalismo è l'espressione dei mercanti o meglio dei mercanti più forti. Esso è strutturato attorno al commercio ed il suo valore di fondo è il denaro; il suo obiettivo quello di garantire profitto ed espansione degli affari alle imprese, alle grandi imprese. Le strategie del capitalismo sono quelle del mercato, della concorrenza e del consumo. Nel frequentarle questo sistema ha prodotto degli enormi danni economici, sociali ed ambientali. E ciò semplicemente perché all'interno delle strategie capitaliste non c'è spazio per le esigenze umane per l'equità per il rispetto della natura. Tutto è costo ed i costi vanno eliminati od abbattuti.

Se da un punto di vista ambientale i guasti provocati dal capitalismo sono sotto gli occhi di tutti ‑ dai cambiamenti climatici innescati dall'emissione dei cosiddetti gas serra, al buco nello strato di ozono, dalle piogge acide alla progressiva deforestazione ‑ meno noti sono invece i danni sociali, anche perché al Nord del pianeta viviamo tutti nell'opulenza e questo, in un certo senso, ci rende più "difficile" la presa di coscienza di tali storture. Il fatto è che questo sistema per funzionare secondo la logica mercantilista, monetarista ed espansionista, ha avuto bisogno di creare una piccola base di ricchi consumatori ed una larga base di fornitori depredati e lavoratori sfruttati. Il risultato è che il 50% della popolazione mondiale vive in condizioni di povertà assoluta o quasi. I meccanismi specifici che hanno portato a questo risultato scellerato sono l'esproprio dei piccoli contadini e degli indigeni, lo scambio ineguale, lo sfruttamento del lavoro, il debito. Ma sono anche i trattati di libero scambio che provocano il fallimento di piccoli contadini e delle piccole imprese che non reggono la concorrenza delle grandi multinazionali.

Ora, c'è una parte della società civile che si ribella a questo stato di cose e si batte per più equi rapporti commerciali, per la dignità del lavoro, per l'annullamento del debito, per una migliore cooperazione, per un diverso ordine commerciale, in modo che si possa costruire un mondo più equo. Ma cosa significa, per noi parte ricca del mondo, costruire un mondo più equo?

Quando pensiamo ad un mondo più equo, probabilmente immaginiamo un pianeta in cui tutti gli abitanti hanno il nostro stesso tenore di vita. In altre parole pensiamo ad un'equità che si posiziona su uno standard di vita elevato. Ma è stato ampiamente dimostrato che ciò è impossibile. Ci vorrebbero infatti altri cinque pianeti come il nostro. Quindi, per fare spazio ai poveri dobbiamo entrare in un altro ordine di idee, quello di consumare e produrre meno. Dobbiamo immaginare il mondo come se fosse popolato da tanti uomini scheletrici e solo da pochi grassoni. I primi non potranno mangiare di più fino a quando i secondi non decideranno di sottoporsi ad una drastica cura dimagrante. In conclusione noi ricchi del Nord dobbiamo passare ad un'economia più sobria, ovvero dall'economia dell'espansione continua all'economia del limite. Questa prospettiva forse ci sgomenta perché non sappiamo immaginare una vita diversa da quella dell'opulenza e nella nostra fantasia si affaccia il terrore delle privazioni e delle sofferenze. In particolare ci chiediamo come potremo riuscire a garantire un lavoro ed un benessere minimo a tutti, dal momento che questo sistema ci ha sempre detto che la ricetta per creare occupazione e per garantire maggiore sicurezza sociale è la crescita.

In effetti si tratta di una grande sfida, ma io credo che la potremo vincere, a condizione di sapere operare una grande rivoluzione nel nostro modo di concepire il benessere, la tecnologia, l'attività produttiva, il lavoro e l'economia pubblica.

 

Nuovi stili di vita

Questo sistema ci ha abituato a misurare il benessere in base ai consumi ed alla ricchezza ma si tratta di una visione parziale, definibile piuttosto che come benessere come "benavere". Il benessere vero sta infatti nella piena realizzazione di tutte le dimensioni umane: dai rapporti affettivi ai rapporti sociali, dalla soddisfazione nel lavoro alla sfera spirituale. Aspetti cioè, che non si soddisfano con la disponibilità di beni materiali, ma organizzando diversamente la società e la vita.

La prima regola per riuscire a vivere bene con meno è di ritrovare il senso della sazietà. Dobbiamo inoltre imparare a rispettare gli oggetti, affinché possano durare il più a lungo possibile. Dobbiamo imparare a riparare, a riutilizzare e a riciclare. Infine dobbiamo imparare a condividere gli oggetti ed a consumare di più in maniera collettiva. Bisognerà però imparare anche a sprecare meno risorse, la qualcosa comporta: il riorentamento dei nostri cicli produttivi verso beni capaci di durare a lungo; il riciclaggio delle materie prime utilizzate nella produzione; l'uso di energie rinnovabili, con la messa a punto di tecnologie che premino l'efficienza e riducano al minimo gli sprechi di risorse; l'esaltazione della dimensione locale al fine di evitare al massimo gli sprechi connessi al trasporto spesso inutile, di uomini e merci, favorire l'attaccamento e quindi la cura al proprio ambiente, massimizzare l'occupazione.

 

Un nuovo concetto di lavoro

Sembra abbastanza evidente che per costruire un'economia sostenibile dovremo ridimensionare anche l'uso del denaro e dare più spazio all'uso diretto di ciò che produciamo. Ciò risulta particolarmente evidente se affrontiamo il tema dell'occupazione e dei servizi pubblici. Per quanto riguarda l'occupazione, oggi ci troviamo in una via senza uscita. Poiché il motore che fa funzionare l'economia è il mercato, si è creato un nesso inscindibile fra vendite e occupazione. Se le vendite aumentano l'occupazione ha qualche possibilità di crescere, altrimenti a crescere è la disoccupazione. Per questo siamo tutti diventati sostenitori del consumo, al quale abbiamo addirittura attribuito un valore sociale.

Per uscire da questo circolo vizioso, bisogna avere il coraggio di affermare che la funzione del lavoro non è guadagnare un salario, ma soddisfare i nostri bisogni. Se entriamo in questa logica ci renderemo conto che molti servizi che oggi acquistiamo sul mercato, possiamo produrceli da soli ed ogni volta che lo faremo avremo dato una risposta parziale al nostro bisogno di occupazione, senza costringere l'economia a crescere. Valorizzando il "fai da te" non intendiamo dire che il lavoro retribuito deve scomparire, ma che deve ridimensionarsi.

La nostra idea è quella di una società in cui ogni persona non abbia una sola attività, ma tante, alcune delle quali pagate e altre no. Maggiore è il ricorso alle forme non pagate, maggiori sono le probabilità di creare piena occupazione senza far crescere l'economia.

Il "fai da te" non è l'unica forma di lavoro non pagato che possiamo utilizzare per soddisfare i nostri bisogni. Un'altra possibilità è quella di scambiarsi i servizi a livello interpersonale: l'imbiancatura di una stanza in cambio della cucitura di un vestito; la traduzione di una lettera in cambio di una lezione di musica. Ma affinché ciò possa avvenire è necessario creare i meccanismi che consentano alla gente di scambiarsi i servizi in una forma diversa dal baratto. La soluzione è di lasciare alla gente la libertà di creare delle forme di pagamento autonome per lo scambio di servizi all'interno di un gruppo o di una comunità locale. In fondo si tratterebbe di lasciare ad ogni aggregazione sociale la libertà di creare la propria moneta, come sta già succedendo all'interno delle reti di economia locale.

 

Economia dei bisogni fondamentali a gestione pubblica e gratuita

Un'economia che sa di disporre solo di una quantità limitata di risorse deve fare delle scelte. In altre parole deve fare una programmazione in base alle priorità, come si fa in tutte le famiglie. Crediamo che il compito prioritario dell'economia sia quello di garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni fondamentali come il cibo, il vestiario, l'energia e l'alloggio di base, la sanità, l'istruzione, i trasporti pubblici, la protezione civile, la cura del territorio, le comunicazioni.

Crediamo anche che tali bisogni debbano essere riconosciuti come diritti che vanno garantiti a tutti, dalla culla alla tomba, indipendentemente si sia ricchi o poveri. Per questo non possono essere affidati al mercato, ma alla comunità che deve soddisfarli a tutti avvalendosi del contributo di tutti. Perché questo possa avvenire l'economia pubblica deve disporre di tutto il lavoro di cui ha bisogno senza obbligare altri ambiti dell'economia a crescere. Ciò può essere raggiunto smettendo di far funzionare la macchina pubblica secondo il sistema mercantile delle tasse. Oggi c'è un nesso inscindibile fra crescita e servizi pubblici, perché l'economia pubblica è considerata una sorta di appendice di quella privata. Se quest'ultima cresce, la gente paga più tasse e lo Stato può quindi fornire più servizi. Così si può arrivare all'assurdo che pur avendo molti bisogni da soddisfare e molti disoccupati da occupare, di fatto la macchina sta ferma semplicemente perché lo Stato non ha i soldi per pagare i salari.

Questo paradosso si può evitare ribaltando la concezione economica. Bisogna smettere di considerare l'economia pubblica come una variabile dipendente dall'economia privata. Al contrario bisogna considerarla un'attività autonoma, che genera ricchezza al servizio di tutti, tassando la risorsa più diffusa che è il tempo.

Cosa ci impedisce di far funzionare l'economia pubblica chiedendo a ciascuno di dedicarle parte della propria settimana, del proprio mese, del proprio anno? Del resto la protezione civile non funziona già un po' secondo questo modello? Tassiamo dunque il tempo invece dei redditi.

In conclusione si può ipotizzare un sistema in cui ognuno sia chiamato a contribuire direttamente alla produzione dei beni e servizi fondamentali ed in cambio la comunità fornisce a tutti, dalla culla alla tomba, un reddito d'esistenza e l'accesso gratuito ai servizi fondamentali come l'istruzione, la sanità, i trasporti e la comunicazione di base. In questo modo oltre a garantire un livello di sicurezza per tutti garantiamo anche un livello di occupazione per tutti.

 

Economia dei desideri a gestione privata e di mercato

L'economia pubblica non potrà e non dovrà occuparsi di tutto, ma solo dei bisogni fondamentali e degli interessi collettivi. La soddisfazione dei bisogni meno fondamentali definibili come "desideri" potrà avvenire tramite il mercato costruito sull'iniziativa privata sapientemente pilotata dal potere pubblico con la leva fiscale per evitare incompatibilità con la disponibilità delle risorse ed i limiti imposti dall'ambiente.

 

Visione d'insieme

In concreto potremmo pensare ad una doppia economia: una dei bisogni fondamentali ed una dei desideri. La prima a gestione pubblica, la seconda a gestione privata. La prima sarà basata su una produzione programmata, ottenuta con il contributo di tutti in cambio di servizi gratuiti e di un reddito minimo d'esistenza ad ogni membro della collettività. La seconda si baserà sull'iniziativa privata e funzionerà secondo i meccanismi di mercato sapientemente pilotati dal potere pubblico con la leva fiscale. Fra gli interstizi dell'una e dell'altra si collocherebbe infine l'economia del "fai da te" e degli scambi di economia locale per il soddisfacimento dei bisogni domestici e personali di facile soluzione.

 

Come spingere il sistema verso un modello equo e sostenibile?

Alcuni passi fondamentali sono:

• Promuovere una vera rivoluzione culturale, ovvero praticare e diffondere ‑nonostante la prevedibile impopolarità ‑ i canoni di una vita improntata alla sobrietà. Un ottimo punto di partenza può essere rappresentato dalla redazione mensile dei cosiddetti "bilanci di giustizia"; perché portano ad una maggiore consapevolezza del proprio stile di vita, riorientando i propri consumi e le proprie scelte "economiche".

• Spingere gli Enti locali verso opzioni nuove, più aderenti alla sobrietà, capaci di favorire l'economia locale ed improntate ad un minor consumo di risorse e di energia (dalla gestione del problema rifiuti alla mobilità urbana);

• Battersi a livello internazionale ed in ambito OMC (organizzazione

mon­diale del commercio) per una maggiore tutela della dimensione locale,

piuttosto di quella globale;

• Battersi per accordi internazionali che puntino a ripartire l'uso delle risorse e dei diritti di inquinamento in base ai bisogni dei diversi popoli;

• Lottare a livello internazionale per arrestare il processo di privatizzazione, riaffermando il valore del servizio pubblico gratuito come espressione della solidarietà collettiva;

• Battersi per una riduzione nelle spese per armamenti;

• Battersi per l'introduzione di un servizio civile obbligatorio come forma di partecipazione diretta alla produzione collettiva;

• Battersi per l'introduzione di un reddito d'esistenza.

 

 

‘POLLICINO’ nov-dic. 2000