Intervista a IGNACIO RAMONET

Se la comunicazione diventa superstizione

 

Direttore del prestigioso mensile Le Monde Diplomatique (tradotto in sei lingue diverse), Ignacio Ramonet è l’autore di numerosi saggi sul sistema dei media, tra i quali Geopolitica del caos (1998) e La tirannia della comunicazione (1999), pubblicati in Italia dall’editore Asterios di Trieste.

«Nell’universo dei media, stiamo vivendo una rivoluzione paragonabile a quella avviata da Gutenberg con l’invenzione della stampa, nel XV secolo. Eppure...». Eppure, secondo Ignacio Ramonet, non bisogna lasciarsi ingannare dall’euforia dei tecnocrati o dei profeti della cosiddetta new economy, l’economia nata dal successo di Internet e delle tecnologie informatiche.

Direttore dell’autorevole mensile di informazione internazionale Le Monde Diplomatique, Ramonet pone in guardia contro il rischio di una nuova tirannia della comunicazione: «Ormai tutto è pronto per un nuovo "messianismo mediatico", cioè per l’avvento di un personaggio in grado di conquistare una platea planetaria con messaggi imperniati sull’emozione e sulla commozione, un personaggio che riunisca in sé le qualità della principessa Diana e di Madre Teresa, di Giovanni Paolo II e del Dalai Lama, insomma un misto di Clinton e di Ronaldo».

«In molti casi», continua Ramonet, «la comunicazione è stata svuotata di ogni contenuto e si è ridotta a puro simulacro, look, "immagine". Un nuovo messia mediatico, con le opportune qualità di immagine, potrebbe imporsi sulla scena politica come una specie di tele-evangelista e conquistare, senza colpo ferire, un potere immenso». Esagerazioni? Forse. L’utopia alla rovescia del Grande Fratello, descritta da George Orwell in 1984, è per fortuna uno spettro ancora lontano. Più insidiosa, anche se apparentemente più soft, è invece la nuova ideologia della comunicazione: un’ideologia che invade ogni campo, dall’economia alle varie forme di religiosità, e si impone – secondo Ramonet – come la grande superstizione dei tempi moderni. "Comunicare" è il nuovo imperativo categorico, un imperativo che riesce a mascherare vecchie forme di censura e di manipolazione per proporci un nuovo e seducente oppio dei popoli: la felicità a poco prezzo, il Nirvana del consumismo di massa.

·       Tutto è, dunque, così nero nell’universo dei media?

«No, io credo che in materia di comunicazione non si debba avere alcuna nostalgia per il passato. Mai come oggi l’umanità ha potuto disporre di tanti mezzi e di tante macchine per comunicare. Sarebbe sciocco negare i progressi, così come sarebbe fuorviante fermarsi alla denuncia di ciò che non va. Il catastrofismo è sterile. Ma non è catastrofismo indicare i limiti o gli squilibri del nuovo ordine della comunicazione».

·       Quali sono questi squilibri?

«Io credo prima di tutto che sia necessario combattere un’illusione: l’illusione che siano cadute molte barriere e che comunicare sia ormai più facile. La comunicazione è sempre difficile. Prima era difficile perché c’erano degli impedimenti di ordine politico. Oggi, nelle nostre società democratiche, la censura politica è scomparsa, ma non è così per altre forme di censura».

·       Per esempio?

«Per esempio, la censura economica. Il primo limite del nuovo sistema dei media è proprio questo, cioè la disparità, il gap tra gli info-ricchi e gli info-poveri, cioè tra coloro che hanno libero accesso all’informazione e coloro ai quali, invece, questo accesso è negato. I primi, cioè gli info-ricchi, si trovano per la stragrande maggioranza nel Nord del mondo; gli altri, al Sud. Si pensi che nella sola Manhattan ci sono più linee telefoniche che in tutta l’Africa nera. Quando si parla di linee telefoniche, si parla ovviamente di Internet e di autostrade telematiche. In tutti i discorsi sulla new economy, il divario tra il Nord e il Sud del mondo passa spesso in secondo piano, come se non esistesse o come se fosse un problema secondario. Eppure, nel mercato dei media, l’Europa rappresenta il quaranta per cento; l’altro quaranta per cento appartiene agli Stati Uniti e solo il venti per cento al resto del mondo (Giappone compreso)».

·       Ma nei suoi libri lei parla anche di due altri tipi di censura: la censura per eccesso, per accumulazione di notizie, e la censura invisibile esercitata dal sistema dei media. Di che cosa si tratta?

«È un dato di fatto che nelle nostre società la censura in senso stretto, come "sottrazione" di informazioni, non funziona più. È difficilissimo ormai nascondere per molto tempo un’informazione delicata, tanto è vero che alcuni parlano a questo proposito di "società della trasparenza" (con tutti i rischi, non solo per la privacy, che ciò comporta). Attenzione: non voglio dire che le forme tradizionali di censura non esistono più; voglio dire che la censura si fonda ormai su altri criteri, economici e commerciali, più difficili da individuare rispetto a quelli su cui si fondava la censura autoritaria. La nostra epoca è caratterizzata dalla sovrabbondanza di informazioni. E i governanti o gli industriali sanno bene che per nascondere un’informazione sgradita non c’è nulla di meglio che mimetizzarla o "annegarla" in un fiume di informazioni insignificanti. È questa la censura per eccesso. La censura invisibile, invece, è quella esercitata quasi senza volerlo, in maniera meccanica, automatica dal sistema dei media: è una censura spesso dettata da ciò che io chiamo il pensiero unico della vulgata neo-liberista, una censura che è figlia del conformismo e della volontà di rincorrere gli stessi temi, di privilegiare gli stessi argomenti, evitando ogni informazione scomoda».

·       Il successo di Internet non può essere un correttivo, un contrappeso, a queste contraddizioni?

«Penso di sì. Tra gli effetti positivi di Internet, c’è la possibilità di far circolare in maniera rapida e poco costosa informazioni che prima avrebbero richiesto investimenti colossali. I ribelli della new economy (il cosiddetto "popolo di Seattle") lo sanno bene: Internet è un formidabile tazebao elettronico, un potentissimo tamtam. Ma il contrappeso o il correttivo più efficace, oltre che dalla molteplicità delle fonti e dalla pluralità dei punti di vista, potrà essere esercitato da ognuno di noi, cioè da cittadini che non accettano di essere considerati solo come spettatori o come consumatori: cittadini che non rinunciano a far sentire la loro voce – e, se necessario, il loro dissenso – non solo al momento del voto, ma in tutte le forme di protesta di cui si può disporre in una società democratica».

 

Piero Pisarra

Jesus novembre 2000