UN MILIARDO PER LA SALUTE DEL TERZO MONDO?

UNA TERAPIA PEGGIORE DEL MALE

 

Non poteva essere più decisa la bocciatura da parte di Medici senza frontiere (Msf) della proposta lanciata dall'Italia, presidente di turno del G8, di coinvolgere le mille multinazionali più potenti del mondo nella creazione di un Fondo volontario speciale per la salute. Il progetto italiano "Oltre la cancellazione del debito", presentato a Londra, durante un convegno su infanzia e povertà, dal ministro del Tesoro Vincenzo Visco, prevede che ognuna delle mille principali multinazionali del mondo versi un minimo di 500 mila dollari (circa un miliardo di lire) su un Fondo di solidarietà da un miliardo di dollari creato per metà con denaro dei privati e metà con risorse pubbliche dei Paesi industrializzati. Responsabili della gestione dei fondi, destinati a migliorare la situazione sanitaria dei Paesi più poveri, dovrebbero essere, secondo la proposta italiana, Fondo Monetario, Banca Mondiale e Nazioni Unite. Durissimo il commento di Nicoletta Dentico, direttore esecutivo di Msf Italia, promotore della Campagna per l'accesso ai farmaci essenziali: "l'obolo insignificante di un miliardo di lire a multinazionale rivendicato dal piano del G8, in cambio di un regime di investimenti più garantito nei Paesi poveri, e di regole più severe in materia di diritti della proprietà (e cioè la proprietà dei brevetti sui farmaci da parte delle industrie farmaceutiche, ndr), non solo non intacca minimamente le radici della povertà, ma rischia di avvalersi strumentalmente dei dati agghiaccianti sulla salute della popolazione mondiale per formulare azioni di immagine a favore delle grandi imprese, il cui incontrollato profitto alimenta le malattie del pianeta. In altre parole, il rischio è che la terapia sia peggiore della malattia".

 

Di quale natura siano gli interessi delle multinazionali nel campo della lotta alla povertà, lo mostra nel migliore dei modi il caso del governo del Sudafrica, che, per il fatto di aver introdotto una legislazione sanitaria (il "Medical Act") in grado di rendere i farmaci salvavita più accessibili ai 5 milioni di malati di Aids, è stato trascinato in giudizio da una cartello di 40 case farmaceutiche (tra cui Boehringer-Ingelheim, GlaxoSmithKline, Merck, Bristol-Mayers Squibb e Roche). Del processo contro il Sudafrica, che si concluderà il prossimo 12 marzo, si è parlato anche nel corso della conferenza promossa a Roma il primo marzo da Msf sul tema "Accesso alla salute: diritto o profitto? Il tema della salute in preparazione del summit del G8 di Genova". "Quale che sia il suo esito - ha affermato durante il convegno Nicoletta Dentico - il processo avrà una portata storica. Se vincerà il governo del Sudafrica si sarà fatto un grande passo avanti. Se al contrario avranno la meglio le imprese farmaceutiche, anche l'eventuale dibattito sulla riforma dei Trips (l'Accordo multilaterale sulla proprietà intellettuale - entrato in vigore nel 1996 nell'ambito dell'Organizzazione mondiale del commercio - di cui le organizzazioni non governative chiedono una radicale revisione, ndr) segnerà il passo".

 

Il caso del Sudafrica, del resto, è tutt'altro che isolato. Già nel 1992 la Thailandia era stata costretta ad un braccio di ferro con il governo statunitense, schierato in difesa delle aziende farmaceutiche rispetto alla produzione locale di farmaci antiretrovirali a basso costo, ostacolata di volta in volta con regimi di brevetti sempre più rigidi. E ora gli Stati Uniti hanno ingaggiato un'altra lotta (presso il forum delle dispute dell'Omc) con il Brasile, colpevole di aver permesso la somministrazione gratuita della terapia antiretrovirale nella lotta contro l'Aids, attraverso una produzione locale di farmaci ad un prezzo del 79% inferiore a quello del mercato.

 

Il nodo della questione è sempre l'Accordo sulla proprietà intellettuale, che accorda ai farmaci lo stesso trattamento di una qualsiasi merce, vietandone la produzione o l'acquisto all'estero senza la previa autorizzazione della casa farmaceutica titolare del brevetto, di cui conserva il controllo per venti anni. Peccato che i costosi farmaci brevettati non siano alla portata né della sanità pubblica né degli ammalati, i quali finiscono così per acquistare farmaci inadeguati o di bassa qualità, ricorrere a dosaggi insufficienti o rinunciare alla cura. Ne offre un esempio, tra innumerevoli, l'Uganda, a cui la Banca Mondiale ha imposto la sua ricetta sulla sanità, che prevede l'introduzione del pagamento delle prestazioni nelle strutture pubbliche e un incremento delle privatizzazioni. "Un ospedale missionario che a causa di una crisi finanziaria si è visto costretto ad aumentare di un dollaro il costo delle visite - ha affermato Gavino Maciocco, direttore della rivista "Salute e sviluppo" del Cuamm - ha visto crollare del 700% l'affluenza dei bambini" (per un quadro della gravissima situazione sanitaria africana, si può leggere il dossier del numero di febbraio di "Nigrizia", dal titolo "Se conta solo il profitto").

 

È vero che l'Accordo sui Trips prevede eccezioni al monopolio dei brevetti, come quella della licenza obbligatoria che permette, in caso di salvaguardia della salute pubblica, di produrre localmente un farmaco ancora sotto brevetto senza l'autorizzazione del detentore o di importare un equivalente generico (farmaco il cui principio attivo non è coperto da brevetto). Ma, come ha spiegato Daniel Berman della Campagna per l'accesso ai farmaci essenziali dei Msf, i Paesi poveri (i quali, con il 75% della popolazione mondiale, consumano appena l'8% dei farmaci venduti) trovano grandi difficoltà nel ricorrere a tali eccezioni perché il loro potere negoziale è troppo debole rispetto alla portata delle minacce e delle sanzioni a cui vanno incontro, come dimostrano per l'appunto i casi del Sudafrica, della Thailandia e del Brasile.

 

Passi avanti, però, ne sono già stati fatti, grazie a campagne come quella di Medici senza frontiere: "l'idea delle case farmaceutiche - ha concluso Nicoletta Dentico - era addirittura quella di modificare i Trips in senso restrittivo. Ora di revisione dell'accordo le multinazionali non vogliono neppure sentir parlare".

 

Adista – marzo 2001