Possibilità e limiti del sistema economico internazionale contemporaneo.

 

(contributo presentato nel Seminario internazionale “America Latina e il Sistema Internazionale Contemporaneo: Prospettive Politiche e Economiche. Organizzato dall’Istituto Latinoamericano di Ricerche Sociali e l’Università di Cuenca (Ecuador), i giorni 27 e 28 novembre 1997  da  Juan Francisco Martin Seco, ex funzionario del governo spagnolo e docente universitario)

 

 

Nel corso dei secoli, tutte le culture hanno cercato di perpetuarsi generando apologisti disposti a negare la possibilità di qualsiasi cambiamento dando per scontato che la struttura socio-politica vigente era quella ottimale. Non si tratta soltanto di difendere un’ideologia, così come di negare il diritto di esistenza dell’altra, ma di definire come utopica qualsiasi altra posizione alternativa.

 

Oggi giorno, i difensori e beneficiari dell’ordine internazionale mantengono come verità scientifica e quasi religiosa la permanenza immutabile del sistema attuale, e condannano squalificando tutti quelli che, anche solo minimamente, si permettono di insinuare dubbi sulla solidità dei valori imperanti. Solo loro, e da soli, hanno decretato la morte del socialismo e con esso si sono affrettati a seppellire qualsiasi ideologia di sinistra, così come l’aspirazione a una realtà più giusta e a un mondo migliore.

 

Di fronte a questo paradiso celestiale che canta elogi e salmi al mondo capitalista, la  cruda realtà, ostinata, ci dice ogni giorno il contrario. Le soluzioni hanno fallito - chissà di chi è la colpa -, le ideologie sono diventate vecchie - non più di quelle che propugnano i mistici del sistema -, però le domande, i dubbi e le contraddizioni conservano tutta la loro attualità.

 

Sicuramente la nostra soddisfatta società conserva dentro di se un segreto conosciuto da tutti, però coscientemente dimenticato: laceranti disuguaglianze come mai ha sofferto la storia dell’umanità.

 

La differenza esistente tra il reddito pro capite della Svizzera (34.000 dollari) o gli Stati Uniti (22.000 dollari) e l’Etiopia (137 dollari) crea un abisso difficile da giustificare. I trentasei paesi più poveri del pianeta, che concentrano la metà della popolazione mondiale, non raggiungono un reddito di 425 dollari pro capite; e i settantotto paesi periferici, compresi i primi, con i quattro quinti della popolazione del pianeta, sono al di sotto dei 2.000 dollari pro capite di reddito nazionale.

 

Anche nei paesi sviluppati, la povertà si estende tra il 20 e il 40 per cento della popolazione, e crea situazioni difficili da sostenere.

 

La distanza che separa i paesi ricchi dai paesi poveri, anziché accorciarsi col tempo, aumenta sempre più, e le condizioni demografiche contribuiscono a far si la percentuale della popolazione mondiale che vive ai margini del sistema sia sempre maggiore.

 

Se venticinque anni fa si diceva che i due terzi dell’umanità erano condannati alla massima povertà, oggi si può affermare che sono i quattro quinti della popolazione mondiale ad essere ridotti alla miseria.

 

La tanto utilizzata divisione tra centro e periferia, tra Nord e Sud, qualcosa di più che una realtà sgradevole con la quale siamo obbligati a convivere, è il risultato voluto e provocato sul piano internazionale da un sistema e un rapporto di produzione radicalmente ingiusti. Perché il sistema capitalista mondiale funziona d’accordo con determinate regole che polarizzano i diversi raggruppamenti sociali in un centro e in una periferia, e impediscono che questa possa uscire dalla situazione in cui si trova. Non è vero che si tratta di un problema di tempo e di tappe, ma, così come è stato affermato da un’infinità di autori, il prezzo per la prosperità del centro è la povertà della periferia.

 

L’accumulazione di capitale e l’internazionalizzazione dell’economia creano progressivamente condizioni di maggiore disuguaglianza e il perpetuarsi del colonialismo; un colonialismo diverso da quello che provocò le due guerre mondiali, però non per questo meno duro.

 

Questo mondo, così definito, tutto può essere meno che stabile. Al di là dei desideri di quelli che, soddisfatti, plaudono all’ordine stabilito, la verità è che questo ordine, se così si può chiamare, è instabile e creerà mille squilibri.

 

La periferia si rifiuterà di accettare come definitiva una realtà che la condanna permanentemente alla miseria; il centro, per mantenere i suoi privilegi, dovrà definire e rafforzare le sue posizioni, e nuove onde di barbari faranno pressione “ai confini dell’impero” per accedere al circolo dell’abbondanza.

 

 

Il libero scambio

 

Come non potrebbe essere altrimenti, i seguaci del neoliberismo economico nella scena internazionale e la loro venerazione per le leggi di mercato si dichiarano, in teoria, accaniti sostenitori del libero scambio. Questa dottrina, inizia con David Ricardo e giunge ai nostri giorni senza grandi innovazioni nei suoi fondamenti essenziali. Stabilisce che la miglior politica nel campo del commercio internazionale è quella della assoluta libertà, evitando qualunque tipo di restrizione governativa, in modo che ogni paese si specializzi in quelle attività per le quali disponga di “vantaggi comparativi” rispetto alle altre.

 

La dottrina si basa su un’apparente logica che non è altro che l’applicazione della divisione del lavoro al commercio internazionale. Quanti meno impedimenti hanno compratori e venditori, meglio per tutti. Però cosa succede quando un paese manca di qualsiasi vantaggio nella fabbricazione dei differenti prodotti? O al contrario cosa succede se è un solo paese quello che presenta maggiori vantaggi nella produzione di tutti i beni? Il senso comune ci dice che i paesi più competitivi finiranno conquistando e impadronendosi di tutti i mercati e i meno competitivi non arriveranno a esportare nessuno dei loro prodotti. Cioè, i più sviluppati diventeranno più ricchi e quelli del Terzo Mondo sprofonderanno nella loro povertà. Tuttavia, questa situazione non potrebbe prolungarsi all’infinito, poiché lo smantellamento del tessuto produttivo e quindi l’impoverimento porterebbe i paesi carenti di vantaggi comparativi, una volta esaurita la loro capacità di indebitamento, alla impossibilità di comprare prodotti dagli altri paesi. Il risultato, pertanto, sarebbe alla fine di condannare alla povertà e alla emarginazione grandi strati di popolazione, senza che per altro i più competitivi conseguano benefici duraturi.

 

La teoria classica affronta il problema da un’altra angolazione. Per i suoi sostenitori, la disuguaglianza dei paesi al punto di partenza non costituisce un’obiezione seria, non smentisce le sue conclusioni. L’equilibrio si produrrebbe ugualmente attraverso il sistema aureo. Gli squilibri nella bilancia dei pagamenti verrebbero saldati attraverso movimenti aurei dai paesi in deficit verso i paesi che presentano surplus nei loro conti con l’estero, il che genererebbe, sempre e quando si realizza la teoria quantitativa della moneta, una riduzione dei prezzi nei primi e processi inflazionistici nei secondi, stabilendosi così una nuova struttura di costi nella quale tutti gli stati presenterebbero vantaggi comparativi, almeno nella fabbricazione di alcuni prodotti, raggiungendo in questo modo l’equilibrio nel commercio internazionale.

 

Dopo l’abbandono del sistema aureo nel sistema monetario internazionale, la teoria del libero scambio adattò perfettamente i suoi postulati alle nuove coordinate. L’unica differenza consiste nel fatto che, a partire da questo momento, l’equilibrio dovrà prodursi attraverso la svalutazione o la rivalutazione delle divise dando luogo a nuove relazioni di interscambio.

 

In realtà, in tutte le materie, il modello neoclassico si appoggia agli stessi principi e porta alle stesse soluzioni. Tutto si riduce ad ammettere la flessibilità dei prezzi. Se un paese, in un determinato momento,  non presenta alcun vantaggio comparativo, si deve unicamente al fatto che presenta nei confronti dell’estero una struttura di prezzi scorretta che si correggerà attraverso modificazioni nel tipo di cambio. E’ conveniente ricordare che il primo prezzo è il salario; cioè, un paese che svaluta la propria moneta sta riducendo i salari interni rispetto a quelli che vengono pagati all’estero.

 

E’ per questo che la versione più recente della teoria del libero scambio, quella di Hecksher-Ohio-Samuelson, appoggiandosi sullo stesso principio di base, individua i vantaggi comparativi dei paesi nella maggiore disponibilità relativa ai differenti fattori di produzione; in modo che le economie tendono a specializzarsi in funzione della maggiore o minore abbondanza di ognuno di loro. Così, quelli che dispongono di pochi capitali però dispongono di un numero eccessivo di lavoratori, si specializzeranno in prodotti e servizi intensivi di manodopera; mentre, al contrario, li dove esiste un surplus relativo di risorse finanziarie si svilupperanno attività che richiedono un alto grado di accumulazione di capitali, però pochi lavoratori, anche se molto qualificati.

(I deficit commerciali di alcuni paesi dipendono, secondo il liberalismo economico, dal fatto che i loro salari sono troppo elevati per poter essere competitivi, nelle condizioni produttive in cui si incontrano. Per raggiungere l’equilibrio è imprescindibile ridurre le retribuzioni dei lavoratori, in modo che i loro prodotti abbiano prezzi più bassi rispetto a quelli stranieri.)

 

La cosa sorprendente della teoria del commercio internazionale e del modello neoclassico sta nel fatto di sostenere che la miglior politica possibile per un paese è quella del libero commercio, non solo quando è generalizzata e tutti i paesi si attengono alle loro esigenze, ma anche quando altri paesi praticano una politica protezionistica. Sarebbero così ingiustificate le azioni tendenti ad impoverire il vicino mediante l’uso di imposte e contingentamenti alle importazioni.  La verità è che queste affermazioni sono abbastanza difficili da credere; e di fatto, in pratica, nessun paese l’accetta e sono solo disposti a ridurre le difese commerciali a condizione che gli altri facciano altrettanto. In più i diversi accordi di commercio internazionale sono sempre strani miscugli di protezionismo e di libero scambio, dove ciascun paese cerca di ottenere la maggior libertà possibile nelle esportazioni dei suoi prodotti e, così come cerca un alto grado di protezione per i suoi mercati nei confronti degli articoli stranieri.

 

Però il neoliberismo economico va oltre e pretende che, anche quando il punto di partenza tra i diversi paesi è molto diverso in ricchezza, livello dei salari e reddito pro capite, l’adozione del libero scambio andrà ammortizzando le differenze, sempre che si accetti anche la libertà assoluta di circolazione dei fattori produttivi. Tale aspirazione parte dal fatto che la produttività marginale è decrescente, per cui la redditività del capitale aumenterebbe nella misura in cui scarseggiasse questo fattore e disponesse , tuttavia, di abbondante mano d’opera, producendosi il processo contrario riguardo alla retribuzione dei lavoratori. Il trasferimento di questi programmi alla realtà internazionale, implicherebbe che la redditività del capitale sarebbe maggiore nei paesi del Terzo Mondo  piuttosto che in quelli sviluppati, e nello stesso tempo i salari sarebbero molto più ridotti nei primi. E’ logico supporre che se non esiste alcun impedimento per la libera circolazione dei capitali, questi si trasferirebbero verso i paesi sottosviluppati fino a che si raggiungesse l’equilibrio tanto nella retribuzione del capitale  come nel livello dei salari e quindi, prima o poi, si otterrebbe una comparazione del reddito pro capite. L’unica cosa necessaria è che nei paesi recettori del capitale si creino le condizioni adeguate per accogliere gli investimenti stranieri: creazione di infrastrutture, formazione della mano d’opera, deregolamentazione del mercato del lavoro, flessibilità assoluta per la libera circolazione dei capitali e per rimpatriare i benefici e, naturalmente, che le condizioni politiche non creino incertezze aggiuntive.

 

Questo programma, tuttavia, si scontra frontalmente con la realtà e l’esperienza. Realizzando i presupposti del neoliberalismo economico, ci si aspetterebbe che il commercio internazionale si sviluppasse soprattutto tra paesi con economie differenti. I paesi sviluppati esporterebbero articoli sofisticati, a capitale intensivo, e importerebbero dai paesi più poveri materie prime e beni poco elaborati la cui produzione necessita solo di mano d’opera e viceversa. Però i fatti sono altri. La maggior parte del commercio mondiale si effettua tra i paesi del primo mondo, con economie molto simili e produzioni similari in molti casi; al contrario, i paesi poveri partecipano appena  alle correnti di traffico internazionale, e persino negli esempi più estremi di miseria, rimangono praticamente esclusi dall’economia mondiale, incapaci di competere in alcun aspetto.

 

Neppure si realizza la previsione che i capitali affluiranno dai paesi ricchi ai paesi poveri. Anzi avviene il contrario. A partire dal 1983, così come afferma Pedro Montes, si è realizzato un trasferimento netto di risorse finanziarie dai paesi sottosviluppati verso gli altri, principalmente del primo mondo. Il bilancio complessivo nel decennio 1982-91 dei trasferimenti di risorse finanziarie è negativo per i paesi in via di sviluppo per 165.000 milioni di dollari.

(Pedro Montes. El internazionalismo Neoliberal, en “La larga noche ceoliberal”,  Ed. Icaria e I.S.E., Madrid, 1993, p.76.)

 

Si è preteso spiegare che questa concentrazione di capitali nei paesi ricchi e la loro fuga dal Terzo Mondo è dovuta alla migliore e più abbondante tecnologia di cui godono i primi; però, in realtà, questa spiegazione costituisce una questione di principio, perché se è così, è proprio per la mancanza di capitali che soffrono gli ultimi. La tecnologia è cara. Alla fine, rimane da chiedersi perché non arriva il capitale, e con esso la tecnologia, ai paesi sottosviluppati se la redditività di questo fattore, così come afferma la teoria neo classica, è maggiore nel Terzo Mondo.

           

Si è anche detto che la qualificazione della mano d’opera è molto superiore nei paesi del Nord che in quelli del Sud. Ciò è vero e spiega in parte le differenze di salario tra le diverse regioni, però solo parzialmente, perché altrimenti non si spiegherebbe come mai esistono masse immense di lavoratori del Terzo mondo disposti a emigrare verso i paesi sviluppati, dove godranno, qualunque sia il loro livello di specializzazione, di migliori condizioni di lavoro che nei loro paesi di origine.

 

Ancora una volta il liberalismo economico e la teoria neoclassica si sviluppano in modelli teorici, totalmente distaccati dalla realtà. I loro famosi mercati autoregolati sbagliano, e le cose sono molto diverse da come appaiono nei libri di testo. Interferisce sempre un gran numero di variabili non previste; e fra queste non ha scarsa importanza attualmente il non verificarsi della teoria secondo cui l’esistenza generalizzata di rendimenti decrescenti. (La teoria neoclassica dello sviluppo si basa sul fatto che l’accumulazione del capitale nei paesi ricchi conduce a un suo minore rendimento). Oggi ci muoviamo in un mondo di economie di scala, dove il costo di produzione diminuisce con l’aumentare delle quantità prodotte. Questo giustifica la tendenza ad ampliare il più possibile i mercati, mentre si tende al monopolio, o almeno all’oligopolio, perché quanto più ampio è il mercato che si controlla, maggiori sono le probabilità di ridurre i costi. In certa misura, i mercati finiscono per essere chiusi e si può entrare in essi solamente attraverso ingenti investimenti e rompendo le quote già conquistate dai concorrenti; così ché di fatto si verifica la progressiva scomparsa della piccola e media impresa, soprattutto in particolari settori industriali. L’unica possibilità di ricavarsi una nicchia nella fabbricazione di certi prodotti è attraverso grandi accumulazioni di capitali e introducendo  particolarità negli articoli che li personalizzino in qualche modo. Esiste, poi, assieme alla globalizzazione geografica, una parcellizzazione dei mercati secondo cui, in realtà, ogni impresa si comporta come monopolista dei propri prodotti differenziati. Si ha così un nuovo concetto di concorrenza, chiamata a volte concorrenza imperfetta o monopolista, che non ha niente a che vedere con quella “concorrenza” difesa dal modello neoclassico. (La differenza sostanziale fra l’uno e l’altro tipo di concorrenza risiede nel potere che l’imprenditore ha rispetto ai prezzi; mentre nella concorrenza perfetta le imprese accettano il prezzo loro imposto dalle teoriche leggi del mercato, nella concorrenza imperfetta le imprese hanno una relativa capacità nel fissare i propri prezzi)  Questa nuova organizzazione può realizzarsi solo in presenza di mercati estesi e la redditività sarà tanto maggiore, quanto maggiore sarà il volume di produzione e vendite. Si opera, quindi, in funzione di costi marginali decrescenti. (La teoria ha sempre ammesso che l’esistenza di immobilizzazioni, e quindi di costi fissi nel processo produttivo, comporta che, fino ad una certa quantità prodotta, i costi marginali siano decrescenti; però a partire da un determinato livello di vendite, i costi marginali si trasformano in crescenti e i rendimenti, per tanto in decrescenti. Le economie di scala e i rendimenti crescenti sarebbero l’eccezione e non la norma generale. La novità dell’attuale situazione è esattamente che l’eccezione si trasforma in norma generale).

 

L’accettazione di questo comportamento generalizzato dei mercati stravolge la teoria neoclassica del commercio internazionale e della crescita. Se i rendimenti marginali del capitale sono crescenti, questo tende alla concentrazione e alla accumulazione. Lontani dal supporre che la libertà di commercio e la libera circolazione dei capitali produca un flusso positivo di beni dai paesi più capitalizzati verso i più poveri, continuiamo a pensare nell’esistenza del processo inverso. (Le grandi multinazionali tendono a dominare i mercati con i loro prodotti, senza che ciò implichi investire in quei paesi. E’ possibile che in molte occasioni acquistino le imprese nazionali con l’unico fine di eliminare un concorrente). Si allontana pertanto l’illusione dell’equilibrio attraverso la convergenza dei paesi nel loro livello di ricchezza. Tanto meno esiste una qualche ragione per pensare che si possa produrre un avvicinamento  nella rendita pro capite o nel livello dei salari. Invece, al contrario, i paesi poveri saranno sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Il libero scambio ha conseguenze funeste per i paesi sottosviluppati, che si vedono immersi in un circolo di povertà senza intravedere l’uscita. Gli squilibri nella loro bilancia dei pagamenti li obbligheranno ad indebitarsi costantemente; però, curiosamente, una gran parte di queste risorse, in mancanza di meccanismi di controllo degli scambi, ritorneranno ai paesi ricchi sotto forma di investimenti, poiché i capitalisti del Terzo Mondo preferiranno investire nei paesi sviluppati, dove la redditività è maggiore.

 

In realtà questo fenomeno di concentrazione degli investimenti è stato da sempre ampiamente conosciuto. Di fatto, solo così si spiega il fenomeno delle grandi città e gli squilibri regionali che si producono tra gli Stati nazionali. (Logicamente ogni Stato rappresenta un mercato unico, assente da qualsiasi restrizione perché i beni e i fattori produttivi possano circolare liberamente). Tuttavia queste disuguaglianze tra le zone di uno stesso paese sono mitigate continuamente attraverso l’attività dello Stato. Il settore pubblico ha assunto frequentemente un ruolo attivo praticando una ridistribuzione del reddito regionale attraverso dei meccanismi di bilancio e della sicurezza sociale, e mettendo in moto politiche indirizzate a sviluppare le zone più depresse. Ma tutto ciò sparisce quando ci trasferiamo sul piano internazionale (l’emigrazione della mano d’opera è un altro elemento che ha contribuito a mitigare la povertà delle zone depresse, processo che senza dubbio presenta gravi inconvenienti e enormi costi sociali, però che evita situazioni ancora peggiori. Questi movimenti migratori si scontrano con forti restrizioni legislative tra i paesi ricchi e i paesi poveri, e anche in quelle zone di mercato unico come l’Unione Europea, dove teoricamente non esistono, la lingua e la diversa cultura costituiscono barriere insuperabili.); in esso valgono unicamente i meccanismi di mercato allo stato puro che, così come abbiamo osservato, non solo non costituiscono garanzia di convergenza ma, anzi, possono aumentare la disuguaglianza.

 

 

Globalizzazione dell’economia.

 

Disgraziatamente tali teorie economiche hanno oltrepassato l’ambito dei difensori del neoliberismo economico, per essere assunte da parte della socialdemocrazia. Il social-liberalismo, così come mostra l’ultimo documento approvato dall’internazionale socialista, cade nella trappola preferita dal neoliberismo economico: quello della globalizzazione dell’economia, intesa come un fatto irreversibile, una rivoluzione di dimensioni ciclopiche accaduta negli ultimi venti anni che sta cambiando in maniera radicale il mondo e la società. Niente è più come prima, un mondo nuovo “di fronte a cui non servono i vecchi dogmi”, chiaramente pretendendo cambiare ciò che chiamano vecchi dogmi con altri che effettivamente sono dei dogmi, e infinitamente più vecchi.

 

Il concetto di globalizzazione dell’economia viene utilizzato in maniera impropria e ambigua. In senso stretto, è difficile affermarne l’esistenza quando la maggior parte del commercio internazionale si effettua fra i paesi sviluppati, e quando ampie zone del nostro pianeta rimangono praticamente al margine dei circuiti internazionali. Qualcosa di simile accade con il termine  “delocalizzazione” che, se esiste, non interviene tra il primo e il terzo mondo, ma al contrario, dal momento che quest’ultimo è esportatore netto di capitali. Anche quei dragoni asiatici con i quali si pretende ricattare permanentemente e costringere i lavoratori del primo mondo affinché accettino condizioni di lavoro più svantaggiate hanno assai scarsa importanza relativamente all’economia mondiale. La Spagna, ad esempio, realizza con questi paesi l’1,9% di tutte le sue importazioni e il 2% delle sue esportazioni, mentre circa l’80% delle importazioni e esportazioni sono portate a termine con i paesi dell’OCSE.

 

Inoltre, in secondo luogo, riferendoci esclusivamente ai paesi ricchi, questo fenomeno chiamato globalizzazione non ha l’importanza che gli si vuole attribuire e, in nessun caso, le modifiche prodotte nel commercio internazionale negli ultimi venti anni richiedono una rivoluzione o un cambio qualitativo capace, come si pretende, tale da giustificare una nuova strategia economica o di considerare obsoleti i bilanci politici e economici dell’anno precedente. In realtà si tratta di modifiche quantitative più o meno significative, però solo questo.

 

E’ vero che ad esempio attualmente l’economia degli Stati Uniti è più aperta che nel 1960, cioè, che il commercio estero è cresciuto ad un ritmo maggiore del PIL. Se nel 1960 importazioni e esportazioni si aggiravano intorno al 5% del PIL, oggi si collocano intorno al 10%. Tuttavia quest’ultima percentuale in nessun caso autorizza a parlare di mondializzazione dell’economia. Cosa che diremmo di un’impresa che compra e vende ai suoi dipendenti il 90% dei suoi input e dei suoi output, rispettivamente. Ciò detto si può applicare anche al Giappone e all’Unione Europea. Il primo inoltre ha seguito una evoluzione contraria a quella degli Stati Uniti, e sia le importazioni che le esportazioni hanno ridotto la loro partecipazione nel PIL. In Europa le importazioni e esportazioni extracomunitarie sono cresciute più o meno allo stesso ritmo del PIL; diverso è stato per il commercio intracomunitario, però ciò è dovuto ad altre ragioni alle quali presto mi riferirò.

 

Altrettanto poco valido è sostenere che anche se la maggior parte della produzione si vende nei mercati nazionali questi sono sottoposti alla concorrenza internazionale. I servizi occupano oggigiorno, in tutti i paesi, molto più della metà del IPL, e si trovano isolati in per una buona proporzione dalla concorrenza straniera per la difficoltà che esiste per trasportarli. Tuttavia neppure nel resto dell’economia si può affermare che esiste concorrenza in tutti i settori e mercati. Nella maggior parte di essi succede tutto il contrario, in alcuni casi perché sono dominati anche a livello mondiale da pochissime imprese, e in altri perché le azioni protezionistiche non sono scomparse completamente, valga come esempio estremo quello che accade nel settore agricolo nell’Unione Europea.

 

Se una volta c’è stata un’autentica rivoluzione nell’ambito del commercio internazionale, accadde – così come afferma Paul Krugman (Paul Krugman. Vendendo prosperidad. Ariel. 1994. Barcelona p.234 y ss) – a metà del secolo XIX, quando le ferrovie e le navi a vapore resero possibile il trasporto su vasta scala di mercanzie voluminose. In quell’epoca si che aumentò vertiginosamente il commercio internazionale. Il paese con l’economia più forte, la Gran Bretagna, esportava più di un terzo del suo IPL. Cioè, tre volte quello che esportano attualmente gli Stati Uniti. Quella attività mercantile era accompagnata da grandi movimenti di capitali e la Gran Bretagna  arrivò in alcuni anni a investire all’estero più del 40% dei suoi risparmi, e se parliamo di emigrazione, i movimenti  migratori di quell’epoca fanno considerare piccolo qualsiasi fenomeno recente.

 

E’ a partire dal XIX secolo che si può iniziare a parlare di una economia globale e di mondializzazione. A partire da quella data ci sono stati senza dubbio cambiamenti considerevoli; però si può considerare che tutti si muovono in un’ottica quantitativa. Più integrazione in determinati momenti, e meno in altri. Quello che in effetti si modifica è la risposta del potere politico, degli Stati, di fronte alla realtà economica, a seconda che abbiano assunto una posizione più interventista o abbiano permesso totale libertà alle forze economiche e ai capitali per imporre la loro legge e le loro convenienze.

 

Quelli che senza dubbio sono cambiati in maniera sostanziale sono i mercati finanziari. Attualmente hanno poco a che vedere con l’economia reale. Più del 90% delle sue operazioni non è riferito a operazioni commerciali ma a mere operazioni speculative. E queste innovazioni non derivano da alcuna fatalità ma aldilà del controllo dell’uomo e della società sono conseguenza del diverso atteggiamento adottato dal potere politico abdicando le sue competenze e permettendo che il capitale si muova in totale libertà. Hanno la loro origine esattamente in quel fondamentalismo neoliberale che si dice voler combattere. Il nuovo non è il mondo o l’economia, ma il fatto che la totalità dei governi persuasi dai principi neoliberisti, abbiano rinunciato a praticare qualsiasi politica di controllo sugli scambi. Con queste coordinate, dire che la democrazia deve predominare sul mercato – così come fa il documento citato – sono solo parole senza nessun contenuto. Perché la contraddizione si è già realizzata e oggi sono i mercati, i poteri economici, quelli che impongono le loro condizioni ai poteri politici, ma solo perché i neoliberali – o i social-liberali, è uguale – hanno accettato anteriormente che l’economia è autonoma rispetto alla politica.

 

La globalizzazione lontano da essere la causa è piuttosto l’effetto. Quello che oggi si chiama internazionalizzazione dell’economia è soprattutto liberalizzazione. Gli sviluppi nelle tecniche di comunicazione e di trasporto costituiscono solo un mezzo, uno strumento, che fornisce delle possibilità ma niente più, e niente sarebbero senza una nuova ideologia che pretende liberare l’economia dal potere democratico. Le epoche del trionfo ideologico del liberalismo economico sono anche quelle di maggior integrazione economica. Così per esempio nella seconda metà del XIX secolo, considerando logicamente il minor sviluppo tecnologico, ha presentato una maggiore integrazione economica a livello internazionale che negli anni cinquanta e sessanta del XX secolo e anche in alcuni aspetti maggiore dei nostri giorni.

 

L’origine ideologica del fenomeno appare anche chiaramente nel notare come questa pretesa globalizzazione  non è presente in tutti gli aspetti della realtà economica ma solo in quegli aspetti che interessano il potere economico. Così mentre la internazionalizzazione (liberalizzazione) è totale per ciò che riguarda i flussi finanziari e i movimenti di capitale, la restrizione è assoluta in materia di mobilità della mano d’opera. La proclamata città globale si trova suddivisa in reticolo i cui quadri sono recintati e fortificati allo scopo di impedire gli indesiderati movimenti migratori. E in materia di commercio estero si impone la scelta, il libero scambio o il protezionismo si alternano a seconda della convenienza.

 

Se insisto tanto in questa idea e perché mi interessa ribadire questo argomento un po’ ingenuo, anche se non per questo meno diffuso, circa il fatto che la realtà economica attuale non permette applicare le soluzioni e le formule possibili sino a qualche anno fa. Non è la realtà economica che ha cambiato sostanzialmente, ma l’ideologia e l’atteggiamento della politica di fronte a questa realtà, e la maggior parte dei cambiamenti che attribuiamo alla prima sono semplici conseguenze della seconda. L’economia della Gran Bretagna ai tempi di Keynes non era proprio un economia chiusa. E molte delle critiche rivolte all’orientamento della politica economica del suo tempo  si incentravano in qualcosa che oggi sarebbe di piena attualità, che il benessere dei paesi non si può basare in una inutile concorrenza tra loro, attraverso la quale ciascuno pretende rubare all’altro un pezzo della torta – quello che oggi chiamiamo competitività – per la crescita e l’espansione delle diverse economie, affinché tutti risultano beneficiati.

 

Dal 1971, data in cui gli Stati Uniti accettano la libera circolazione dei capitali, questa si sta imponendo in tutti i paesi, e con essa anche la supremazia del denaro  di fronte agli organi democratici. Attualmente i mercati finanziari hanno poco a che vedere con l’economia reale. E’ vero che le speculazioni e l’irrazionalità sono sempre stati presenti nei mercati finanziari. Basta leggere l’opera di Galbrait “Breve storia dell’euforia finanziaria” per essere coscienti di ciò. Oggi ci risulta incredibile che in passato si potessero pagare somme astronomiche per un bulbo di tulipano o per azioni di società che non valevano niente. La storia ci fornisce un altro insegnamento: dove  i mercati non sono stati regolati la catastrofe economica è sempre stata la conseguenza.

 

Quello che chiamiamo globalizzazione è solo la pretesa del capitale di sfuggire al controllo democratico, come dimostra il fatto che mentre si creano spazi soprannazionali in materia mercantile e monetaria come l’Unione Europea si allontana qualsiasi tentativo di creare a quei livelli istanze fiscali e politiche veramente democratiche. La sovranità viene sottratta agli Stati per essere trasferita ai mercati o a istituzioni politicamente irresponsabili come la Banca Centrale Europea.

 

 

L’Unione Europea.

 

Forse è proprio nel progetto dell’Unione Europea dove appare più chiaramente il tentativo di insurrezione del capitale dai lacci democratici. Perché era proprio nei paesi europei che si era maggiormente sviluppata la costruzione dello Stato Sociale. L’Europa che si sta costruendo è invece una chiarissima involuzione di questo processo. E’ stato detto, in tutti i modi, che nell’Unione Europea esiste un forte deficit democratico, tanto che è quasi  banale affermarlo. Le piccole modifiche introdotte a Maastricht, non cambiano sostanzialmente lo schema. Le competenze della Commissione, carente di legittimità democratica, sono ampissime e, nel Consiglio, ogni governo si farà scudo degli altri per giustificare quelle decisioni sulle quali gli si richiede responsabilità politica. A sua volta, l’unica istituzione veramente democratica, il Parlamento, ha scarse competenze.

 

Questo vuoto politico e democratico si è percepito anche durante tutto il processo di decisioni e approvazioni nel quale i diversi governi, e non solo quello spagnolo, hanno fatto in modo che l’opinione pubblica fosse assente e ignorasse quello che si stava realizzando. Si è configurato come competenza esclusiva dei governi, e solo loro, e forse le “lobbies” economiche che agiscono dietro, sembravano realmente informati.

 

Che questa filosofia antidemocratica sussiste dietro tutta la costruzione della Comunità appare in maniera nitida nel disegno della futura Banca Centrale Europea, che si configura come un organo autonomo e indipendente. Indipendente da chi?, da dove verrà la sua legittimazione?, a chi risponderà democraticamente?, in funzione di quali criteri ideologici adotterà le sue decisioni?

 

E’ già vecchia la pretesa di separare la politica monetaria dalla politica generale, e di mantenere i suoi meccanismi di decisione al di fuori dalle pressioni popolari. Aleggia nel più profondo di questa filosofia, una sfiducia radicale nella democrazia e il rifiuto a lasciare l’economia in mano ai politici. Questi sono troppo vulnerabili alle richieste delle “masse” e dipendono eccessivamente dai propri elettori.

 

Ancora conoscendo l’orientamento economico del Mercato Comune e gli interessi esistenti dietro tutte le sue norme e istituzioni, risulta difficilmente comprensibile come dodici paesi, teoricamente esempi della democrazia occidentale, partoriscano un sistema  così profondamente antidemocratico come l’Unione Monetaria disegnata a Maastricht. Al Sistema Europeo di Banche Centrali, formato dalla Banca Centrale Europea (BCE) e le banche centrali nazionali, viene assegnata la competenza esclusiva in materia monetaria (art 105) e nello stesso tempo, nell’esercizio di questa facoltà, gli viene impedito di chiedere o accettare regole da nessuna delle istituzioni o organismi comunitari o dai governi degli Stati membri. Cioè rispondono solo “davanti a Dio e davanti alla Storia”.

 

La politica monetaria (e con essa in certo modo tutta la politica economica) si colloca così al margine della politica, delle ideologie, delle scelte sociali e della volontà popolare. La teorica stabilità dei prezzi si colloca come obiettivo principale e essenziale della politica economica, e ad essa va subordinato qualsiasi altro obiettivo. E per mantenere vincolato e ben vincolato detto assioma, il suo apparato si separa dal controllo degli organi democratici e si concede a istituzioni che si pretendono neutrali. I governi e i parlamenti dovrebbero uniformare il resto della loro politica economica alle coordinate monetarie stabilite dal Sistema Europeo di Banche Centrali, e tutte le deviazioni dalla mappa tracciata verranno punite con la recessione e la disoccupazione. Le organizzazioni sindacali rimarranno schiacciate in una forte tenaglia che le obbligherà a modificare le rivendicazioni salariali secondo il sentiero tracciato dalle autorità monetarie o diventare, in caso contrario, responsabili della recessione e della disoccupazione. Però, ciò che è ancora più grave, la disoccupazione sarà il costo da sopportare non solo quando l’aumento dei prezzi proviene da una mancanza di moderazione salariale, ma anche quando è prodotta dalla pretesa di maggiori benefici per le imprese, o quando i “saggi monetari” si sbagliano, cosa che succede con molta frequenza senza che si possa  chiedergliene conto.

 

La politica monetaria si è rifugiata in un linguaggio arcano, misterioso, che pochi padroneggiano. Sarà, sicuramente, all’interno della disciplina economica, che si è voluta rivestire di un carattere più tecnico e neutrale, la parte più esoterica e meno accessibile. Tuttavia la storia economica di tutti i paesi è caratterizzata da situazioni in cui una politica monetaria restrittiva – non so perché, però le politiche monetarie hanno sempre una finalità restrittiva – ha dato origine a effetti disastrosi,  ed è stato possibile uscire dalla crisi solo dopo molti anni di sacrifici e dopo aver pagato un alto costo, sia sotto forma di minore crescita che come aumento della disoccupazione. E’ relativamente facile deprimere un’economia, però è molto più difficile riattivarla.

 

Però, allora, perché gode dei favori della stampa la politica monetaria? Esistono molti interessi in gioco. Le restrizioni monetarie, con i conseguenti aumenti dei tassi di interesse, beneficiano i possessori di capitali rispetto ai salariati, il capitale finanziario rispetto a quello industriale. La scarsità di credito e il suo rincaro grava negativamente sulle economie familiari e sulla piccola e media impresa, mentre le grandi società hanno altre forme alternative di finanziamento e possono difendersi meglio di fronte ad un aumento del costo del denaro. Superando il velo di mediazione informativa che, come trappola intellettuale, crea la teoria economica, è vero che, dei due fattori ai quali si può ridurre in ultima istanza tutta l’attività produttiva, gli alti tassi di interesse migliorano la redditività del capitale e pregiudicano il fattore lavoro, sia mediante l’aumento della disoccupazione, sia mediante la riduzione del salario reale.

 

La politica monetaria è diventata una sottile arma dei poteri economici e delle forze conservatrici. Le restrizioni monetarie forzano i governi e i sindacati a limitare le loro  pretese economiche sotto la minaccia della crisi e della disoccupazione. Il ricatto risulta efficace. Nella lotta perenne tra classi sociali che consiste nel processo di distribuzione della ricchezza e del reddito, la minaccia della stretta monetaria è solitamente uno strumento dissuasivo delle esigenze di aumenti salariali delle organizzazioni sindacali, e della propensione dei governi attuali ad aumentare le spese sociali a seguito della pressione degli elettori. Se l’avvertimento non viene ascoltato, le azioni restrittive imporranno, attraverso dure condizioni economiche, l’equilibrio originale.

 

Questo sistema istituzionalizza nell’ambito della futura Unione Europea le ambizioni più desiderate dal pensiero conservatore: liberare l’economia dalla politica, emanciparla da qualsiasi controllo democratico. Si costituzionalizza una determinata politica economica, dominante negli ultimi anni nel mondo occidentale, che ha portato a tutti i paesi un tasso di disoccupazione inimmaginabile agli inizi degli anni 70. Rappresenta la morte dello Stato sociale e della sua politica di piena occupazione.

 

Questo progetto ancora non ha visto la luce. Però la verità è che questo progetto si sta già realizzando nei paesi membri attraverso le modifiche degli statuti delle loro banche centrali, condizione imposta dal Trattato di Maastricht. Concretamente in Spagna, la Legge di Autonomia del Banco di Spagna modifica sostanzialmente la Costituzione, è incompatibile con il quadro economico in esso disegnato e rappresenta una involuzione nello sviluppo dei principi democratici.

 

Il modello che si profila costituisce una chiara involuzione di quello che è stato il processo europeo di sviluppo , delimitato dalle coordinate dello Stato sociale di diritto. L’assenza di una politica sociale comunitaria genera il rischio, e anche la certezza, che i paesi membri cerchino di migliorare le rispettive posizioni competitive basandosi sul basso costo del lavoro, e i sindacati nazionali si trovano prigionieri nella difficile alternativa tra o rinunciare a tutti i progressi nel lavoro e nel sociale , o essere indicati come responsabili della riduzione degli investimenti e della crescita della disoccupazione.

 

La libera circolazione dei capitali, senza una previa armonizzazione fiscale, implica la condanna a morte di un sistema fiscale progressivo. Tutti i paesi tenderanno, lentamente ma in maniera costante – al fine di attrarre capitali affinché questi non emigrino in altre zone fiscali più favorevoli -, a ridurre la tassazione delle rendite non salariali. Questa mutua emulazione sfocerà, inevitabilmente, in sistemi tributari basati sulle imposte personali e indiretti, sul consumo, e pertanto regressivi.

 

Il Mercato Unico è stato costruito sotto false supposizioni e senza aver messo anteriormente le basi necessarie. La libera circolazione dei capitali avrebbe richiesto, come minimo presupposto preventivo, una armonizzazione dell’imposizione diretta tra tutti i paesi e delle regole comuni per perseguire l’evasione. Qualunque disuguaglianza nella pressione fiscale sul capitale, sia nell’ambito normativo o di fatto per l’esistenza di diverse possibilità di evasione, introduce elementi spuri di concorrenza capaci di generare movimenti di fondi da un paese all’altro. E’ curioso che la Comunità, che ha generato una intricata normativa per armonizzare tutto l’armonizzabile ed evitare così che vengano violate le sacrosante regole della concorrenza, permanga totalmente passiva di fronte alle disparità fiscali. Questa apparente mancanza di logica ha la sua spiegazione nella pressione delle forze conservatrici, nelle implicazioni del neoliberalismo economico e nelle convenienze del potere economico. Se non si perviene ad un’armonizzazione fiscale attraverso l’accordo tra gli Stati, questa finirà per realizzarsi, però a un livello minimo, cioè, tutti i paesi tenderanno a liberare dal tassazione il capitale e le sue rendite, che è esattamente quello che desidera il capitalismo internazionale.

 

Si difende un mercato transnazionale, però si nega qualunque unità politica nella stessa cornice internazionale, e si boicotta anche qualsiasi accordo tra gli Stati che serva da norma e regola nel gioco mondiale del mercato. Accettare questi principi è senza dubbio perdere la battaglia, presumere che l’economia è autonoma e che lo Stato non deve fare niente o, meglio ancora, non può fare niente per correggere le disuguaglianze create dal mercato.

 

Come indaghiamo nella storia di questo vecchio continente che è l’Europa, scopriamo immediatamente che sono stati necessari molti secoli per la formazione delle unità territoriali che oggi chiamiamo Stati. Il processo, indubbiamente è stato tutto meno che pacifico e stabile. Attualmente, le tendenze centrifughe rimangono ancora ben presenti.

 

Per questo non si può fare a meno di contemplare con grande ascetismo e considerare come qualche cosa di illusorio la pretesa di realizzare in pochi anni l’unione di paesi e regioni tanto differenti, con lingue, istituzioni e tradizioni diverse. E’ mero volontarismo, volontarismo che si trasforma in demenza quando quello che si pretende non è più integrare sei Stati più o meno omogenei economicamente, ma, ad un ritmo vertiginoso, si passa dai sei ai dodici, più tardi ai quindici, e si progetta di estenderlo in un prossimo futuro a trenta.

 

E’ certo che alcuni si affretteranno ad argomentare che non si tratta di creare alcun altro Stato soprannazionale ne alcuna federazione di Stati. L’unica cosa che si vuole è la formazione di uno spazio economico libero da ingerenze politiche, dove le merci e i capitali possano muoversi comodamente e senza ostacoli, introducendo solo quegli elementi comuni come la moneta unica, necessari perché questo supermercato funzioni. Però, se è così,  si dica apertamente e si abbandoni, finalmente, il discorso mellifluo e trascendentale del quale normalmente si rivestono i difensori dell’attuale Unione Europea. Messe così le cose, ci troviamo di fronte a un mero problema pratico:  chi trae beneficio e chi viene pregiudicato, e in che misura.

 

In questi termini, appare la vera natura del progetto, la sua asimmetria e, quindi la sua intrinseca perversità; perché mentre determinati aspetti –quello mercantile, monetario e finanziario – si internazionalizzano, quello politico, sociale, lavorativo e fiscale permangono nello stretto ambito degli Stati-nazione, impotenti a limitare e compensare il potere economico e correggere gli errori e le enormi disuguaglianze che si generano nei mercati quando vengono abbandonati alle loro leggi.

 

Il problema non consiste nel fatto che gli Stati-nazione perdano la sovranità, ma nel fatto che non esiste nessuna istituzione politica e democratica – ne sembra che ci sarà a breve – che possa assumere la sovranità ceduta. Quello che realmente entra in crisi è il concetto di democrazia, perché le competenze sono sottratte alle istituzioni politiche nazionali – che anche con tutti i loro difetti e le loro imperfezioni si basano su principi democratici -, per essere affidate ai mercati dominati dal potere economico e a istituzioni pseudotecniche  e politicamente irresponsabili, come la Banca Centrale Europea. L’attuale progetto di Unione Europea stravolge il concetto di Stato che oggi figura in tutte le costituzioni dei paesi europei, lo Stato sociale, per ritornare ad un altro che si credeva definitivamente abbandonato: quello liberale del XIX secolo, quello del laissez faire, lo Stato gendarme, lo Stato polizia, che incrocia le braccia di fronte agli squilibri e alle disuguaglianze originate nel mondo economico.

 

La futura Unione Monetaria chiuderà questo processo, perché i governi nazionali perderanno tutte le possibilità di realizzare una politica economica; e non solo, per garantire il controllo dell’inflazione e la stabilità monetaria si dovrà rinunciare – già si sta rinunciando -, a qualsiasi altro obiettivo economico: crescita, occupazione, redistribuzione del reddito, eccetera. Risulta semplice indovinare chi beneficia e chi pregiudica questo nuovo schema, e dove ci porta. Non è per caso che, attualmente, i diversi paesi europei abbiano i più alti livelli di disoccupazione della loro storia recente e, al contrario, che le tappe di espansione e crescita siano brevi e di scarsa intensità. Non è per caso che oggi si afferma senza arrossire che questo Stato del benessere, che era possibile venticinque anni fa, oggi non lo è, quando in qualunque paese si produce il doppio di quanto si produceva allora, cioè adesso che le nostre società sono doppiamente ricche.

 

Se in ambito nazionale sono le fette di popolazione meno favorite quelle che stanno soffrendo gli effetti negativi di questo folle progetto, a livello internazionale le conseguenze saranno particolarmente disastrose per i paesi più poveri. Se si arriva a realizzare l’Unione Monetaria, le diverse economie si troveranno obbligate a trasferire nella realtà tutti gli adattamenti derivanti da qualsiasi perturbazione economica. E’ facile immaginare in cosa si sarebbe convertita la Germania Est se il processo di unificazione tedesco fosse passato attraverso gli stessi percorsi dell’Unione Europea.

 

Solamente gli interessi economici che si nascondono dietro il mercato europeo e la moneta unica possono spiegare l’offuscamento della totalità dei capi di Stato e di governo nel portare avanti un proposito così chiaramente assurdo. I fatti, ostinati e sgraziati, indicano giorno dopo giorno l’impossibile conclusione di questo processo così come è stato disegnato e, ciò che è più preoccupante, le gravi conseguenze – molte delle quali irreversibili – che ne deriverebbero se alla fine i diversi governi si impegnassero a costruire  l’unità a “martellate”.

 

 

Il Fondo Monetario Internazionale

 

Se ci trasferiamo nel terzo mondo vediamo che è stato il FMI il portavoce del neoliberalismo economico e l’incaricato di imporre in essi i propri principi e la propria politica. Le istituzioni sono come mostri, una volta fondate acquistano una dinamica propria e sopravvivono alle finalità per le quali furono create. Ci abituiamo ad esse, e nessuno si chiede se nei nuovi schemi continuano ad essere vigenti. Il FMI venne costituito come strumento al servizio di un Sistema Monetario Internazionale scomparso ormai da più di venti anni; qualcuno allora avrebbe dovuto affermare che il Fondo era morto, però come cadavere è rimasto durante questi venti e passa anni, e nulla è peggiore che trascinare un corpo inerme. E’ importante ricordare, e domandarsi quale è stata la sua origine, quale è stato il suo sviluppo e quale è il ruolo che riveste attualmente.

 

L’immagine che oggi si pretende offrire di esso come istituzione tecnica e obiettiva è molto lontana dalla realtà. Sin dalle sue origini, il FMI è stato un’istanza politica. Nasce come patto tra i paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, al fine di stabilire un nuovo ordine economico mondiale e un sistema monetario che garantisse il funzionamento del commercio internazionale, d’accordo con i canoni liberali che propugnava e che convenivano agli Stati Uniti, paese realmente egemone nella discussione. L’accordo anglo-nordamericano fu sbilanciato; la situazione di entrambi i paesi era molto diversa. La Gran Bretagna aveva sofferto la parte più dura della guerra, la sua economia era in rovina e le sue finanze appena sufficienti per le cose essenziali, necessitava dell’aiuto nordamericano e non ebbe altra possibilità che piegarsi alle condizioni degli Stati Uniti. Per questo a Bretton Woods, e già prima nelle riunioni preparatorie di Washington e di Atlantic City, si impose, per la creazione del FMI, il disegno di White – rappresentante nordamericano – e non quello di Keynes, commissionato dall’Inghilterra.

 

A Keynes spettò l’ingrato compito di convincere i propri concittadini di un progetto che lui non condivideva, ma che giudicava necessario, essendo il costo che dovevano sostenere per mantenere l’alleanza anglo-nordamericana, condizione imprescindibile per il recupero economico della Gran Bretagna. Però, nello stesso tempo, assunse, ancora una volta, il non meno ingrato ruolo di Cassandra. In questa occasione di fronte agli Stati Uniti, annunciando i pericoli che sarebbero derivati da tale progetto, Keynes denunciò senza successo le condizioni rachitiche del disegno e la carenza di liquidità mondiale dalla quale si partiva; la asimmetria del sistema che, sebbene penalizzava i paesi debitori e li obbligava a realizzare duri aggiustamenti, non richiedeva che si impiegassero misure correttive in quegli stati che presentavano un saldo attivo nella bilancia dei pagamenti – principalmente, a quell’epoca, gli Stati Uniti -; e per ultimo e forse più importante, il rischio che esisteva che il FMI si trasformasse in uno strumento politico al servizio del paese o paesi egemoni nel concerto internazionale, non solo perché la sua sede si localizzava nel paese con la maggior quota e perché i direttori esecutivi dovessero risiedere permanentemente nella sede –aspetti che Keynes criticò -, ma perché la capacità di utilizzare il Fondo non si configurava come un diritto  dei paesi debitori, ma come una concessione discrezionale che l’istituzione concedeva a determinate condizioni e intromissioni nelle politiche economiche nazionali.

 

Ugualmente così come in molte altre occasioni, le intuizioni di Keynes divennero realtà. Fu necessario poco tempo per capire l’inefficacia dell’appena adottato Sistema Monetario Internazionale; la lira sterlina non tardò a sospendere la convertibilità, e solo i milioni di dollari del piano Marshall furono capaci di restituire la tranquillità e risolvere momentaneamente l’asimmetria e la mancanza di liquidità del sistema. Successivamente, l’equilibrio si mantenne per la nuova condizione di debitore degli Stati Uniti e per il fatto che il resto delle nazioni accettarono il dollaro come moneta di riserva, però al costo che tutti i paesi, ricchi e poveri, finanziassero gratuitamente il deficit commerciale e, pertanto, la crescita economica del Nord America. Prima o poi la fiducia nel dollaro doveva venir meno, come avvenne al principio degli anni settanta quando si dichiarò la sua non convertibilità, affondando il sistema e mandando in fluttuazione le diverse monete.

 

Però dove Keynes azzeccò in maggior misura fu nell’intravedere il pericolo che il FMI si trasformasse in un meccanismo di dominio politico. L’attività di questa istituzione, soprattutto nel Terzo Mondo confermò ampiamente questa predizione. E’ molto conosciuto il malaugurato ruolo assunto dal FMI. L’appoggio economico prestato ai paesi in via di sviluppo, oltre al fatto di farlo in molte occasioni quasi a condizioni finanziarie di mercato, è condizionato dal raggiungimento di tutta una serie di parametri di politica economica che nella maggior parte dei casi vanno a detrimento delle economie di quegli Stati, però in consonanza con gli interessi delle grandi potenze e del capitalismo internazionale. I costi sociali delle sue indicazioni erano tanto elevati che pochi paesi potevano adottarli senza essere delle dittature o comportandosi come tali. Non senza una certa ironia è stato affermato, da parte di qualcuno, che da solo ha destituito più governi di Marx e Lenin insieme. Il FMI è stato la cattedrale delle teorie conservatrici in materia di politica economica, e il braccio armato nel terzo mondo degli interessi americani e delle grandi multinazionali. Forse è questo l’unico ruolo che ha attualmente. Non è per caso che il suo cinquantesimo anniversario ha sollevato un movimento di protesta internazionale, tanto forte come quello che si è raggruppato intorno al Foro Alternativo e quello della Campagna Bastano Cinquanta Anni.

 

Durante tutti questi anni, il F.M.I. è diventata la fonte di finanziamento di quei paesi in via di sviluppo che hanno avuto necessità di divise per difficoltà nella loro bilancia di pagamento, però questo aiuto non si riceveva in maniera gratuita, ma condizionata al prezzo di adeguare le politiche economiche nazionali alle prescrizioni del FMI. Si doveva tagliare il volume e l’influenza del settore pubblico in favore del settore privato, passando da situazioni di deficit a quelle di saldo attivo di bilancio, e allo stesso tempo, si esigeva sottrarre fondi alle industrie rivolte al mercato interno per indirizzarli verso quelle orientate all’esportazione, con l’obiettivo di produrre un’eccedenza nel proprio commercio internazionale di articoli di consumo e , di conseguenza, una corrente netta di entrate  in divise che potesse essere utilizzata per pagare gli interessi e i dividendi ai creditori di altri paesi. Normalmente li si obbligava a svalutare il valore  di cambio della loro moneta al fine di aumentare il prezzo delle importazioni e diminuire quello delle esportazioni.

 

Le conseguenze di questa politica risultavano, subito, disastrose. Tagliavano la possibilità di sviluppo a medio termine e diminuivano il livello di vita della maggior parte della popolazione, eccetto quello dei ricchi, i quali vedevano incrementate considerevolmente le possibilità di esportare capitali grazie alla liberalizzazione dei tassi di cambio che lo stesso Fondo imponeva.

Si creava una specie di circolo virtuoso, dove il denaro esportato ritornava in forma di prestito, e dove gli interessi dei crediti e le nuove esportazioni che permettevano le nuove disposizioni liberalizzanti, rendevano necessaria la concessione di nuovi prestiti.  Nel corso del 1984, ad esempio, i paesi in via di sviluppo versarono al sistema bancario internazionale il doppio di quello che ottennero dallo stesso. Questa esportazione generalizzata di capitali è sempre stata ignorata dal FMI, che, con un eufemismo, ha chiamato i deficit cronici della bilancia mondiale dei pagamenti, discrepanze statistiche.

 

Le svalutazioni dei tassi di cambio non provocarono un aumento delle entrate nella bilancia di pagamenti come conseguenza dell’aumento delle quantità esportate, ma al contrario li ridussero per effetto della riduzione dei prezzi degli articoli esportati. I cambiamenti attesi nelle bilance commerciali non si realizzarono, pertanto, per l’espansione delle esportazioni, così come aveva previsto il FMI, quanto invece per un collasso delle importazioni, soprattutto in beni strumentali, ricambi industriali e alimenti che provocarono la paralisi della crescita e lo sviluppo di detti paesi. Il denaro prima speso in importazioni e investimenti dovette essere impiegato nel pagamento degli interessi e ammortamento del debito.

 

I tagli nel settore pubblico non crearono solamente delle strozzature importanti dello sviluppo economico, ma generarono costi sociali difficilmente calcolabili e provocarono instabilità politiche e economiche che incrementarono la fuga dei capitali. Già negli anni sessanta la parola “tumulto Fondo” era perfettamente assimilato nel gergo dei popoli in via di sviluppo. Non bisogna dimenticare, poi, che la maggior parte dei paesi hanno sempre evitato di accedere al Fondo, e che lo hanno fatto solamente in situazioni critiche, e una volta esaurite le altre fonti di finanziamento.

 

Sono molteplici i casi che si potrebbero citare  sulle conseguenze disastrose che per i diversi paesi in via di sviluppo ha avuto l’ingerenza del Fondo, permetteteci solo di citare come esempio di aneddoto il caso della Turchia: nel 1980 il governo ottenne dal FMI la concessione di un prestito di 1600 milioni di dollari, le condizioni erano quelle di sempre: svalutazione della moneta, alti tassi di interesse, riduzione del settore pubblico, e, implicitamente, congelamento dei salari. Di fronte alle argomentazioni di Turgat Ozal, Ministro della Programmazione, Bulent Ecevit, capo dell’opposizione commentò: “Un modello che ha fallito in America Latina viene portato adesso in Turchia, o non funzionerà o imporrà restrizioni alla democrazia. Non può applicarsi senza baionette”. Alcuni mesi più tardi i militari conquistarono il potere.

 

Si è generata una situazione asimmetrica. L’influenza del Fondo è stata nulla o inoperante nei paesi ricchi, erano invece questi che influivano su di esso; al contrario, il Fondo ha imposto in molteplici occasioni una tirannia economica a quelle nazioni che necessitavano dei suoi finanziamenti , obbligandole ad adottare nella loro politica interna le sue prescrizioni, anche quando risultavano nefaste per la loro economia. Attualmente, per i paesi sviluppati, il FMI, è una reliquia del passato che non ha altre funzioni se non quella di legittimare con le sue relazioni – realizzate molte volte a richiesta – le politiche economiche dei governi conservatori, e costituire un alibi al carattere antisociale di certe scelte di politica economica.

 

Permettetemi di terminare così come ho iniziato, citando Fukuyama e il suo libro “Il finale della storia e l’ultimo uomo” dato che lo considero  come espressione e paradigma di tutta una maniera di pensare e, ciò che è peggio, di agire che considerano immutabile l’ordine esistente perché gli piacerebbe che questo effettivamente non potesse cambiare.

 

Il futuro dell’umanità deve limitarsi a quello che lui, Francis Fukuyama, può concepire e pensare, e poiché la sua mente è incapace di immaginare niente di più perfetto del sistema capitalista e della democrazia liberale, è evidente che la storia umana è arrivata alla fine. Ci troviamo nel migliore dei mondi possibili.

 

Tuttavia i lunghi meandri del suo libro finiscono sempre nel mostrarci la società attuale nordamericana come paradigma, la nuova Gerusalemme, città di Dio, fine della storia, e identificare l’ultimo uomo con il cittadino yanqui. Questa è la morale definitiva. I popoli, le nazioni, le società sono in cammino e si avvicineranno o allontaneranno dalla meta a seconda di come si adatteranno al modello.

 

Per questo alla fine del libro, Fukuyama può concepire l’umanità come una lunga carovana di carri che avanzano lungo il sentiero e che pur seguendo strade diverse, facendo dei giri, realizzando fermate più o meno prolungate, subendo incidenti o attacchi degli indiani, compreso sbagliare strada, prima o poi arriveranno al paradiso di perfezione del quale alcuni già godono.

 

Fukuyama ratifica le affermazioni di Kojève, suo padre spirituale, (gran parte del libro consiste nel ripetere le idee che Alessandro Kojève sviluppa nella pretesa di interpretare Hegel) secondo cui <<l’America del dopo guerra è la società senza classi di Marx  nel senso che sebbene non siano state eliminate  tutte le disuguaglianze sociali, le barriere che persistono sono in certo modo “necessarie e non eliminabili” a causa della natura delle cose e non per volontà dell’uomo. All’interno di questi limiti, afferma, si può dire che la società ha conseguito il regno della libertà di Marx, abolendo realmente le necessità naturali e permettendo alla gente che si appropri di quello che vuole in cambio di una quantità minima (in termini storici) di lavoro>>.

 

Le disuguaglianze attuali sono per Fukuyama  accidenti, difetti necessari nel funzionamento del sistema. Non intaccano la validità del modello. Alcune si potranno risolvere in futuro, la maggior parte sono imprescindibili come le differenze energetiche, affinché la nostra società sia dinamica. Il pericolo è la legge dell’entropia.

 

Fukuyama non vede contraddizioni nel sistema, si suppone che ascolterà con estrema naturalezza i dati della Riserva Federale sul fatto che l’1% delle famiglie più ricche degli Stati Uniti (834.000) posseggono la stessa ricchezza del 90% dello stato inferiore (84 milioni di famiglie).

 

E cosa dire dell’ambito mondiale. E’ chiaro che per Fukuyama la responsabilità ricade sugli stessi paesi sottosviluppati. La nuova versione del fatto è che i poveri sono responsabili della loro povertà.

 

La teoria della dipendenza viene risolta con la facile strategia di utilizzare l’esempio dei paesi del sud est asiatico. La soluzione allo sviluppo economico dipende dal fatto che i lavoratori sappiano accettare condizioni di lavoro tanto dure così come vengono richieste dal capitale.

 

Di fronte a questa visione idilliaca delle migliaia di Fukuyama apologeti dell’attuale ordine economico internazionale, risuonano le parole profetiche di Leonardo Boff.

 

“Adesso, si parla sempre meno di sviluppo e più di mercato e di integrazione nel mercato mondiale. In questo sistema di mondializzazione all’interno del sistema neoliberale, noi non abbiamo neanche il privilegio di essere sottosviluppati, noi siamo esclusi. Non contiamo nulla perché non siamo competitivi nel mercato mondiale. Quelli che non sono competitivi non esistono nel mercato. E gli esclusi dal mercato sono destinati alla morte (…). La  situazione  attuale è secondo me la più drammatica sofferta dall’America Latina e l’Africa: siamo fuori dal processo mondiale come esclusi, abbandonati alla nostra sorte, con livelli di miseria che mai abbiamo avuto nella storia. Prima eravamo poveri, però avevamo speranza; oggi siamo più poveri e non abbiamo speranza”.