Possibilità
e limiti del sistema economico internazionale contemporaneo.
(contributo
presentato nel Seminario internazionale “America Latina e il Sistema
Internazionale Contemporaneo: Prospettive Politiche e Economiche. Organizzato
dall’Istituto Latinoamericano di Ricerche Sociali e l’Università di Cuenca
(Ecuador), i giorni 27 e 28 novembre 1997
da Juan Francisco Martin Seco,
ex funzionario del governo spagnolo e docente universitario)
Nel corso dei secoli, tutte le culture
hanno cercato di perpetuarsi generando apologisti disposti a negare la
possibilità di qualsiasi cambiamento dando per scontato che la struttura
socio-politica vigente era quella ottimale. Non si tratta soltanto di difendere
un’ideologia, così come di negare il diritto di esistenza dell’altra, ma di
definire come utopica qualsiasi altra posizione alternativa.
Oggi giorno, i difensori e beneficiari
dell’ordine internazionale mantengono come verità scientifica e quasi religiosa
la permanenza immutabile del sistema attuale, e condannano squalificando tutti
quelli che, anche solo minimamente, si permettono di insinuare dubbi sulla
solidità dei valori imperanti. Solo loro, e da soli, hanno decretato la morte
del socialismo e con esso si sono affrettati a seppellire qualsiasi ideologia di
sinistra, così come l’aspirazione a una realtà più giusta e a un mondo
migliore.
Di fronte a questo paradiso celestiale
che canta elogi e salmi al mondo capitalista, la cruda realtà, ostinata, ci dice ogni giorno il contrario. Le
soluzioni hanno fallito - chissà di chi è la colpa -, le ideologie sono
diventate vecchie - non più di quelle che propugnano i mistici del sistema -,
però le domande, i dubbi e le contraddizioni conservano tutta la loro
attualità.
Sicuramente la nostra soddisfatta
società conserva dentro di se un segreto conosciuto da tutti, però
coscientemente dimenticato: laceranti disuguaglianze come mai ha sofferto la
storia dell’umanità.
La differenza esistente tra il reddito
pro capite della Svizzera (34.000 dollari) o gli Stati Uniti (22.000 dollari) e
l’Etiopia (137 dollari) crea un abisso difficile da giustificare. I trentasei
paesi più poveri del pianeta, che concentrano la metà della popolazione
mondiale, non raggiungono un reddito di 425 dollari pro capite; e i settantotto
paesi periferici, compresi i primi, con i quattro quinti della popolazione del
pianeta, sono al di sotto dei 2.000 dollari pro capite di reddito nazionale.
Anche nei paesi sviluppati, la povertà
si estende tra il 20 e il 40 per cento della popolazione, e crea situazioni
difficili da sostenere.
La distanza che separa i paesi ricchi
dai paesi poveri, anziché accorciarsi col tempo, aumenta sempre più, e le
condizioni demografiche contribuiscono a far si la percentuale della
popolazione mondiale che vive ai margini del sistema sia sempre maggiore.
Se venticinque anni fa si diceva che i
due terzi dell’umanità erano condannati alla massima povertà, oggi si può
affermare che sono i quattro quinti della popolazione mondiale ad essere
ridotti alla miseria.
La tanto utilizzata divisione tra centro
e periferia, tra Nord e Sud, qualcosa di più che una realtà sgradevole con la
quale siamo obbligati a convivere, è il risultato voluto e provocato sul piano
internazionale da un sistema e un rapporto di produzione radicalmente ingiusti.
Perché il sistema capitalista mondiale funziona d’accordo con determinate
regole che polarizzano i diversi raggruppamenti sociali in un centro e in una
periferia, e impediscono che questa possa uscire dalla situazione in cui si
trova. Non è vero che si tratta di un problema di tempo e di tappe, ma, così
come è stato affermato da un’infinità di autori, il prezzo per la prosperità
del centro è la povertà della periferia.
L’accumulazione di capitale e
l’internazionalizzazione dell’economia creano progressivamente condizioni di
maggiore disuguaglianza e il perpetuarsi del colonialismo; un colonialismo
diverso da quello che provocò le due guerre mondiali, però non per questo meno
duro.
Questo mondo, così definito, tutto può
essere meno che stabile. Al di là dei desideri di quelli che, soddisfatti,
plaudono all’ordine stabilito, la verità è che questo ordine, se così si può
chiamare, è instabile e creerà mille squilibri.
La periferia si rifiuterà di accettare
come definitiva una realtà che la condanna permanentemente alla miseria; il
centro, per mantenere i suoi privilegi, dovrà definire e rafforzare le sue
posizioni, e nuove onde di barbari faranno pressione “ai confini dell’impero”
per accedere al circolo dell’abbondanza.
Come non potrebbe essere altrimenti, i
seguaci del neoliberismo economico nella scena internazionale e la loro
venerazione per le leggi di mercato si dichiarano, in teoria, accaniti
sostenitori del libero scambio. Questa dottrina, inizia con David Ricardo e
giunge ai nostri giorni senza grandi innovazioni nei suoi fondamenti
essenziali. Stabilisce che la miglior politica nel campo del commercio
internazionale è quella della assoluta libertà, evitando qualunque tipo di
restrizione governativa, in modo che ogni paese si specializzi in quelle
attività per le quali disponga di “vantaggi comparativi” rispetto alle altre.
La dottrina si basa su un’apparente
logica che non è altro che l’applicazione della divisione del lavoro al
commercio internazionale. Quanti meno impedimenti hanno compratori e venditori,
meglio per tutti. Però cosa succede quando un paese manca di qualsiasi
vantaggio nella fabbricazione dei differenti prodotti? O al contrario cosa
succede se è un solo paese quello che presenta maggiori vantaggi nella produzione
di tutti i beni? Il senso comune ci dice che i paesi più competitivi finiranno
conquistando e impadronendosi di tutti i mercati e i meno competitivi non
arriveranno a esportare nessuno dei loro prodotti. Cioè, i più sviluppati
diventeranno più ricchi e quelli del Terzo Mondo sprofonderanno nella loro
povertà. Tuttavia, questa situazione non potrebbe prolungarsi all’infinito,
poiché lo smantellamento del tessuto produttivo e quindi l’impoverimento
porterebbe i paesi carenti di vantaggi comparativi, una volta esaurita la loro
capacità di indebitamento, alla impossibilità di comprare prodotti dagli altri
paesi. Il risultato, pertanto, sarebbe alla fine di condannare alla povertà e
alla emarginazione grandi strati di popolazione, senza che per altro i più competitivi
conseguano benefici duraturi.
La teoria classica affronta il problema
da un’altra angolazione. Per i suoi sostenitori, la disuguaglianza dei paesi al
punto di partenza non costituisce un’obiezione seria, non smentisce le sue
conclusioni. L’equilibrio si produrrebbe ugualmente attraverso il sistema
aureo. Gli squilibri nella bilancia dei pagamenti verrebbero saldati attraverso
movimenti aurei dai paesi in deficit verso i paesi che presentano surplus nei
loro conti con l’estero, il che genererebbe, sempre e quando si realizza la
teoria quantitativa della moneta, una riduzione dei prezzi nei primi e processi
inflazionistici nei secondi, stabilendosi così una nuova struttura di costi
nella quale tutti gli stati presenterebbero vantaggi comparativi, almeno nella
fabbricazione di alcuni prodotti, raggiungendo in questo modo l’equilibrio nel
commercio internazionale.
Dopo l’abbandono del sistema aureo nel
sistema monetario internazionale, la teoria del libero scambio adattò
perfettamente i suoi postulati alle nuove coordinate. L’unica differenza
consiste nel fatto che, a partire da questo momento, l’equilibrio dovrà
prodursi attraverso la svalutazione o la rivalutazione delle divise dando luogo
a nuove relazioni di interscambio.
In realtà, in tutte le materie, il
modello neoclassico si appoggia agli stessi principi e porta alle stesse
soluzioni. Tutto si riduce ad ammettere la flessibilità dei prezzi. Se un
paese, in un determinato momento, non
presenta alcun vantaggio comparativo, si deve unicamente al fatto che presenta
nei confronti dell’estero una struttura di prezzi scorretta che si correggerà
attraverso modificazioni nel tipo di cambio. E’ conveniente ricordare che il
primo prezzo è il salario; cioè, un paese che svaluta la propria moneta sta
riducendo i salari interni rispetto a quelli che vengono pagati all’estero.
E’ per questo che la versione più
recente della teoria del libero scambio, quella di Hecksher-Ohio-Samuelson,
appoggiandosi sullo stesso principio di base, individua i vantaggi comparativi
dei paesi nella maggiore disponibilità relativa ai differenti fattori di
produzione; in modo che le economie tendono a specializzarsi in funzione della
maggiore o minore abbondanza di ognuno di loro. Così, quelli che dispongono di
pochi capitali però dispongono di un numero eccessivo di lavoratori, si
specializzeranno in prodotti e servizi intensivi di manodopera; mentre, al
contrario, li dove esiste un surplus relativo di risorse finanziarie si
svilupperanno attività che richiedono un alto grado di accumulazione di
capitali, però pochi lavoratori, anche se molto qualificati.
(I
deficit commerciali di alcuni paesi dipendono, secondo il liberalismo
economico, dal fatto che i loro salari sono troppo elevati per poter essere
competitivi, nelle condizioni produttive in cui si incontrano. Per raggiungere
l’equilibrio è imprescindibile ridurre le retribuzioni dei lavoratori, in modo
che i loro prodotti abbiano prezzi più bassi rispetto a quelli stranieri.)
La cosa sorprendente della teoria del
commercio internazionale e del modello neoclassico sta nel fatto di sostenere
che la miglior politica possibile per un paese è quella del libero commercio,
non solo quando è generalizzata e tutti i paesi si attengono alle loro
esigenze, ma anche quando altri paesi praticano una politica protezionistica.
Sarebbero così ingiustificate le azioni tendenti ad impoverire il vicino
mediante l’uso di imposte e contingentamenti alle importazioni. La verità è che queste affermazioni sono abbastanza
difficili da credere; e di fatto, in pratica, nessun paese l’accetta e sono
solo disposti a ridurre le difese commerciali a condizione che gli altri
facciano altrettanto. In più i diversi accordi di commercio internazionale sono
sempre strani miscugli di protezionismo e di libero scambio, dove ciascun paese
cerca di ottenere la maggior libertà possibile nelle esportazioni dei suoi
prodotti e, così come cerca un alto grado di protezione per i suoi mercati nei
confronti degli articoli stranieri.
Però il neoliberismo economico va oltre
e pretende che, anche quando il punto di partenza tra i diversi paesi è molto
diverso in ricchezza, livello dei salari e reddito pro capite, l’adozione del
libero scambio andrà ammortizzando le differenze, sempre che si accetti anche
la libertà assoluta di circolazione dei fattori produttivi. Tale aspirazione
parte dal fatto che la produttività marginale è decrescente, per cui la
redditività del capitale aumenterebbe nella misura in cui scarseggiasse questo
fattore e disponesse , tuttavia, di abbondante mano d’opera, producendosi il
processo contrario riguardo alla retribuzione dei lavoratori. Il trasferimento
di questi programmi alla realtà internazionale, implicherebbe che la
redditività del capitale sarebbe maggiore nei paesi del Terzo Mondo piuttosto che in quelli sviluppati, e nello
stesso tempo i salari sarebbero molto più ridotti nei primi. E’ logico supporre
che se non esiste alcun impedimento per la libera circolazione dei capitali,
questi si trasferirebbero verso i paesi sottosviluppati fino a che si raggiungesse
l’equilibrio tanto nella retribuzione del capitale come nel livello dei salari e quindi, prima o poi, si otterrebbe
una comparazione del reddito pro capite. L’unica cosa necessaria è che nei
paesi recettori del capitale si creino le condizioni adeguate per accogliere
gli investimenti stranieri: creazione di infrastrutture, formazione della mano
d’opera, deregolamentazione del mercato del lavoro, flessibilità assoluta per
la libera circolazione dei capitali e per rimpatriare i benefici e, naturalmente,
che le condizioni politiche non creino incertezze aggiuntive.
Questo programma, tuttavia, si scontra
frontalmente con la realtà e l’esperienza. Realizzando i presupposti del
neoliberalismo economico, ci si aspetterebbe che il commercio internazionale si
sviluppasse soprattutto tra paesi con economie differenti. I paesi sviluppati
esporterebbero articoli sofisticati, a capitale intensivo, e importerebbero dai
paesi più poveri materie prime e beni poco elaborati la cui produzione
necessita solo di mano d’opera e viceversa. Però i fatti sono altri. La maggior
parte del commercio mondiale si effettua tra i paesi del primo mondo, con
economie molto simili e produzioni similari in molti casi; al contrario, i
paesi poveri partecipano appena alle
correnti di traffico internazionale, e persino negli esempi più estremi di
miseria, rimangono praticamente esclusi dall’economia mondiale, incapaci di
competere in alcun aspetto.
Neppure si realizza la previsione che i
capitali affluiranno dai paesi ricchi ai paesi poveri. Anzi avviene il
contrario. A partire dal 1983, così come afferma Pedro Montes, si è realizzato
un trasferimento netto di risorse finanziarie dai paesi sottosviluppati verso
gli altri, principalmente del primo mondo. Il bilancio complessivo nel decennio
1982-91 dei trasferimenti di risorse finanziarie è negativo per i paesi in via
di sviluppo per 165.000 milioni di dollari.
(Pedro
Montes. El internazionalismo Neoliberal, en “La larga noche ceoliberal”, Ed. Icaria e I.S.E., Madrid, 1993, p.76.)
Si è preteso spiegare che questa
concentrazione di capitali nei paesi ricchi e la loro fuga dal Terzo Mondo è
dovuta alla migliore e più abbondante tecnologia di cui godono i primi; però,
in realtà, questa spiegazione costituisce una questione di principio, perché se
è così, è proprio per la mancanza di capitali che soffrono gli ultimi. La
tecnologia è cara. Alla fine, rimane da chiedersi perché non arriva il
capitale, e con esso la tecnologia, ai paesi sottosviluppati se la redditività
di questo fattore, così come afferma la teoria neo classica, è maggiore nel
Terzo Mondo.
Si è anche detto che la qualificazione
della mano d’opera è molto superiore nei paesi del Nord che in quelli del Sud.
Ciò è vero e spiega in parte le differenze di salario tra le diverse regioni,
però solo parzialmente, perché altrimenti non si spiegherebbe come mai esistono
masse immense di lavoratori del Terzo mondo disposti a emigrare verso i paesi
sviluppati, dove godranno, qualunque sia il loro livello di specializzazione,
di migliori condizioni di lavoro che nei loro paesi di origine.
Ancora una volta il liberalismo
economico e la teoria neoclassica si sviluppano in modelli teorici, totalmente
distaccati dalla realtà. I loro famosi mercati autoregolati sbagliano, e le
cose sono molto diverse da come appaiono nei libri di testo. Interferisce
sempre un gran numero di variabili non previste; e fra queste non ha scarsa
importanza attualmente il non verificarsi della teoria secondo cui l’esistenza
generalizzata di rendimenti decrescenti. (La teoria neoclassica dello sviluppo
si basa sul fatto che l’accumulazione del capitale nei paesi ricchi conduce a
un suo minore rendimento). Oggi ci muoviamo in un mondo di economie di scala,
dove il costo di produzione diminuisce con l’aumentare delle quantità prodotte.
Questo giustifica la tendenza ad ampliare il più possibile i mercati, mentre si
tende al monopolio, o almeno all’oligopolio, perché quanto più ampio è il
mercato che si controlla, maggiori sono le probabilità di ridurre i costi. In
certa misura, i mercati finiscono per essere chiusi e si può entrare in essi
solamente attraverso ingenti investimenti e rompendo le quote già conquistate
dai concorrenti; così ché di fatto si verifica la progressiva scomparsa della
piccola e media impresa, soprattutto in particolari settori industriali.
L’unica possibilità di ricavarsi una nicchia nella fabbricazione di certi
prodotti è attraverso grandi accumulazioni di capitali e introducendo particolarità negli articoli che li
personalizzino in qualche modo. Esiste, poi, assieme alla globalizzazione
geografica, una parcellizzazione dei mercati secondo cui, in realtà, ogni
impresa si comporta come monopolista dei propri prodotti differenziati. Si ha
così un nuovo concetto di concorrenza, chiamata a volte concorrenza imperfetta
o monopolista, che non ha niente a che vedere con quella “concorrenza” difesa
dal modello neoclassico. (La differenza sostanziale fra l’uno e l’altro tipo di
concorrenza risiede nel potere che l’imprenditore ha rispetto ai prezzi; mentre
nella concorrenza perfetta le imprese accettano il prezzo loro imposto dalle
teoriche leggi del mercato, nella concorrenza imperfetta le imprese hanno una
relativa capacità nel fissare i propri prezzi)
Questa nuova organizzazione può realizzarsi solo in presenza di mercati
estesi e la redditività sarà tanto maggiore, quanto maggiore sarà il volume di
produzione e vendite. Si opera, quindi, in funzione di costi marginali
decrescenti. (La teoria ha sempre ammesso che l’esistenza di immobilizzazioni,
e quindi di costi fissi nel processo produttivo, comporta che, fino ad una
certa quantità prodotta, i costi marginali siano decrescenti; però a partire da
un determinato livello di vendite, i costi marginali si trasformano in
crescenti e i rendimenti, per tanto in decrescenti. Le economie di scala e i
rendimenti crescenti sarebbero l’eccezione e non la norma generale. La novità
dell’attuale situazione è esattamente che l’eccezione si trasforma in norma
generale).
L’accettazione di questo comportamento
generalizzato dei mercati stravolge la teoria neoclassica del commercio
internazionale e della crescita. Se i rendimenti marginali del capitale sono
crescenti, questo tende alla concentrazione e alla accumulazione. Lontani dal
supporre che la libertà di commercio e la libera circolazione dei capitali
produca un flusso positivo di beni dai paesi più capitalizzati verso i più
poveri, continuiamo a pensare nell’esistenza del processo inverso. (Le grandi
multinazionali tendono a dominare i mercati con i loro prodotti, senza che ciò
implichi investire in quei paesi. E’ possibile che in molte occasioni
acquistino le imprese nazionali con l’unico fine di eliminare un concorrente).
Si allontana pertanto l’illusione dell’equilibrio attraverso la convergenza dei
paesi nel loro livello di ricchezza. Tanto meno esiste una qualche ragione per
pensare che si possa produrre un avvicinamento
nella rendita pro capite o nel livello dei salari. Invece, al contrario,
i paesi poveri saranno sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Il
libero scambio ha conseguenze funeste per i paesi sottosviluppati, che si
vedono immersi in un circolo di povertà senza intravedere l’uscita. Gli
squilibri nella loro bilancia dei pagamenti li obbligheranno ad indebitarsi
costantemente; però, curiosamente, una gran parte di queste risorse, in
mancanza di meccanismi di controllo degli scambi, ritorneranno ai paesi ricchi
sotto forma di investimenti, poiché i capitalisti del Terzo Mondo preferiranno
investire nei paesi sviluppati, dove la redditività è maggiore.
In realtà questo fenomeno di
concentrazione degli investimenti è stato da sempre ampiamente conosciuto. Di
fatto, solo così si spiega il fenomeno delle grandi città e gli squilibri
regionali che si producono tra gli Stati nazionali. (Logicamente ogni Stato
rappresenta un mercato unico, assente da qualsiasi restrizione perché i beni e
i fattori produttivi possano circolare liberamente). Tuttavia queste
disuguaglianze tra le zone di uno stesso paese sono mitigate continuamente
attraverso l’attività dello Stato. Il settore pubblico ha assunto
frequentemente un ruolo attivo praticando una ridistribuzione del reddito
regionale attraverso dei meccanismi di bilancio e della sicurezza sociale, e
mettendo in moto politiche indirizzate a sviluppare le zone più depresse. Ma
tutto ciò sparisce quando ci trasferiamo sul piano internazionale
(l’emigrazione della mano d’opera è un altro elemento che ha contribuito a
mitigare la povertà delle zone depresse, processo che senza dubbio presenta
gravi inconvenienti e enormi costi sociali, però che evita situazioni ancora
peggiori. Questi movimenti migratori si scontrano con forti restrizioni
legislative tra i paesi ricchi e i paesi poveri, e anche in quelle zone di
mercato unico come l’Unione Europea, dove teoricamente non esistono, la lingua
e la diversa cultura costituiscono barriere insuperabili.); in esso valgono
unicamente i meccanismi di mercato allo stato puro che, così come abbiamo
osservato, non solo non costituiscono garanzia di convergenza ma, anzi, possono
aumentare la disuguaglianza.
Globalizzazione dell’economia.
Disgraziatamente tali teorie economiche
hanno oltrepassato l’ambito dei difensori del neoliberismo economico, per
essere assunte da parte della socialdemocrazia. Il social-liberalismo, così
come mostra l’ultimo documento approvato dall’internazionale socialista, cade
nella trappola preferita dal neoliberismo economico: quello della
globalizzazione dell’economia, intesa come un fatto irreversibile, una
rivoluzione di dimensioni ciclopiche accaduta negli ultimi venti anni che sta
cambiando in maniera radicale il mondo e la società. Niente è più come prima,
un mondo nuovo “di fronte a cui non servono i vecchi dogmi”, chiaramente
pretendendo cambiare ciò che chiamano vecchi dogmi con altri che effettivamente
sono dei dogmi, e infinitamente più vecchi.
Il concetto di globalizzazione
dell’economia viene utilizzato in maniera impropria e ambigua. In senso
stretto, è difficile affermarne l’esistenza quando la maggior parte del
commercio internazionale si effettua fra i paesi sviluppati, e quando ampie
zone del nostro pianeta rimangono praticamente al margine dei circuiti
internazionali. Qualcosa di simile accade con il termine “delocalizzazione” che, se esiste, non interviene
tra il primo e il terzo mondo, ma al contrario, dal momento che quest’ultimo è
esportatore netto di capitali. Anche quei dragoni asiatici con i quali si
pretende ricattare permanentemente e costringere i lavoratori del primo mondo
affinché accettino condizioni di lavoro più svantaggiate hanno assai scarsa
importanza relativamente all’economia mondiale. La Spagna, ad esempio, realizza
con questi paesi l’1,9% di tutte le sue importazioni e il 2% delle sue
esportazioni, mentre circa l’80% delle importazioni e esportazioni sono portate
a termine con i paesi dell’OCSE.
Inoltre, in secondo luogo, riferendoci
esclusivamente ai paesi ricchi, questo fenomeno chiamato globalizzazione non ha
l’importanza che gli si vuole attribuire e, in nessun caso, le modifiche
prodotte nel commercio internazionale negli ultimi venti anni richiedono una
rivoluzione o un cambio qualitativo capace, come si pretende, tale da
giustificare una nuova strategia economica o di considerare obsoleti i bilanci
politici e economici dell’anno precedente. In realtà si tratta di modifiche
quantitative più o meno significative, però solo questo.
E’ vero che ad esempio attualmente
l’economia degli Stati Uniti è più aperta che nel 1960, cioè, che il commercio
estero è cresciuto ad un ritmo maggiore del PIL. Se nel 1960 importazioni e esportazioni
si aggiravano intorno al 5% del PIL, oggi si collocano intorno al 10%. Tuttavia
quest’ultima percentuale in nessun caso autorizza a parlare di mondializzazione
dell’economia. Cosa che diremmo di un’impresa che compra e vende ai suoi
dipendenti il 90% dei suoi input e dei suoi output, rispettivamente. Ciò detto
si può applicare anche al Giappone e all’Unione Europea. Il primo inoltre ha
seguito una evoluzione contraria a quella degli Stati Uniti, e sia le
importazioni che le esportazioni hanno ridotto la loro partecipazione nel PIL.
In Europa le importazioni e esportazioni extracomunitarie sono cresciute più o
meno allo stesso ritmo del PIL; diverso è stato per il commercio
intracomunitario, però ciò è dovuto ad altre ragioni alle quali presto mi riferirò.
Altrettanto poco valido è sostenere che
anche se la maggior parte della produzione si vende nei mercati nazionali
questi sono sottoposti alla concorrenza internazionale. I servizi occupano
oggigiorno, in tutti i paesi, molto più della metà del IPL, e si trovano
isolati in per una buona proporzione dalla concorrenza straniera per la
difficoltà che esiste per trasportarli. Tuttavia neppure nel resto
dell’economia si può affermare che esiste concorrenza in tutti i settori e
mercati. Nella maggior parte di essi succede tutto il contrario, in alcuni casi
perché sono dominati anche a livello mondiale da pochissime imprese, e in altri
perché le azioni protezionistiche non sono scomparse completamente, valga come
esempio estremo quello che accade nel settore agricolo nell’Unione Europea.
Se una volta c’è stata un’autentica
rivoluzione nell’ambito del commercio internazionale, accadde – così come
afferma Paul Krugman (Paul Krugman. Vendendo prosperidad. Ariel. 1994.
Barcelona p.234 y ss) – a metà del secolo XIX, quando le ferrovie e le navi a
vapore resero possibile il trasporto su vasta scala di mercanzie voluminose. In
quell’epoca si che aumentò vertiginosamente il commercio internazionale. Il
paese con l’economia più forte, la Gran Bretagna, esportava più di un terzo del
suo IPL. Cioè, tre volte quello che esportano attualmente gli Stati Uniti.
Quella attività mercantile era accompagnata da grandi movimenti di capitali e
la Gran Bretagna arrivò in alcuni anni
a investire all’estero più del 40% dei suoi risparmi, e se parliamo di
emigrazione, i movimenti migratori di
quell’epoca fanno considerare piccolo qualsiasi fenomeno recente.
E’ a partire dal XIX secolo che si può
iniziare a parlare di una economia globale e di mondializzazione. A partire da
quella data ci sono stati senza dubbio cambiamenti considerevoli; però si può
considerare che tutti si muovono in un’ottica quantitativa. Più integrazione in
determinati momenti, e meno in altri. Quello che in effetti si modifica è la
risposta del potere politico, degli Stati, di fronte alla realtà economica, a
seconda che abbiano assunto una posizione più interventista o abbiano permesso
totale libertà alle forze economiche e ai capitali per imporre la loro legge e
le loro convenienze.
Quelli che senza dubbio sono cambiati in
maniera sostanziale sono i mercati finanziari. Attualmente hanno poco a che
vedere con l’economia reale. Più del 90% delle sue operazioni non è riferito a
operazioni commerciali ma a mere operazioni speculative. E queste innovazioni
non derivano da alcuna fatalità ma aldilà del controllo dell’uomo e della
società sono conseguenza del diverso atteggiamento adottato dal potere politico
abdicando le sue competenze e permettendo che il capitale si muova in totale
libertà. Hanno la loro origine esattamente in quel fondamentalismo neoliberale
che si dice voler combattere. Il nuovo non è il mondo o l’economia, ma il fatto
che la totalità dei governi persuasi dai principi neoliberisti, abbiano
rinunciato a praticare qualsiasi politica di controllo sugli scambi. Con queste
coordinate, dire che la democrazia deve predominare sul mercato – così come fa
il documento citato – sono solo parole senza nessun contenuto. Perché la
contraddizione si è già realizzata e oggi sono i mercati, i poteri economici, quelli
che impongono le loro condizioni ai poteri politici, ma solo perché i
neoliberali – o i social-liberali, è uguale – hanno accettato anteriormente che
l’economia è autonoma rispetto alla politica.
La globalizzazione lontano da essere la
causa è piuttosto l’effetto. Quello che oggi si chiama internazionalizzazione
dell’economia è soprattutto liberalizzazione. Gli sviluppi nelle tecniche di
comunicazione e di trasporto costituiscono solo un mezzo, uno strumento, che
fornisce delle possibilità ma niente più, e niente sarebbero senza una nuova
ideologia che pretende liberare l’economia dal potere democratico. Le epoche
del trionfo ideologico del liberalismo economico sono anche quelle di maggior
integrazione economica. Così per esempio nella seconda metà del XIX secolo,
considerando logicamente il minor sviluppo tecnologico, ha presentato una
maggiore integrazione economica a livello internazionale che negli anni
cinquanta e sessanta del XX secolo e anche in alcuni aspetti maggiore dei
nostri giorni.
L’origine ideologica del fenomeno appare
anche chiaramente nel notare come questa pretesa globalizzazione non è presente in tutti gli aspetti della
realtà economica ma solo in quegli aspetti che interessano il potere economico.
Così mentre la internazionalizzazione (liberalizzazione) è totale per ciò che
riguarda i flussi finanziari e i movimenti di capitale, la restrizione è
assoluta in materia di mobilità della mano d’opera. La proclamata città globale
si trova suddivisa in reticolo i cui quadri sono recintati e fortificati allo
scopo di impedire gli indesiderati movimenti migratori. E in materia di
commercio estero si impone la scelta, il libero scambio o il protezionismo si
alternano a seconda della convenienza.
Se insisto tanto in questa idea e perché
mi interessa ribadire questo argomento un po’ ingenuo, anche se non per questo
meno diffuso, circa il fatto che la realtà economica attuale non permette
applicare le soluzioni e le formule possibili sino a qualche anno fa. Non è la
realtà economica che ha cambiato sostanzialmente, ma l’ideologia e
l’atteggiamento della politica di fronte a questa realtà, e la maggior parte
dei cambiamenti che attribuiamo alla prima sono semplici conseguenze della
seconda. L’economia della Gran Bretagna ai tempi di Keynes non era proprio un
economia chiusa. E molte delle critiche rivolte all’orientamento della politica
economica del suo tempo si incentravano
in qualcosa che oggi sarebbe di piena attualità, che il benessere dei paesi non
si può basare in una inutile concorrenza tra loro, attraverso la quale ciascuno
pretende rubare all’altro un pezzo della torta – quello che oggi chiamiamo
competitività – per la crescita e l’espansione delle diverse economie, affinché
tutti risultano beneficiati.
Dal 1971, data in cui gli Stati Uniti
accettano la libera circolazione dei capitali, questa si sta imponendo in tutti
i paesi, e con essa anche la supremazia del denaro di fronte agli organi democratici. Attualmente i mercati
finanziari hanno poco a che vedere con l’economia reale. E’ vero che le
speculazioni e l’irrazionalità sono sempre stati presenti nei mercati
finanziari. Basta leggere l’opera di Galbrait “Breve storia dell’euforia
finanziaria” per essere coscienti di ciò. Oggi ci risulta incredibile che in
passato si potessero pagare somme astronomiche per un bulbo di tulipano o per
azioni di società che non valevano niente. La storia ci fornisce un altro
insegnamento: dove i mercati non sono
stati regolati la catastrofe economica è sempre stata la conseguenza.
Quello che chiamiamo globalizzazione è
solo la pretesa del capitale di sfuggire al controllo democratico, come
dimostra il fatto che mentre si creano spazi soprannazionali in materia
mercantile e monetaria come l’Unione Europea si allontana qualsiasi tentativo
di creare a quei livelli istanze fiscali e politiche veramente democratiche. La
sovranità viene sottratta agli Stati per essere trasferita ai mercati o a
istituzioni politicamente irresponsabili come la Banca Centrale Europea.
L’Unione Europea.
Forse è proprio nel progetto dell’Unione
Europea dove appare più chiaramente il tentativo di insurrezione del capitale
dai lacci democratici. Perché era proprio nei paesi europei che si era
maggiormente sviluppata la costruzione dello Stato Sociale. L’Europa che si sta
costruendo è invece una chiarissima involuzione di questo processo. E’ stato
detto, in tutti i modi, che nell’Unione Europea esiste un forte deficit
democratico, tanto che è quasi banale
affermarlo. Le piccole modifiche introdotte a Maastricht, non cambiano sostanzialmente
lo schema. Le competenze della Commissione, carente di legittimità democratica,
sono ampissime e, nel Consiglio, ogni governo si farà scudo degli altri per
giustificare quelle decisioni sulle quali gli si richiede responsabilità
politica. A sua volta, l’unica istituzione veramente democratica, il
Parlamento, ha scarse competenze.
Questo vuoto politico e democratico si è
percepito anche durante tutto il processo di decisioni e approvazioni nel quale
i diversi governi, e non solo quello spagnolo, hanno fatto in modo che
l’opinione pubblica fosse assente e ignorasse quello che si stava realizzando.
Si è configurato come competenza esclusiva dei governi, e solo loro, e forse le
“lobbies” economiche che agiscono dietro, sembravano realmente informati.
Che questa filosofia antidemocratica
sussiste dietro tutta la costruzione della Comunità appare in maniera nitida
nel disegno della futura Banca Centrale Europea, che si configura come un
organo autonomo e indipendente. Indipendente da chi?, da dove verrà la sua
legittimazione?, a chi risponderà democraticamente?, in funzione di quali
criteri ideologici adotterà le sue decisioni?
E’ già vecchia la pretesa di separare la
politica monetaria dalla politica generale, e di mantenere i suoi meccanismi di
decisione al di fuori dalle pressioni popolari. Aleggia nel più profondo di
questa filosofia, una sfiducia radicale nella democrazia e il rifiuto a
lasciare l’economia in mano ai politici. Questi sono troppo vulnerabili alle
richieste delle “masse” e dipendono eccessivamente dai propri elettori.
Ancora conoscendo l’orientamento
economico del Mercato Comune e gli interessi esistenti dietro tutte le sue
norme e istituzioni, risulta difficilmente comprensibile come dodici paesi,
teoricamente esempi della democrazia occidentale, partoriscano un sistema così profondamente antidemocratico come
l’Unione Monetaria disegnata a Maastricht. Al Sistema Europeo di Banche
Centrali, formato dalla Banca Centrale Europea (BCE) e le banche centrali
nazionali, viene assegnata la competenza esclusiva in materia monetaria (art
105) e nello stesso tempo, nell’esercizio di questa facoltà, gli viene impedito
di chiedere o accettare regole da nessuna delle istituzioni o organismi
comunitari o dai governi degli Stati membri. Cioè rispondono solo “davanti a
Dio e davanti alla Storia”.
La politica monetaria (e con essa in
certo modo tutta la politica economica) si colloca così al margine della
politica, delle ideologie, delle scelte sociali e della volontà popolare. La
teorica stabilità dei prezzi si colloca come obiettivo principale e essenziale
della politica economica, e ad essa va subordinato qualsiasi altro obiettivo. E
per mantenere vincolato e ben vincolato detto assioma, il suo apparato si
separa dal controllo degli organi democratici e si concede a istituzioni che si
pretendono neutrali. I governi e i parlamenti dovrebbero uniformare il resto
della loro politica economica alle coordinate monetarie stabilite dal Sistema
Europeo di Banche Centrali, e tutte le deviazioni dalla mappa tracciata
verranno punite con la recessione e la disoccupazione. Le organizzazioni
sindacali rimarranno schiacciate in una forte tenaglia che le obbligherà a
modificare le rivendicazioni salariali secondo il sentiero tracciato dalle
autorità monetarie o diventare, in caso contrario, responsabili della
recessione e della disoccupazione. Però, ciò che è ancora più grave, la
disoccupazione sarà il costo da sopportare non solo quando l’aumento dei prezzi
proviene da una mancanza di moderazione salariale, ma anche quando è prodotta
dalla pretesa di maggiori benefici per le imprese, o quando i “saggi monetari”
si sbagliano, cosa che succede con molta frequenza senza che si possa chiedergliene conto.
La politica monetaria si è rifugiata in
un linguaggio arcano, misterioso, che pochi padroneggiano. Sarà, sicuramente,
all’interno della disciplina economica, che si è voluta rivestire di un
carattere più tecnico e neutrale, la parte più esoterica e meno accessibile.
Tuttavia la storia economica di tutti i paesi è caratterizzata da situazioni in
cui una politica monetaria restrittiva – non so perché, però le politiche
monetarie hanno sempre una finalità restrittiva – ha dato origine a effetti
disastrosi, ed è stato possibile uscire
dalla crisi solo dopo molti anni di sacrifici e dopo aver pagato un alto costo,
sia sotto forma di minore crescita che come aumento della disoccupazione. E’
relativamente facile deprimere un’economia, però è molto più difficile
riattivarla.
Però, allora, perché gode dei favori
della stampa la politica monetaria? Esistono molti interessi in gioco. Le
restrizioni monetarie, con i conseguenti aumenti dei tassi di interesse,
beneficiano i possessori di capitali rispetto ai salariati, il capitale
finanziario rispetto a quello industriale. La scarsità di credito e il suo
rincaro grava negativamente sulle economie familiari e sulla piccola e media
impresa, mentre le grandi società hanno altre forme alternative di
finanziamento e possono difendersi meglio di fronte ad un aumento del costo del
denaro. Superando il velo di mediazione informativa che, come trappola
intellettuale, crea la teoria economica, è vero che, dei due fattori ai quali
si può ridurre in ultima istanza tutta l’attività produttiva, gli alti tassi di
interesse migliorano la redditività del capitale e pregiudicano il fattore
lavoro, sia mediante l’aumento della disoccupazione, sia mediante la riduzione
del salario reale.
La politica monetaria è diventata una
sottile arma dei poteri economici e delle forze conservatrici. Le restrizioni
monetarie forzano i governi e i sindacati a limitare le loro pretese economiche sotto la minaccia della
crisi e della disoccupazione. Il ricatto risulta efficace. Nella lotta perenne
tra classi sociali che consiste nel processo di distribuzione della ricchezza e
del reddito, la minaccia della stretta monetaria è solitamente uno strumento
dissuasivo delle esigenze di aumenti salariali delle organizzazioni sindacali,
e della propensione dei governi attuali ad aumentare le spese sociali a seguito
della pressione degli elettori. Se l’avvertimento non viene ascoltato, le
azioni restrittive imporranno, attraverso dure condizioni economiche,
l’equilibrio originale.
Questo sistema istituzionalizza
nell’ambito della futura Unione Europea le ambizioni più desiderate dal pensiero
conservatore: liberare l’economia dalla politica, emanciparla da qualsiasi
controllo democratico. Si costituzionalizza una determinata politica economica,
dominante negli ultimi anni nel mondo occidentale, che ha portato a tutti i
paesi un tasso di disoccupazione inimmaginabile agli inizi degli anni 70.
Rappresenta la morte dello Stato sociale e della sua politica di piena
occupazione.
Questo progetto ancora non ha visto la
luce. Però la verità è che questo progetto si sta già realizzando nei paesi
membri attraverso le modifiche degli statuti delle loro banche centrali,
condizione imposta dal Trattato di Maastricht. Concretamente in Spagna, la
Legge di Autonomia del Banco di Spagna modifica sostanzialmente la
Costituzione, è incompatibile con il quadro economico in esso disegnato e
rappresenta una involuzione nello sviluppo dei principi democratici.
Il modello che si profila costituisce
una chiara involuzione di quello che è stato il processo europeo di sviluppo ,
delimitato dalle coordinate dello Stato sociale di diritto. L’assenza di una
politica sociale comunitaria genera il rischio, e anche la certezza, che i
paesi membri cerchino di migliorare le rispettive posizioni competitive
basandosi sul basso costo del lavoro, e i sindacati nazionali si trovano
prigionieri nella difficile alternativa tra o rinunciare a tutti i progressi
nel lavoro e nel sociale , o essere indicati come responsabili della riduzione
degli investimenti e della crescita della disoccupazione.
La libera circolazione dei capitali,
senza una previa armonizzazione fiscale, implica la condanna a morte di un
sistema fiscale progressivo. Tutti i paesi tenderanno, lentamente ma in maniera
costante – al fine di attrarre capitali affinché questi non emigrino in altre
zone fiscali più favorevoli -, a ridurre la tassazione delle rendite non
salariali. Questa mutua emulazione sfocerà, inevitabilmente, in sistemi
tributari basati sulle imposte personali e indiretti, sul consumo, e pertanto
regressivi.
Il Mercato Unico è stato costruito sotto
false supposizioni e senza aver messo anteriormente le basi necessarie. La
libera circolazione dei capitali avrebbe richiesto, come minimo presupposto
preventivo, una armonizzazione dell’imposizione diretta tra tutti i paesi e
delle regole comuni per perseguire l’evasione. Qualunque disuguaglianza nella
pressione fiscale sul capitale, sia nell’ambito normativo o di fatto per
l’esistenza di diverse possibilità di evasione, introduce elementi spuri di
concorrenza capaci di generare movimenti di fondi da un paese all’altro. E’
curioso che la Comunità, che ha generato una intricata normativa per
armonizzare tutto l’armonizzabile ed evitare così che vengano violate le
sacrosante regole della concorrenza, permanga totalmente passiva di fronte alle
disparità fiscali. Questa apparente mancanza di logica ha la sua spiegazione
nella pressione delle forze conservatrici, nelle implicazioni del
neoliberalismo economico e nelle convenienze del potere economico. Se non si
perviene ad un’armonizzazione fiscale attraverso l’accordo tra gli Stati,
questa finirà per realizzarsi, però a un livello minimo, cioè, tutti i paesi
tenderanno a liberare dal tassazione il capitale e le sue rendite, che è
esattamente quello che desidera il capitalismo internazionale.
Si difende un mercato transnazionale,
però si nega qualunque unità politica nella stessa cornice internazionale, e si
boicotta anche qualsiasi accordo tra gli Stati che serva da norma e regola nel
gioco mondiale del mercato. Accettare questi principi è senza dubbio perdere la
battaglia, presumere che l’economia è autonoma e che lo Stato non deve fare
niente o, meglio ancora, non può fare niente per correggere le disuguaglianze
create dal mercato.
Come indaghiamo nella storia di questo
vecchio continente che è l’Europa, scopriamo immediatamente che sono stati
necessari molti secoli per la formazione delle unità territoriali che oggi
chiamiamo Stati. Il processo, indubbiamente è stato tutto meno che pacifico e
stabile. Attualmente, le tendenze centrifughe rimangono ancora ben presenti.
Per questo non si può fare a meno di
contemplare con grande ascetismo e considerare come qualche cosa di illusorio
la pretesa di realizzare in pochi anni l’unione di paesi e regioni tanto
differenti, con lingue, istituzioni e tradizioni diverse. E’ mero volontarismo,
volontarismo che si trasforma in demenza quando quello che si pretende non è
più integrare sei Stati più o meno omogenei economicamente, ma, ad un ritmo
vertiginoso, si passa dai sei ai dodici, più tardi ai quindici, e si progetta
di estenderlo in un prossimo futuro a trenta.
E’ certo che alcuni si affretteranno ad
argomentare che non si tratta di creare alcun altro Stato soprannazionale ne
alcuna federazione di Stati. L’unica cosa che si vuole è la formazione di uno
spazio economico libero da ingerenze politiche, dove le merci e i capitali
possano muoversi comodamente e senza ostacoli, introducendo solo quegli
elementi comuni come la moneta unica, necessari perché questo supermercato
funzioni. Però, se è così, si dica
apertamente e si abbandoni, finalmente, il discorso mellifluo e trascendentale
del quale normalmente si rivestono i difensori dell’attuale Unione Europea.
Messe così le cose, ci troviamo di fronte a un mero problema pratico: chi trae beneficio e chi viene pregiudicato,
e in che misura.
In questi termini, appare la vera natura
del progetto, la sua asimmetria e, quindi la sua intrinseca perversità; perché
mentre determinati aspetti –quello mercantile, monetario e finanziario – si
internazionalizzano, quello politico, sociale, lavorativo e fiscale permangono
nello stretto ambito degli Stati-nazione, impotenti a limitare e compensare il
potere economico e correggere gli errori e le enormi disuguaglianze che si
generano nei mercati quando vengono abbandonati alle loro leggi.
Il problema non consiste nel fatto che
gli Stati-nazione perdano la sovranità, ma nel fatto che non esiste nessuna
istituzione politica e democratica – ne sembra che ci sarà a breve – che possa
assumere la sovranità ceduta. Quello che realmente entra in crisi è il concetto
di democrazia, perché le competenze sono sottratte alle istituzioni politiche
nazionali – che anche con tutti i loro difetti e le loro imperfezioni si basano
su principi democratici -, per essere affidate ai mercati dominati dal potere economico
e a istituzioni pseudotecniche e
politicamente irresponsabili, come la Banca Centrale Europea. L’attuale
progetto di Unione Europea stravolge il concetto di Stato che oggi figura in
tutte le costituzioni dei paesi europei, lo Stato sociale, per ritornare ad un
altro che si credeva definitivamente abbandonato: quello liberale del XIX
secolo, quello del laissez faire, lo Stato gendarme, lo Stato polizia, che
incrocia le braccia di fronte agli squilibri e alle disuguaglianze originate
nel mondo economico.
La futura Unione Monetaria chiuderà
questo processo, perché i governi nazionali perderanno tutte le possibilità di
realizzare una politica economica; e non solo, per garantire il controllo
dell’inflazione e la stabilità monetaria si dovrà rinunciare – già si sta
rinunciando -, a qualsiasi altro obiettivo economico: crescita, occupazione,
redistribuzione del reddito, eccetera. Risulta semplice indovinare chi
beneficia e chi pregiudica questo nuovo schema, e dove ci porta. Non è per caso
che, attualmente, i diversi paesi europei abbiano i più alti livelli di
disoccupazione della loro storia recente e, al contrario, che le tappe di
espansione e crescita siano brevi e di scarsa intensità. Non è per caso che
oggi si afferma senza arrossire che questo Stato del benessere, che era
possibile venticinque anni fa, oggi non lo è, quando in qualunque paese si
produce il doppio di quanto si produceva allora, cioè adesso che le nostre
società sono doppiamente ricche.
Se in ambito nazionale sono le fette di
popolazione meno favorite quelle che stanno soffrendo gli effetti negativi di
questo folle progetto, a livello internazionale le conseguenze saranno
particolarmente disastrose per i paesi più poveri. Se si arriva a realizzare
l’Unione Monetaria, le diverse economie si troveranno obbligate a trasferire
nella realtà tutti gli adattamenti derivanti da qualsiasi perturbazione
economica. E’ facile immaginare in cosa si sarebbe convertita la Germania Est
se il processo di unificazione tedesco fosse passato attraverso gli stessi
percorsi dell’Unione Europea.
Solamente gli interessi economici che si
nascondono dietro il mercato europeo e la moneta unica possono spiegare
l’offuscamento della totalità dei capi di Stato e di governo nel portare avanti
un proposito così chiaramente assurdo. I fatti, ostinati e sgraziati, indicano
giorno dopo giorno l’impossibile conclusione di questo processo così come è
stato disegnato e, ciò che è più preoccupante, le gravi conseguenze – molte
delle quali irreversibili – che ne deriverebbero se alla fine i diversi governi
si impegnassero a costruire l’unità a
“martellate”.
Il Fondo Monetario Internazionale
Se ci trasferiamo nel terzo mondo
vediamo che è stato il FMI il portavoce del neoliberalismo economico e
l’incaricato di imporre in essi i propri principi e la propria politica. Le
istituzioni sono come mostri, una volta fondate acquistano una dinamica propria
e sopravvivono alle finalità per le quali furono create. Ci abituiamo ad esse,
e nessuno si chiede se nei nuovi schemi continuano ad essere vigenti. Il FMI
venne costituito come strumento al servizio di un Sistema Monetario
Internazionale scomparso ormai da più di venti anni; qualcuno allora avrebbe
dovuto affermare che il Fondo era morto, però come cadavere è rimasto durante
questi venti e passa anni, e nulla è peggiore che trascinare un corpo inerme.
E’ importante ricordare, e domandarsi quale è stata la sua origine, quale è
stato il suo sviluppo e quale è il ruolo che riveste attualmente.
L’immagine che oggi si pretende offrire
di esso come istituzione tecnica e obiettiva è molto lontana dalla realtà. Sin
dalle sue origini, il FMI è stato un’istanza politica. Nasce come patto tra i
paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, al fine di stabilire un nuovo
ordine economico mondiale e un sistema monetario che garantisse il
funzionamento del commercio internazionale, d’accordo con i canoni liberali che
propugnava e che convenivano agli Stati Uniti, paese realmente egemone nella
discussione. L’accordo anglo-nordamericano fu sbilanciato; la situazione di
entrambi i paesi era molto diversa. La Gran Bretagna aveva sofferto la parte
più dura della guerra, la sua economia era in rovina e le sue finanze appena
sufficienti per le cose essenziali, necessitava dell’aiuto nordamericano e non
ebbe altra possibilità che piegarsi alle condizioni degli Stati Uniti. Per
questo a Bretton Woods, e già prima nelle riunioni preparatorie di Washington e
di Atlantic City, si impose, per la creazione del FMI, il disegno di White –
rappresentante nordamericano – e non quello di Keynes, commissionato
dall’Inghilterra.
A Keynes spettò l’ingrato compito di
convincere i propri concittadini di un progetto che lui non condivideva, ma che
giudicava necessario, essendo il costo che dovevano sostenere per mantenere l’alleanza
anglo-nordamericana, condizione imprescindibile per il recupero economico della
Gran Bretagna. Però, nello stesso tempo, assunse, ancora una volta, il non meno
ingrato ruolo di Cassandra. In questa occasione di fronte agli Stati Uniti,
annunciando i pericoli che sarebbero derivati da tale progetto, Keynes denunciò
senza successo le condizioni rachitiche del disegno e la carenza di liquidità
mondiale dalla quale si partiva; la asimmetria del sistema che, sebbene
penalizzava i paesi debitori e li obbligava a realizzare duri aggiustamenti,
non richiedeva che si impiegassero misure correttive in quegli stati che
presentavano un saldo attivo nella bilancia dei pagamenti – principalmente, a
quell’epoca, gli Stati Uniti -; e per ultimo e forse più importante, il rischio
che esisteva che il FMI si trasformasse in uno strumento politico al servizio
del paese o paesi egemoni nel concerto internazionale, non solo perché la sua
sede si localizzava nel paese con la maggior quota e perché i direttori
esecutivi dovessero risiedere permanentemente nella sede –aspetti che Keynes
criticò -, ma perché la capacità di utilizzare il Fondo non si configurava come
un diritto dei paesi debitori, ma come
una concessione discrezionale che l’istituzione concedeva a determinate condizioni
e intromissioni nelle politiche economiche nazionali.
Ugualmente così come in molte altre
occasioni, le intuizioni di Keynes divennero realtà. Fu necessario poco tempo
per capire l’inefficacia dell’appena adottato Sistema Monetario Internazionale;
la lira sterlina non tardò a sospendere la convertibilità, e solo i milioni di
dollari del piano Marshall furono capaci di restituire la tranquillità e
risolvere momentaneamente l’asimmetria e la mancanza di liquidità del sistema.
Successivamente, l’equilibrio si mantenne per la nuova condizione di debitore
degli Stati Uniti e per il fatto che il resto delle nazioni accettarono il
dollaro come moneta di riserva, però al costo che tutti i paesi, ricchi e
poveri, finanziassero gratuitamente il deficit commerciale e, pertanto, la
crescita economica del Nord America. Prima o poi la fiducia nel dollaro doveva
venir meno, come avvenne al principio degli anni settanta quando si dichiarò la
sua non convertibilità, affondando il sistema e mandando in fluttuazione le
diverse monete.
Però dove Keynes azzeccò in maggior
misura fu nell’intravedere il pericolo che il FMI si trasformasse in un
meccanismo di dominio politico. L’attività di questa istituzione, soprattutto
nel Terzo Mondo confermò ampiamente questa predizione. E’ molto conosciuto il
malaugurato ruolo assunto dal FMI. L’appoggio economico prestato ai paesi in
via di sviluppo, oltre al fatto di farlo in molte occasioni quasi a condizioni
finanziarie di mercato, è condizionato dal raggiungimento di tutta una serie di
parametri di politica economica che nella maggior parte dei casi vanno a
detrimento delle economie di quegli Stati, però in consonanza con gli interessi
delle grandi potenze e del capitalismo internazionale. I costi sociali delle
sue indicazioni erano tanto elevati che pochi paesi potevano adottarli senza
essere delle dittature o comportandosi come tali. Non senza una certa ironia è
stato affermato, da parte di qualcuno, che da solo ha destituito più governi di
Marx e Lenin insieme. Il FMI è stato la cattedrale delle teorie conservatrici
in materia di politica economica, e il braccio armato nel terzo mondo degli
interessi americani e delle grandi multinazionali. Forse è questo l’unico ruolo
che ha attualmente. Non è per caso che il suo cinquantesimo anniversario ha
sollevato un movimento di protesta internazionale, tanto forte come quello che
si è raggruppato intorno al Foro Alternativo e quello della Campagna Bastano
Cinquanta Anni.
Durante tutti questi anni, il F.M.I. è
diventata la fonte di finanziamento di quei paesi in via di sviluppo che hanno
avuto necessità di divise per difficoltà nella loro bilancia di pagamento, però
questo aiuto non si riceveva in maniera gratuita, ma condizionata al prezzo di
adeguare le politiche economiche nazionali alle prescrizioni del FMI. Si doveva
tagliare il volume e l’influenza del settore pubblico in favore del settore
privato, passando da situazioni di deficit a quelle di saldo attivo di
bilancio, e allo stesso tempo, si esigeva sottrarre fondi alle industrie rivolte
al mercato interno per indirizzarli verso quelle orientate all’esportazione,
con l’obiettivo di produrre un’eccedenza nel proprio commercio internazionale
di articoli di consumo e , di conseguenza, una corrente netta di entrate in divise che potesse essere utilizzata per
pagare gli interessi e i dividendi ai creditori di altri paesi. Normalmente li
si obbligava a svalutare il valore di
cambio della loro moneta al fine di aumentare il prezzo delle importazioni e
diminuire quello delle esportazioni.
Le conseguenze di questa politica
risultavano, subito, disastrose. Tagliavano la possibilità di sviluppo a medio
termine e diminuivano il livello di vita della maggior parte della popolazione,
eccetto quello dei ricchi, i quali vedevano incrementate considerevolmente le
possibilità di esportare capitali grazie alla liberalizzazione dei tassi di
cambio che lo stesso Fondo imponeva.
Si creava una specie di circolo
virtuoso, dove il denaro esportato ritornava in forma di prestito, e dove gli
interessi dei crediti e le nuove esportazioni che permettevano le nuove
disposizioni liberalizzanti, rendevano necessaria la concessione di nuovi
prestiti. Nel corso del 1984, ad
esempio, i paesi in via di sviluppo versarono al sistema bancario
internazionale il doppio di quello che ottennero dallo stesso. Questa
esportazione generalizzata di capitali è sempre stata ignorata dal FMI, che,
con un eufemismo, ha chiamato i deficit cronici della bilancia mondiale dei
pagamenti, discrepanze statistiche.
Le svalutazioni dei tassi di cambio non
provocarono un aumento delle entrate nella bilancia di pagamenti come
conseguenza dell’aumento delle quantità esportate, ma al contrario li ridussero
per effetto della riduzione dei prezzi degli articoli esportati. I cambiamenti
attesi nelle bilance commerciali non si realizzarono, pertanto, per
l’espansione delle esportazioni, così come aveva previsto il FMI, quanto invece
per un collasso delle importazioni, soprattutto in beni strumentali, ricambi
industriali e alimenti che provocarono la paralisi della crescita e lo sviluppo
di detti paesi. Il denaro prima speso in importazioni e investimenti dovette
essere impiegato nel pagamento degli interessi e ammortamento del debito.
I tagli nel settore pubblico non
crearono solamente delle strozzature importanti dello sviluppo economico, ma
generarono costi sociali difficilmente calcolabili e provocarono instabilità
politiche e economiche che incrementarono la fuga dei capitali. Già negli anni
sessanta la parola “tumulto Fondo” era perfettamente assimilato nel gergo dei
popoli in via di sviluppo. Non bisogna dimenticare, poi, che la maggior parte
dei paesi hanno sempre evitato di accedere al Fondo, e che lo hanno fatto
solamente in situazioni critiche, e una volta esaurite le altre fonti di finanziamento.
Sono molteplici i casi che si potrebbero
citare sulle conseguenze disastrose che
per i diversi paesi in via di sviluppo ha avuto l’ingerenza del Fondo,
permetteteci solo di citare come esempio di aneddoto il caso della Turchia: nel
1980 il governo ottenne dal FMI la concessione di un prestito di 1600 milioni
di dollari, le condizioni erano quelle di sempre: svalutazione della moneta,
alti tassi di interesse, riduzione del settore pubblico, e, implicitamente,
congelamento dei salari. Di fronte alle argomentazioni di Turgat Ozal, Ministro
della Programmazione, Bulent Ecevit, capo dell’opposizione commentò: “Un
modello che ha fallito in America Latina viene portato adesso in Turchia, o non
funzionerà o imporrà restrizioni alla democrazia. Non può applicarsi senza
baionette”. Alcuni mesi più tardi i militari conquistarono il potere.
Si è generata una situazione
asimmetrica. L’influenza del Fondo è stata nulla o inoperante nei paesi ricchi,
erano invece questi che influivano su di esso; al contrario, il Fondo ha
imposto in molteplici occasioni una tirannia economica a quelle nazioni che
necessitavano dei suoi finanziamenti , obbligandole ad adottare nella loro
politica interna le sue prescrizioni, anche quando risultavano nefaste per la
loro economia. Attualmente, per i paesi sviluppati, il FMI, è una reliquia del
passato che non ha altre funzioni se non quella di legittimare con le sue
relazioni – realizzate molte volte a richiesta – le politiche economiche dei
governi conservatori, e costituire un alibi al carattere antisociale di certe
scelte di politica economica.
Permettetemi di terminare così come ho
iniziato, citando Fukuyama e il suo libro “Il finale della storia e l’ultimo
uomo” dato che lo considero come
espressione e paradigma di tutta una maniera di pensare e, ciò che è peggio, di
agire che considerano immutabile l’ordine esistente perché gli piacerebbe che
questo effettivamente non potesse cambiare.
Il futuro dell’umanità deve limitarsi a
quello che lui, Francis Fukuyama, può concepire e pensare, e poiché la sua
mente è incapace di immaginare niente di più perfetto del sistema capitalista e
della democrazia liberale, è evidente che la storia umana è arrivata alla fine.
Ci troviamo nel migliore dei mondi possibili.
Tuttavia i lunghi meandri del suo libro
finiscono sempre nel mostrarci la società attuale nordamericana come paradigma,
la nuova Gerusalemme, città di Dio, fine della storia, e identificare l’ultimo
uomo con il cittadino yanqui. Questa è la morale definitiva. I popoli, le
nazioni, le società sono in cammino e si avvicineranno o allontaneranno dalla
meta a seconda di come si adatteranno al modello.
Per questo alla fine del libro, Fukuyama
può concepire l’umanità come una lunga carovana di carri che avanzano lungo il
sentiero e che pur seguendo strade diverse, facendo dei giri, realizzando
fermate più o meno prolungate, subendo incidenti o attacchi degli indiani,
compreso sbagliare strada, prima o poi arriveranno al paradiso di perfezione
del quale alcuni già godono.
Fukuyama ratifica le affermazioni di
Kojève, suo padre spirituale, (gran parte del libro consiste nel ripetere le
idee che Alessandro Kojève sviluppa nella pretesa di interpretare Hegel)
secondo cui <<l’America del dopo guerra è la società senza classi di Marx nel senso che sebbene non siano state
eliminate tutte le disuguaglianze
sociali, le barriere che persistono sono in certo modo “necessarie e non
eliminabili” a causa della natura delle cose e non per volontà dell’uomo.
All’interno di questi limiti, afferma, si può dire che la società ha conseguito
il regno della libertà di Marx, abolendo realmente le necessità naturali e
permettendo alla gente che si appropri di quello che vuole in cambio di una
quantità minima (in termini storici) di lavoro>>.
Le disuguaglianze attuali sono per
Fukuyama accidenti, difetti necessari
nel funzionamento del sistema. Non intaccano la validità del modello. Alcune si
potranno risolvere in futuro, la maggior parte sono imprescindibili come le
differenze energetiche, affinché la nostra società sia dinamica. Il pericolo è
la legge dell’entropia.
Fukuyama non vede contraddizioni nel
sistema, si suppone che ascolterà con estrema naturalezza i dati della Riserva
Federale sul fatto che l’1% delle famiglie più ricche degli Stati Uniti
(834.000) posseggono la stessa ricchezza del 90% dello stato inferiore (84
milioni di famiglie).
E cosa dire dell’ambito mondiale. E’
chiaro che per Fukuyama la responsabilità ricade sugli stessi paesi
sottosviluppati. La nuova versione del fatto è che i poveri sono responsabili
della loro povertà.
La teoria della dipendenza viene risolta
con la facile strategia di utilizzare l’esempio dei paesi del sud est asiatico.
La soluzione allo sviluppo economico dipende dal fatto che i lavoratori
sappiano accettare condizioni di lavoro tanto dure così come vengono richieste
dal capitale.
Di fronte a questa visione idilliaca
delle migliaia di Fukuyama apologeti dell’attuale ordine economico
internazionale, risuonano le parole profetiche di Leonardo Boff.
“Adesso, si parla sempre meno di
sviluppo e più di mercato e di integrazione nel mercato mondiale. In questo
sistema di mondializzazione all’interno del sistema neoliberale, noi non
abbiamo neanche il privilegio di essere sottosviluppati, noi siamo esclusi. Non
contiamo nulla perché non siamo competitivi nel mercato mondiale. Quelli che
non sono competitivi non esistono nel mercato. E gli esclusi dal mercato sono
destinati alla morte (…). La
situazione attuale è secondo me
la più drammatica sofferta dall’America Latina e l’Africa: siamo fuori dal
processo mondiale come esclusi, abbandonati alla nostra sorte, con livelli di
miseria che mai abbiamo avuto nella storia. Prima eravamo poveri, però avevamo
speranza; oggi siamo più poveri e non abbiamo speranza”.