di Alberto
Vitali
II
momento storico nel quale viviamo è caratterizzato da alcuni avvenimenti di
portata epocale che interagiscono tra loro e spronano tanto il credente quanto
il laico a formulare un giudizio critico sulla realtà, al fine di elaborare un
progetto comune di vita sociale.
A
dieci anni dalla caduta del muro di Berlino, molti parlano di fine delle
ideologie, alludendo al disgregarsi dei totalitarismi che hanno segnato la
storia europea del '900, fino al dissolversi dell'Unione Sovietica che ha
sancito il fallimento politico del progetto marxista-comunista nel vecchio
continente. Ignorano così, non solo che una ideologia è morta solo quando è
sradicata da ogni coscienza e militanza - e per quanto minoritaria può
sopravvivere e rigenerarsi grazie alla seria autocritica degli errori passati -
ma anche che il mondo attuale, lungi dall'essere privo di ogni ideologia, è
sottoposto al dominio, unico e incontrastato, dell'ideologia liberale capitalista,
per ora vincente, nella sua versione esasperata che è il Neoliberismo.
Se
infatti il Capitalismo si impossessava degli stati e capitalizzava su di essi,
il Neoliberismo oltrepassa lo stato in una gestione internazionale
dell'economia a cui le singole nazioni, private della loro sovranità, devono
necessariamente sottomettersi per non venire penalizzate e quindi destinate
alla retrocessione fino all'indebitamento e alla miseria. Il Neoliberismo
propugna così la struttura dello stato minimo, incapace di garantire il
benessere di tutti i suoi mèmbri nonché l'armonia e la convivenza sociale.
Legge
suprema del sistema economico neoliberale è infatti il raggiungimento del
massimo profitto mediante una competitivita non sottoposta a regole di natura
etica, dove il fine ed il criterio delle opzioni commerciali coincidono nel
lucro fine a se stesso. Nel rapporto qualità-prezzo dei prodotti, nella corsa
all'accaparramento delle materie prime, nel bisogno di mantenere un mercato
mondiale ormai saturo, ad essere sacrificati sono i diritti umani delle
popolazioni che abitano alcune zone del pianeta, i diritti sindacali dei
lavoratori, l'infanzia di milioni di bambini, lo sfruttamento indiscriminato e
suicida dell'ambiente. I resoconti dell'ONU, dei diversi Organismi
Internazionali preposti allo Sviluppo e degli Istituti di ricerca parlano
chiaro: non solo il pianeta non è in grado di sostenere a lungo questo ritmo di
sfruttamento, ma la povertà, le malattie e la fame sono in vertiginoso aumento.
Se nel novembre del 1996, al tempo del Vertice Mondiale sull'Alimentazione
promosso dalla FAO, a Roma, la fame colpiva 800.000.000 di persone, allorché i
paesi partecipanti si impegnarono a ridurre tale percentuale del 50% in
vent'anni, suscitando lo sdegno di Castro che lo riteneva un obiettivo
insufficiente e vergognoso, nel breve spazio di tré anni il numero degli
affamati è invece aumentato di altri sei milioni. E non poteva essere
diversamente. Per aumentare la competitivita e quindi i guadagni è
indispensabile diminuire i costi di produzione e distribuzione, con tutte le
conseguenze sociali che questo comporta. In questa logica, la promessa di
creare ricchezza per tutti è solo una pia menzogna per acquietare le coscienze
più farisaiche e borghesi o ingannare la buona fede di quelle più ingenue.
Ma
il Sistema neoliberale non ha solo valenza economica o finanziaria. Come ogni
dottrina economica che si rispetti ha alle spalle una filosofia che lo sostiene
e che pervade i diversi aspetti della vita sociale, snaturandoli, con
l'obiettivo di salvaguardarlo. Così le leggi della competitivita entrano nella
cultura mediante la scuola. Sarà più efficace un istituto che prepara
“professionalmente" i giovani, con poche idee precise ed una competenza
tecnica orientata al massimo profitto, piuttosto che uno capace di far
incontrare le diverse culture, di sviluppare un proprio senso critico e di
elaborare una scala di valori nella quale l'uomo abbia ancora il primato
sull'economia. Gli intellettuali saranno tanto più riconosciuti e incentivati
nella misura in cui sacrificheranno la loro capacità intellettiva a
giustificare ed esaltare il sistema.
Chiunque
canterà fuori dal coro sarà automaticamente emarginato e possibilmente messo a
tacere. In ambito sociale ogni mutamento sarà valutato buono o cattivo a
secondo del suo riscontro economico: le migrazioni dei popoli - di cui la
storia è maestra e trovano un rinnovato impulso in questa fine millennio - sono
giudicate molto negativamente per l'impossibilità di gestirle secondo i propri
interessi e vengono osteggiate senza la minima reticenza ad incrementare lo
scontro sociale e nuove forme di velato razzismo. Perfino le guerre di
conquista e di difesa dei propri interessi strategici ed economici vengono
mistificate rivestendole con motivazioni di ordine "umanitario" che
se non fossero tragiche sarebbero ridicole. La guerra "giusta" è così
quella che si combatte per difendere il proprio profitto al di fuori dei
confini nazionali, opprimendo il popolo lì residente, con il pretesto della sua
protezione. Nemmeno la vita più intima delle persone e delle famiglie è
risparmiata, dal momento che in ogni casa, ad ogni ora, il mezzo televisivo,
controllato come ogni altro mezzo di comunicazione da pochi gruppi prevalenti,
omologa il pensiero della gente mediante raffinate tecniche comunicative che
inducono ad un'unica visione della realtà, creano bisogni a cui offrono
immediatamente le soluzioni, controllano il risentimento o l'appagamento e
soprattutto insinuano un'illusione di libertà nel momento stesso in cui
dominano le coscienze.
Questa
omologazione del pensiero comune, questo azzeramento della capacità critica dei
soggetti, questa espropriazione della propria soggettività, nell'impossibilità
di essere protagonisti della storia personale e collettiva, che porta la massa
a pensare - o a credere di pensare - tutta allo stesso modo, è quello che i
sociologi chiamano "pensiero unico", il prodotto, e al tempo stesso
lo strumento, più diabolico del sistema neoliberale.
In
questo contesto storico, economico, sociale e culturale, con l'avvento
dell'anno 2000 si
colloca (sarebbe dovuto collocare) la celebrazione
del Giubileo cristiano.
Gesù lo
aveva proclamato nella sinagoga di Nazareth, leggendo il passo di Is 61 che
riferì alla propria missione e lo celebrò ogni giorno nella sua prassi
liberatrice. In questo modo si collocava nel solco della tradizione profetica e
in particolare di quella sabbatica e giubilare dell'Antico Testamento che
voleva portare a compimento. Si rende così necessario per noi un accenno, per
quanto fugace, al percorso storico e teologico che aveva maturato tale
tradizione. Se l'istituzione dell'Anno del Giubileo è certamente posteriore
all'Esilio babilonese, le sue radici vanno ricercate molto più indietro nel
tempo, in quell'evento fondante della fede di Israele che fu l'Esodo, la
liberazione dalla schiavitù in Egitto. Allora il Dio dei padri si era rivelato
come il Liberatore, colui che spezza i vincoli dell'oppressione e della miseria
e restituisce all'uomo la sua dignità di figlio. Israele comprese che non si
trattava di un episodio isolato, ma dell'inizio dell'autorivelazione divina che
irrompeva nella storia con un progetto di salvezza destinato a restaurare
quell'ordine insito nella creazione e disatteso dalla cupidigia e della
violenza dell'uomo. Se Dio li aveva liberati da una politica oppressiva, da
un'economia ingiusta e assassina, da una religione umiliante non era certo per
ricominciare allo stesso modo da un'altra parte. In quell'esperienza mistica
che fu il cammino nel deserto, Dio rivelò al popolo il suo sogno: una economia
di giustizia, una politica al servizio dell'uomo, una religione liberatrice
della sua dignità. Israele iniziò così a intuire le due idee fondamentali
attorno alle quali si strutturarono poi il messaggio dell'Antico e del Nuovo
Testamento (l'ideologia biblica): Dio è Padre-Madre di tutto il genere umano ed
è l'unico Signore di tutte le cose, perché Lui solo è il loro Creatore. Questi
articoli originali della fede di Israele vennero poi introdotti anche nel Credo
cristiano (il cosiddetto Simbolo niceno-costantinopolitano): "Credo in 'un
solo Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra...". Ora,
volontà del Padre è dividere in parti uguali la "sua eredità" tra
tutti i figli e certo lo può perché tutte le cose appartengono a Lui. Egli non
ammette che gli uni opprimano gli altri o i beni della creazione non siano
divisi secondo il bisogno di ciascuno: in questo consiste l'ordine primordiale
insito nell'essenza stessa della creazione. Questa convinzione di fede ci viene
offerta in forma di parabola nel celebre brano del paradiso terrestre di Gn 2,
in cui gli uomini vivono in armonia tra loro e con la natura, la quale produce
più del necessario per tutti. Non c'è fame, non c'è sofferenza... e l'uomo è
talmente in comunione con Dio da passeggiare con Lui nel giardino. Così, quando
Israele giungerà nella terra promessa, sentirà il dovere di trasformare
l'ideologia in Utopia, cioè nella realizzazione di un grande progetto ideale:
rifiuta il sistema monarchico-tributario, in cui il rè è padrone della terra e
del popolo e ne dispone a piacere; la terra viene invece divisa in parti eque
tra le tribù e ognuno ne avrà l'usufrutto ma non la proprietà assoluta che
appartiene a Dio. In questa logica non c'è spazio per l'accaparramento dei beni
o per la concentrazione della terra in poche mani: come per la manna nel
deserto, bisogna possederne solo quanto serve per la vita. Il di più, che
impoverisce il fratello e presuppone una distribuzione diversa da quella voluta
da Dio, non è solo questione di ingiustizia sociale, ma anzitutto una
profanazione della paternità di Dio, una
confessione della sua Signoria sul Creato. E quando con l'avvento della
monarchia (dal 1030 a.C. con Saul, Davide, Salomone...) Israele si avvierà ad
essere uno stato come tutti gli altri, fondato sulle diseguaglianze sociali,
sull'oppressione e la povertà, i profeti saranno inviati da Dio a denunciare
l'ingiustizia, i soprusi e l'idolatria, cioè l'infedeltà all'Alleanza. E' in
questo periodo, che grazie alla parola dei profeti e alla riflessione di alcuni
illuminati sacerdoti, questi ultimi compongono il codice dell'Alleanza, la
Legge, che prevede l'istituzione dell'Anno Sabbatico e del Giubileo, per
ristabilire almeno periodicamente l'ordine voluto da Dio e quindi poter
celebrare una vera riconciliazione con Lui. Questo Anno prevede di conseguenza
l'obbligo di ridistribuire la terra equamente, condonare i debiti, liberare gli
schiavi, e lasciare riposare la terra, in un anno in cui i poveri del paese
possano cibarsi dei frutti che spontaneamente essa produce. Il latifondo, la
miseria, l'oppressione, l'eccesso di ricchezza, vengono così delegittimati dal
Dio della vita.
Ma
ancora una volta tutto questo restò nella sfera dei buoni propositi, e Gesù, a
Nazareth, si presenta come colui che è venuto a dargli compimento.
Se
l'obiettivo della missione di Gesù è l'annuncio (da intendersi non solo
verbale, ma come realizzazione) del Regno di Dio, cioè la prossimità della
paternità di Dio ad ogni uomo, e di conseguenza la creazione di rapporti
veramente fraterni tra questi, il
Giubileo ne è certamente lo strumento privilegiato. Ogni parola di Gesù,
ogni suo gesto possono definirsi giubilari, cioè portatori di una bella notizia
che da gioia, perché libera. E' ciò che chiamiamo "la prassi liberatrice
di Gesù". Ed è evidente, a chiunque conosca anche solo un poco i Vangeli,
che questa prassi liberatrice corrisponde perfettamente alla sua filosofia di
vita; una filosofia che essendo impregnata della presenza viva di Dio, meglio
dovremmo chiamare "teologia di vita". E' quella stessa teologia che
si era formata nel corso della storia della salvezza a partire dall'Esodo e che
Gesù è venuto a portare a compimento, liberandola dagli elementi spuri che nel corso
dei secoli l'avevano incrostata e completandola con quella definitività che
solo lui, il Figlio, poteva imprimerle. Ma questo portò Gesù a scontrarsi con
le ideologie ed i sistemi del suo tempo, cioè con l'impero romano e la
religiosità del tempio di Gerusalemme. Così i Vangeli ci presentano Gesù
impegnato in diversi momenti ad indicare il limite tra i poteri mondani e la
signoria di Dio. Di fronte allo strapotere romano, a chi lo interrogava in mala
fede sull'opportunità di pagare le tasse, dopo aver osservato l'immagine
dell'imperatore sulla moneta, rispose: "rendete a Cesare ciò che è di
Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Me 12,17). Cioè Cesare, lo stato, il
potere laico ha il diritto di gestire l'economia (raffigurato dall'immagine
sulla moneta) ma non fino al punto di porre questa al di sopra dell'uomo, che è
immagine di Dio. Quando questo avviene, Cesare sta usurpando il diritto di Dio
e allora bisogna scegliere da che parte stare. Se dalla parte di Cesare,
dell'economia, della finanza che appaga i suoi adepti a scapito della
maggioranza ridotta alla fame, alla miseria, alla morte, o dalla parte di Dio
che non arricchisce nessuno, ma dona la vita e la dona " a tutti in
abbondanza " (cfr. Gv 10,10). Non ci sono compromessi possibili. A chi
sperava ancora di poterlo fare, a chi si ostinava nel non voler vedere il male
insito in certe ideologie economiche e di potere, e illudeva se stesso nella
speranza di trovare un accomodamento - oggi diremmo - "buonista",
Gesù buttava in faccia l'inevitabile alternativa: "Nessuno può servire a
due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà
l'altro: non potete servire a Dio e al denaro" (Mt 6,24).
Così
pure di fronte alla gestione della religione che esercitavano i sacerdoti del
tempio di Gerusalemme, e in misura diversa quei pii laici che erano i farisei,
riducendo il culto a strumento oppressivo di potere impiegato a difesa del
proprio prestigio e dei propri interessi, Gesù proclama che: "II sabato è
stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell'uomo è
signore anche del sabato" ( Me 2,27-28).
Gesù
difende il primato di Dio e allo stesso tempo dell'uomo su ogni economia e su
ogni potere che la sostiene. L'uomo voluto da Gesù è libero, autonomo, pensante
con la propria testa: "Diceva ancora alle folle: "Quando vedete una
nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E
quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete
giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete
giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? (Le 12, 54-57).
E soprattutto le sue parole si caricano di drammaticità quando giunge ad
indicare come le scelte di ogni giorno dettate dal tornaconto personale o
dall'asservimento al sistema compromettono il rapporto definitivo con Dio,
perché è nella storia che la libertà umana esprime la sua opzione definitiva
nei confronti dell'eternità: "Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via,
lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i
suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto
sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo
e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato." (Mt
25, 41-43).
Ecco
allora come la logica del Regno proposta da Gesù agli uomini è ancora una volta
– o meglio più di un tempo - alternativa e incompatibile con quella di
un'economia che si pone al di sopra di tutto, al posto stesso di Dio. Del resto
l'affermazione di Fukuyama, uno dei più grandi ideologi del Neoliberismo,
secondo cui: "Fuori dal capitalismo non c'è salvezza.
Siamo
giunti al fine della storia", dovrebbe far immediatamente comprendere ad
ogni cristiano la consistenza di tale pretesa. Per il Nuovo Testamento infatti
è Cristo il fine della storia, l'unico che possa svelare il senso stesso della
storia, l'unico che può salvare: "In nessun altro c'è salvezza; non vi è
infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che
possiamo essere salvati" (At 4,12). Chiunque altri si presenti ad
usurparne il posto è l'Anticristo: "Chi è il menzognero se non colui che
nega che Gesù è il Cristo?
L'anticristo
è colui che nega il Padre e il Figlio" (1 Gv 2,22). Negare al Padre il
diritto di ordinare la distribuzione dei beni della terra, negare al Figlio
l'unicità della sua funzione salvifica, negare all'uomo il diritto al proprio
adeguato sostentamento, alla propria dignità, libertà, soggettività: è questo
in definitiva il prodotto maturo del Neoliberismo, l'idolo del mondo
contemporaneo che vuole insidiare nelle coscienze, più ancora che nei mercati,
il posto di Dio.
Per
questo non è solo utile, ma necessario, indispensabile proclamare un Giubileo: il Giubileo di Gesù. Per liberare
ancora una volta l'uomo, per salvaguardare il creato, per riaffermare la
centralità e l'unicità della signoria salvifica di Gesù, per riaffermare il
primato di Dio! Un Giubileo nel quale risuoni ancora una volta
l'annuncio/comando salvifico: "lo sono il Signore, tuo Dio, che ti ho
fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri
dei di fronte a me" (Es 20, 2-3).