REDENZIONE DELLA GLOBALIZZAZIONE
LE VITTIME
di Jon Sobrino
La
globalizzazione, nella sua realtà concreta, sta introducendo nel nostro mondo
gravi mali e pertanto ha bisogno di redenzione. Compiere questa redenzione è
essenzialmente missione delle vittime. Questa tesi che - seguendo la lezione di
Ellacuría - formuliamo a partire dalla fede cristiana, con un linguaggio
volutamente provocatorio, profetico e utopico, è quanto vogliamo sviluppare in
quest'articolo.
I - Una globalizzazione che abbisogna di redenzione
Il termine
"globalizzazione" copre realtà ampie e diverse. Può far riferimento
all'universalizzazione del mercato, al-l'intercomunicazione istantanea nel
pianeta, alla omogeneizzazione di contesti culturali, alla speranza di una
nuova oikuméne umana. Il termine è quindi complesso e ambiguo, e lo è ancor di
più se si ricorda che la comprensione della realtà come globale viene da
lontano. Il 1492 (America) "rese rotondo" per la prima volta il
pianeta. Il 1945 (Hiroshima) ha globalizzato la responsabilità nei confronti di
un pianeta che cominciava a essere in pericolo "interamente".
Pur essendo
il termine ambiguo, i difensori della globalizzazione, soprattutto a livello
economico, circondano questa con un'aureola univoca e splendida. La presentano
come "salvezza", èu-anghélion, e nel suo "stadio
definitivo" - questo significa - l'avvento del fine della storia". La
metafora introduce elementi densi di speranza: l'inclusione, infatti nel
mondo-globo c'è posto per tutti, e un centro dotato di potere per generare
bontà. Suggerisce perfezione rinascimentale, la rotondità, e perfino equità:
l'equidistanza tra tutti i punti della superficie del globo e il suo centro.
Come nella liturgia dell'Avvento, si canta - in modo secolarizzato ma non meno
efficace - "rallegrati, Gerusalemme, la tua salvezza è vicina".
I fatti
tuttavia smentiscono questo ottimismo - anche se sono nate, senza dubbio,
realtà utili e si intravede una tendenza alla mentalità globalizzante, prima
inesistente, cosa che è positiva. Però continua a essere vero che, contro la
sua "essenza ideale", ciò che è aumentato - e si è
"globalizzato" - non sono gli "inclusi", ma gli
"esclusi", non l'omogeneizzazione dell'umano, ma la proliferazione
della volgarità, non l'abbraccio familiare planetario, ma l'abisso crudele fra
i popoli.
Da qui sorge
la domanda fondamentale: Mondializzazione o conquista? (Cristianisme i
justícia, Barcelona 1999), le manifestazioni antiglobalizzazione: "Un
altro mondo è possibile", e la riflessione di J. Moltmann che rivisita -
con ottica sapienziale - secoli del progresso dell'Occidente: "I campi di
cadaveri della storia, che abbiamo visto, ci proibiscono [...] qualunque
ideologia del progresso e qualunque piacere per la globalizzazione. [...] Se le
conquiste della scienza e della tecnica possono essere impiegate per
l'annichilimento dell'umanità (e se possono, un giorno lo saranno), risulta
difficile entusiasmarsi con Internet o con la tecnologia genetica".
II - Il principio di redenzione/salvezza: le vittime
Questa globalizzazione
abbisogna di redenzione. Hans Küng propende per un'etica globale e Giovanni
Paolo II chiede che la globalizzazione - realtà umana aperta - si lasci guidare
dalla dottrina sociale della Chiesa, perché altrimenti può diventare una
"nuova versione del colonialismo". Queste iniziative sono benvenute
ma non sembrano bastare se non le si storicizza un minimo. È quanto vogliamo
fare subito: offrire un "principio di redenzione/salvezza" che generi
un dinamismo capace di superare i mali della globalizzazione (redenzione) e
generare beni (salvezza). E insistiamo sul momento della "redenzione"
per non accontentarci di riconoscere i "limiti" e le
"ambiguità" della globalizzazione e ignorare che si tratta anche di
un peccato che va sradicato. Cominciamo.
La tradizione
biblico-cristiana è esperta sul tema della redenzione/salvezza e sui dinamismi
che entrambe le cose generano. La salvezza comporta promessa e,
correlativamente, speranza, ma la sua specificità è che nasce dalla fragilità e
dalla piccolezza: un'anziana sterile, il piccolo popolo di Israele, la piccola
Betlemme, un ebreo marginale... La fragilità e la piccolezza stanno al centro
del dinamismo della salvezza. Essi ne sono i portatori, non solo i beneficiari.
L'utopia è in consonanza con la loro speranza e non con quella dei potenti. E
la loro piccolezza manifesta il momento essenziale di gratuità della salvezza,
non della hybris.
Questa
tradizione del piccolo come portatore di salvezza attraversa la Scrittura, ma
c'è di più. Nell'Antico Testamento appare la misteriosa figura del servo
sofferente di Jahweh che non è solo "povero", "piccolo", ma
anche "vittima". Orbene, questo servo è l'eletto di Dio per togliere
il peccato del mondo e portare salvezza. Allo scandalo del piccolo si aggiunge
ora la follia della vittima. "Solo in un difficile atto di fede" -
commentava Ellacuría - "il cantore del servo è capace di scoprire ciò che
appare come tutto il contrario agli occhi della storia".
Vogliamo ora
incentrare la nostra attenzione su questo servo. Diciamo subito che le vittime
della globalizzazione possono essere, cristianamente e paradossalmente, il suo
principio di redenzione, e se esse non riceveranno una fondamentale
considerazione essa non diventerà mai una globalizzazione umana. Ciò
costituisce, riteniamo, una novità teologica di profonda portata; infatti, il
servo di Jahweh non è stato storicizzato come realtà attuale, collettiva e
storica, e ancor meno è stata storicizzata la salvezza che oggi porta al mondo.
Questa
duplice storicizzazione è invece avvenuta tra noi. Ellacuría insisteva sul
fatto che, anche se non si può stabilire con totale precisione chi oggi rende
presente il servo sofferente, "il Primo mondo non è su questa linea mentre
lo è il Terzo mondo; non lo sono le classi ricche e vessatrici, mentre lo sono
le classi oppresse". Nel nostro linguaggio, il servo sono oggi i
"popoli crocifissi", che caricano sulle proprie spalle il peccato di
questo mondo, oggi il peccato della globalizzazione. Mons. Romero, con un
linguaggio pastorale, diceva alle contadine e ai contadini di Aguilares, popolo
massacrato: "Voi siete il divino violato" (Omelia, 19 giugno 1977).
Il servo è ad un tempo Cristo liberatore e il popolo sofferente (cfr. Omelia,
21 ottobre 1979).
Queste
"vittime di oggi" portano salvezza, e anche salvezza storica. Il
servo di Isaia è stato utilizzato nella soteriologia classica, ma la
storicizzazione della salvezza del servo non è sorta nel mondo dell'abbondanza
ma nel Terzo mondo - ecco perché "il luogo (la realtà storica concreta) fa
che la fonte della rivelazione (la Scrittura) dia di sé una cosa o
l'altra". Giovanni Paolo II ha avuto l'audacia di dire in Canada nel
settembre del 1985 che nel giorno del giudizio i popoli poveri giudicheranno
quelli che li opprimono, ma nel Terzo mondo andiamo oltre: ora i popoli
crocifissi offrono loro salvezza.
Un esempio
dell'Asia. I poveri, non perché siano santi ma perché sono coloro che non hanno
potere, i negletti, sono scelti per una missione, "sono convocati per
essere mediatori della salvezza dei ricchi e i deboli sono chiamati a liberare
i forti" (A. Pieris). Un esempio dell'Africa (interecclesiale, ma che
rivela la stessa intuizione): "La Chiesa dell'Africa, in quanto africana,
ha una missione per la Chiesa universale. La Chiesa dell'Africa è il cuore
violato di Cristo in questo corpo lacerato della Chiesa universale. [ ... ]
Mediante la sua povertà e umiltà deve ricordare a tutte le Chiese sorelle
l'essenziale delle beatitudini e annunciare la buona novella della liberazione
a coloro che sono succubi della tentazione del potere, delle ricchezze e del
dominio" (p. Mveng). La teologia non è solita parlare in questo modo,
neppure quella progressista; essa, preoccupata da cose necessarie, per fornire
risposte fa ricorso alla ragione cristiana "democratica", ma non so
se del pari si lascia guidare dalla ragione cristiana "della croce
storica"
III - Le vittime e la redenzione/salvezza della
globalizzazione
La
conclusione di quanto affermato è paradossale: secondo la tradizione biblica le
vittime della globalizzazione possiedono un potenziale e un dinamismo opposti a
quelli della globalizzazione, che le trasformano in principio di redenzione e
di salvezza. Vediamo il contributo delle vittime alla globalizzazione - o a ciò
che la globalizzazione idealmente pretenderebbe - in tre punti fondamentali: la
verità, la solidarietà e la civilizzazione della povertà. Li esamineremo
cercando di mostrare da quale peccato "redimono" la globalizzazione e
cosa "salvano" delle sue intenzioni ideali.
1 - La verità. Le vittime convocano alla verità
Nella
globalizzazione si dà per scontato che chi convoca - riunisce,
"globalizza" - salvificamente è il Potere, soprattutto quello
economico. A questo centro convocatore la Scrittura ne oppone un altro, molto
diverso e contrario: convocano le vittime. Nella teologia di Giovanni è il
crocifisso che attrae tutto (cfr. Gv 12,32; 19,37).
E la stessa
cosa accade, a volte, nella storia. Anni addietro il Salvador non esisteva per
il mondo. Si cominciò a conoscerlo nel 1977 quando un sacerdote, Rutilio
Grande, venne assassinato. Il mondo occidentale, democratico e cristiano,
rimase sorpreso e alcuni rimasero scossi. Ma ciò che è più importante è che
questo assassinio portò alla conoscenza di una verità ignorata: anche
contadini, operai, studenti, catechisti e delegati della parola, venivano
perseguitati, torturati, assassinati in massa. E si giunse alla verità
fondamentale: il Salvador è un popolo crocifisso. Il clamore della repressione
e della croce ruppe il silenzio della povertà e dell'ingiustizia secolari. E
gli occhi di molti si posarono sul Salvador.
Il servo
sofferente quindi attrae anche oggi e si trasforma in "luce delle
nazioni" (Is 42,6; 49,6). Dalle vittime di oggi - a causa della loro
stessa realtà crocifissa - proviene una luce che denuncia e smaschera la
menzogna della globalizzazione. In questo contesto va ricordato, come dice Luis
de Sebastián, che "la globalizzazione è lo stato attuale dell'economia
mondiale... [che] ha prodotto vincenti e perdenti, trionfatori e vittime".
Circa le vittime è sufficiente menzionare un dato che è divenuto emblematico:
due miliardi di esseri umani vivono con due dollari al giorno, e la metà di
essi con meno di un dollaro - ciò che Casaldáliga chiama "la
macroblasfemia del nostro tempo". Di fronte a ciò non c'è oscurità
possibile, ecco perché la strategia della globalizzazione reale cerca di
occultare, coprire, mimetizzare, e ciò può avvenire, certamente, usando mezzi
di comunicazione "globalizzati".
Accettare
questa verità, non opprimerla con l'ingiustizia - grave pericolo di ogni essere
umano contro cui ci ammonisce Paolo (Rm 1,18) - è il primo passo. E allora le
vittime possono muovere alla conversione. Il termine è insolito nel linguaggio
delle analisi economiche, ma è insostituibile se si vuole una globalizzazione
umana. Lo stesso Wolfenson, ex presidente della Banca Mondiale, dovette
ammettere nella Repubblica ceca nel settembre del 2000: "Gli aiuti
dell'Occi-dente al Terzo mondo non hanno fatto altro che diminuire e credo che
questo sia un crimine". Se c'è un crimine ci deve essere anche pentimento
e dolore. E questo dolore, quando è reale, è un primo passo, minimo ma
necessario, per cogliere l'immenso oltraggio comparativo del nostro mondo,
Epulone e Lazzaro (Lc 16,19ss.), e per sentire vergogna di fronte a un mondo
impudico, violato nella sua più profonda dignità.
Una
globalizzazione senza verità, ancor peggio contro la verità, non umanizza e
inoltre non può "globalizzare", ma "escludere". Mentire e
celare negano la realtà stessa delle cose. E così "l'Africa non
esiste": è stata esclusa dalla realtà dalla contro-globalizzazione del
silenzio. Producono anche disgregazione e antagonismo, e così Cuba non può
essere un popolo aperto ad altri: è bloccato dalla contro-globalizzazione della
menzogna. La menzogna e il celare non favoriscono per nulla
l'universalizzazione dell'umano.
Invece, porre
al centro del "globo" la sofferenza delle vittime porta alla verità e
alla universalizzazione. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la canonizzazione
del sacrificio ma con la pretesa-invito a rispondere umanamente dinanzi alle
vittime, con misericordia e giustizia. E ciò certamente possiede un dinamismo
inglobante e includente di tutto e di tutti coloro per i quali l'umano si
decide nel più profondo delle viscere, nella misericordia.
Concluderemo
questa sezione con due brevi riflessioni. Parlando delle vittime abbiamo
cominciato con la negatività, espressa dalla sofferenza, e lo abbiamo fatto
perché è la realtà più reale (in un altro momento bisognerà analizzare se il
cristianesimo, almeno il messaggio di Gesù, non vada indirizzato direttamente
al "sofferente" prima che al "peccatore"). Questa
sofferenza è massiccia, ingiusta e crudele, si nutre di gente innocente e
indifesa ed è prodotto del mondo del potere (economico, militare, politico, dei
mezzi di comunicazione, a volte delle Chiese e delle Università). È il
mysterium iniquitatis.
Ma non si può
nascondere la negatività espressa dalla perversità, a volte terrificante. Si ha
nel mondo dell'abbondanza e dell'oppressore e si ha pure talora nel mondo delle
vittime che assimilano i propri carnefici. Così lo spiega il vescovo Sikuli di
Butembo, Congo: "Quando nel mondo non si ha nessuno, né padre, né madre,
né sorella, e si è ancora un bambino, in un Paese rovinato e barbaro, in cui
tutti si ammazzano, cosa si può fare? Si comincia a essere bambino soldato per
mangiare e uccidere: questo è quanto ci rimane". Nessuna ingenuità quindi.
Anche tra le vittime si fa presente il mysterium iniquitatis. Ma c'è qualcosa
nel mistero di questi bambini-soldato che - come il servo, analogamente se si
vuole - continua a rinviare, misteriosamente, a Cristo crocifisso, e continua a
convocare.
E una seconda
riflessione. Abbiamo detto che le vittime sono oggi il servo di Jahweh, ma
altri trovano la sua presenza in posti molto diversi. Sono diventate classiche
le seguenti parole di un teologo del capitalismo: "Per molti anni uno dei
miei testi preferiti della Scrittura è stato Is 53,2-3: "Disprezzato e
reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno
davanti al quale ci si copre la faccia". Vorrei applicare queste parole
alla business corporation, all'impresa di affari moderna, un'incarnazione della
presenza di Dio in questo mondo enormemente disprezzata" (M. Novak).
2 - La solidarietà. Le vittime inducono a
"sostenersi vicendevolmente"
Nella
tradizione cristiana il simbolo di una globalizzazione "di qualità" è
la mensa condivisa tra tutti e con i diversi, come quella di Gesù. Questa era
l'utopia di Rutilio Grande: "Un'unica mensa grande, con larghe tovaglie
per tutti". È la mensa che rende uguali gli ineguali, quella che
costruisce la famiglia umana.
Negli ultimi
quarant'anni il mondo non è andato in questa direzione, ma in quella opposta.
Secondo le relazioni del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo il
rapporto tra ricchi e poveri era di 1 a 30 nel 1960, di 1 a 60 nel 1990, di 1 a
74 nel 1997. Questo significa che la "specie" potrà vivere o vivere
male, ma significa soprattutto che il pianeta non sta pensando all'esistenza
della "famiglia umana". Neppure la globalizzazione pensa in questi
termini. Come diventare un'unica "famiglia" umana, in un pianeta in
cui alcune piccole minoranze danno la vita per scontata mentre le grandi
maggioranze ciò che non danno per scontata è la vita, è l'interrogativo
fondamentale a cui la globalizzazione deve dare risposta. La risposta è la
"solidarietà" - e qui compaiono ancora una volta le vittime.
Con la parola
solidarietà si esprime normalmente appoggio, vicinanza, difesa del debole, e
tutto questo - sempre più - nella sua dimensione di massa e popolare. "La
solidarietà è la tenerezza dei popoli", afferma con una bella espressione
Casaldáliga. Ma per comprenderla in relazione alla globalizzazione sarà bene
esaminarla anche concettualmente. Analizziamo la sua specificità con un esempio
che si è ripetuto varie volte tra noi.
Abbiamo detto
che gli occhi di molti si sono posati sul Salvador crocifisso e ciò ha dato la
stura a un nuovo e potente dinamismo: conoscere, lasciarsi coinvolgere,
aiutare, impegnarsi. Si cominciò a pensare l'aiuto in modo diverso: non si
trattava più solo di dare aiuto materiale ma della dedizione della persona; e
non solo di dedizione temporanea ma duratura. E allora accadde la novità
fondamentale in termini di globalizzazione: non si trattava solo di dare dal di
fuori, ma pure di ricevere. Si trattava di "sostenersi
vicendevolmente" tra i diseguali. Era nata la solidarietà.
Rispetto alla
globalizzazione questa solidarietà è, innanzitutto, la sua critica. Per quanto
non sia poco - ammesso che la globalizzazione vi riesca - non si tratta
semplicemente che "tutti entrino" nel globo, ma di "sostenersi
vicendevolmente" tra i diseguali, ognuno dando e ricevendo il meglio che
ha, a tutti i livelli: economici, culturali, di conoscenze, e fede... Allora il
"globo" non è più una metafora adeguata, perché puramente spaziale e
materiale. Mentre lo è la "famiglia" - che "il mondo diventi una
casa per tutti" - affermava E. Bloch - dove c'è vicinanza invece che
distanza (sebbene dal punto di vista del mercato questa può essere utilizzabile
dall'industria del turismo), stima (invece del disprezzo che si suole mantenere
verso coloro che sono entrati senza essere chiamati), gioia (invece della paura
che coloro che entrano invadano tutto).
Cos'è che
genera il dinamismo di questa solidarietà, di questo modo d'essere e stare
nella vita, così diverso e opposto rispetto a quello proposto dalla
globalizzazione? Le vittime, entrare in rapporto con esse, cercare di aiutarle
e scoprirsi aiutati da esse. Le vittime possono trasformare "un
globo" in "una famiglia", "un gigantesco supermercato"
in "una casa".
E possono
introdurre qualcosa che praticamente è assente nell'attuale cultura con
gravissimi danni per l'essere umano: la grazia. Se il lettore si domanda perché
menzionare la grazia in questi momenti, temo assai che non ha capito né Gesù di
Nazaret, né l'essere umano, che tale diventa non solo costruendosi da sé ma
pure lasciandosi costruire dagli altri. È la realtà e l'esperienza del dono.
È esperienza
ripetuta che volontari e volontarie, venuti dal di fuori ad aiutare in ricoveri
e villaggi, confessano con gratitudine che, quando meno se lo attendevano,
senza, per così dire, meritarlo, hanno ricevuto più di quanto hanno dato e
hanno ricevuto qualcosa di un ordine superiore a quello di cui erano
inizialmente portatori. Hanno ricevuto accoglienza, affetto, speranza, fede,
realtà di cui si costituisce il tessuto umano e con le quali si può costruire
una famiglia. Globalizzare umanamente non significa solo che possano
"entrare tutti" - che non sarebbe poca cosa - ma pure "essere
tutti", ognuno quello che è, con la gioia di sostenersi vicendevolmente.
3 - La civilizzazione della povertà. Le vittime
capovolgono il presupposto fondamentale
Se quanto
detto è vero, è allora necessario nella globalizzazione un cambiamento radicale
e non solo un "più" quantitativo. Così affermava Casaldáliga in una
"preghiera a san Francesco in forma di sfogo":
Compare
Francesco,
il mondo è
così vecchio,
che bisognerà
farne un altro
per vederlo
nuovo.
E Ellacuría
lo ha teorizzato. Con realismo e pragmatismo, da una parte, con profetismo e
utopia dall'altra, ha insistito sul fatto che ciò che c'era da fare era
"capovolgere la storia"; nei termini di quest'articolo,
"capovolgere il dinamismo dell'attuale globalizzazione". Per questo
parlava della necessità di qualcosa di radicalmente nuovo: una
"civilizzazione del lavoro" e, ancora più innovativamente, una "civilizzazione
della povertà". Su questa affermava programmaticamente:
"Una
civilizzazione [...] in cui la povertà non sarebbe più la privazione del
necessario e del fondamentale dovuta all'azione storica di gruppi o classi
sociali e di nazioni o insieme di nazioni, ma uno stato universale di cose, in
cui è garantito il soddisfacimento dei bisogni fondamentali, la libertà delle
scelte personali e un ambito di creatività personale e comunitaria che consenta
la comparsa di nuove forme di vita e cultura, nuove relazioni con la natura, con
gli altri, con se stessi e con Dio".
Questa
descrizione è utopistica, ma fondata. 1) La civilizzazione della povertà va
intesa in primo luogo in contrapposizione alla civilizzazione della ricchezza,
non come impoverimento universale come ideale di vita. 2) La cultura della
povertà è inoltre una necessità storica a causa della correlazione universale,
risorse-popolazione. 3) D'altronde, la civilizzazione della ricchezza ha
fallito come modo di garantire la vita alle maggioranze, infatti il suo ideale di
vita non è universalizzabile. E anche se fosse possibile, non è augurabile,
infatti ha fallito pure come modo di umanizzare persone e popoli. 4) La
conclusione è che in un mondo configurato peccaminosamente dal dinamismo
capitale-ricchezza è necessario suscitare un dinamismo diverso che vada
salvificamente oltre. Questo dinamismo proviene dal mondo della povertà. E
questa povertà è quella che veramente "incivilisce", dà spazio allo
spirito "che non si vedrà più
soffocato dall'ansia di avere più dell'altro, dall'ansia concupiscente di avere
ogni tipo di cose superflue, mentre alla maggior parte dell'umanità manca il
necessario. Potrà allora fiorire lo spirito, l'immensa ricchezza spirituale e
umana dei poveri e dei popoli del Terzo mondo, oggi soffocata dalla miseria e
dall'imposizione di modelli culturali più sviluppati in alcuni aspetti, ma non
per questo più pienamente umani".
Ellacuría
argomenta partendo da aspetti diversi: dalla riflessione sulla storia, le sue
possibilità, le sue esigenze, e dai piccoli segni di questa civilizzazione
della povertà che vedeva nel Terzo mondo. Ma il suo pensiero distintivo è che,
per trovare una "nuova" civilizzazione, egli si rifà - e centralmente
- a una tradizione biblico-cristiana fondamentale: i poveri, le vittime, il
popolo crocifisso.
Da questa
tradizione di poveri e povertà - insieme al meglio di altre, naturalmente - si
può dare origine a un sapere proveniente dalle vittime e che non cela la
realtà; una prassi per deporle dalla croce; un condividere la loro speranza, un
sostenersi vicendevolmente e un celebrare - con esse - la vita. Così pensava
Ellacuría che si sarebbe potuto " capovolgere la storia". Così,
diciamo noi, si può "redimere la globalizzazione".
Quanto è
stato scritto in quest'articolo, e soprattutto in quest'ultima sezione, va
capito bene. Per "redimere" bisogna cercare alternative storiche,
obiettive e, ovviamente, possibili; e già si sta cercando di teorizzare alcune
vie di una globalizzazione umana. La nostra inquietudine è diversa: per
orientare queste alternative bisogna tenere conto di princìpi che realmente
principino una realtà adeguata. Qui ne abbiamo evidenziati tre: la verità che
convoca i molti, la solidarietà di sostenersi vicendevolmente tra diseguali, la
civilizzazione della povertà che porta con sé umanizzazione; e abbiamo
insistito sul fatto che questi princìpi hanno il loro luogo naturale nelle
vittime di questo mondo. Tra esse sorgono e da esse ricevono la direzione in
cui debbono storicizzarsi e la mistica e la forza per farlo. Le vittime,
riteniamo, sono un principio inedito - e utopico - nella storia, ma dal
metterlo in moto dipenderà il futuro. Ci sono già piccoli segni che sarà così,
e certamente questa è la nostra speranza.
da
CONCILIUM 5/2001
Editrice
Queriniana
Via
Ferri, 75 25123 BRESCIA