La
nuova Roma. Americana
L'impero «informale» degli Stati uniti
produce contraccolpi e boomerang inattesi. Come quello dell'11 settembre, che
ne mostrano la fragilità. Parla Chalmers Johnson, del Japan Politicy Institute.
Che critica da destra il militarismo e il sentimento di onnipotenza d'America
Chalmers Johnson mi
risponde al telefono da vicino San Diego, California, dove si trova il Japan
Policy Institute di cui è presidente. Parla un inglese impeccabile, veloce, perentorio,
professorale. È diventato famoso nel 2000 con il libro Blowback che è
stato tradotto in italiano da Garzanti come Gli ultimi giorni
dell'impero americano, anche se sarebbe stato
più corretto (e più efficace, alla luce dell'11 settembre) intitolarlo Boomerang.
Infatti blowback è un termine coniato
dalla Cia per indicare i contraccolpi non desiderati di operazioni segrete. La
tesi di Chalmers Johnson era che gli Stati uniti costituiscono un impero, per
quanto «informale» (non annette le colonie come l'Inghilterra). Ma l'impero
comporta dei prezzi e delle conseguenze inattese. Già nel 2000, un anno prima
dell'11 settembre, Johnson indicava gli attentati di Bin Laden come esempi di blowbacks. L'interesse
di questa critica all'impero americano è che non viene da un uomo di sinistra,
anzi: Johnson è sempre stato anticomunista, e negli anni `60 era in favore
della guerra nel Vietnam.
Non
pensa che dopo l'11 settembre l'impero «informale americano» è diventato molto
più formale?
Assolutamente.
Ed è per questo che a Washington parlano con eccessiva faciloneria della «nuova
Roma». Una metafora che agli americani piace tanto. Non conoscono un accidente
della storia di Roma. Va per la maggiore tra molti pundits
(gli «esperti») e commentatori, soprattutto tra i neoconservatori. Sebastian
Malleby del Washington Post, ha pubblicato un saggio proprio su questo argomento su Foregn Affairs.
Naturalmente non sanno nulla del declino della repubblica romana e del sorgere
dell'impero, del tradimento di Giulio Cesare, il Rubicone non significa nulla
per loro. È un segno della pericolosità della situazione.
Da
questo punto di vista l'11 settembre è sopravvenuto al momento giusto.
Giusto
per chi vuole un nuovo impero romano. Io non lo voglio. E comunque il presente
non ha niente a che vedere con l'impero romano, ma piuttosto ricorda l'impero
sovietico. Il più grave errore commesso finora dagli americani è di aver
creduto, quando la guerra fredda è finita, che l'avessero vinta loro. Ma gli
Stati uniti non sono responsabili della disgregazione dell'Urss. È stato un
processo interno all'Unione sovietica stessa. L'Urss ha perso la guerra fredda,
noi non l'abbiamo vinta. Nessuno vuole un impero americano. In realtà gli Stati
uniti sono stati terribilmente frustrati dalla scomparsa dell'Urss. Hanno
passato i dieci anni successivi alla ricerca di un altro nemico. E nell'11
settembre l'hanno trovato. In realtà l'11 settembre era un messaggio, un
avvertimento agli Stati uniti perché cambiassero la loro politica estera in
alcune aree vitali. Noi non l'abbiamo fatto, anzi al contrario abbiamo
imboccato la direzione opposta, abbiamo accentuato la nostra tendenza
all'unilateralismo. L'America ha sempre meno interesse per il multilateralismo,
per la legge internazionale, per i trattati internazionali, in soluzioni
pacifiche ai problemi mondiali. Quello a cui assistiamo è il rifiuto
dell'America di cambiare qualcosa. Invece usa la forza, impone la sua volontà
su chi non è d'accordo. Ritengo perciò che oggi per noi il pericolo sia
maggiore di quanto fosse alla vigilia dell'11 settembre.
Ma
gli imperi hanno sempre saputo che la pura forza non basta, che a un certo
punto è necessaria la politica, una politica di alleanze e compromessi.
Nonostante la superiorità del suo esercito, l'impero inglese ha dovuto fare
politica con gli Zulu in Africa e con gli hindi sul Gange.
Ma
gli Stati uniti stanno delegando la politica estera al Pentagono. Lo vediamo
ogni giorno con il ministro della difesa, Donald Rumsfeld, che si arroga ogni
giorno nuovi poteri. Persino il segretario di Stato, Colin Powell, è un
generale, non un diplomatico. Il problema qui è la natura del moderno impero.
Non è politica, non sono corporations multinazionali dominanti deboli paesi, è la forza militare.
E, come durante la guerra fredda, noi abbiamo usato la guerra afghana per
espandere in modo radicale la nostra presenza in Asia centrale dove prima
eravamo assenti, e inoltre abbiamo rafforzato in modo consistente le nostre
basi nel sud-est asiatico e nell'America latina. Chiaramente, a mio parere, gli
Stati uniti eccedono nell'imperare. Già siamo tornati ai bilanci statali in
passivo, dopo che erano in attivo sotto l'amministrazione Clinton. E i focolai
di crisi economica stanno diventando endemici: Messico 1994, crisi asiatica
1997, Russia 1999, e adesso l'Argentina che rischia di sprofondare tutta
l'America latina. Il pericolo è che gli Stati uniti si stiano incamminando
sulla stessa strada presa dall'Unione sovietica negli anni `80. Cosa è che ha
fatto crollare l'Urss? Essenzialmente tre elementi: 1) Le
contraddizioni interne dell'economia causate soprattutto dall'ideologia, dal
marxismo-leninismo; noi negli Stati abbiamo contraddizioni economiche interne
derivanti dalla peculiare ideologia americana che è non il capitalismo (anche
il Giappone è capitalista, ma è criticato dagli ideologi Usa), bensì lo
specifico liberismo dei Chicago boys: e la fiducia popolare in questa peculiare
ideologia americana è in crisi, dopo tutti gli scandali che hanno colpito le
grandi corporations, Enron, WorldCom. e così via. 2)
Lo «stress imperiale» che si produce quando vuoi mantenere il tuo dominio su
troppi paesi che se ne risentono, si ribellano: quello che è successo al muro
di Berlino potrebbe accadere a Okinawa domani. È un fattore che fa crollare gli
imperi. E 3) l'incapacità di autoriformarsi. L'Unione sovietica ci provò
con Michail Gorbaciov che però incontrò troppe resistenze interne nell'ala
conservatrice del partito e il paese esplose. E anche gli Stati uniti stanno
dimostrando di essere incapaci di autoriformare il sistema delle corporations
e tutto l'assetto economico-sociale.
Ma
allora come avrebbero dovuto reagire gli Usa all'11 settembre?
Avremmo
dovuto alterare profondamente la nostra politica estera. In primo luogo avremmo
dovuto ritirare le nostre truppe soprattutto dalle basi in Arabia saudita. Non
sono necessarie per la difesa dell'Arabia Saudita (abbiamo altre basi nella
regione, per esempio in Kuwait), creano un risentimento profondo nella
popolazione e di fatto sono state la causa dell'attacco dell'11 settembre. Ci
sono altri modi di difendere l'Arabia saudita, non è necessario occuparla con
truppe per di più «infedeli». In secondo luogo avremmo dovuto rivolgere
un'enorme attenzione al conflitto israelo-palestinese. Non c'è nessuna scusa
per gli Stati unti di aver abbandonato i palestinesi in balia di un fascista
militarista quale è Ariel Sharon. Noi come Stati uniti abbiamo il dovere di
difendere la fondamentale sicurezza dello stato d'Israele, ma non abbiamo ragione
di difendere l'imperialismo sionista nei territori palestinesi. E invece noi
siamo tutti sbilanciati a sostenere l'azione armata di Sharon contro i civili.
E infine dovremmo ridurre i nostri consumi di petrolio per meno dipendere dalle
risorse del Medio oriente. Noi non abbiamo fatto niente di tutto ciò. Anzi
abbiamo fatto tutto il contrario. Quanto a riformare il sistema, non se ne
parla. Abbiamo un governo che di fatto non ha legittimità, non ha ricevuto un
mandato dall'elettorato visto che l'elezione del 2000 è stata decisa dalla
Corte suprema, non dal voto popolare, ma si comporta come un governo radicale,
estremista, come se avessero un mandato. Questo mostra che la vera legittimità
della politica in America oggi è il denaro non il voto. Il solo modo per
spiegare l'amministrazione Bush oggi è il mondo di Houston, della Enron.
La
tesi del «declino americano» riemerge periodicamente e viene poi regolarmente
smentita. Nei primi anni `90 Paul Kennedy e Giovanni Arrighi predissero che a
causa delle eccessive spese militari gli Usa sarebbero declinati, come era
capitato a spagnoli, olandesi e inglesi, e che sarebbe emersa la potenza
giapponese. Andavano un po' troppo veloci. Nel `97, con la cosiddetta «crisi
asiatica» gli Usa hanno inferto al Giappone una tale sberla economica che non
si è più ripreso.
No,
dietro tutta la sua forza, l'invincibilità militare, l'impero americano è
debole, ha basi fragilissime. Se 15 anni fa ci avessero detto che dopo 3 anni
l'Urss non sarebbe più esistita, non ci avrebbe creduto nessuno. E poi il
Giappone ha commesso errori gravissimi. Quando a metà degli anni 1980 è
diventata la nazione più creditrice del mondo, e gli Stati uniti la nazione più
debitrice del mondo, il Giappone avrebbe dovuto cambiare politica economica per
dipendere molto di più dalla propria domanda interna e molto meno dal mercato
americano. Invece il Giappone ha stretto ancor più i suoi legami con gli Usa,
ha finanziato il deficit americano, si è orientato sul mercato dei capitali
americano. E questo è costato un'enormità al Giappone. Il Giappone deve stare
molto attento. L'Argentina dimostra che anche i paesi ricchi possono
ridiventare poveri. E il Giappone rischia di diventare l'Argentina asiatica,
anche se ha dalla sua che produce parecchie ancora buone merci. Ma che il
Giappone abbia sbagliato, non significa che gli Stati uniti rimangano
invulnerabili. E oggi gli americani continuano a sentirsi invulnerabili...
...
forse dal punto economico. Ma da altri punti di vista, secondo tutte le persone
con cui parlo sostengono che l'11 settembre ha significato proprio questo: la
fine dell'invulnerabilità.
Certo,
in Blowback sostenevo che sempre più spesso gli Stati uniti sarebbero
stati il bersaglio di quelli che io chiamo «attacchi asimmetrici»: poiché nessuna
forza armata può resistere e tantomeno competere con la potenza militare Usa,
proprio per questo, la strategia più logica è quella di attaccare i punti
vulnera bili, i civili, i bersagli simbolici. La stampa si è comportata in modo
abominevole: l'11 settembre non è stato un attacco contro gli Stati uniti, è
stato un attacco ai simboli della politica estera americana: il World Trade
Center, che già era stato attaccato, e il Pentagono, che era un simbolo del
militarismo americano. E nient'altro. E così questi attacchi sono usati per
rafforzare l'impero americano, invece che per rendere meno vulnerabili gli
Stati uniti, rimuovendo le cause politiche di questi attacchi. È sintomatico il
rifiuto dell'amministrazione di discutere i moventi di chi ha compiuto gli
attacchi. Invece il presidente li ha semplicemente qualificati come «il male».
È
difficile però trovare un disegno a lungo termine nelle azioni
dell'amministrazione Bush. Non si vede la logica sottostante.
Non
è possibile ridurre la nostra politica a un singolo fattore, denaro, petrolio.
È successo qualcosa alla psiche americana. Gli americani si pensano ora come se
fossero romani, capace di fare qualunque cosa vogliono, senza limitazioni da
parte di nessuno. Il fattore chiave qui è il militarismo. I leaders americani
da George Washington a Ike Eisenhower, hanno messo in guardia gli Usa contro il
pericolo di un grande esercito, di una grande industria militare, di un
complesso militar-industriale-universitario. Negli anni `90 gli americani sono
diventati disinteressati alla politica estera, autocentrati, senza coscienza
internazionale. Così oggi le due maggiori istituzioni del governo americano si
trovano sulla riva meridionale del Potomac (il fiume sulle cui rive sorge
Washington: ma Casa bianca, Senato e Camera si trovano sulla sponda nord, ndr),
e sono il Pentagono e la Cia. Il Congresso assomiglia sempre più al senato
romano al tempo di Ottaviano quando brigava per diventare Augusto.
MARCO D'ERAMO
Il Manifesto 4/9/02