SE IL MERCATO È IL "MIO PASTORE"

editoriale di "Presbyteri"

 

Le festività natalizie e la grazia di un nuovo anno non ci hanno fatto dimenticare scene e polemiche dello scorso autunno. Per salvare l'Italia, per dare speranza ai giovani, bisogna cambiare radicalmente il sistema pensionistico - si dice - rendere ancora più flessibile il lavoro dipendente, contrarre le spese sanitarie e quelle scolastiche. La nuova legge finanziaria si muove infatti su questi binari, ed a molti essa sembra così plausibile da non dedicarle neppure un attimo di riflessione. "Sono prete, non economista. Che ne capisco? Bisogna pur fidarsi di qualcuno, ed io mi fido" - confessava candidamente un amico parroco.

Di questo passo però, anche le notizie che piovono sui giornali sono solo… notizie. "Disoccupato spara a moglie e figli, poi si uccide" - "Crolla il tetto di una scuola. Bambini salvi per miracolo" - "La malasanità uccide a Palermo"…

È vero, di avvenimenti simili sono stati sempre pieni i giornali, la novità di oggi è che non dobbiamo andare a cercarli lontano questi disastri. Nel nostro quartiere, alla porta accanto, l'incertezza e la rassegnazione creano abiezione e mostri. Ed è anche 'nuovo' che non reagiamo più. Quasi nulla desta indignazione o rabbia. Siamo saturi. Paradossalmente un martellamento quotidiano del disagio che avanza ci spinge a tranquillizzarci con un pilatesco "Che posso farci?"

 

La monografia vorrebbe aiutare i ministri ordinati a rendersi conto di una pagina di storia che tutti - lo vogliamo o no - stiamo scrivendo. L'Occidente sta abbandonando, con moto accelerato, un suo modello di sviluppo, una determinata concezione dello stato, una filosofia dell'uomo e della persona. E sta creando qualcosa di totalmente diverso. Le brutte notizie allora non sono episodiche e casuali, ma piccole manifestazioni di un grande fenomeno, pagine di dolore come segni percepibili di un paradigma che si prospetta mostruoso.

Avvertiamo i lettori di un limite della monografia. Stiamo parlando di qualcosa che appartiene all'Occidente democratico e liberale, alle socialdemocrazie ed a quegli stati che vi si sono ispirati. Tra essi l'Italia. Ad Est è nato qualcosa di diverso di uno "Stato sociale". Nel Terzo Mondo poi c'è stata colonizzazione, rapina, parvenza di Stati e di democrazie.

Pur parlando di noi, non possiamo dimenticare che c'è sempre un'interconnessione tra il nostro benessere ed il malessere del Sud del mondo. A rigore, non possiamo risolvere i problemi dei nostri svantaggiati se non prendendoci carico di tutti gli svantaggiati, dovunque si trovino. La categoria "Sud del mondo" è appunto una categoria socio-politica che prescinde da meridiani e paralleli. La logica che produce poveri nel Terzo Mondo è identica a quella che produce miserabili nella nazioni opulente, che lascia senza assistenza i vecchi e senza scuola decente i nostri ragazzi. Non si salva nessun italiano dalla fame, dalla miseria e dalla malattia se si pensa che si possa sopportare l'esistenza anche di un solo africano affamato, malato e miserabile. La tragedia degli annegati a Lampedusa non è né "fatale" "biblica" - come ha scritto certa stampa. È solo mostruosa, come il mondo che i 'grandi' seguitano a costruire.

 

Per evitare le approssimazioni ed affrontare seriamente il nostro problema, dobbiamo porci alcune domande previe. Cosa è uno "Stato sociale"? Cosa è il "Welfare state" che oggi è in crisi?

Partendo un po' da lontano, ricordiamo che nel 1942 venne varato in Inghilterra un piano di assistenza pubblica che successivamente sarebbe stato portato avanti dai governi laburisti. Questo piano si chiamava "Welfare state" o "Stato del benessere". Si trattava di un sistema in cui lo Stato promuoveva il benessere dei cittadini con provvidenze istituzionali: assistenza medica, pensioni sociali, gratuità dell'istruzione, ecc. Questo modello si diffonderà poi in tutta Europa.

Come è facile intuire un simile piano non poteva sorgere dal nulla. In effetti lo precedono decenni di riflessioni e di esperienze a partire almeno dalla prima metà del secolo XIX. La reazione operaia al liberismo imprenditoriale (che trattava la forza-lavoro alla stregua di una qualsiasi merce) creò vasti movimenti sociali di cui lo Stato non poteva non prendere atto. Se si pensa poi che il suffragio universale permetteva a tutti di avere un peso nella politica, si comprende come la "società" - individui, gruppi, associazioni, corporazioni - condizioni sempre più lo Stato. E questo sia dal basso che dall'alto. Il ceto popolare acquistava un suo peso, ma anche le grosse concentrazioni produttive o finanziarie. Detto in poche parole: già nell'Ottocento, variabili economiche e sociali si politicizzano e trasformano il classico "Stato di diritto" - di hegeliana memoria - in "Stato sociale".

Sarebbe superficiale non accorgersi che accanto ad una società che influenza lo Stato si profila anche uno Stato che condiziona pesantemente la società. I conflitti tra classi diverse (servi/padroni, imprenditori/operai…) e le minacce esterne di governi stranieri, costringono lo Stato ad intervenire sulla società limitando i diritti, imponendo regole e balzelli, al fine di mantenere la pace della nazione sia sul fronte dell'ordine pubblico che nelle relazioni internazionali.

Come si può vedere, il concetto di "Stato sociale" sembra più vasto di "Welfare state". La fornitura da parte dello stato di servizi che prima erano di pertinenza della società (in questo senso c'è una 'statalizzazione dei servizi') è solo una delle funzioni dello Stato sociale. L'ascolto della base, soprattutto dei più svantaggiati, il dare voce agli ultimi, la modifica lenta del costume sociale tramite l'istruzione o la ridistribuzione della ricchezza, tutto ciò rende concreto un vecchio ideale umanistico: lo Stato c'è per l'uomo, per la società; l'uomo si esprime in quella solidarietà e interconnessione pacifica con tutti che è lo Stato. Ebbene, questo "Stato sociale", soprattutto nella sua accezione di "Welfare" viene oggi decisamente smantellato. Come mai?

 

Lasciamo al primo contributo della monografia l'onere di una risposta esauriente. Qui ci limitiamo a dire che abbiamo molta difficoltà a ritenere solo congiunturale la crisi dello Stato sociale. Ci viene anche difficile considerare 'cause' del tracollo determinate circostanze sfavorevoli al proseguimento sul sentiero di prima. Non si nega affatto la crisi economica, già a partire dagli anni '70, rivelatasi non governabile. Essa comunque, mentre ha permesso concentrazioni inimmaginabili di ricchezza (mai tanta!) in mano a pochi, ha fatto notevolmente diminuire le risorse disponibili per il Welfare. Non si sottovaluta il costo della burocratica statalizzazione dell'assistenza, e neppure l'aumento delle esigenze (in dignità, comodità ed aspettative in genere) di una popolazione ormai educata al consumo senza limiti. Non si dimentica la possibile povertà interiore di un popolo "trasformato da combattente in accattone" - come diceva Turati - che tutto aspetta dallo Stato e non ha nessuno scrupolo per frodarlo. Ciò che vogliamo sottolineare è la preponderanza del fattore politico. Chiariamo.

È noto che il capitalismo nasce 'selvaggio', all'insegna cioè del mercato regolatore di tutto e di una libertà scevra di ogni responsabilità verso la persona umana in quanto tale. Tutto doveva essere in vendita, tutto poteva e doveva essere sfruttato da chi ne aveva i mezzi. A questo sistema economico-politico si oppone il movimento operaio in tutte le sue varie forme, e la stessa Chiesa, almeno a partire da Leone XIII. Le lotte popolari, le rivoluzioni, l'internazionalismo socialista con le sue propaggini anche nel Terzo Mondo, materiano la storia di tutto il secolo scorso, fino a quando il crollo dell'Urss e dello stalinismo non mise in dubbio perfino la possibilità di un mondo più equo. Si potrebbe anche dire che già all'inizio degli anni '80 si disegnava un mondo dove il liberismo potesse ritornare ad essere 'selvaggio', con un ceto operaio destinato a perdere i diritti acquisiti ed a contentarsi di una precarietà endemica se ancora voleva avere un lavoro.

Detto in poche parole: si volta pagina. I grandi potentati industriali e finanziari non hanno più bisogno che lo Stato plachi le contraddizioni sociali, tenga desta la 'domanda' tramite commesse pubbliche, assicuri benessere che esige consumi. Hanno bisogno di uno Stato che si faccia carico dei costi accessori di produzione (inquinamento, cassa integrazione…), ma soprattutto che allenti la pressione fiscale sui ricchi, la aumenti sui poveri (proprio come in autunno ha anche fatto la Germania), tolga ogni impedimento alla libertà di impresa in qualsiasi parte del mondo, alla discrezionalità nei licenziamenti, alla circolazione dei capitali e delle merci, si affidi alla autoregolazione delle leggi di mercato come unico garante per la soddisfazione di tutti i bisogni umani. La "New economy", il neo-liberismo, il "pensiero unico" non hanno bisogno dello Stato sociale e tanto meno di Welfare.

Che ne sarà di scuola, di pensioni, di dignità dei vecchi, di recupero del degrado ambientale e umano, dei trasporti di massa, di tutela dei bambini e delle donne? Che ne sarà dell'uomo e della sua dignità? Quali costi in salute mentale saranno pagati da un uomo che per tutta la vita sarà precario ed assisterà inerte alla frantumazione della sua identità, prima, durante e dopo l'eventuale lavoro? Che succederà in quelle famiglie che, pur con due stipendi, non potranno più fare fronte a fitti, salute ed educazione dei figli? Che ne sarà dello stesso concetto di 'bene comune'? Che ne faranno dei 'beni comuni' come acqua, aria, salute del pianeta, pace?

 

Noi non abbiamo qui la possibilità di evidenziare i crolli e le crepe che la "New economy" e lo stesso "pensiero unico" provocano e subiscono. Ci limitiamo a ribadire che siamo all'inizio di una nuova concezione di Stato: né di diritto, né liberale, né sociale. Assistiamo al passaggio dal mito di uno Stato "risolutore dei problemi", al mito di una finanza che domina anche lo Stato. Siamo soprattutto all'emergere di una nuova concezione dell'uomo; sta nascendo una nuova antropologia. Meglio: si sta evidenziando, in tutta la sua chiarezza, una antica, paurosa concezione dell'uomo. Questi è nulla più di una unità di consumo-produzione, agli antipodi di quel personalismo che il Vangelo suggerisce ad ogni sua pagina. Dobbiamo smetterla di parlare della 'dignità e libertà dei figli di Dio'. Dobbiamo piegarci alla cruda verità: l'uomo è niente e nessuno, proprio perché tutto è il mercato globalizzato. Tutto è il profitto delle speculazioni finanziarie.

Quando un prete proponeva di aggiustare il salmo 22 cantando, "ormai", "Il mercato è il mio pastore", era amaro ma veritiero. Se una azienda ha un calo di vendite non può avere problemi nel licenziare. La lealtà verso i dipendenti sarebbe economicamente scorretta. Se una innovazione porta dollari nelle casse di una multinazionale, ma scaraventa nel buio milioni di 'esuberi' umani, è economicamente scorretto avere scrupoli. E se con il potere politico, comprato da grosse concentrazioni industriali, si è riusciti a mettere gli uomini giusti nei punti nodali di uno Stato; se dunque si ha la possibilità di rubare alla grande, ma legalmente, è da stupidi vergognarsene. La giustizia, lo si sa da tempo, è inutile pastoia, economicamente dannosa. E si badi bene che non stiamo pensando a mafie ed organizzazioni malavitose. La internazionalizzazione del crimine contraddistingue i nostri tempi, è vero, ma ad operare da nuovi 'superuomini' sono rispettabilissimi borghesi, magari di messa domenicale, coi figli dalle suore.

Come a partire dal secolo XV fu possibile conquistare il mondo riconoscendo come uomo vero solo il bianco-armato-cristiano, e relegando gli altri fra i non-umani-inesistenti, così oggi ad assurgere alla dignità umana è una strana razza in via di espansione ma drasticamente decisa a non permettere eccessivi allargamenti. I nuovi 'veri uomini', i nuovi padroni del mondo, sono individui dall'io ipertrofico, straordinariamente forniti di sapere, conoscenze ed informazioni, che, pur non possedendo capitali propri, dispongono di enormi inesauribili flussi di denaro altrui, e manovrano questi soldi secondo l'unica etica della 'massimizzazione dei profitti'. Costoro non stanno in bunker segreti. Tra loro c'è l'ingegnere intravisto al cinema, ci sono i geni informatici, gli specialisti dei 'contatti', i penalisti di illustri mafiosi e politici, i mediatori del traffico di armi e droga, i direttori di banche compiacenti coi loro consulenti sparsi in qualsiasi angolo del mondo. Ci sono perfino alcuni filosofi e teologi che spiegano al volgo il volto nuovo dei nuovi dei e dei nuovi uomini. Chi vuole vederli questi nuovi 'signori' basta che sbirci nelle sale dei VIP in un aeroporto. È tipico per essi sentirsi cittadini della città globale, in volo perpetuo. Si proclamano esseri del futuro che guardano con commiserazione chi è ancora legato a limiti e regole nazionali, a laccioli etici. Paradossalmente i politici non sono i datori di lavoro di questi uomini nuovi, ma gli strumenti del loro potere. Da quando l'economia è prioritaria sulla politica, le parti si sono invertite e chi prima dettava leggi ad una banca centrale, oggi le riceve.

Inutile chiedersi cosa ne è del resto dell'umanità. Le possibilità di scelta sono poche. Chi non è VIP, e non è neppure candidato ad entrare nel 'club esclusivo', può scegliere il suo posto tra consumatori, forza-lavoro, esuberi. La laurea non c'entra più. L'avvocato, il medico sono forza-lavoro come l'operaio della Nokia che qualche anno fa licenziò in tronco 17 mila operai, o come quel rumeno che è ben lieto di ricevere 100 euro al mese da una grossa industria, senza andare troppo per il sottile in materia di tutela e sicurezza. L'africano è esubero, come lo è quell'anziano in Italia che non ha più accesso ai farmaci. Come il quarantenne che mai è entrato nel mondo del lavoro. È uomo in esubero il ragazzo di periferia degradata, eccetto per la sua funzione di datore di lavoro a giudici, avvocati e secondini.

Per quanto abbiamo detto, ci sembra sensato sospettare che tutte le riforme dello Stato sociale, anche quelle plausibili e desiderabili, siano in realtà solo passi graduali verso il suo smantellamento. La legge sui contratti di lavoro della scorsa primavera, propone, ad esempio, una precarietà che non è affatto 'strumento di sviluppo economico', ma solo precarizzazione permanente e restituzione del lavoratore al vecchio sistema del 'caporalato'.

 

Chi dei nostri lettori è riuscito a seguirci fino a questo punto, probabilmente si sarà accorto che abbiamo parlato solo dell'uomo e di Dio, anche se sotto le mentite spoglie dell'economia e della politica. Nella nostra mente è fissa una domanda: ora che il nostro 'pastore' è il mercato, che ne pensa il Padre di questo supplemento di inferno che gli uomini stanno preparando per i loro fratelli? Che ne pensa Gesù di Nazareth, ucciso per avere voluto servire gli uomini, per essersi rifiutato di servirsene, e risuscitato come primizia di ogni vita che nasce dalla morte?

Certo, il mondo non è stato mai un paradiso, e quanti hanno avuto in cuore lo Spirito di Dio, si sono sempre chiesti come reagire di fronte alla sofferenza, come guardarla con gli occhi del Creatore. Si può dire in genere che le risposte classiche di ogni uomo di buona volontà sono state due: "la vita è quella che è, non sarò io a cambiare le cose" - "non posso impedire che la gente sia ferita, ma posso certo curare quelle ferite". Che se poi questo uomo di buona volontà è un cristiano, avrà formulato così il suo pensiero: il dolore degli innocenti è necessario per espiare il male del mondo come un giorno avvenne nella carne dell'Innocente in croce; la carità tuttavia mi impone di soccorrere ogni vittima della 'nequizia dei tempi'. Francamente restiamo perplessi. È indubbio che nel futuro avremo sempre più poveri, e che le comunità cristiane dovranno sempre meglio attrezzarsi per venire loro incontro. Dovranno essere più solidali, più intelligenti nel raccogliere fondi, alimenti eccedenti o in via di scadenza, vestiti smessi, medicine inutilizzate. Dovranno essere più attente alla "legge del buon Samaritano", avere "più fantasia della carità" - come dice il papa. I professionisti cristiani (dagli avvocati ai medici, agli assistenti sociali…) dovranno costituire una personale 'banca del tempo' per servire gratuitamente i più poveri. Tutto questo è fuori discussione. Noi abbiamo sempre benedetto questo tipo di solidarietà. Tuttavia abbiamo anche sempre affermato che essa non ci basta. Non basta neppure al papa che nella "Sollecitudo rei socialis" scrive: "La solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine o lontane. Al contrario, è le determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti" .

 

A questo punto entra in campo ogni comunità cristiana. È pronta la Chiesa, nel suo insieme, "a impegnarsi per il bene di tutti e di ciascuno"? Ne ha gli strumenti?

Ancora una volta è inutile ingannarci. Mentre la nuova cultura egemone presenta come ineluttabile lo smantellamento dello Stato sociale, cioè l'ineluttabile necessità che la 'forza' sia l'unico fondamento del diritto alla vita, noi corriamo il rischio, perfino con reminiscenze teologiche, di dare man forte a questa cultura. Riteniamo invece che l'apporto originale del cristiano nell'attuale congiuntura, sia quello di scardinare quelle 'certezze', quei 'dogmi economici', ed aprire spiragli per una speranza attiva.

Compito non facile né ovvio, perché se è vero che, per assicurazione del Verbo di Dio fatto carne, il regno di Dio è "vicino", ed il Padre è implicato in questa opera di trasformazione della ferinità umana in "Corpo di Cristo", la speranza intrinseca a questo annuncio fu presto trasformata in rassegnazione, e la gioia della liberazione in supporto ai poteri di questo mondo. Lo stravolgimento è antico, parte da Costantino, ma gli esiti arrivano fino a noi, toccano chi oggi chiede benedizioni a Dio per i suoi "magnifici soldati".

L'astuzia del potere, quando trovò conveniente trasformare in servitori dell'Impero quei cristiani che non aveva potuto sterminare, inventò anche il modo di integrare la croce nel suo sistema e compiere così quella blasfema operazione che trasforma lo stesso Crocifisso in garante dello spirito di dominio tipico di Roma. Si disse: se Dio si è sacrificato la sofferenza è sacra, è culto a Dio. Anzi la 'verità della vita' è il dolore e non la gioia, l'umiliazione, non la dignità umana. "Tota vita Christi crux fuit et martyrium". E se Cristo crocifisso è cardine del mondo, tutti i crocifissi della storia lo sono, perché vittime innocenti che sostengono, con la loro espiazione, i peccati dell'uomo. Di questo devono essere "beati" i poveri, gli affamati, gli esclusi, i traditi. Sono essi il vero sale, il vero lievito, la vera luce del mondo. Sono essi Cristo e Cristo crocifisso, salvatore dei secoli.

Strano questo potere che dimostra tanto interesse per la croce. Solo che qui siamo agli antipodi del cristianesimo. Gesù parla dell'evento della croce come una liberazione per tutti (cfr. Mc 10,35 ss.) e di una esplicita condanna della logica del potere che aveva contaminato anche gli apostoli. Fare della croce, quindi di ogni sofferenza umana, una sorta di metafisica religiosa secondo la quale il sangue dell'Innocente Uomo-Dio espia l'offesa infinita inferta al Creatore col peccato di un uomo, significa annullare il centro del messaggio cristiano. Dio è Amore, non un superimperatore che restaura l'ordine infranto attraverso la spietatezza della punizione. E ancora: il dolore umano è un mistero correlato col mistero di Dio. La sofferenza è spessissimo la logica conseguenza dell'incontro del Giusto (e di ogni giusto) con un mondo che stritola ogni bellezza ed ogni verità. Gesù abbraccia la croce non per intrinseca necessità (Dio allora sarebbe Dolore, non Amore) ma come ovvio scotto per avere amato l'uomo, per averlo voluto 'vivo', per aver creduto nella sua bellezza e dignità. Gesù è morto "fuori le mura" perché, contro ogni logica del potere - questo era Gerusalemme -, è entrato nel mondo degli ultimi ed ha dato loro occhi per vedere e voce per urlare.

C'è soprattutto da aggiungere che la sofferenza è tanto poco ineluttabile e necessaria che il Cristo-morto è solo un episodio del passato. Chi oggi e per sempre esiste è il Risorto. La vicenda di Gesù di Nazareth non avalla dunque la ferocia del potere o l'ordine dei potenti, ma li contesta. Essa è una profezia. Il Risorto, col suo stesso esserci, dice a chiare lettere che il potere non è per nulla vincente, che gli umili non sono nati per essere strame della grandezza di un Impero, che il dolore può scomparire, che possiamo vivere consolandoci e fidandoci gli uni degli altri. In definitiva dice che i morti possono risorgere, l'uomo può ritornare 'fine', i 'poveri' possono essere 'beati', e questo mondo può diventare regno di Dio. Sta qui il nostro diritto alla speranza.

Per questo, di fronte allo smantellamento dello Stato sociale, di fronte al mercato 'pastore universale', la domanda tipica del nostro tempo è carica di incertezze. Possiamo ancora trasmettere alle nuove generazioni, e insieme a noi stessi, il coraggio per mete 'umane', la fede nella dignità di ogni uomo, il desiderio efficace di un mondo pacificato? Se sì, non abbiamo che una strada. Quando ci mancheranno i sette bambini buttati in mare a Lampedusa lo scorso ottobre, quando vivremo come nostra la tragedia di un 'disoccupato flessibile', quando sentiremo nostra l'umiliazione dei disperati che approdano alle nostre coste, e nel nostro stomaco la fame di uno zingaro, forse avremo fatto un passo avanti per scoprire Dio vivo nella nostra vita e sapere finalmente che il Vangelo può essere luce per il nostro cammino.