Germano Monti

PENA DI MORTE
ALL'ITALIANA

 

Il caso di Prospero Gallinari
e Salvatore Ricciardi

 

RGF Editore

 

ISBN 88-86821-05-0
Distribuzione: Diest
V. G. Cavalcanti, 11 - 10132 Torino
Tel. 011/8981164

 


  Nota di aggiornamento (Aprile '98)

Il presente opuscolo è del febbraio 1994.
Da allora, sia Prospero Gallinari che Salvatore Ricciardi, si sono visti riconoscere la necessità della "sospensione della pena per motivi di salute": nel '94 il primo, nel '96 il secondo.
È di questi giorni, però, il rientro in carcere di Salvatore Ricciardi, e questo nonostante le sue condizioni di salute non siano sostanzialmente migliorate.

 


 

Ho conosciuto di persona Prospero Gallinari e Salvatore Ricciardi nel novembre del 1991, quando erano tutti e due reclusi nel centro clinico annesso al vecchio carcere romano di Regina Coeli. Pioveva, ed avevamo appuntamento con due parlamentari di Rifondazione Comunista, Giovanni Russo Spena ed Ersilia Salvato; ci trovammo - io e Massimo, collaboratore di Radio Onda Rossa - con loro a via del Corso, da dove raggiungemmo in taxi Regina Coeli.
Sapevamo già qualcosa a proposito dei "centri clinici", ma nessuno di noi aveva avuto occasione di visitarli, per cui le sole informazioni provenivano proprio dalle lettere di Prospero e Salvatore.
Sempre sotto la pioggia, bussammo al portone di Regina Coeli, che ci venne aperto da un secondino. L'ispezione parlamentare era stata preannunciata con un telegramma già da alcuni giorni, ma questo non impedì che le formalità all'ingresso del carcere si protraessero per un po', fino all'arrivo di una Direttrice che si offrì di accompagnarci nella visita. Ci fecero vedere gli ambulatori e le celle dove i detenuti trascorrevano stancamente le loro giornate, e ci sentivamo profondamente a disagio, non solo perché assolutamente fuori posto nel ruolo di "ispettori", ma anche perché sembravamo in visita ad uno zoo, con gli animali che guardano dalle gabbie più con rassegnazione che con curiosità. E' impossibile descrivere un luogo del genere, che riassume in se gli aspetti peggiori di un carcere fatiscente e di un lazzaretto: riesco solo a dire che quei muri trasudavano angoscia, che quei lunghi corridoi imbiancati

ed illuminati dalla gelida luce del neon mi facevano venire in mente sofferenze indicibili e che mi chiedevo chi fosse il Mengele che li avesse progettati.
La Direttrice e l'anziano maresciallo che ci accompagnavano magnificavano agli "Onorevoli" l'efficienza della struttura, snocciolando numeri e dati, non senza evidenziare i loro problemi: la carenza di personale, gli straordinari obbligatori con i conseguenti turni massacranti, le difficoltà nella conduzione di un carcere perennemente sovraffollato, e così via.

Finalmente, arrivammo all'ultima cella dell'ultimo piano del centro clinico; "Qui ci sono due terroristi, Gallinari e Ricciardi. Avremmo finito." ci disse, con noncuranza, la Direttrice. "Veramente, vorremmo verificare di persona le loro condizioni. Faccia aprire la cella, per cortesia", rispose Russo Spena.

A me veniva quasi da ridere, leggendo lo smarrimento e la confusione sui volti della Direttrice e del maresciallo, che si scambiavano sguardi interrogativi, senza sapere come rispondere alla nostra richiesta. Per alcuni istanti, prese vita una scena un po' surreale: in mezzo a quel corridoio irrealmente silenzioso, i nostri due anfitrioni non sapevano che pesci pigliare, mentre Russo Spena sorrideva vacuamente, Ersilia Salvato si guardava intorno ed i due assistenti, Massimo ed io, sorridevano anch'essi, senza dire una parola ma con scritto in faccia: "finché non ci fate parlare con loro, da qui non ci muoviamo". Personalmente, ero anche pronto a recitare a memoria l'intero articolo 67 dell'Ordinamento Penitenziario, quello sui poteri ispettivi dei parlamentari e di chi li accompagna "per ragioni del loro ufficio".

Non ci fu bisogno di sfoggiare alcuna erudizione: si decisero a far aprire la doppia porta blindata e ci trovammo di fronte Prospero e Salvatore. Nel giro di pochi istanti, un'altra scena surreale, completamente diversa dalla prima, si svolgeva nella cella "speciale" del centro clinico di Regina Coeli, malamente illuminata da una lampadina da poche candele: una mezza dozzina di persone, sedute alla rinfusa su sgabelli o su una branda, in una stanza piena di libri, giornali e riviste, conversava animatamente di musica afroamericana, di politica, della situazione dei detenuti malati, degli immigrati e di altro ancora.

Mi dimenticai completamente di essere in una cella di Regina Coeli, assieme a due pluriergastolani ed a due parlamentari della Repubblica: avremmo potuto benissimo essere in casa di amici, a parlare liberamente di tutto e di nulla.

Non era così, e si premunì di ricordarcelo, con voce agrodolce, la Direttrice, invitandoci ad interrompere quel "salotto". Avremmo potuto insistere, ma sapevamo benissimo che, mentre noi da lì saremmo usciti, Prospero e Salvatore sarebbero rimasti, ed è sin troppo facile rendere la vita più dura ad un detenuto. Ci salutammo, con l'impegno a rivederci al più presto, e riprendemmo la "visita ispettiva", con nelle orecchie il ronzio della voce della Direttrice, che ripeteva "Mi dispiace, Onorevole, ma dovrò riferire a chi di dovere, non si può parlare così con i detenuti, dovrò fare rapporto al Direttore Generale, questa cosa non è regolare, mi dispiace, Onorevole, ma sono costretta, questo è un carcere". Nessuno di noi aveva il minimo dubbio in proposito: difatti, non appena usciti e tornati ad infradiciarci sotto la pioggia battente, mi accorsi di respirare meglio, come succede solo a chi si lascia alle spalle una galera.

***

 
Facciamo qualche passo indietro, all'inizio dell'estate. La gravità delle condizioni di salute di Salvatore Ricciardi, affetto da una stenosi valvolare aortica, disfunzione cardiaca fra le più pericolose, è nota già da tempo, sia pure solo all'interno di aree piuttosto ristrette: del suo caso si sono occupati un giornalista di "Avvenimenti", Silverio Novelli, e Nichi Vendola, all'epoca membro del Comitato Centrale del P.C.I. e redattore di "Rinascita", molto impegnato sul terreno del confronto politico con gli ex "terroristi" e della ricerca di una soluzione per la detenzione politica. A parte queste episodiche eccezioni, il mondo dell'informazione tace, nonostante l'infaticabile attività della compagna di Salvatore, Gabriella; la vicenda di Salvatore Ricciardi viene seguita con regolarità e costanza solo da Radio Onda Rossa e Radio Proletaria (che sta per cambiare testata e divenire Radio Città Aperta), le due emittenti storiche della sinistra antagonista romana. Per quanto riguarda Gallinari, poi, della sua situazione si sa ancora meno, sia perché lui stesso non avverte la gravità della malattia da cui è afflitto, sia perché non intende separare la propria sorte da quella dei suoi compagni, dei militanti delle Brigate Rosse detenuti assieme ai quali ha avviato una profonda riflessione politica sul passato e sul presente del conflitto sociale.

All'inizio dell'estate del '90, allora, nell'ambito della sinistra antagonista il "caso" di Salvatore è più conosciuto, mentre di Prospero non si sa quasi nulla, anche perché è detenuto nel supercarcere di Novara, dal quale filtrano pochissime notizie.

La redazione di Radio Onda Rossa, assieme ad altri compagni, decide di tentare di rompere, in qualche modo, l'isolamento in cui è venuto a trovarsi Salvatore, lo stesso Prospero ed un altro detenuto, Guido Borio, vittima di una situazione kafkiana: scagionato dagli stessi "pentiti" che avevano commesso l'azione di cui anche lui era accusato, rimaneva in carcere perché la Cassazione non riformava la sentenza. Vengono stampate e diffuse alcune migliaia di cartoline, recanti gli indirizzi delle carceri in cui sono rinchiusi Salvatore, Prospero e Guido: nei mesi di agosto e settembre, Salvatore, in particolare, sarà letteralmente sommerso da queste cartoline, inviate da ogni parte d'Italia.

Commosso da questa testimonianza di solidarietà, Salvatore risponderà con una lettera a Radio Onda Rossa, ringraziando i compagni e definendo "una rinfrescante pioggia estiva" le cartoline inviategli.

A questo punto, a partire dal "caso-Ricciardi", comincia ad incrinarsi il muro di silenzio esistente attorno alla questione della salute in carcere, e qualcuno comincia a rendersi conto della gravità del problema, reso ancora più drammatico dalla presenza di parecchi detenuti sieropositivi e malati di AIDS.

***

Il 1990 si conclude con una serie di iniziative in molte città di Italia - fra cui Roma, Milano (al centro sociale Leoncavallo), Brescia, Torino, Padova, Napoli - in cui vengono illustrate le situazioni di Ricciardi, Gallinari e Borio.

Contemporaneamente, avviene un episodio molto significativo. il Direttore del supercarcere di Novara, dove Gallinari è richiuso, prende l'iniziativa di chiedere per lui la sospensione della pena, in base all'art. 147 del Codice Penale, secondo comma, che stabilisce la possibilità, in presenza di gravi condizioni di salute, di differire l'esecuzione della condanna. L'episodio è veramente molto significativo, se solo si considera che è noto in tutta Italia il clima che vige nel supercarcere di Novara, ripetutamente teatro di violenze nei confronti dei detenuti, ricordate persino nell'annuale rapporto di Amnesty International; evidentemente, la Direzione del supercarcere non intende correre il rischio di trovarsi il problema in casa, per cui - iniziando quello scaricabarile che dura tuttora - lo consegna alla Magistratura di Sorveglianza, chiamata a pronunciarsi. Il "caso" viene trasmesso a Torino, assegnato al Dott. Fornace, personaggio sul quale torneremo; il Dott. Fornace incarica una commissione formata da medici militari di effettuare una perizia sulle reali condizioni di Prospero Gallinari. La perizia viene effettuata, ed il responso dei medici militari non lascia spazio a dubbi: Gallinari è "affetto da MIOCARDIOPATIA DILATATIVA Dl ORIGINE ISCHEMICA IN FASE AVANZATA, CON EPISODI DI DISPNEA PAROSSISTICA, ANGINA A RIPOSO E GRAVI MANIFESTAZIONI ARITMICHE.(...) Tali alterazioni sono a carattere irreversibile ed evolutivo.(...) Quanto sopra si traduce in: incapacità ad eseguire sforzi anche lievi per l'insorgenza di dispnea ed angina (il che esclude il carattere di pericolosità del detenuto) ; crisi anginose a riposo associate a dispnea (...) che lo espongono al rischio di recidive infartuali ; gravi aritmie ventricolari aumentanti il rischio già esistente di morte improvvisa. (...) data la natura e la gravità della malattia, E' IMPOSSIBlLE lL RECUPERO TOTALE DELLO STATO DI SALUTE, INDIPENDENTEMENTE DAL TRATTAMENTO CARCERARIO. NON SI ESCLUDE CHE QUESTO POSSA RIDURRE LE POSSIBILITÀ DEL RECUPERO PARZIALE.

Dott. Raffaele Tramontano, Dott. Baldassarre Doronzo, Dott. Nicola Massari.

Torino, 8 novembre 1990"

Ciononostante, il Dott. Fornace non concede la sospensione della pena a Gallinari, disponendo invece il suo internamento in un centro clinico carcerario, come era già avvenuto per Salvatore Ricciardi.

 

***

Apriamo una parentesi sul Dott. Fornace: dopo aver rifiutato la sospensione della pena a Gallinari ed averne ordinato il ricovero coatto in un "centro clinico", il Dott. Fornace arriva alla ribalta della cronaca in altre due occasioni.

La prima volta, il Dott. Fornace fa parlare di se per l'eccezione di incostituzionalità che solleva nei confronti della legge che dispone la scarcerazione dei malati di AIDS, provvedimento guadagnato anche grazie alla sensibilizzazione ottenuta in seguito all'attenzione al problema sollevatasi a partire dal caso di Salvatore Ricciardi.

La seconda volta, invece, il Dott. Fornace conquista le prime pagine a causa del permesso-premio concesso ad Angelo Izzo, uno dei fascisti massacratori del Circeo, che ne approfitta per allontanarsi dall'Italia. Izzo è in carcere da diciotto anni, per cui, da questo punto di vista, non c'è nulla di strano nel fatto che gli vengano concessi alcuni benefici: la stranezza è che, nel farlo, il Dott. Fornace non tiene in alcun conto alcuni elementi, quali i contatti di Izzo con esponenti della malavita internazionale {si è scritto molto a proposito delle sue telefonate in Croazia, dove sono strettissimi i legami fra "mala" ed estremismo neonazista, principalmente a proposito del traffico internazionale di armi e droga), per non parlare di un'evasione dello stesso Izzo dal carcere, avvenuta nel 1 986. Se consideriamo che, per fare degli esempi limitati, a Salvatore Ricciardi viene ancora fatto pesare un fallito tentativo di evasione avvenuto nel 1981 e che un altro detenuto politico, Pasquale Abatangelo {ex N.A.P.), in carcere da quasi vent'anni, senza essere accusato di alcun omicidio, si è visto rifiutare un permesso con la motivazione che sussistevano legami fra lui ed ambienti eversivi, rappresentati da sua moglie (!), e che un'analoga richiesta presentata da Teresa Scinica, in carcere dal 1982, è stata rigettata perché la prigioniera non si era staccata dalle "tematiche politiche" della sua giovinezza, allora ci rendiamo conto della anomala rappresentata dalla larghezza di manica del Dott. Fornace nei confronti di Angelo lzzo.

***

A partire dal 1991, dunque, Gallinari e Ricciardi si trovano a dividere la stessa cella "speciale" del centro clinico del carcere di Regina Coeli. Le loro condizioni di esistenza sono le seguenti, così come riportate in un dossier curato dalla compagna di Salvatore e dai suoi difensori, poi ampiamente ripreso e diffuso in tutto il Paese: i due prigionieri sono rinchiusi per 23 ore su 24 nella cella "speciale", dotata di una doppia porta blindata, con due distinte serrature, per aprire le quali è necessario l'intervento non di un qualsiasi agente di custodia, ma del maresciallo di turno, presenti almeno 4 guardie ; la cella è sprovvista di un campanello per le chiamate di urgenza; l'ora d'aria di cui possono usufruire si svolge in un piccolo cortile del carcere, umido e angusto, circondato dai muri degli altri "bracci" di Regina Coeli; a differenza degli altri detenuti, i "ricoverati" nel centro clinico non possono cucinare cibi propri e non possono tenere i fornelli da campeggio utilizzati abitualmente in carcere, essendo così costretti a mangiare il vitto di casanza, come viene definita, in gergo, l'istituzione.

Bisogna tener presente che quello che passa casanza non lo mangia nessuno, per l'ottima ragione che è immangiabile; non temo smentite a questo proposito, e del resto nessuno se la sentirebbe di smentire una verità che, fra i detenuti di Regina Coeli, è luogo comune e che ha provocato anche ripetute diffide e denunce da parte dell'USL competente...che lasciavano indifferente l'ineffabile Direttrice, la quale, in occasione di un'altra visita ispettiva, pensò bene di far assistere Russo Spena ed i suoi collaboratori al rito dell'assaggio del vitto. Conservo un ricordo indelebile di quel rito: eravamo nell'ufficio della Direttrice, in attesa che ci raggiungessero Prospero e Salvatore (nella loro cella non ci facevano più andare), quando si presentò un agente, con addosso un'uniforme di fatica bisunta e dal colore impossibile da definirsi, con in mano un vassoio, sul quale facevano bella mostra di se un piatto di pastasciutta (rigatoni, per la precisione) ed uno di un curioso animale che ci garantirono trattarsi di pollo, nonché un'arancia in avanzato stato di decomposizione. Sospirando, la Direttrice assaggiò uno di quei rigatoni ed un microscopico frammento di "pollo", non più grande di un'unghia, dicendo poi "Va bene".

Ora, posso dire che quei rigatoni puzzavano come una latrina di caserma e che il "pollo" non lo avrebbero mangiato nemmeno in Somalia: eppure, delicatessen di quel genere costituivano (e costituiscono) la dieta di detenuti malati gravi e gravissimi.

Conservo delle lettere inviatemi da Prospero e Salvatore dal centro clinico di Regina Coeli: nessuno dei due è tipo da piagnisteo, ma veniva da piangere a me, quando leggevo che Salvatore, per scrivere ed anche un po' per riscaldarsi, doveva ricorrere al lume di candela.

Aprimmo, allora, un altro fronte di lotta, il più assurdo che si possa concepire: cominciammo a batterci affinché Gallinari e Ricciardi tornassero in carcere.

***

Eravamo a questo punto: lo stesso Prospero, d'altra parte, era ormai deciso ad iniziare lo sciopero dei medicinali, nel caso lo avessero lasciato nel centro clinico e avessero rifiutato di riportarlo in un carcere, dove avrebbe almeno potuto stare insieme ad altri compagni e non essere sottoposto alle regole maniacali del centro clinico di Regina Coeli.

Il "caso", comunque, iniziava ormai ad essere di dominio pubblico, anche perché era in corso, nell'aula-bunker del Foro Italico, l'appello del processo "Moro-Ter", e faceva un certo effetto vedere arrivare da una parte i blindati che portavano in aula gli imputati detenuti a Rebibbia, e dall'altra le ambulanze su cui venivano trasportati Gallinari e Ricciardi.

All'inizio del 1992, un appello per la liberazione di Gallinari e Ricciardi viene lanciato dalla Commissione Fuori dal Carcere, un collettivo formato prevalentemente da universitari provenienti dall'esperienza della "Pantera", il movimento studentesco esploso nel 1990. L'appello raccoglie in pochi giorni moltissime adesioni, fra cui quelle di decine di parlamentari del PDS, di Rifondazione Comunista, dei Verdi e della Rete, giornalisti, intellettuali, artisti come Dario Fo e Fabrizio De André, giuristi e sindacalisti del calibro di Fausto Bertinotti, ora Segretario del PRC.

Ma nulla sembra muoversi, nonostante le ripetute assicurazioni di interessamento da parte della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. E' in questo clima di stagnazione che la Commissione Fuori dal Carcere decide di indire una manifestazione di fronte a Regina Coeli.

Il 29 febbraio 1992 su Roma calano i naziskin di tutta Italia, costringendo molti militanti della sinistra antagonista a presidiare le sedi, i centri sociali, i circoli alterativi; eppure, il sit-in di fronte a Regina Coeli, contemporaneo all'adunata dei neonazisti, vede la partecipazione di centinaia di compagni, molti dei quali prendono la parola al microfono. Parlano le redazioni di Radio Onda Rossa e Radio Città Aperta, parla Raul Mordenti, ex leader del '68 ed ora dirigente di Rifondazione Comunista, parla Daniele Pifano, ed oltre le sbarre sono in molti ad ascoltare: era dal 1980 che non si svolgevano manifestazioni davanti a Regina Coeli, quando ci si mobilitò per la liberazione di Oreste Scalzone e fra gli altri parlarono Fulvio Grimaldi, di Lotta Continua per il Comunismo ed attuale giornalista del TG3, nonché Francesco Rutelli, del Partito Radicale ed attuale sindaco di Roma...come passa, il tempo.

Il 29 febbraio 1992 era un sabato: il lunedì successivo l'allora Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, Nicolò Amato, si recò di persona da Gallinari e Ricciardi per garantirgli che, per quanto in suo potere, avrebbe fatto di tutto per trasferirli a Rebibbia, fuori dall'inferno del centro clinico di Regina Coeli.

***

Ci vollero quasi dieci mesi perché le promesse di Amato si concretizzassero. Per altri dieci, lunghissimi mesi, Prospero e Salvatore continuarono a subire i rigori del centro clinico ed a combatterli, per loro e per gli altri disgraziati segregati lì dentro. Vale la pena di riportare il testo di una denuncia pubblica che Gallinari e Ricciardi fecero il 7 giugno 1992, testo inviato alla Procura della Repubblica di Roma ed alla stampa, nonché oggetto di un'interrogazione parlamentare da parte dei soliti Nichi Vendola (da poco eletto deputato nelle liste di Rifondazione Comunista) e Russo Spena.

"- Alla Procura della Repubblica di Roma - a quanti intendano ascoltare

Sabato 6 giugno, intorno alle 23, è morto un detenuto-malato, nella cella n. 6 del 3° piano-chirurgia del centro clinico di Regina Coeli in Roma.

Si chiamava Stefano Belli, una trentina d'anni, era entrato in carcere tre giorni addietro. Tossicodipendente viene timbrato. E' una categoria, non è un uomo!

Viene collocato in una camera con altri detenuti; in questi casi, l'unica assistenza valida è quella dei compagni di cella, per superare la crisi.

Dopo qualche giorno, incomprensibilmente, lo spostano in una cella singola. E' un pacco, non è un . uomo!

Isolato, perché? Protestano i compagni di cella, si sono accorti che ha bisogno di continua assistenza : respira con difficoltà, non è opera della sola crisi, c'è qualcosa di più grave. Non vengono ascoltati, rischiano addirittura un rapporto.

Sabato mattina Stefano fa il colloquio con i familiari, più tardi si sente male e chiede di essere visitato da un dottore. Gli si risponde che l'ora delle visite è terminata (!)

Chiede di essere riportato nel camerone con i suoi compagni per un aiuto. Gli si risponde: "Dopo!"

Verso le 16 vediamo l'agente di custodia della Sezione preoccupato chiamare il medico di guardia, che arriva dopo parecchio tempo. Visita brevissima, qualche secondo, non viene preso nessun provvedimento.

Verso le 23 la situazione precipita: vediamo correre agenti, infermieri e medici. Si riesce a intravedere Stefano sdraiato al suolo, le gambe fuori dalla cella; viene trascinato nel corridoio, un medico (non è lo stesso del pomeriggio) cerca di praticargli un massaggio cardiaco o una respirazione. Ma ormai...gli occhi sono sbarrati, la faccia bianca, la bocca schiusa nell'ultima sua smorfia di dolore. Anche la barella arriva con un esasperante ritardo.

Stefano è morto. Perché? Perché si lascia morire un giovane per l'incuria e incapacità di alcuni? Per un sistema carcerario-sanitario totalmente inadeguato. Perché si lascia morire un giovane solo e abbandonato come un animale selvaggio?

Perché? Perché? Perché?

N.B. Questi fatti sono stati osservati da numerosi detenuti delle celle limitrofe alla cella n. 6, che sono pronti a testimoniare davanti all'autorità Giudiziaria, ai Parlamentari ed a chiunque voglia ascoltarli. Ordinati e scritti da Ricciardi Salvatore e Gallinari Prospero.

Roma, 7 giugno 1992"

Non abbiamo saputo nulla dalla Procura della Repubblica; solo il "Manifesto" pubblicò la notizia della morte di Stefano Belli e della denuncia di Gallinari e Ricciardi; l'interrogazione di Vendola e Russo Spena aspetta ancora una risposta; Stefano Belli aspetta ancora giustizia.

***

Per altri dieci mesi il centro clinico di Regina Coeli ci vide come affezionati visitatori, mentre il telefono del Dott. Amato veniva tempestato dalle chiamate di Russo Spena e le radio di movimento trasmettevano in continuazione programmi di informazione e denuncia. Prospero e Salvatore, per loro conto, erano diventati i sindacalisti di Regina Coeli: ad un certo punto, perdemmo il conto dei casi che segnalavano all'esterno, chiedendo interventi e solidarietà, e qualche volta riuscimmo persino ad essere utili. Come nel caso di A.B., per esempio: si trattava di un malato di AIDS in fase terminale, ormai nell'impossibilità di svolgere da solo anche le funzioni più elementari, al punto che anche i giudici più cani (mi dispiace per loro, ma è così che vengono definiti da detenuti ed avvocati) del Tribunale di Sorveglianza si erano decisi a concedergli la sospensione della pena. Il problema era che A.B. non lo voleva nessuno, né in famiglia, né in ospedale, dove dicevano che non avevano posti, per cui rimaneva nel centro clinico, assistito solo dai suoi compagni di sventura. Stefania, una compagna della Commissione Fuori dal Carcere, mosse mari e monti, nel caldo infernale dell'agosto romano, fino a quando riuscimmo, grazie all'aiuto di alcuni infermieri, a trovare un posto in ospedale per A.B., che così potrà, finalmente, lasciare Regina Coeli.

Che dire, poi, della storia di Achour Boutaleb, immigrato nordafricano, detenuto per piccoli reati, ricoverato nel centro clinico di Regina Coeli per dolori causati da un calcolo e che si sveglia, dopo l'operazione, con un rene in meno?

Salvatore farà il diavolo a quattro, scrivendo ai giornali e denunciando mezzo carcere, ma Achour aspetta ancora che qualcuno gli dica che fine ha fatto quel pezzo del suo corpo che qualcuno gli ha rubato.

Chiudiamo questa piccola galleria con la storia dei due fratelli Di Falco. Un ragazzo li nota nel cortile del centro clinico, durante l'ora d'aria: sembrano assenti, se ne stanno seduti da una parte e non parlano con nessuno. Ogni tanto si siedono uno accanto all'altro e, con dolcezza infantile, uno prende la testa dell'altro fra le mani e fa dei gesti come per spulciarlo. Poi, in silenzio, risalgono in cella, nella quale sono rinchiusi solo loro due. Dopo un po', qualcuno li riconosce: si tratta di due disabili che, qualche mese prima, avevano commosso l'intera città, quando la polizia scoprì che erano vittime di una banda di balordi che li maltrattava e l i derubava sistematicamente della misera pensione sociale. Ma la città dimentica in fretta, e non c'era nessuno ad indignarsi o a commuoversi quando altri poliziotti, non sapendo a chi accollare il furto di uno stereo da un'automobile in sosta, andarono ad arrestare proprio i fratelli Di Falco. In quel caso, non riuscimmo ad essere utili: informammo alcune associazioni per la difesa dei diritti degli handicappati, le quali si guardarono bene dal prendere la benché minima iniziativa; i fratelli Di Falco furono scarcerati, in sordina come erano stati arrestati, scontata la pena inflittagli da un giudice, in nome del popolo italiano, naturalmente.

Nella sua lettera a questo proposito, Salvatore scrive: "Non ci sono educatori, psicologi, dottori, assistenti sociali, direttori, operatori di tutte le specie, che si accorgano che i due sono semplicemente dei minorati psichici, al punto che non realizzano come, dove e perché sono capitati in questo posto, che non sanno nemmeno cosa sia. Soltanto un ragazzo, tossicodipendente e spacciatore, ma forse con qualcosa in più degli altri, riesce ad osservarli in viso con attenzione, ricorda la storia, li accosta, gli parla, ha la conferma che si tratta di loro due, poi viene da me e mi racconta la storia, e organizza una raccolta di sigarette e biscotti per loro".

Anche gli agenti di custodia si rivolgevano a Prospero e Salvatore: alcuni di loro, giovanissimi, chiesero ai due ergastolani cosa potevano fare per difendere i propri diritti di lavoratori e non essere più trattati come bestie da funzionari e superiori; gli venne consigliato di rivolgersi ai sindacati, di scrivere ai giornali, insomma di organizzarsi.

Quegli agenti vennero immediatamente trasferiti in istituti diversi; quelli che avevano lasciato agonizzare e morire in solitudine Stefano Belli sono ancora al loro posto.

***

E' doveroso dare atto a Nicolò Amato di aver fatto tutto quanto era nelle sue possibilità affinché Gallinari e Ricciardi potessero lasciare un centro clinico dove la loro presenza non aveva alcun senso; in particolare, una lunghissima serie di difficoltà tecniche si frapponevano all'esecuzione di un provvedimento che, per motivi diversi, era voluto un po' da tutti: lo volevano, come abbiamo già detto, Prospero e Salvatore, ma lo voleva anche la Direzione di Regina Coeli, per nulla contenta di aver continuamente a che fare con visite di parlamentari, articoli sui giornali, interventi dalla stessa Direzione Generale...bisogna capire che tutte le istituzioni totali, e le carceri in primo luogo, sono strutturalmente poco disposte ai rapporti con il mondo estero. Negli istituti penitenziari, per esempio, esistono i regolamenti scritti, che hanno la loro importanza, ma esistono anche delle regole implicite, di gran lunga più importanti, che sono quelle che indirizzano realmente la vita negli istituti stessi. Il regolamento, naturalmente, proibisce i maltrattamenti verso i detenuti e prevede sanzioni penali per gli agenti che se ne rendano eventualmente responsabili, ma sappiamo tutti benissimo che un detenuto pestato da una "squadretta" di agenti, nell'improbabile caso che qualcuno gli chieda che cosa è successo, risponderà di essere caduto dalle scale; il discorso sarebbe lungo, perché non si tratta soltanto dell'evidente disparità di diritti e di poteri fra la custodia ed i detenuti, ed entrano in gioco altri fattori, ma il dato di fondo rimane che ai gestori dell'istituzione carcere non piace che qualche "esterno" vada a "ficcare i1 naso", poiché questo costituisce una diminuzione del loro potere, o meglio, del loro arbitrio.

Nel caso specifico di Gallinari e Ricciardi, c'è da aggiungere che loro stessi si adoperavano per provocare interventi esteri nel centro clinico, anche con le iniziative citate, per cui la Direzione di Regina Coeli avrebbe fatto carte false pur di vederli andare via; viceversa, almeno apparentemente, la Direzione di Rebibbia non poneva ostacoli alla loro "accoglienza", ma è un fatto che bisognerà attendere che termini la girandola di trasferimenti al vertice del carcere di Rebibbia per vedere realizzato questo obiettivo minimo.

Esisteva anche un problema di natura economica, derivante dall'assurdità delle sentenze con cui, in violazione dell'art. 32 della Costituzione ("Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge"), Gallinari e Ricciardi erano stati assegnati, contro la loro volontà, ad una struttura sanitaria: perchè avvenisse i1 loro trasferimento a Rebibbia, bisognava attrezzare una cella con un dispositivo di chiamata immediata di soccorso (un campanello, in pratica, come quelli esistenti vicino ai letti negli ospedali) e dotarsi di un'ambulanza provvista di unità coronarica e personale specializzato, disponibili 24 ore su 24. Costo dell'ambulanza, attorno al miliardo, per non parlare dei salari degli infermieri, degli anestesisti, ecc.

Naturalmente, il fatto che né il campanello, né l'ambulanza con l'unità coronarica, né il personale specializzato fossero mai esistiti nel centro clinico di Regina Coeli appariva come una contraddizione agli occhi di magistrati e funzionari del Ministero di Grazia e Giustizia.

***

Amato si dava da fare, anche perché tempestato di telefonate pressoché quotidiane (Russo Spena arrivò a chiamarlo a ferragosto per chiedere informazioni sui progressi della pratica), ma alla fine fu l'emergenza-mafia a sbloccare la situazione.

Dopo le stragi di Capaci e Via D'Amelio, le ondate di arresti di mafiosi o presunti tali portarono alla decisione di riaprire alcuni istituti in disuso, come quello di Favignana, alla cui direzione venne chiamato Gaspare Spatacia, il "duro" direttore di Rebibbia, sostituito per qualche mese a Roma da un altro funzionario con la fama di inflessibile, il Dott. Bocchino.

Infine, la Direzione di Rebibbia venne affidata a Massimo De Pascalis, che riuscì ad accelerare i tempi, per cui, alla fine del 1992, Gallinari e Ricciardi potevano lasciare il centro clinico di Regina Coeli e raggiungere i loro compagni.

Andammo subito a trovarli, nella sezione G8 di Rebibbia, e difficilmente potrò dimenticare l'amarezza provata nel sentire Prospero magnificare la "qualità della vita" in quella sezione: le celle erano aperte per la maggior parte della giornata, poteva stare insieme a compagni come Renato Curcio e Piero Bertolazzi, amici da una vita, nonostante le opzioni differenti rispetto alla "soluzione politica" per i prigionieri della lotta armata.

Prospero era letteralmente entusiasta del campo sportivo e dell'alberello che vedeva - che vede - dalla finestra della sua cella.

Salvatore, invece, era riuscito a farsi assegnare un lavoro, per pesare il meno possibile sulle finanze della propria famiglia. Insomma, sempre di galera si trattava - e si tratta - ma nulla a che vedere con il lazzaretto di via della Lungara n. 29, dove - finalmente liberati dalla scomoda presenza di due detenuti con la smania della lotta - certi agenti, infermieri, medici e funzionari avranno ripreso serenamente le consuete attività integrative dello stipendio, come una discreta "cresta" sui medicinali per i malati di AIDS, un lucroso commercio di stupefacenti, qualche ricovero immotivato e finalizzato all'ottenimento, per qualche detenuto "che può", di quei benefici negati a Gallinari e Ricciardi.

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Il resto è cronaca di questi ultimi mesi: Ricciardi ha deciso di non parlare più della sua malattia, visto che, ogni volta che lo ha fatto, lo hanno trattato sempre peggio. Meglio stringere i denti e, come dice una vecchia canzone, "far finta di essere sani".

Gallinari, invece, anche con tutta la buona volontà, a far finta di star bene non ci riesce, anzi, il 23 marzo 1993 è colto da un nuovo infarto miocardico. Nonostante le strutture predisposte, passano alcune ore prima che ci si renda conto delle sue condizioni e venga poi trasferito, ovviamente piantonato ed isolato dagli altri degenti, al Policlinico Umberto I.

E' a seguito di questo nuovo attacco che, per la prima volta, Prospero decide di dare mandato al suo avvocato, Rosalba Valori, per chiedere la sospensione della pena.

L'istanza viene depositata il 5 aprile, quando Prospero è già stato riportato in carcere.

Prima dell'udienza del Tribunale di Sorveglianza, si moltiplicano le prese di posizione, gli appelli, le iniziative, ma la Magistratura decide che occorrono altri elementi di valutazione, e dispone una nuova perizia d'ufficio, non fidandosi nemmeno del parere di un autorità nel campo come Gaetano Azzolina. Il Procuratore Generale, poi, concede uno show veramente pregevole, sostenendo che Gallinari non ha diritto al differimento della pena per motivi di salute perché...non si è ravveduto!

I periti nominati dal Tribunale se la prendono comoda: ci mettono sei mesi per trovare il tempo per visitare Prospero, ed alla fine - siamo ormai a novembre - consegnano ai giudici diciotto paginette contorte, che dicono tutto ed il contrario di tutto. All'udienza del 19 novembre Rosalba Valori chiede alla Corte di convocare in aula i medici del collegio peritale, affinché rispondano a quesiti precisi ed in maniera inequivocabile ; i giudici si prendono cinque giorni per decidere e il 25 si viene a conoscere la loro decisione: non c'è alcun bisogno di chiedere ulteriori precisazioni ai medici, l'istanza di differimento pena di Prospero Gallinari viene respinta.

La motivazione non è nuova, poiché ricalca quella con cui la Corte di Cassazione aveva confermato le decisioni del Dott. Fornace, quello che aveva in precedenza respinto l'istanza presentata dal Direttore del supercarcere di Novara: "...le pur gravi condizioni di salute del condannato possono in ogni caso essere fronteggiate con la permanenza del detenuto nel centro clinico penitenziario ove è attualmente ristretto, ovvero con il ricovero ospedaliero ex art. 11 dell'ordinamento penitenziario in caso di emergenza", sentenziava la Suprema Corte il 22 marzo 1991, e le stesse cose ripeterà il 25 novembre 1993 il Giudice di Sorveglianza, Dott. Delle Haye, nel respingere l'istanza presentata da Rosalba Valori.

La motivazione non è nuova, anzi è vecchissima; è la stessa in base alla quale il Tribunale Speciale fascista rifiutò fino alla fine di liberare un prigioniero politico dell'epoca: "I provvedimenti che per lui si invocano col passaggio a un ospedale civile o con una sua eventuale liberazione non sembrano assolutamente indispensabili nei con fronti della natura e dell'origine del male, che poco o nessun margine offrirebbe a un'azione terapeutica più ampia di quella adottata" si legge nella relazione del professor Filippo Saporito. Quel prigioniero si chiamava Antonio Gramsci.

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Postfazione

 

Voglio concludere questo lavoro con una nota di ottimismo, pur nella consapevolezza che si tratta di un caso estremo, forse patologico, di ottimismo della volontà.

In questi anni, migliaia di persone, singole e/o associate nelle forme più diverse, si sono attivate per la liberazione di Gallinari e Ricciardi. Si tratta, naturalmente, di livelli di attivazione diversi: c'è chi, come Virginia Buonoconto - la mamma di Alberto, un prigioniero politico suicidatosi in conseguenza della carcerazione cui era stato sottoposto - è scesa in sciopero della fame, alla bella età di settantacinque anni, e chi ha solo messo una firma in calce ad un appello... ma è un fatto che, alla volontà omicida di certi organi dello Stato, si contrappone una diffusa coscienza sociale, la stessa che, proprio mentre scrivo queste righe, ha portato gli studenti di alcune scuole romane in agitazione ad inserire nei loro programmi di autogestione iniziative e dibattiti sulla detenzione politica in Italia. E' a questa coscienza sociale, e solo ad essa, che si può guardare, con la fiducia che, un giorno non lontano, si scriva la parola fine all'odissea carceraria di Prospero, di Salvatore e di tanti altri prigionieri, di un carcere o di un precario esilio, colpevoli di aver tentato quell'assalto al cielo che molti di noi hanno immaginato.


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