IL "NATÌO BORGO SELVAGGIO"

DI GIACOMO LEOPARDI

Giacomo Leopardi
 

Un disperato bisogno di viaggiare e di allontanarsi dalla grettezza della "zotica gente" del suo "natio borgo selvaggio", caratterizzava il più grande rappresentante del romanticismo europeo in Italia: Giacomo Leopardi.

In tutta la sua produzione poetica, soprattutto nell'epistolario e ne "Le Ricordanze", in cui conia il termine "natio borgo selvaggio", Leopardi parla di Recanati e dell'arretratezza culturale che la caratterizza, della noia che genera nella sua anima e del bisogno che ha di allontanarsene.

Questi sono i temi fondamentali della terza lettera che il poeta scrive al suo amico Pietro Giordani, che al contrario, gli parla con simpatia di Recanati, esortandolo ad amare la cittadina natìa, seguendo gli illustri esempi di Plutarco ed Alfieri.

In questo scritto Leopardi dichiara di non poter più seguire questi esempi in quanto "Plutarco, l'Alfieri amavano Cheronea ed Asti. Li amavano e non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano; ora dico di odiarla perché vi sono dentro, chè finalmente questa povera città non è rea d'altro che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori".

Così il poeta inizia a parlare della sua cittadina natale, evidenziandone in tutto il suo scritto lo squallore, la "morte, l'insensataggine e la stupidità" il ……"sonno universale, la mancanza d'ingegno".

Leopardi sogna di fuggire, di vivere in un "mondo che mi alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa)".

Ed è così, che più volte nel corso della sua vita cerca di allontanarsi dall'opprimente borgo natìo; nell'estate del 1819 il suo tentativo di fuga è sventato e il suo fallimento portò il poeta a sprofondare in uno stato di totale prostrazione ed aridità.

Nel 1822 finalmente ha la possibilità di uscire da Recanati e di vedere il mondo esterno a quella "tomba de' vivi" e si reca a Roma, ospite degli zii Antici.

Ma l'uscita tanto desiderata si risolve in una cocente disillusione: gli ambienti letterari di Roma gli appaiono vuoti e meschini, la stessa grandezza monumentale della città lo infastidisce. Nel 1825 l'editore milanese Stella gli offre l'occasione di lasciare la famiglia e di mantenersi con il proprio lavoro intellettuale: soggiorna così a Milano, Bologna, Firenze e Pisa, ma è presto costretto a rientrare nel borgo selvaggio in quanto le sue condizioni di salute si aggravano e conseguentemente gli viene sospeso l'assegno dell'editore.

Rimane in Recanati un anno e mezzo, "sedici mesi di notte orribile", ma poi riesce ad abbandonarla definitivamente per trasferirsi a Firenze.

Tuttavia è proprio a Recanati che Leopardi scrisse le sue più grandi poesie, "I Grandi Idilli": "Le ricordanze", "La quiete dopo la tempesta", "Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia".

In questi componimenti si succedono, si alternano, si stringono in una lirica originalissima le speranze del passato, la disperazione del presente, l'elegia su se stesso e il disprezzo per il mondo che lo circonda. A modo suo Leopardi riprende la disperazione, tutta "romantica", dell'uomo di genio incapace di adattarsi alla vita e dannato alla infelicità, per la ricchezza della sua sensibilità e la miseria dei tempi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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