LA STORIA DI IGLESIAS

 

Capitale dell’Iglesiente, dove si trovano alcune delle rocce più antiche d’Italia, ricche di minerali (soprattutto di piombo e zinco), Iglesias è stata nei secoli uno dei centri minerari più importanti d’Italia e d’Europa. Le più antiche testimonianze della presenza umana nel territorio Iglesiente risalgono al periodo Neolitico. Sul colle Buoncammino, sul  monte Casulla e a Monteponi sono state trovate freccie di ossidiana e a San' Benedetto la necropoli di Montixeddu. Nel periodo del Bronzo sono stati trovate anche ossa umane. Frammenti ceramici e altri oggetti metallici a Corongiu. All'età del Ferro risalgono: una capanna nuragica ai piedi del Marganai e un'altra a  Buoncamino, un nuraghe a Genna Mustazzu e una tomba dei giganti a Punta Tintilonis.

Qui l’uomo venne sin dall’antichità a cercare le ricchezze nascoste nelle vene delle montagne. Conobbero queste terre i fenici ed i cartaginesi, che occuparono le zone costiere dove fondarono la città di Sulci (oggi Sant’Antioco), da cui prese il nome l’intera regione del Sulcis, e dove costruirono la fortezza di Monte Sirai, alle spalle dell’attuale Carbonia, proprio per proteggere dalla minaccia di sardi ribelli la via dell’approvvigionamento minerario. Le conobbero anche i romani, che da queste parti costruirono il centro minerario di Metalla, dove venivano inviati schiavi, delinquenti e gruppi etnici minoritari per assicurare a Roma il rifornimento di risorse minerarie attraverso il lavoro forzato, la zona era attraversata , da Nord a Sud, dalla strada occidentale che da Tibula (S. Teresa di Gallura) giungeva a Sulci  e di cui ci è rimasto il ponte Canonica, ora sommerso nel lago artificiale Corsi. Il centro romano più importante (noto)  era localizzato a Corongiu, a Sud di Iglesias

I pisani la chiamarono Argentaria, per l’argento delle sue miniere.. Il più antico documento in cui si trova menzionata Villa di Chiesa rimonta al sec. XIII e si trova conservato nella chiesa di S. Lorenzo di Genova con la data del 5 luglio 1272. Secondo la quasi totalità degli scrittori, Villa di Chiesa deve la sua origine - non si offendano gli Iglesienti perché il nascere è...un caso - ad un'accolta di uomini che avendo dei conti con la giustizia, si erano radunati nelle gole di quei monti per non caderne nelle mani. Ivi furono raggiunti da soldati di ventura e da altre persone recatesi per lavorare nelle miniere di cui i conti di Donaratico, nuovi padroni di quella regione, avevano accentuato lo sfruttamento. E sarebbero stati appunto costoro a tollerare e, sotto qualche aspetto, a fomentarne il concorso mediante il diritto di asilo. Con le nuove costruzioni sorsero chiese in così grande numero da fare prendere il nome al centro abitato. La popolazione divenne in breve tanto numerosa che il paese fu considerato come uno dei più importanti del giudicato di Cagliari

 Fu sotto di loro che la città, che aveva allora il nome di Villa di Chiesa (l’attuale Iglesias è un nome di derivazione sardo- spagnola), prese lo sviluppo che doveva portarla, dopo la desolazione degli ultimi secoli del primo Millennio – quando anche l’attività mineraria era stata abbandonata in seguito ai fenomeni di spopolamento e di fuga verso l’interno che caratterizzano la storia di tutta l’isola in quel periodo buio – ad occupare un posto d’assoluto rilievo nell’economia isolana e nello stesso mercato degli scambi che aveva in Pisa e Genova le sue piazzeforti. Al tempo dello splendore delle repubbliche marittime italiane la città si trova denominata Villeclesia Argentaria, avendoli i Pisani aggiunto il secondo nome non tanto per l'argento che, sia pure in modeste proporzioni, si trovava nelle miniere del luogo, ma perché allora il piombo, che si scavava nelle miniere stesse, prendeva il nome di argentiere.. Le note lotte tra Genova e Pisa si ripercuotevano anche in Sardegna. L'isola, che si reggeva in quattro governi autonomi (giudicati), era fatta segno ad imposizione da parte delle due repubbliche, e spesso diventava campo di battaglie che avvenivano anche tra i limitrofi giudicati, in lotta tra loro. Pisa, nonostante la disastrosa sconfitta navale della Meloria (1284) conservava in Sardegna i possedimenti che aveva conquistati nel 1254 ad opera dei conti della Gherardesca, coadiuvati dai giudici di Arborea e di Gallura, mossi tutti contro il giudice di Cagliari.

VILLA DI CHIESA. Si ignora l’anno della fondazione della città. Quando il giudicato di Cagliari fu smembrato fra potenti famiglie della penisola, il Sigerro (“la sesta parte del regno di Cagliari”) toccò ai conti di Donoratico: fu il conte Ugolino della Gherardesca che impresse una forte spinta di sviluppo economico ed urbanistico, incrementò e razionalizzò i sistemi di estrazione dei minerali, la cinse di mura, le diede una prima organizzazione di vita comunitaria, dotandola di uno statuto a somiglianza di quelli in uso nelle città toscane e in particolare, naturalmente, a Pisa,  coniarono inoltre anche una loro moneta d’argento con l’aquila dei Donoratico, la cui immagine è così frequente nelle chiese di Iglesias e dei villaggi minerari vicini (Villamassargia, Domusnovas, dove sono belle chiese romaniche che ricordano ancora oggi la dominazione pisana.

Quello pisano è il periodo “magico” della storia iglesiente. Nata intono ad una chiesa di minatori verso la seconda metà del secolo XIII, di metallici, di ricercatori cioè di miniere, raggruppati in case all’intorno, chiamati a dare sviluppo all’attività mineraria, invogliati dal miraggio di facili guadagni a recarsi nella zona da altre parti dell'isola o della penisola, la “Terramagna”, come i sardi allora la chiamavano, Villa di Chiesa ricevette da sardi e terramagnesi un tale impulso che, pochi anni dopo la tripartizione del giudicato di Cagliari, il centro, retto da un podestà nominato dai Donoratico, diventava, dopo Cagliari, “la località più importante del meridione dell’isola”.

Protetta da un castello, detto di San Guantino o di Salvaterra, la città era chiusa da mura, da torri, da fossati, con una bella chiesa intitolata a Santa Chiara, costruita nel 1285, e divisa in quattro quartieri, soprannominati di Santa Chiara, di Mezzo, della Fontana, del Castello, con accesso attraverso quattro porte munite: essa acquistava ben presto, come Cagliari, la fisionomia di un Comune.

Si sviluppava così il Comune di Villa di Chiesa del Sigerro e nasceva la necessità di uno statuto, di un insieme di leggi o Breve, che regolasse, come a Cagliari, la vita cittadina, che dettasse norme sulle miniere all’intorno, tale da superare quello costruito su modelli pisani, voluto dai Donoratico all’origine dello sviluppo del centro minerario e inadeguato ormai alle nuove esigenze del fiorente Comune. Iglesias aveva così il suo Breve che oggi è custodito (ma è un edizione riveduta del primitivo) nell’Archivio comunale.

 

Avvenuta nel 1288 la tragica sorte del conte Ugolino, nel pieno di una serie di lotte di partito che travagliarono Pisa sul finire del XIII secolo, Villa di Chiesa divenne il rifugio dei suoi figli, Guelfo e Lotto  Guelfo appunto, che si trovava in Sardegna quale rappresentante la Signoria del padre, prevedendo che i Pisani non lo avrebbero risparmiato, fortificò Villa di Chiesa, dove fu raggiunto dall'altro fratello Lotto, riscattatosi dalla prigionia dei Genovesi. La città fu subito assediata dai Pisani coadiuvati da Mariano, giudice di Arborea, e fu presa quasi senza resistenza per essere stata abbandonata dai difensori che uscirono da una delle porte mentre il nemico entrava per le altre. Guelfo nella fuga cadde da cavallo e rimase ferito in tal modo che poté essere raggiunto e fatto prigioniero dai Pisani, i quali di poi lo liberarono mediante la cessione del castello di Acquafredda.

Di questo sarà tenuta parola nel capitolo riflettente Siliqua, nel cui territorio si trova. Nel 1302 tutti i domini dei Gherardesca in Sardegna passarono in potere dei Pisani, i quali smantellarono le fortificazioni di Villa di Chiesa e della vicina Domusnovas. Non contenti, però, di avere esteso il territorio che colà avevano, mirarono alla conquista del giudicato di Arborea, nonostante che, come si è detto, ne fossero stati coadiuvati contro il giudice di Cagliari. Ma Ugone, che di tale giudicato era a capo, considerato di non potere lottare da solo, chiese ed ottenne l'intervento armato di Giacomo II, re di Aragona, investito del titolo di re di Sardegna da papa Bonifacio VIII. Una flotte di sessanta galee fu affidata all'infante Alfonso,  il quale, il 15 giugno 1323 giunse nel golfo di Palmas, dove sbarcò l'esercito che mosse all'assedio di Villa di Chiesa, messa in stato di difesa da ben venti torri, da mura, da fossati e da altre opere minori.

L'insalubrità dell'aria mise a dura prova l'esercito assediante che veniva decimato dalle febbri malariche, non cessate nemmeno per il sopraggiungere dell'autunno e dell'inverno. Lo stesso infante e la sua consorte non ne andarono esenti. Dall'altra parte il lungo assedio faceva difettare i viveri degli assediati. In tale stato di cose si giunse al 6 febbraio, giorno in cui essi, non potendo ulteriormente attendere i soccorsi che erano stati loro spediti, aprirono le porte all'esercito Aragonese gia privato di ben dodicimila soldati, periti più per malattia che per freddo. Il vincitore non abusò della vittoria, anzi concesse alla città diversi privilegi. La conquista non segnava del tutto la fine dell’influenza pisana, che avrebbe continuato a farsi sentire nella vita associata e nella stessa organizzazione dell’attività produttiva.

Nel corso delle rivolte antiaragonesi che scoppiarono in tutta l’isola nella seconda metà del secolo conobbe momenti di disordine, di breve libertà e di nuove oppressioni, finché dal 1409 tornò stabilmente sotto i conquistatori catalani.

Nel 1436 fu, venduta, sia pure col patto del riscatto, dapprima all'ammiraglio Antonio De Sena, visconte di Sanluri, e di poi a Gustavo Carroz.In seguito ad altra sommossa, verificatasi nel 1440, gli abitanti ottennero gli antichi privilegi, ma dopo appena cinque anni il re Alfonso IV vendette la città ad Eleonora Manrique per la somma di 7750 lire sarde. I cittadini, assecondando il loro sindaco Andrea Moncada, riunirono la stessa somma che versarono alla feudataria, e così ottennero di essere dichiarati liberi, come da atto dell'8 febbraio 1450. Fu allora che Iglesias prese per stemma uno scudo sbarrato avente, nella parte superiore, delle monete d'oro, messe appunto per ricordare essersi riscattata con moneta propria. 

 

LA DECADENZA. Il rapace ed inetto dominio spagnolo e le sue memorabili pestilenze del 1653 e del 1681 seminarono tanto squallore da incidere lungamente sulle possibilità di ripresa dell’intero territorio, ridotto, da 44 fiorenti centri abitati, a solo 8 miseri paesi nei quali si era raccolta tutta la sparuta popolazione superstite.

Le miniere furono abbandonate o quasi: l’Iglesiente fu invaso da banditi e abigeatari che contribuirono a ridurre la popolazione del capoluogo minerario. Inutilmente la Spagna cercò di riattivare il bacino minerario.

Passata dalla breve dominazione austriaca a quella sabauda, Iglesias ottenne dei vantaggi. Il Piemonte si decise a riattivare in parte il settore minerario, anche le concessioni furono date in appalto a stranieri.

Nel 1778 fu riattivata l’importante miniera di Monteponi (Iglesias) nella quale non fu impiegata manodopera locale, bensì i forzati provenienti da Villafranca.

Di particolare importanza nel 1793 per Iglesias, e non solo, fu il tentativo dei francesi di conquistare la Sardegna; nel Sulcis riuscirono a conquistare per qualche tempo Carloforte, ribattezzata “l’isola della libertà”.

Nell’Ottocento le cose non andavano bene per Iglesias: le miniere, vera fonte di lavoro per gli iglesienti, erano nuovamente chiuse. Il governo sabaudo realizzò delle opere sociali, ma non sufficienti a far fronte alle esigenze della città. La popolazione calò così, tra il 1844 e il 1848, almeno di 5.000 abitanti; dei cittadini “una buona parte esercitava un mestiere precario: 185 coltivavano terreni altrui, 140 erano giornalieri e 188 erano servi, mentre 25 abitanti erano definiti accattoni”.

Il conte Carlo Baudi di Vesme, autore del Codice diplomatico di Villa di Chiesa, nella sua qualità di ingegnere minerario, visitò la Sardegna e la studiò attentamente, come pure si occupò dell’Iglesiente per conto del Piemonte. Indicò i mali e ne propose le cure. “E’ necessario – sosteneva nella sua relazione al re Carlo Alberto (1847) – un dazio anche per la Sardegna. Questo dazio avrebbe il doppio vantaggio, di promuovere l’industria, e di recare un considerevole provento alle finanze. Ma soprattutto non deve omettersi di tener conto delle altre imprese commerciali ed agricole di vario genere, che senza dubbio intraprenderebbero le stesse persone, alle quali si concedessero miniere, posto che quest’occasione li avesse trasportati in Sardegna, e posto dinanzi il prospetto dei molti guadagni in essa più o meno agevoli all’industria privata. Credo che questo debba considerarsi come uno dei principali vantaggi delle concessioni delle miniere, e che per esse verranno a trarre grande profitto l’industria parimente e l’agricoltura. Sarebbe inoltre utilissimo che il Governo nelle concessioni imponesse l’obbligo di tenere una scuola per le persone addette ai lavori delle miniere, come ora il Governo stesso fa in quella di Iglesias”. (La scuola mineraria di Iglesias, dotata di un ricco museo mineralogico, era destinata a diventare un modello per le istruzioni scolastiche di questo tipo in molti altri paesi d’Europa).

  

Ma i capitalisti della nascente industria e della finanza europee non avevano bisogno delle sollecitazioni del Baudi di Vesme per interessarsi della Sardegna. Quando la legge mineraria del 1859, che dichiarava res nullius le risorse del sottosuolo, aprì la caccia ai minerali nascosti nelle viscere della terra, Iglesias divenne il centro di una serie (spesso anche disordinata) di imprese di varia dimensione e di differente vastità e in breve tempo, soprattutto a partire dal 1867, quando si cominciarono a coltivare anche i minerali di zinco (sino a quel punto trascurati a favore dell’argento), si trasformò in un vero e proprio distretto di monocoltura mineraria.

Le condizioni di sfruttamento e di miseria in cui erano costretti a vivere i minatori (i sardi, per di più, ricevevano un salario differente da quello degli operai continentali, anche a parità di funzioni, sebbene quelle più propriamente tecniche fossero riservate ai non sardi, in genere provenienti da altre esperienze di lavoro minerario) furono lucidamente analizzate e denunciate dalla Commissione parlamentare d’inchiesta che lavorò nella zona intorno al 1910, anche se l’inchiesta stessa era nata dai disordini e dagli incidenti che avevano turbato l’Iglesiente negli anni precedenti, primo fra tutti l’eccidio di Buggerru nel settembre del 1904.

Ai primi del Novecento la crisi economica e sociale della Sardegna s’era fatta così acuta ch’era impossibile prevederne le conseguenze.

L’agricoltura era in crisi, ed era una crisi così amara che costringeva i contadini ad abbandonare le proprie case per cercare lavoro nell’industria estrattiva, l’unica che potesse assicurare loro un tozzo di pane.

Il bacino metallifero dell’Iglesiente accolse così dai 15.000 ai 16.000 lavoratori, quasi tutti impiegati nelle miniere gestite dalla Monteponi e da società franco- belghe.

Gli operai dovevano lavorare dieci ore all’interno, dodici all’esterno; lavoravano nelle miniere anche le donne e i bambini.

L’idea socialista si affermò con i primi scioperi e con la costituzione delle leghe dei minatori e dei battellieri di Carloforte che si opponevano ai salari di fame e rivendicavano per la classe operaia migliori condizioni umane. Contro gli scioperanti il governo faceva intervenire l’esercito.

L’11 maggio del 1920 i minatori della monteponi scioperarono e scesero in piazza ad Iglesias per rivendicare più pane (i viveri, anche se la prima guerra mondiale era finita da un pezzo, erano ancora razionati). Nello scontro con le guardie regie morirono 7 operai ed altri 26 rimasero feriti. L’amministrazione socialista (una delle pochissime amministrazioni “rosse” della Sardegna), guidata dal popolare sindaco Angelo Corsi, decise il lutto cittadino. I funerali delle vittime si svolsero a spese del Comune.

Frattanto iniziavano le prime schermaglie tra fascisti ed antifascisti. Le squadre fasciste, che avevano il sostegno e l’incoraggiamento degli industriali minerari, operavano non solo nel capoluogo minerario ma anche nel resto della Sardegna: il fascismo sardo aveva in Iglesias uno dei suoi baluardi.

Durante il periodo fascista e la guerra, i socialisti e gli antifascisti furono esiliati, arrestati, perseguitati.

Nel secondo dopoguerra, la classe dirigente democratica si impegnò a dare un nuovo volto alla città. Ma la strategia del mercato dei minerali, che si svolge ormai a scala planetaria, ha collocato in una posizione di inferiorità, rispetto alle risorse del terzo mondo, le miniere sarde.

Oggi a Iglesias conosce una crisi molto profonda, direttamente collegata alla crisi di quel settore minerario da cui ha sempre tratto non solo il sostentamento ma anche le sue tradizioni civili e sociali più ricche e più profonde.

La cittadina oppone a questa decadenza tanto la combattività della popolazione tutta, operai e imprese depositari di esperienze più che secolari di lotte e sacrifici , e la volontà di integrarsi sempre più compiutamente nel territorio circostante, in cui cominciano ad assumere un loro peso le attività agricole, dei servizi  e soprattutto l’industria turistica.