La guerra, la sinistra e l'Ulivo dopo gli attentati terroristici dell'11
settembre e prima del congresso dei Ds.
Giuliano
Amato ed Enrico Boselli hanno affrontato soprattutto queste due questioni
concludendo sabato 10 novembre i lavori della Conferenza Nazionale di
Napoli. In tutti gli interventi è stata riconosciuta l'inevitabilità
dell'intervento militare per sconfiggere il terrorismo, la necessità di
affrontare le grandi questioni aperte che minano alla base la pace come il
conflitto tra israeliani e palestinesi, e la speranza che la sinistra
riformista nel nostro Paese si rafforzi assieme all'Ulivo per proporsi
come reale alternativa di governo.
Pubblichiamo
la sintesi degli interventi di Pia
Locatelli, Gianfranco
Schietroma, Roberto
Villetti, Ottaviano
del Turco, Enrique
Baron Crespo.
Pubblichiamo
inoltre le relazioni integrali di Ugo
Intini, Enrico Morando
(candidato alla segreteria DS), Enrico
Boselli e Giuliano Amato.
Ugo
Intini
Il Professor Fukujama, dalla
California, ci aveva spiegato che, finita la guerra tra Est ed Ovest, tra
comunismo e anticomunismo, erano morte la politica e persino la storia. E
invece, si erano soltanto addormentate. Sono state svegliate
nel modo più atroce, dall’attacco al cuore di New York, ovvero
al cuore della civiltà moderna. Siamo in guerra. Ma in una guerra mai
vista nella storia dell’umanità. Per almeno sei motivi fondamentali.
In questa guerra,non ci sono due
comandi tradizionali contrapposti. E d’altronde,qualunque estremista da
bazar, nel mondo arabo, crede che non Bin Laden, ma un complotto
israeliano sia all’origine dell’attacco a New York.
In questa guerra, i soldati nemici
sono al tempo stesso combattenti e suicidi.
In questa guerra, il nemico non
considera la strage dei civili innocenti come un obbiettivo marginale o
come un effetto indesiderato,ma al contrario come il suo unico scopo
militare.
In questa guerra, non esiste un
solo angolo del mondo che non sia un possibile bersaglio.
In questa guerra non c’è un
territorio conteso(almeno apparentemente).Neppure l’Afganistan.
Questa guerra non è stata
dichiarata. Mai nessuno ammetterà perciò la sconfitta e nessuno offrirà
finalmente la resa.
Adesso,
dobbiamo vincere questa guerra mai vista, sapendo che dobbiamo ricorrere
pertanto a idee altrettanto
mai viste. Che dobbiamo compiere un salto di qualità e di fantasia.A
fronte di un nemico fanatico e visionario, dobbiamo avere anche noi quello
che gli americani chiamano “vision”. Combatteremo sul piano politico
ed economico, propagandistico e militare. Cominciamo da quest’ultimo,
che è il più urgente e obbligato, ma non necessariamente il più
importante.
Bisogna
liquidare il regime talebano,bonificare l’Afganistan e creare così le
condizioni per catturare o uccidere Bin Laden.Oggi bisogna reprimere.
Forse anche perchè, non so se per superficialità o egoismo, non si è
voluto prevenire. Sono stati infatti compiuti grandi errori nel passato in
Afganistan. Soprattutto da parte americana. Lo dico per esperienza
diretta.Perché l’Italia ha avuto la sorte curiosa di essere
nell’ultimo anno al centro degli sforzi di pace.Ospitavamo l’ex re
Zahir. Anche grazie al dott. Strada, e ad Emergency International,
aiutavamo con l’assistenza ospedaliera (soprattutto ai bambini feriti
dalle mine) gli afgani governati dall’Alleanza del Nord nel Panshir e
quelli governati dai talebani a Kabul. Potevamo parlare( e abbiamo
parlato) pertanto con tutti. Con i ministri talebani e con il
generale Massud , il capo carismatico dell’Alleanza del Nord,
l’uomo che ha sconfitto l’Armata Rossa con il sostegno degli Stati
Uniti e che gli Stati Uniti hanno lasciato solo, senza aiuto militare,
senza neppure una decisa pressione sul Pakistan( una pressione fatta prima
del disastro, non dopo) affinchè il Pakistan smettesse di sostenere
l’esercito talebano contro di lui. Abbiamo rilanciato la Loya Jirga
proposta dall’ex re ( la grande assemblea del popolo afgano) che non per
caso si chiama internazionalmente “ processo di Roma”. Abbiamo chiesto
un intervento limitato e umanitario di truppe dell’ONU. Abbiamo promosso
azione diplomatica e aiuto , appoggiati con entusiasmo da Prodi e
dall’Unione europea. E anche dall’Internazionale socialista, che ha
affidato al mio coordinamento una commissione sull’Afganistan. Perché
vedevamo bene che l’Afganistan costituiva la incubatrice e il principale
esportatore di tre grandi mali, che potevano infettare il mondo: fanatismo
islamico, terrorismo, droga. Lo hanno infettato. A dimostrazione quasi
simbolica e terribile che il globo è diventato troppo piccolo. Che
nessuna malattia può essere trascurata, neppure nel luogo più remoto,
povero o desolato del mondo. Perché quella malattia può portare
devastazione e morte sino al luogo più centrale, ricco e affollato del
mondo: appunto, sino alle twin towers di New York.
Adesso,
tardi, l’infezione afgana sarà curata, con un prezzo altissimo. Ma non
basterà insediare in Afganistan un governo affidabile sotto il controllo
delle Nazioni Unite. Dicevo all’inizio che non è l’Afganistan il
territorio conteso e che in questa guerra non vi è, apparentemente un
territorio conteso. Non vi è appunto, apparentemente. Non usiamo per i
capi del terrorismo e i loro disegni la retorica che usavamo per le
Brigate rosse, non definiamoli “deliranti” “criminali e basta”,
“farneticanti”. No. Sono degli strateghi e dei giocatori di scacchi
con un disegno lucido. Come i rivoluzionari europei del primo novecento,
credono nella “violenza levatrice della storia”. Sperano che gli
americani reagiscano in modo spropositato, che uccidano quanti più
innocenti e civili possibili. Che aggrediscano non i singoli terroristi e
i loro diretti fiancheggiatori, ma l’Islam. Sperano che ne consegua una
ondata di odio anti occidentale fra le masse nei tre punti caldi dove il
troppo materiale infiammabile può esplodere.E dove, in mezzo al materiale
infiammabile, ci sono le armi atomiche di tre potenze nucleari:Pakistan,
India e Israele.
La prima
esplosione può travolgere il Pakistan e produrre quello che si può
chiamare l’effetto “Gran Mogol”. Due degli ultimi
tre comandanti della ISI, il servizio segreto pakistano (l’
Interforce Security Agency) erano fondamentalisti islamici . Si tratta di
uno Stato nello Stato. E anche l’ultimo suo comandante è stato
licenziato senza spiegazione dopo l’11 settembre. Il 30% degli ufficiali
è dichiaratamente fondamentalista. Ancor più lo sono le masse
pakistane. L’impero del Gran Mogol esisteva soltanto quattro secoli fa.
Aveva la sua capitale nel mitico palazzo di Taj Mahal accanto a New Delhi.
Abbracciava, cementato dalla fede islamica, Pakistan, Afganistan, le
Repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, il Xing Yang cinese, il
Kashmir, il Nord dell’India, dove vivono più di 200 milioni di
musulmani. La propaganda fascista sognava l’impero romano, che è
1200 anni più lontano nel tempo di quello del Mogol. Anche molti
generali pakistani sognano. Sognano che il Pakistan del 2000 sia la
Prussia o il Piemonte dell’800, il nucleo duro per la costruzione
di una grande nazione, o di un impero, o di un Commonwealth
o di una “unione islamica asiatica” simile all’Unione Europea. Alimentata
dal petrolio dell'Asia ex sovietica. Circondata, a cornice,
dall’Indonesia (che è il più popoloso stato musulmano del mondo),
dalla Malaysia e dalle aree musulmane delle Filippine. Se il Pakistan
cade, l’effetto Mogol diventerà non più un incubo, ma
una reale possibilità.
La seconda
esplosione può travolgere innanzitutto l’Arabia Saudita e produrre
l’effetto disastro energetico per l’Occidente. La maggior parte del
petrolio sta nei paesi musulmani. I giacimenti più vasti stanno nella
penisola araba, dove la ricchezza spropositata e immane, sotto il deserto,
è a disposizione di pochi. Per noi questo è un caso .Per i
fondamentalisti islamici no: è un disegno di Dio. E Dio indica a questi
pochi, destinatari di un incredibile dono, ovvero agli sceicchi e agli
emiri arabi, il loro compito: usare questo petrolio, questa grazia di Dio
per umiliare l’arroganza dell’Occidente, per costruire la nazione
islamica. O seguiranno il volere di Dio o saranno travolti dalla collera
dei fedeli. Per questo, l’Arabia Saudita è una polveriera. Lì la
dinastia regnante dei Saud è sorta e si è retta grazie al sostegno della
setta musulmana wahabita ,
una delle più rigide. Lì si tagliano teste e mani secondo la legge
coranica esattamente come a Kabul. Non
dimentichiamo che Bin Laden è saudita, come quasi tutti gli attentatori
di New York. Bin Laden fu inventato dai due capi dei servizi segreti:
quello pakistano e quello saudita, destituito senza spiegazioni
dopo l’11 settembre. Un decennio fa, dovevano trovare un principe
saudita da trasformare in un capo delle brigate internazionali,
provenienti da tutti i Paesi islamici, che combattevano contro i russi in
Afganistan. Per sottolineare anche simbolicamente l’impegno
dell’Arabia Saudita . Non trovarono un principe, ma l’erede di una
grande famiglia si: appunto Bin Laden. Stiamo attenti perché alcuni
concetti si adattano non solo alla storia nostra ma anche a quella del
mondo musulmano. I servizi segreti deviati probabilmente non sono esistiti
soltanto da noi. Le Brigate internazionali della guerra di Spagna hanno
costituito un mito duraturo ed un brodo di cultura che ha esportato
combattenti della sinistra nelle guerre partigiane di tutto il mondo
occidentale. Le Brigate internazionali islamiche nella guerra di
Afganistan, finanziate dal Pakistan e dalla CIA, hanno avuto la stessa
funzione in tutto il mondo islamico: dalla Cecenia alle Filippine,
dall’Indonesia all’Algeria, dall’Egitto allo Xing Yang cinese. Il
mondo islamico si è legato così, nel fuoco di quella guerra, all’Afganistan
e l’Afganistan è scivolato in un profondo pozzo di fondamentalismo. O
il mondo islamico moderato riuscirà ad estrarre dal pozzo l’Afganistan,
o ne verrà trascinato dentro, con conseguenze catastrofiche per tutti
noi.
La terza
esplosione può travolgere Arafat e i palestinesi moderati provocando
pertanto un nuovo conflitto arabo israeliano . L’intransigenza di
Israele, le provocazioni di Sharon , l’assenza dell’Europa e la
passività dell’America di fronte a Tel Aviv
ci hanno portato molto vicini a questo disastro.
La CNN araba (Al Jaazira diventata oggi famosa anche qui) da anni
inonda ogni sera le case arabe con il sangue, le urla strazianti di madri
e di vedove palestinesi. Il risultato sarà devastante se l’Occidente
non dimostrerà di saper imporre il rispetto dei diritti umani e dei
diritti dei popoli a tutti: non a senso unico,non solo agli arabi, ma
anche agli israeliani.
Questi sono i
fronti della guerra mai vista prima che apre il millennio.
La lotta
contro il terrorismo – dice Bush – sarà lunga . Temo che non
immaginiamo ancora quanto lunga .
Guardiamo la nostra storia
recente. Il terrorismo delle Brigate rosse cominciò ad uccidere in Italia
per la prima volta nel 1972. Nel 1999 le BR hanno ucciso ancora. Il
terrorismo può non finire mai. Sicuramente, pone ai socialisti e ai
liberali, tra gli altri, un compito che già abbiamo assolto nei nostri
anni di piombo. Il terrorismo globale ripropone infatti in grande i
problemi di quello nazionale. E allora sappiamo bene che la necessità
della prevenzione e della repressione rischia di rendere ciascuno meno
libero. Per sperare di bloccare una persona sospetta, si devono sottoporre
a controlli decine di milioni di persone. Le tecniche per farlo, con la
rivoluzione informatica, possono ormai preparare scenari da grande
fratello orwelliano. Su Newsweek di questa settimana ci si interroga se e
come in una democrazia possa essere consentita, come d’altronde avviene
in Israele, la tortura degli arrestati. Noi dobbiamo saper chiedere a
livello universale una società più sicura e pagare un prezzo,certo. Ma
non il prezzo di un Occidente meno libero e più barbaro. Esattamente come
abbiamo fatto, a livello nazionale, ai tempi delle Brigate rosse.
Guardiamo una storia più vasta.
La rivolta contro l’Occidente, contro il nostro sistema di vita, contro
la distanza fra povertà e ricchezza, un tempo alzava la bandiera rossa
del comunismo. Ciò valeva per Mao e Ho Chi Min, per Castro e per Che
Guevara . Ma sotto la bandiera marxista si riparavano anche Nasser in
Egitto e Ben Bella in Algeria, Sukarno in Indonesia, Lumumba e Mandela in
Africa, i partiti filomarxisti Baath e Baash, all’origine degli attuali
regimi in Siria e in Irak. Anche l’OLP di Arafat. La rivolta contro il
sistema occidentale alza oggi non più la bandiera rossa, ma quella verde
dell’Islam. Gli studenti rivoluzionari del terzo mondo non mostrano più
il pugno chiuso ma, sopra i blue jeans, la kafia o il velo. La guerra
contro il comunismo è durata quasi mezzo secolo . Questa guerra è molto
diversa, perché per il momento qui manca all’ Islam il sostegno di una
grande potenza militare come era Mosca. E’ molto diversa perché
l’area tendenzialmente interessata è soltanto quella che ospita
popolazioni islamiche (dalla costa atlantica del Marocco allo Xing Yang
cinese, lungo la cosiddetta mezzaluna di Allah, che comunque abbraccia o
sfiora, tre continenti). Ma ancor più che la guerra contro il
comunismo,si può dire che questa guerra sarà prima politica che
militare. I talebani saranno liquidati. Bin Laden morirà, ma la vittoria
o la sconfitta dell’Occidente sarà misurata dal numero di ragazzi
islamici che, nel 2020, porteranno la maglietta di Bin Laden così come da
noi oggi si porta quella di Che Guevara. Vinceremo allora se sapremo
rispondere con le armi tradizionali, ma anche con l’arma della
cooperazione internazionale, della giustizia, dell’equità. Altrimenti,
l’Occidente diventerà una immensa Israele, per decenni in lotta con il
terrorismo. Il mondo diventerà un immenso Sud Africa, con i nostri figli
asserragliati nei fortini della ricchezza
bianca.
Noi capivamo meglio la rivoluzione
rossa, perché nasceva da una ideologia (marxismo-leninismo) e da lotte
sociale non estranee alla nostra cultura. Ma dobbiamo adesso cercare di
capire anche le radici della rivoluzione verde. Che non sono poi
completamente diverse . Le dobbiamo capire per poterle recidere. Cerchiamo
di collocarci psicologicamente nelle aree dove sventola la bandiera verde.
Domandiamoci. Perché società tradizionalmente laiche, come ad esempio
quella algerina, turca, egiziana, nigeriana, indonesiana o pakistana
vedono diffondersi l’islamismo?
La volpe ha visto e desiderato
l’uva del consumismo occidentale. Gli schermi del “villaggio globale
televisivo” gliela hanno sventolata sotto il naso. Ma non l’ha mai
raggiunta. La volpe, ovvero il popolo dei paesi musulmani, ha perciò
cominciato ad odiare l’uva e a dire che non le piace. Peggio, ai tempo
di Nasser l’uva sembrava più a portata di mano e quindi la frustrazione
era meno grande.
L’eccesso di materialismo e
cinismo disturba spesso persino i nostri religiosi cristiani e i nostri
giovani. Solleva dunque, come è perfettamente comprensibile, reazioni
immensamente più dure in religiosi e giovani che vengono da società
molto più arretrate.
I rivoluzionari comunisti
pensavano che la povertà dei loro popoli derivasse dallo sfruttamento
capitalista. I rivoluzionari verdi pensano lo stesso, ma con una carica di
odio in più, perché quello che vedono come lo sfruttatore non è un loro
simile, ma il rappresentante di una razza diversa: una razza che spesso
non nasconde il suo sprezzante complesso di superiorità.
Nei Paesi musulmani, le classi di governo laiche sono spesso al collasso
per la loro corruzione e litigiosità. Lo Stato non si occupa più dei
bambini e dei poveri . Anziché le istituzioni pubbliche ormai degradate,
se ne occupano i religiosi, finanziati generosamente dagli Stati arabi
petroliferi. Nelle loro scuole , alle periferie di Istanbul e del Cairo,
di Algeri e di Mogadiscio,crescono i fondamentalisti di domani. Le mamme
di questi ragazzi ( e i ragazzi sono spesso la metà dell’intera
popolazione) indossano spesso da poco il chador sulla base di uno scambio
che nei nostri villaggi poveri non era un tempo sconosciuto: carità in
cambio di sottomissione religiosa.
Dobbiamo capire le radici della
rivoluzione verde come capimmo quelle della rivoluzione rossa e dobbiamo
contrastare le due rivoluzioni in parte allo stesso modo.Dobbiamo però
innanzitutto essere chiari. Noi capivamo, si, i motivi sociali che
alimentavano il terrorismo delle Brigate rosse , ma le combattevamo
militarmente in modo spietato. Per arrestare i
brigatisti, non aspettavamo di aver prima risolto il problema del
disagio proletario o del sottosviluppo del Mezzogiorno.
L’Occidente contrastava
l’aggressione militare del comunismo. Reprimeva il terrorismo comunista.
Ma isolava i militaristi e i terroristi. Trattava e cooperava invece con i
comunisti non ostili, quelli che credevano nella coesistenza pacifica. Lo
stesso si deve fare con la
parte non aggressiva del fondamentalismo islamico, ovvero con la sua
stragrande maggioranza. Gli imprudenti, come Berlusconi, dichiarano allora
che l’Occidente è superiore all’Islam. Gli impudenti, come Bossi,
insultano i musulmani. Bush invece va a pregare in moschea. Blair dice al
congresso del Labour Party: “ I veri seguaci dell’Islam sono
affratellati a noi in questa lotta. E’
tempo per il mondo occidentale di affrontare la sua ignoranza riguardo
all’ Islam. Gli ebrei, i musulmani e i cristiani sono tutti figli di
Abramo. E’ giunto il momento di riavvicinare queste religioni
nell’accettazione dei comuni valori di origine, fonte di unità e
forza”.
Questa è la risposta
propagandistica. Ma come la rivoluzione rossa, anche la rivoluzione verde
è stata innanzitutto provocata dalla povertà e dal sottosviluppo.
L’Occidente ha vinto il comunismo non perché ha saputo produrre più
missili, ma perché ha saputo produrre più ricchezza e più giustizia
sociale per tutti. La stessa sfida dobbiamo accettare adesso. In mezzo a
mille esagerazioni e torti, i ragazzi che manifestavano contro questa
globalizzazione, come quelli del ’68, ci hanno dato la sveglia ,molto
prima dell’11 settembre.
Il mondo ha conosciuto tante
rivoluzioni che lo hanno cambiato. La leva, la ruota, il motore. Il motore
oltre un secolo fa ha prodotto la rivoluzione industriale, ha moltiplicato
la forza fisica degli uomini, ha ridotto le distanze. La rivoluzione del
computer, che ha prodotto la globalizzazione, è molto più importante.
Ha moltiplicato non la forza
fisica, ma la forza del pensiero. Ha non
ridotto, ma cancellato
le distanze. Dobbiamo allora fare come i primi socialisti di allora. I
socialisti non gridavano abbasso la macchina, ma viva la macchina, perché
vedevano che produceva ricchezza. Non volevano però che intorno alla
macchina i bambini lavorassero sedici ore al giorno. Volevano governare
politicamente, secondo principi di umanità e giustizia, la rivoluzione
industriale. Lo stesso dobbiamo fare noi con la rivoluzione della
globalizzazione. Dobbiamo allora essere più coraggiosi. Oggi le 200
persone più ricche del mondo hanno un patrimonio pari al reddito annuo
del 40% dell’umanità, la parte più povera. Non un rivoluzionario, ma
l’ex vice presidente della Banca federale americana Alan Blinder , dice
: “ quando gli storici guarderanno indietro all’ultimo quarto del
ventesimo secolo, diranno che la caratteristica principale è stata lo
spostamento senza precedenti di denaro e di potere dal lavoro verso il
capitale, dal basso verso l’alto della piramide sociale”.
Per vincere questa guerra è
dunque il momento di un grande piano di aiuto dell’Occidente verso il
terzo mondo. L’Europa è stata salvata dal comunismo non soltanto dai
carri armati della NATO, ma grazie al piano Marshall che ne ha rilanciato
lo sviluppo.Grazie alle nuove istituzioni monetarie internazionali nate a
Bretton Woods . Non un socialista, ma il finanziere George Soros, scrive :
“ la guerra alla povertà è divenuta sempre più urgente dopo l’11
settembre. Vale la pena di ricordare che la conferenza di Bretton Woods,
che ha aperto la strada alla prosperità del dopoguerra, si è svolta nel
giugno 1944, più di nove mesi prima della vittoria. Anche nel calore
della battaglia, i leader delle potenze alleate hanno riconosciuto che la
vittoria militare non sarebbe bastata ad assicurare una duratura pace
successiva. Io auspico che i leader della guerra contro il terrorismo oggi
abbiano la stessa coraggiosa e lucida visione”.
Come sempre nella vita, non tutto
il male viene per nuocere. Lo shock dell’11 settembre ha accelerato la
storia e l’ha spinta in direzioni incoraggianti, con rapidità
inimmaginabile. Bush sembrava deciso a costruire uno scudo spaziale contro
i missili in chiave anti cinese e anti russa. Sembrava vedere l’Europa
non più come un alleato, ma come un concorrente economico. Adesso, a
Shangai, Bush , Putin e Jang Zemin stanno a braccetto, si creano le
condizioni di una grande partnership universale tra Stati Uniti, Europa,
Russia e Cina , tale da ricostruire la via della seta: una via della seta
alimentata dal petrolio dell’Asia ex sovietica.
Bush sembrava considerare le
Nazioni Unite una inutile burocrazia parassitaria e negava loro persino il
pagamento della quota associativa dovuta dall’America. Stanziava un
quinto di quello che le Nazioni Unite richiedono a ciascun Paese
sviluppato per l’aiuto al terzo mondo.
Tutto questo avveniva
perché l’America, invulnerabile da sempre, si sentiva ricca,
sicura e bisognosa solo di se stessa. Si andava chiudendo
nell’isolazionismo,mentre oggi capisce che ha bisogno del mondo come il
mondo ha bisogno di lei.
Finita la guerra tra Est ed Ovest,
sembrava l’ora dei ragionieri della politica, che definiscono le nazioni
“aziende”. Sembrava che servissero soltanto i tecnici dell’economia
: per interpretare le leggi del mercato. Che servissero soltanto i tecnici
del diritto( magistrati e poliziotti) : per imporre il rispetto
dell’ordine pubblico e dei contratti. Sembrava che i politici, inquisiti
e delegittimati , dovessero fare il meno possibile. Questo appariva il
volto vincente del moderno autoritarismo. Un autoritarismo che la sinistra
italiana degli anni ’90 (e solo quella italiana) neofita del liberismo e
del dipietrismo, ha la colpa storica di non aver saputo riconoscere. Ma di
avere anzi assecondato. Adesso è invece suonata di nuovo l’ora dei
politici con la P maiuscola.
Ieri sembrava invincibile il
predominio dell’individualismo e del liberismo, Oggi ritorna
l’esigenza della solidarietà e della socialità. Non vorrei essere
cinico. Ma sempre, a ridosso delle guerre, quando c’è bisogno del
popolo per vincere un pericolo, ci si ricorda del popolo. E’ accaduto
così durante e dopo la prima e seconda guerra mondiale, durante la guerra
fredda e quella del Vietnam. Le ragioni del mercato sono invece diventate
l’unico metro di azione politica soltanto dopo che è finita la terza
guerra mondiale fra Est e Ovest, dopo che è sparita per Wall Street e la
City di Londra la sfida del
comunismo.
E ancora, la guerra e lo spettro
della recessione richiedono
pianificazione, politica, spesa pubblica. Se ne va in soffitta Fridman e
ritorna Keynes. Se ne vanno lo Stato minimo e la politica minima:
ritornano lo Stato e la politica protagonisti.
Soprattutto,
i fatti crudi e spietati impongono ciò che l’idealismo dei giovani ( o
la lungimiranza delle elites ) sino a ieri non avevano la forza di
imporre. Che il mondo sia piccolo, fragile, interdipendente, e ormai sotto
gli occhi di tutti. Avevamo la finanza globale, l’economia globale, lo
spettacolo globale, il crimine globale. Con l’esplosione del terrorismo,
si è finalmente capito che è giunta l’ora della politica globale. Di
un coordinamento sempre più stretto tra le politiche economiche, di
sicurezza, di immigrazione, militari di tutto il mondo. La sfida mortale
portata dal terrorismo costringe finalmente i tanti e i potenti a
costruire quel nuovo ordine mondiale che i pochi e i sognatori impotenti
predicavano da anni.
A maggior
ragione la sfida ci costringe a costruire più presto il nuovo ordine
europeo, pena la nostra emarginazione.
Il primo gennaio, avremo in tasca l’Euro, ma mai si è vista una
moneta appesa al nulla. Bisogna
appoggiarla a uno Stato federale, a una politica estera ,
a una politica militare comune. Perché se già l’esercito
europeo di 60 mila uomini (ormai deciso) fosse pronto, se già fosse
trasportato con l’airbus (l’airbus che Berlusconi non vorrebbe)
l’Europa non sarebbe militarmente assente come tale, non avremmo
l’umiliazione (e il rischio
per l’unità europea) di vedere , sino a questo momento, in azione le
sole truppe inglesi.E di vedere protagonista la sola Gran Bretagna.
In questo
contesto, la politica provinciale, quella delle risse,
delle recriminazioni sul passato, degli egoismi personali, appare
d’improvviso non solo sbagliata, ma ridicola. Le nuove sfide impongono
un salto di qualità, una internazionalizzazione crescente, una
semplificazione estrema. Impongono di chiudere un libro e di aprirne un
altro.
La guerra
impone di stare di qua o di là. Non c’è più posto per pacifismi,
ecumenismi, prediche. O di qua o di là. Di qua, dalla parte della nostra
civiltà, si confrontano tre aree di pensiero politico. L’area
liberista. Di coloro i quali ancora pensano che il mercato debba essere
lasciato completamente libero e che la politica debba interferire il meno
possibile. Poi, l’area di coloro, come i cristiani (o anche i buddisti o
gli islamici razionali) che contestano gli eccessi liberisti sulla base di
un principio spirituale. Poi, l’area di coloro (e noi siamo qui) che li
contestano sulla base di un principio sociale, di una tradizione e radice
socialista. L’intesa tra queste ultime due aree ha fatto passi avanti in
Italia, attraverso l’alleanza dell’Ulivo, che è innanzitutto alleanza
tra cattolici e socialisti. Fa passi avanti nel mondo quando, ad esempio,
si ascolta il Presidente della Internazionale Socialista e il Papa dire
cose non dissimili, in nome dell’umanesimo cristiano e di quello
socialista.
La politica
italiana appare ridicola . Le opposte marce di queste settimane, alle
quali ci siamo rifiutati di partecipare, sono due facce della stessa
medaglia, di una Italia irrimediabilmente inadeguata e anomala. Mentre i
leaders della sinistra europea, a cominciare da Blair, guidavano la
guerra, i leaders della sinistra italiana marciavano per la pace. E oggi i
no global marciano addirittura, in parte, contro l'America.Intendiamoci,
si può e forse si deve criticare la politica e la strategia americana. Ma
prima si sta sulla stessa barca, con
lealtà, e si rema, poi si ha diritto di dare consigli sul ritmo della
remata e sulla rotta. Come fa Tony Blair. Intendiamoci. In tutte le
coalizioni di Governo della sinistra europea,
in tutti i partiti socialdemocratici, ci sono posizioni come quelle
della sinistra dell'Ulivo. Rispettabili e rispettate. Ma partiti
socialisti al governo da cinquant'anni possono permettersele. Possono
permettersele partiti guidati da dirigenti nati e cresciuti socialisti,
non comunisti. Guidati da maggioranze riformiste del 95%. Noi non possiamo
permettercelo. Noi non possiamo permettercelo perché spesso quelli
che marciano oggi per la pace, mentre si combatte contro la
rivoluzione verde, marciavano ieri per la pace mentre si combatteva contro
la rivoluzione rossa. Marciavano, ma stavano in pratica dalla parte di
Stalin prima e di Breznev dopo. La sinistra italiana non può permettere
che i suoi cani di Pavlov abbiano sempre gli stessi riflessi condizionati,
la stessa reazione inevitabilmente e continuamente ambigua o ostile verso
l’Occidente.
Una sinistra
unica in Europa marciava ad Assisi. Una estrema sinistra ancor più unica
marcia oggi a Roma. Una destra unica in Europa si raduna in queste ore
sotto la bandiera americana. E' incredibile, perché mai un governo
democratico europeo chiama a raccolta la piazza. Perché un governo che
guida una guerra non organizza una manifestazione di parte, che divide la
Nazione, ma cerca l'unità della Nazione intorno alle sue Forze Ar mate.
Quelle Forze Armate, quei ragazzi in divisa, quel tricolore ai quali noi
oggi ci stringiamo con affetto. Non solo da socialisti, ma da italiani. A Washington, si scherza. Un tempo –si dice- i governanti
fascisti marciavano per le Piazze di Roma contro l’America. Adesso i
loro eredi governanti ex fascisti marciano per l’America. In Europa si
ride, perchè tutta l’Europa è solidale con gli Stati Uniti ( ovvio) ma
in nessuna capitale europea si è non dico realizzata, ma neppure
immaginata una simile manifestazione. Non è soltanto folklore della
eterna Italia da operetta . Nè strumentalizzazione politica contro la
marcia d’Assisi, tale da dare irresponsabilmente al mondo l’idea
falsa, devastante per gli interessi nazionali, di un’Italia divisa a metà
tra filoamericani e antiamericani. Può diventare peggio. E’ il segnale
simbolico di una destra italiana che viene sempre più emarginata in
Europa e che quindi ha la tentazione di allontanaresne. Berlusconi, ultimo
della classe agli occhi dell’Europa, vuole apparire il primo della
classe agli occhi dell’America. Mai come oggi invece c’è bisogno di
una Europa alleata degli Stati Uniti, leale sino in fondo, ma autonoma
dagli Stati Uniti e perciò politicamente e militarmente unita. Se
dovessimo sfilare per solidarietà all’America, dovremmo oggi farlo con
la bandiera europea . Sarebbe bene. Perché tutta la politica di
Berlusconi, a cominciare da quella economica, è sotto il segno del
“facciamo come in America”. La costruzione dell’unità europea
richiede invece, al contrario, di credere non solo nella nostra moneta
nuova, ma nei nostri valori storici, di credere in una cultura e una idea
unificante, che è simile a quella dell’America, ma non identica. La
diversità è, per
l’Europa, più solidarietà e meno individualismo. Più tolleranza e
meno durezza. L’Europa del Welfare State e non della pena di morte,
l’Europa dove la sinistra si chiama non liberal, ma, con orgoglio,
socialista, è diversa dall’America. Può forse, grazie alla sua
diversità, influenzarla e consigliarla positivamente, da amica e alleata.
Ma da alleata autonoma, in una alleanza tra uguali.
Oggi si dice
che l’unità europea è in una fase difficile, a una svolta. Che
l’Europa degli economisti e dei burocrati si allontana dal popolo.
Certo.Si allontana perché non ha un’anima. E l’anima dell’Europa è
questa. E’ l’anima costruita, nei decenni e nei secoli,
dall’incontro di due umanesimi: l’umanesimo cristiano e l’umanesimo
socialista.
Stati Uniti
del mondo. Contro il terrorismo, il coraggio dei riformisti. Questo è
oggi il nostro slogan. Dice molto. Più di quanto sembri a prima vista.
Indica il fondamento di una politica economica ed estera. Il coraggio dei
riformisti è quello di stare contro il terrorismo non a parole, ma con le
armi e sino alle estreme conseguenze. E’ anche quello di starci però
non da conservatori ma, appunto, da riformisti.
Di starci sapendo che il riformismo nazionale deve essere sostituito
sempre più da quello globale, con la costruzione di un nuovo ordine
economico mondiale, con l’avvio di riforme profonde che sradichino la
povertà e il sottosviluppo, che colpiscano così la più duratura fonte
del terrorismo. Stati Uniti del mondo significa che gli Stati Uniti sono
un valore immenso per il mondo, che il mondo oggi si stringe tutto agli
Stati Uniti. Ma Stati Uniti del mondo significa anche che di fronte a una
sfida terribile e globale, occorre finalmente costruire una grande e vera
organizzazione politica altrettanto globale: appunto,gli Stati Uniti del
mondo. Anche se è un obbiettivo purtroppo ancora lontano.
Le guerre,
insieme ai lutti, spesso portano il seme di un futuro migliore, di una
cultura nuova. Spesso aprono la strada ai sognatori. Al termine della
seconda guerra mondiale, nell’Europa distrutta, piangendo i morti e
chiedendo “mai più una guerra in Europa”, i sognatori che sono i
nostri padri politici, i Nenni e i Mendes France,i Saragat e i Bevin,gli
Spinelli e gli Henry Spaak, hanno immaginato l’Europa unita. Che i Craxi,
i Mitterrand, i Brandt , i Prodi hanno costruito
e che si deve ultimare. Oggi, quando sarà finita la guerra contro
il terrorismo (anzi, prima) dobbiamo cominciare a sognare anche noi.
Dobbiamo sognare quegli Stati Uniti del mondo, quella autorità politica
universale che i nostri figli e i nostri nipoti saranno chiamati a
realizzare.
top
Pia Locatelli
La settimana che ho trascorso in Pakistan, ai confini con l'Afghanistan,
mi ha consentito di vedere da vicino il dramma di quella regione e di
avere conferma di tutte le atrocità che in questi anni abbiamo sentito
raccontare. Ormai conosciamo tutti le tragiche condizioni di quel Paese da
quando i talebani hanno imposto la loro versione della Sharia, il canone
della legge islamica. Pochi invece sanno che le disgrazie di quel Paese
sono iniziate molti anni prima, con l'invasione sovietica dell'Afghanistan
nel '79, proseguite con la resistenza dei mujiaeddin che hanno costretto
alla ritirata l'orso sovietico, con gli anni di guerra civile tra le varie
fazioni dei mujiaeddin ed infine con l'arrivo dei taleban che nel
settembre '96 entrano a Kabul, controllando gran parte del territorio
afgano. Più di vent'anni di guerra hanno distrutto il Paese e la società
civile.
La guerra che non piace a nessuno, nemmeno a noi che abbiamo votato a
favore dell'intervento armato. Questa guerra al terrorismo è chiara negli
obiettivi ma gestita in modo clandestino e confuso e può finire in una
catastrofe o essere risolutiva non solo per l'Afghanistan ma per l'intera
regione. Dipende molto dalla capacità dei riformisti nel mondo dare un
forte impulso ad un processo politico che può far tacere le armi. Il
pacifismo riformista ritiene che la guerra debba essere gestita dalla
politica. Si può volere intervenire militarmente senza troppi distinguo
oppure si può volere intervenire secondo parametri e obiettivi di
costruzione di un sistema di pace migliore di quello di oggi.
Per questo bisogna confrontarsi con gli Stati Uniti ed avere una gestione
politica dell'intera situazione. Non va bene aderire alla guerra e
lasciare tutte le decisioni ad altri. Il rischio che corriamo è di essere
dentro le cose, dentro la guerra, senza poter partecipare alle decisioni.
Prima di questo viaggio in Pakistan, sono stata in Nicaragua, dove si è
svolta una riunione dell'Internazionale Socialista per sostenere Daniel
Ortega ed i Sandinisti alle elezioni che purtroppo hanno perso. C'erano
poche presenze a questa riunione dell'Internazionale Socialista,
organizzata anche per far vedere il loro non isolamento internazionale.
Dall'Europa due presenze in tutto, una francese ed una italiana, la mia in
rappresentanza delle Sdi. I conservatori invece il loro sostegno l'hanno
fatto sentire, eccome, in forme molto diverse, comprese le facilitazioni
per l'arrivo di tanti nicaraguensi che da anni vivono in Florida.
In questa guerra invece si sente soprattutto la voce americana, non si
sente la voce dell'Europa che è la regione del riformismo, del riformismo
socialista. Se riteniamo che le guerre debbano essere gestite dalla
politica, la voce dell'Europa deve farsi sentire. Se vogliamo essere
alleati e non sudditi degli Usa dobbiamo dare a questo rapporto dignità e
coerenza, dando impulso alla costruzione politica dell'Europa.
Per concludere vorrei aggiungere che ho letto con sollievo che insieme ai
soldati italiani si invierà nella regione un piccolo esercito formato da
ostetriche e ginecologhe per combattere il dramma delle condizioni
sanitarie della popolazione afgana, a partire dalle morti da parto. È una
nota positiva in mezzo a tante note tristi. Non posso non costatare però
che è stridente il rapporto tra il costo dell'operazione militare, 2700
miliardi, e i 28 miliardi degli aiuti umanitari che l'Italia, seconda nel
mondo dopo gli USA, ha stanziato.
top
Enrico
Morando
Care
compagni e cari compagni, vi ringrazio per l’invito che mi avete rivolto
a partecipare a questa che è una grande manifestazione di noi socialisti
nella mobilitazione contro il terrorismo internazionale. Vi ringrazio
anche per l’attenzione con cui avete seguito, credo di poter dire anche
per la simpatia con cui avete seguito la battaglia congressuale che ho
cercato, assieme ad altri compagni, alcuni dei quali sono qui, di
sviluppare all’interno dei congressi dei Ds. Vi ringrazio soprattutto
perché in questi novanta giorni in cui sono stato in giro per l’Italia,
non mi è mai successo di andare in una città a presentare la mozione, a
fare un dibattito, una discussione, se era un’iniziativa pubblica, senza
che mancasse a quella discussione il segretario provinciale dello Sdi, il
segretario cittadino dello Sdi.
Vengo
subito alla questione che vorrei affrontare. Secondo me, ha torto, chi
minimizza la portata della rottura che è intervenuta nell’Ulivo sul
tema dell’intervento militare in Afghanistan, e sull’impegno del
nostro Paese in quell’intervento. Molto semplicemente io la vedo così:
ogni cittadino italiano, dopo quella rottura, quella di qualche giorno fa,
ma anche quella che era intervenuta all’inizio venti giorni fa, è
autorizzato a pensare che se l’Ulivo avesse vinto le elezioni e stesse
governando l’Italia non avrebbe avuto la forza politica e la maggioranza
parlamentare necessaria per collocare l’Italia nella crisi
internazionale aperta dagli attentati dell’11 settembre. E se ogni
cittadino italiano è autorizzato da quella rottura a pensare questo
allora se ne deve dedurre che il progetto politico dell’Ulivo, come
credibile soggetto portatore dell’alternativa di governo al centro
destra, ha subito con quella rottura un colpo durissimo.
Chi
minimizza, chi invita a passare oltre, chi invita ad non esagerare, non
crede al progetto politico dell’Ulivo, non crede dunque alla possibilità
di una rivincita nei confronti del centro destra e del governo Berlusconi.
Considera, chi ragiona così, l’Ulivo una semplice alleanza elettorale,
priva di un’anima politica e di una sua automa identità politica e
programmatica e questa è la domanda che ci dobbiamo porre; è questo
durissimo colpo, un colpo mortale che ci lascia privi di un progetto
politico per l’alternativa di governo a Berlusconi? Io rispondo a questa
domanda sì e no. Sì, è un colpo mortale se si cercherà di “metterci
una pezza”, come si dice dalle mie parti, tornando alla situazione di
prima della rottura poiché proprio nella debolezza dell’impalcatura
politico-programmatica dell’Ulivo, sono maturate le condizioni della
decisione nel voto in Parlamento sulla guerra al terrorismo e al regime
talebano che lo protegge. No, non sarà un colpo mortale, se la salvezza
dell’Ulivo verrà perseguita attraverso uno sforzo per riconoscere
finalmente dico io, all’Ulivo, quell’autonoma soggettività politica
che gli è stata pervicacemente negata in questi anni, anni nei quali i
partiti (tutti) ma naturalmente i maggiori partiti dell’Ulivo, portano
una maggiore responsabilità per quest’errore. Hanno sbagliato non perché
non hanno investito a sufficienza sull’Ulivo, non perché hanno
sottovalutato l’importanza dell’Ulivo, non hanno commesso un errore
determinato da omissione, hanno commesso un errore ben più grave, hanno
fatto un’altra scelta politica.
La
crisi di oggi, deriva dall’idea che si dovesse affermare la supremazia,
il primato dei partiti sulla coalizione. È quella che nel gergo politico
abbiamo chiamato, e tutti chiamano, l’ansia della visibilità dei
singoli al posto del primato della proposta di governo. Questa scelta ha
progressivamente indebolito l’Ulivo e nell’Ulivo questo è quello che
ci deve preoccupare - almeno a me preoccupa - ha impedito la costruzione
di una solida convergenza dei più coerenti riformisti che stanno dentro
tutti i partiti dell’Ulivo.
Prendiamo
il tema della lotta al terrorismo, quello di cui si discute stamattina.
Prendiamo il tema dell’intervento armato in atto in Afghanistan contro
il regime dei talebani. Ebbene in tutte le formazioni politiche
dell’Ulivo, ci sono forze che ragionano più o meno così: certo,
l’attentato dell’11 settembre è un crimine contro l’umanità, certo
bisogna costruire una reazione attraverso un’ampia alleanza
internazionale contro il terrorismo, gli Stati Uniti hanno deciso di
intervenire, facciano, dicono queste forze, poiché hanno diritto in buona
sostanza all’autodifesa, ma noi della sinistra, in particolare, non
possiamo che essere contrari a questo intervento perché esso comporta
vittime tra i civili perché esso comporta nuove sofferenze per il popolo
afgano che sta soffrendo da tanti anni. Ma soprattutto, sostiene questa
parte della sinistra e non solo delle forze presenti nell’Ulivo, il
nostro lavoro è un altro, non è quello di organizzare l’intervento
militare in Afghanistan; è quello della lotta alla miseria, alla fame,
alle malattie, per la pace nel Medioriente, contro l’inquinamento
globale… è una posizione forte, diffusa, che spesso è motivata da quel
pacifismo intransigente a cui la sinistra da sempre giustamente dedica e
attribuisce grande rispetto. È una posizione che specie nella sinistra di
ispirazione socialista, per esempio nel mio partito si accompagna e si
alimenta talvolta di un sentimento anti-americano, che nasce nella fase
della guerra fredda, ma adesso trova ulteriori fonti di rinvigorimento,
diciamo, nella cosiddetta contrapposizione frontale alla globalizzazione
in quanto tale, non contro gli effetti negativi che ci sono e sono
drammatici della globalizzazione in quanto tale. Ebbene, nella sinistra
socialista e nell’Ulivo prevale un’altra posizione non questa, prevale
la posizione di chi dice, proprio perché noi della sinistra vogliamo
essere protagonisti della lotta alla fame, alla miseria, contro le
malattie, contro l’inquinamento globale, proprio perché vogliamo essere
protagonisti dell’iniziativa per affrontare e risolvere finalmente la
crisi mediorientale, proprio per questo noi vogliamo essere protagonisti
dell’iniziativa della lotta contro il terrorismo internazionale.
Per
noi è una priorità, perché noi siamo sinistra e vogliamo una società
ancora più aperta di quella che abbiamo. Proprio per questo noi vediamo
la radicalità della minaccia che viene portata contro le nostre società
e contro la sinistra, dal terrorismo internazionale. Parliamoci chiaro:
contro la minaccia del terrorismo, una parte della nostra opinione
pubblica, se la minaccia non verrà rapidamente rimossa, reagirà
chiedendo ai governi, toglieteci la libertà o il grado di libertà
sufficiente purché ci diate la sicurezza della vita. Ma la sinistra cari
compagni è incompatibile con questa risposta al terrorismo, perché la
destra tutto sommato in quella prospettiva, sarebbe capace di ritagliarsi
uno spazio, dentro una società più chiusa, ma la sinistra della pari
opportunità, dell’uguaglianza, della giustizia sociale, delle libertà
civili, la sinistra che siamo noi, la sinistra è incompatibile con la
chiusura delle società per reagire alla minaccia del terrorismo. Ecco
qual è la ragione specifica dell’impegno in prima fila della sinistra
contro il terrorismo internazionale.
Ora,
nell’Ulivo come nelle altre forze del socialismo europeo, questa
posizione che io ho appena enunciato è largamente prevalente
sull’altra, eppure c’è, è forte, è solida, ha un suo fondamento,
nell’analisi della società, nella storia della sinistra italiana ed
europea. Ma qui c’è un problema della sinistra italiana e dell’Ulivo
ma poiché l’Ulivo non ha sedi di elaborazioni comune, non ha gruppi
parlamentari federati, non ha un governo ombra con cui questi stessi
gruppi abbiano contratto un rapporto di fiducia analogo, per qualità
politica, lasciamo stare la qualità politica, a quello che sia col
governo quando si è maggioranza, nell’Ulivo il confronto tra queste due
posizioni che ci sono dovunque in Europa, produce esiti devastanti e porta
dinanzi al Paese non la forza della posizione prevalente, quella che qui
stamattina è stata illustrata e che ha animato gli ordini del giorno, le
risoluzioni che abbiamo votato assieme in stragrande maggioranza
nell’Ulivo in Parlamento. Ma porta di fronte agli italiani soltanto
l’immagine della divisione e della rottura, qui sta il problema. Ha
dunque un rilievo strategico per noi, la scelta di strutturare l’Ulivo.
Certo, i gruppi federati di Camera e Senato e tutte le altre istituzioni
in cui si offre a tutte le posizioni la possibilità di manifestarsi e lo
spazio per diventare maggioranza, ma poi ci si danno le regole per
decidere a maggioranza e so che c’è una diffidenza tra di voi su questo
punto, ma proprio per questa ragione lo voglio dire chiaramente, e secondo
me, ci si danno le regole perché ci sia una disciplina di maggioranza nel
voto parlamentare, perché dobbiamo ragionare come se, votando contro in
Parlamento, per difendere una posizione che abbiamo tutto il diritto di
cercare di far valere nelle riunioni, diciamo interne alla coalizione, è
come se ci fosse il governo dell’Ulivo e noi decidessimo di metterlo in
crisi. Questa è la qualità politica della scelta di votare contro il
Parlamento, non possiamo nasconderci dietro astratti principi di tutela
della lbierttà di coscienza, si tratta di scelte politiche in relazione
alla credibilità del progetto di cui noi siamo portatori e del soggetto
che porta dinanzi al Paese la proposta di governo alternativa al centro
destra.
Capisco
i vostri dubbi sulla disciplina di coalizione, ma vedete, cari compagni io
penso che bisogna che noi socialisti riformisti dell’Ulivo, abbandoniamo
ogni complesso di minorità. Dobbiamo farlo, non pretendendo, come abbiamo
fatto nel passato in particolare noi del Pds, di ricavare dalla nostra
collocazione nel riformismo socialista europeo nel Pse, le risorse per
vincere la competizione per la leadership in Italia, no, noi dobbiamo
guardare al rapporto alla collocazione che abbiamo nel socialismo europeo,
come a una risorsa decisiva perché si riesca a far valere la nostra
posizione nell’Ulivo come asse della costruzione di un’alternativa
politica e programmatica al centro destra. È questo tipo di risorsa che
noi dobbiamo cercare nella nostra collocazione internazionale, non la
risorsa che ci consente di vincere la competizione per la premiership o
per la leadership nell’Ulivo. Ecco, una decisiva funzione di coagulo
nell’Ulivo, noi possiamo svolgerla perché la nostra cultura riformista
nell’Ulivo si incontra con quel riformismo cattolico con quel riformismo
di ispirazione liberal-democratica che è l’anima del riformismo nel
modello europeo, e che negli altri partiti socialisti d’Europa più
fortunati e capaci di noi, per ora bisogna dire così, ha trovato casa
comune in un partito del socialismo europeo.
In
Italia la strada è può tortuosa, ma la sostanza politica non può che
essere la stessa e la nostra funzione politica dei riformisti di
ispirazione socialista non può che essere questa, almeno sotto il profilo
dell’ambizione. Ebbene, per svolgere questa funzione politica, decisiva
per rilanciare il progetto dell’Ulivo e quindi per dare al Paese la
speranza di un’alternativa a questo governo. Noi socialisti ci dobbiamo
unire, subito, in un unico partito del socialismo europeo in Italia,
nell’Ulivo e per l’Ulivo.
Non
dobbiamo guardare a questa prospettiva di unità come a qualcosa che sana
le divisioni, le ferite del passato che non hanno più ragione di essere.
Certo, c’è questo nel nostro disegno che è un comune disegno di unità,
ma c’è molto di più. C’è la possibilità per il riformismo di
ispirazione socialista, di essere protagonista con altri, con la
Margherita in primo luogo, nella costruzione del futuro per l’Italia.
Non
soltanto per noi nella casa comune dei riformisti l’Ulivo come
federazione stabile di partiti politici, di movimenti, di associazioni, di
singoli cittadini che sono impegnati nella costruzione di un’alternativa
di governo di tipo europeo ad un centro destra che purtroppo per noi di
europeo non ha granché.
Ebbene,
lo voglio dire chiaramente, se il socialismo riformista italiano, non esce
definitivamente da una connotazione partitica, dominata da ciò che deriva
dal grande scontro nel secolo che abbiamo alle spalle tra comunisti e
socialisti, non c’è futuro di governo né per l’Ulivo né per noi. La
Costituente nell’Ulivo e per l’Ulivo, di un nuovo partito del
riformismo socialista in Italia, secondo il progetto
proposto da Giuliano Amato, questo è l’obiettivo. Un progetto
che in Giuliano Amato, può trovare il suo centro motore e di
aggregazione, e può trovare la personalità decisiva per dare al nuovo
partito, bisogna chiamare le cose col loro nome, una leadership che sia
finalmente fuori, dalla storia del Pci. Lo dico pur essendo io tra quelli
che sono stati dirigenti del Pci. Io non appartengo però alla schiera di
quanti affermano “io non sono mai stato comunista”. Io sono stato
comunista, ho fatto tutta una carriera dentro il Pci, e non me ne
vergogno. Ma so che il nuovo partito del riformismo socialista in Italia
nasce soltanto se anche nella costruzione della leadership collettiva, di
quel nuovo partito che vogliamo fare, c’è una rottura di continuità
rispetto alla leadership del partito comunista italiano, che ha avuto un
rapporto di continuità anche nella esperienza successiva. E lo dico
consapevole che questo naturalmente ha delle conseguenze anche per il
sottoscritto. Non si può trattare di una federazione di partiti della
sinistra socialista; no, la federazione è l’Ulivo. Non ci dobbiamo
accontentare di un obiettivo misero.
Mantenere
l’attuale nomenclatura partitica, quella che affonda le radici nel
conflitto tra comunismo e socialismo, nel secolo democratico del ‘900 e
pretendere che non possiamo stare là dentro, ancora dentro quella logica
e poi pensare che..., beh insomma, basta fare una federazione per
affrontare il problema qualitativamente chiaro che abbiamo di fronte.
No,
nel 2000 il riformismo socialista europeo anche in Italia si deve
organizzare in un unico partito che sta nell’Ulivo ed è protagonista
della costruzione del consolidamento dell’Ulivo. Un partito del quale
facciano parte, come accade in tutti i partiti socialisti,
social-democratici e laburisti d’Europa. Anche le componenti più
radicali della sinistra socialista. Quando sento parlare di dividere
ulteriormente ciò che c’è, sento una stretta al cuore, perché è una
maledizione questa della sinistra italiana, e cioè quella di pensare che
l’identità socialista non sia sufficientemente ampia per raccogliere
tutti quelli che da posizioni più radicali o da posizioni di socialismo
riformista più conseguente e coerente, a quella grande tradizione fanno
riferimento ma si pensa nel futuro e non in funzione di ciò che sono
stati nel passato.
In
quel nuovo partito io penso che i socialisti liberali, potranno trovare il
modo di realizzare una convergenza del loro impegno nella costruzione di
una maggioranza ampiamente compatibile con la presenza delle posizioni più
radicali, ma capace di dare a quel partito stesso, una direzione politica
univoca e coerente con quella che è attualmente in corso nei grandi
partiti del socialismo democratico europeo.
Ebbene
è un processo costituente quello a cui noi vogliamo lavorare e che deve
fare i conti anche con il fallimento della Cosa 2 di Firenze. Un
fallimento determinato da due errori fondamentali: a Firenze non c’era
l’Ulivo. Abbiamo pensato di costruire un partito unitario del riformismo
socialista a prescindere dall’Ulivo. Il riformismo socialista non ha
funzione di governo, non è socialismo europeo.
In
secondo luogo noi del Pds, noi che avevamo e abbiamo alle nostre radici
come Pds, il partito comunista italiano, abbiamo preteso di procedere per
cooptazione verticistica dall’alto di quelli che del Pds non facevano
parte. Questo non era un nuovo partito, era il partito vecchio che pensava
di allargarsi. Non era una nuova casa, era una casa che c’era già e di
cui alcuni di noi ne tenevano le chiavi.
Così
non nasce nessun nuovo partito del riformismo socialista in Italia, perché
nasce soltanto attraverso un processo costituente che è chiaro nel
progetto finale, quindi è dall’alto ma è capace di realizzare la
costituente dal basso attraverso un rapporto di pari presenza diciamo
dentro il processo costituente di tutti quelli che condividono il nostro
obiettivo.
Noi
al congresso dei Ds della prossima settimana, chiederemo che ci si impegni
con un voto a partecipare senza pretese egemoniche alla costituente di
questo nuovo partito e non ci accontenteremo di niente di meno di una
decisione sulla costituente del tipo di quella che io ho qui descritto.
Spero care compagne e cari compagni, che a voi stessi e a noi tutti non
chiederete niente di meno.
top
Gianfranco
Schietroma
Credo sia
interessante sviluppare la discussione anche con qualche riferimento di
carattere storico, ricordando cioè, sia pure brevemente, la politica
estera di un grande maestro del socialismo democratico, Giuseppe Saragat.
In un passo tratto da un discorso di 50 anni fa, pronunciato cioè il 9
ottobre 1951 alla Camera dei Deputati sul tema "Il Patto Atlantico
per una politica di pace" Saragat si chiede: "Qual è la
politica estera che dobbiamo seguire? I criteri che noi pensiamo debbano
presiedere al giudizio sulla situazione internazionale per la scelta della
strada che dovrà seguire il nostro Paese sono, a mio avviso,
sostanzialmente tre: il primo è una fede profonda, profondissima nella
libertà politica, nella democrazia politica; il secondo è l'amore per
l'indipendenza del nostro Paese; il terzo è il desiderio profondo,
sincero, schietto di mantenere la pace. Tutto questo va bene - si dice -
ma perché l'Italia deve mettere il naso in faccende che non la
riguardano? Perché non si accetta la tesi della neutralità? La tesi
sarebbe: "avvenga quello che può nel mondo e l'Italia rimanga
fuori".
Questa tesi neanche al giorno d'oggi è stata definitivamente accantonata,
e mantiene sempre autorevoli sostenitori.
Al riguardo, però, già nel 1951 Saragat osserva giustamente che questa
tesi è estremamente ingenua. "Se un conflitto dovesse
scoppiare" - spiega Saragat- "purtroppo l'Italia, sia essa
neutrale o non neutrale, sarebbe fatalmente travolta".
Come è ben noto, queste affermazioni di Saragat sono diventate storia
perché le barriere tra l'Occidente e l'Est europeo sono cadute.
E veramente significativo è anche il discorso pronunciato al Senato dal
Presidente Saragat il 16 marzo 1978 in occasione del dibattito
parlamentare sulla fiducia al Governo che si svolse sotto il peso della
grande emozione arrecata dalla drammatica notizia del rapimento di Aldo
Moro. Quella di oggi è una situazione molto più delicata e complessa,
anche se taluni pensano, sbagliando, che il terrorismo odierno sia più
lontano dall'Italia rispetto a quello di trent'anni fa.
Il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha risposto alla nuova
minaccia del terrorismo predicando la superiorità della civiltà
occidentale rispetto a quella islamica.
Noi Socialisti democratici riteniamo, invece, essenziale la solidarietà e
la fratellanza del mondo occidentale con quello islamico nonché il comune
impegno dell'Islam e dell'Occidente contro i terroristi da qualunque parte
essi provengano. Non stiamo dicendo cose nuove perché si tratta di punti
fondamentali della politica estera attuata in Italia proprio dai tanto
vituperati governi di centro-sinistra del passato.
Tutto ciò significa innanzitutto colpire con durezza i terroristi, ma nel
contempo perseguire fortemente la pace coltivando ogni prospettiva di
collaborazione con gli arabi moderati.
In questa guerra il ruolo dell'Italia potrebbe essere fondamentale,
ovviamente non dal punto di vista bellico, ma sotto il profilo diplomatico
per la credibilità acquisita in anni di dialogo e di cooperazione con
l'islamismo moderato. Una credibilità che, purtroppo, è stata gravemente
compromessa dalle avventate dichiarazioni dell'attuale Presidente del
Consiglio.
È importante che l'Italia ritorni ad essere protagonista in politica
estera; ancor più importante è il ruolo dell'Europa. Molto
opportunamente il Presidente dell'Unione Europea, Romano Prodi ha
rilanciato il dialogo dell'Europa con i paesi arabi. Occorre isolare
politicamente i fondamentalisti islamici per sconfiggere il terrorismo e
raggiungere l'obiettivo della pace.
Un altro aspetto da perseguire è quello di governare bene la
globalizzazione che, del resto, non può essere fermata proprio perché
non si può bloccare il progresso; d'altra parte, l'alternativa alla
globalizzazione è l'isolamento. Bisogna, dunque, battersi affinché la
globalizzazione proceda di pari passo con la giustizia sociale, evitando
che essa porti benefici ed opportunità soltanto a pochi.
Ma il discorso sulla globalizzazione è un discorso strettamente collegato
al tema della giustizia e della libertà. Giustizia non significa solo
punire i colpevoli. Giustizia significa anche portare i valori di
democrazia e di libertà a tutti i popoli del mondo, a tutti gli uomini e
a tutte le donne, comprese quelle dell'Afghanistan. Libertà, ovviamente,
nel senso più ampio di libertà personale, economica e sociale. Oggi,
nella misura in cui non ci dimenticheremo dei milioni di affamati e
disperati nel mondo, creeremo non solo le basi per la prosperità di
tutti, ma soprattutto eviteremo all'umanità di autodistruggersi.
top
Roberto Villetti
La nostra
Conferenza vuole esprimere, innanzi tutto, la consapevolezza che noi
socialisti abbiamo dei cambiamenti che si sono determinati dopo l'11
settembre, con l'attacco terroristico alle Twin Towers e al Pentagono. Di
fronte ad un terrorismo, che usa armi estreme, dagli aerei di linea come
bombe esplosive al bioterrorismo, nessuno può rimanere inerte, dagli
Stati Uniti all'Europa. La decisione, che il Parlamento ha assunto, di far
intervenire le forze armate nel contrastare il terrorismo è stata
inevitabile. Nell'entrare nel teatro di guerra non manca, certo, la
preoccupazione per i rischi cui vanno incontro i nostri soldati. Né
entusiasmo né retorica accompagnano una scelta che è e resta drammatica.
Dovremo convivere - e non sappiamo per quanto tempo - con la guerra al
terrorismo. Il confronto con il terrorismo non deve prendere le vesti di
una "guerra tra civiltà", di uno scontro tra religioni, di un
conflitto tra ricchi e poveri: se ciò avvenisse, l'esito sarebbe
catastrofico. L'Italia già risente negativamente della tensione
internazionale nelle sue possibilità di sviluppo. La previsione di una
crescita attorno al 2% del PIL, prospettata dal Governo nella nota di
aggiornamento del Dpef, è già considerata ottimistica dai principali
istituti di ricerca. Il Governo Berlusconi non sembra aver tenuto
sufficientemente in conto la necessità di mettere in opera al più presto
politiche espansive. La finanziaria, che sta percorrendo il suo iter
parlamentare, appare mediocre, insufficiente ed inadeguata. Il governo,
dopo aver rinviato le promesse di sgravi fiscali, sembra essere rimasto
senza bussola. Aver svalorizzato la concertazione sindacale è stato un
grave errore che apparirà ancora più grave se la nostra economia batterà
colpi e si avvierà in una fase recessiva.
Le difficoltà non esimono il centro sinistra a comportarsi da forza di
governo, anzi richiedono ancor più l'indicazione di soluzioni concrete
per risolvere i gravi problemi aperti, sia in Parlamento sia nel
Paese.Tutto deve essere fatto per contrastare le spinte recessive,
mantenendo in equilibrio i conti pubblici. Ciò comporta scelte che il
Governo non sembra in grado di fare. Il centro sinistra deve incalzare il
governo con politiche di sviluppo realistiche ed adeguate.
La situazione internazionale comporta chiarezza sia in politica estera sia
in politica interna. Ciò vale anche per gli orientamenti strategici che
vogliamo portare avanti. Serve al nostro paese la creazione di un grande
partito socialdemocratico di tipo europeo. Ciò è possibile se si farà a
sinistra un'operazione simile a quella che è avvenuta nella Margherita:
su un corpo postdemocristiano si è innestata una leadership, come quella
di Rutelli, che non è riconducibile alla storia della DC. Analogamente a
sinistra su un corpo postcomunista deve essere innestata una leadership
che non sia rapportabile alla storia del Pci, com'è quella di Amato.
Contemporaneamente va rafforzato il nucleo omogeneo dell'Ulivo, che - come
si è visto nelle scelte di politica estera - esiste tra Ds, Sdi e
Margherita, in modo tale da far crescere sempre più un nuovo soggetto
politico.
Ho l'impressione che l'acuirsi della tensione internazionale comporterà
un'accelerazione del chiarimento che si è avviato. L'Ulivo si svilupperà
- come ha detto Enrico Boselli prendendo una metafora dall'Europa - a due
velocità. Non so, invece, prevedere quale sarà la disponibilità dei Ds
a portare avanti un'operazione simile a quella della Margherita.
Aspettiamo con interesse le conclusioni del Congresso di Pesaro.
top
Ottaviano Del Turco
Oggi siamo a
Napoli. Molti di voi ricordano quel film meraviglioso di Nanni Loi,
"Le quattro giornate di Napoli", e la scena di quel bambino che
affronta un carro armato tedesco con una bottiglia molotov. Provate a
immaginare un'immagine di quella forza riproposta ogni giorno e rapportata
a centinaia di bambini che scagliano sassi contro i carri armati
israeliani. Anche così si è costruito nei Paesi arabi un sentimento
drammatico. Paesi moderati, soprattutto penso all'Egitto, non sono in
grado di andare oltre la generica comprensione delle ragioni degli Stati
Uniti, perché è forte in quei Paesi un sentimento di solidarietà con i
ragazzi di Gaza, di Ramallah, di Betlemme.
La guerra non finirà con la conquista di Kabul ma con la fine dell'Intifada.
Quel giorno finirà un focolaio di infezione in Medioriente e nel mondo.
Questo è il problema che gli Stati Uniti d'Europa devono porre con forza
agli alleati americani.
Ho trovato straordinario il passo avanti fatto da Berlusconi in
Parlamento, quando ha parlato della necessità di un piano Marshall per i
territori arabi sotto il protettorato delle autorità palestinesi. Trovo
singolare che usi, come fa nella sua azienda, l'idea della costruzione
dello "Stato chiavi in mano", ma l'idea politica è importante.
Oggi avete le notizie dai giornali del sequestro di un po' di conti
bancari legati al terrorismo. Se posso esprimermi con una frase non
proprio istituzionale, direi che è "robetta". In tutti i
pacchetti di sigarette che vengono venduti nei vicoli di Napoli, che
vengono portati qui dal Montenegro, che passano qualche volta per Cipro,
c'è una tassa che non si paga solo alla criminalità organizzata. C'è
una tassa che si paga anche a coloro che usano i territori di passaggio e
concedono il passaggio di sigarette, armi, droga, alla condizione che si
dia un obolo per la lotta contro il nemico, contro gli Stati Uniti. Si
usano, le sigarette della Philip Morris per organizzare gli attentati. E
questo avviene in Europa non nella Svizzera, che fra cinquant'anni si
pentirà per la copertura che ha dato a troppi conti che riguardano questo
infame commercio. Questo avviene in Paesi che fanno parte della comunità
europea come l'Austria. Con otto milioni di abitanti le banche austriache
hanno 28 milioni di correntisti; per ogni cittadino austriaco ci sono più
di tre conti in banca, un po' troppi. In molti paesi europei, in alcune
piazze finanziarie in particolare a Londra e a Francoforte, circolano
conti che appartengono a quel filone che alimenta il terrorismo. Di questo
l'Europa si deve occupare. Per questo il coraggio dei riformisti è anche
il coraggio di saper parlare questo linguaggio. La nostra differenza, non
nasce dal fatto che abbiamo opinioni diverse sulla guerra. Io rispetto
moltissimo coloro che dicono, "né un soldo né un uomo per la
guerra"; io questo slogan lo conosco perché appartiene al mio dna,
appartiene alla mia storia politica personale. La differenza è un'altra.
La differenza è che nel nostro Paese si è divisi non da un'idea forte di
questo tipo ma da una generica contraddizione, da un "mal di
pancia". A me è già capitato una volta di vedere la politica morire
per atteggiamenti arroganti di una parte della sinistra; ma morire per dei
mal di pancia, mi sembra francamente un'esagerazione. Questa volta
quest'errore non dobbiamo farlo.
top
Enrique Baron Crespo
Innanzitutto
voglio rivolgervi il saluto non soltanto del gruppo del partito socialista
europeo nel Parlamento europeo, ma anche il saluto del presidente del Pse,
il compagno Robin Cook. E sulle vostre vicende italiane io ho un messaggio
molto breve e preciso: in Europa stiamo costruendo il partito socialista
europeo come una forza, la forza decisiva della sinistra democratica, e
per noi è molto importante avere in Italia una sinistra che sia una forza
socialdemocratica unita.
Qual è l'impegno dei socialisti europei? Il nostro impegno è di
costruire una unione europea che sia forte, che sia unita e democratica e
in questo momento abbiamo due processi importantissimi, uno
l'allargamento, l'altro il dibattito sul futuro dell'Europa nel 2004, e
allo stesso tempo dobbiamo occuparci di rendere più forte la nostra casa,
e uno dei primi punti sarà l'introduzione dell'euro.
Dunque questo è un passo avanti, ma la domanda che si pone in questo
momento è una domanda angosciosa per quello che è accaduto l'11
settembre. Io direi che prima bisogna ricordare che abbiamo fatto
un'unione europea tra nemici da secoli, per avere la pace e in questo
momento abbiamo la pace. Abbiamo avuto una prosperità senza precedenti e
abbiamo anche fatto la prima esperienza regionale di un modello in cui la
globalizzazione è una globalizzazione civilizzata. Questo è molto
importante.
L'11 settembre è il passo anche verso il terrorismo globalizzato, tutto
si globalizza e anche il terrorismo. Quel fanatismo unito
all'utilizzazione di tecnologia avanzata, ha prodotto l'11 settembre e io
credo che bisogna incominciare ricordando che la sfida di quel terrorismo
in questo momento è una sfida che attende una risposta a partire dall'Onu.
E non è un caso che l'ultimo messaggio di bin Laden su Al Jazira sia
stato un attacco all'Onu, perché è la base della grande coalizione che
abbiamo fatto e che non è una coalizione per far la guerra
all'Afghanistan ma per lottare contro il terrorismo. Voglio ricordare che
una settimana prima dell'11 settembre, al parlamento europeo, abbiamo
approvato un rapporto, il rapporto Watson sul terrorismo. A quel momento
il terrorismo era un problema solo nel Regno Unito, nell'Irlanda del Nord
e bisogna dire che nell'Irlanda del Nord non sono i musulmani che
attaccano le bambine che vanno a scuola, sono i cristiani. Questo vuol
dire che il fanatismo non è monopolio di nessuna religione. Anche nel mio
Paese, proprio questa settimana, soffriamo ancora la maledizione del
terrorismo, una maledizione che ha accompagnato grande parte della mia
vita politica. Anche in questo caso non sono musulmani che fanno i
terroristi. E anche voi che avete vissuto gli anni di piombo sapete
questo.
Ci sono anche altri terroristi in Europa ma il salto che si è prodotto
l'11 settembre è una sfida a tutto un sistema di valori, non al valore di
una religione o di un'altra. È il fatto di considerare che attraverso il
ricatto e attraverso l'utilizzazione di mezzi tecnologici avanzati, si può
imporre la volontà di qualche fanatico. Questo è il fatto decisivo. È
per ciò che bisogna dire che non siamo in guerra contro un Paese: noi
siamo in lotta contro il terrorismo, perché è una minaccia per il nostro
sistema di valori e per tutta l'umanità. E questo è il primo punto da
ricordare quando si dice che bisogna fermare i bombardamenti.
Una riflessione su una questione molto molto bruciante: il nostro ruolo
internazionale come europei nella crisi del Medioriente, cioè nel
processo, spero di pace, arabo-israeliano. Io direi anzitutto che per la
prima volta, e questo si è visto a Sharm el Sheik e a Taiwan, l'Unione
europea come tale, è presente in questo processo politico.
Cosa bisogna dire? Bisogna dire che non c'è un'altra soluzione e che il
riconoscimento del diritto a esistere dello stato di Israele, dentro
frontiere sicure; ma allo stesso tempo anche che ci deve essere uno Stato
palestinese accanto allo Stato di Israele.
Concluderei dicendovi di andare andate avanti sul processo di unità che
sarà molto duro e che sarà molto travagliato, ma io credo che si può
ricordare un principio elementare: l'unità fa la forza; noi aspettiamo e
come socialisti europei siamo desiderosi di avere un partner, in Italia,
che sia capace di portare avanti con noi, con forza e con coraggio, questa
lotta per un'Europa unita, un'Europa più solidale, più giusta e anche un
mondo più libero.
top
Giuliano
Amato
È stato giusto
rivedere il filmato della tragedia dell'11 settembre. È stato un evento
assolutamente al di là di ogni immaginazione e tuttavia è accaduto. A
rifletterci sopra si deve constatare che si è trattato ahimè di una
tragica conferma di una cosa che molti di noi per la verità avevano già
detto e pensato, e cioè che la fine del ventesimo secolo e la fine del
comunismo, non rappresentavano la fine della storia e non rappresentavano
l'inizio di un nuovo ordine mondiale che si sarebbe naturalmente
instaurato da solo, grazie alla contemporanea diffusione della democrazia
e della globalizzazione. Questa fu un'illusione che prese corpo all'inizio
degli anni novanta, e che non permise di valutare correttamente cosa
significava il mondo globalizzato e quanto lavoro politico fosse
necessario perché si instaurasse un nuovo ordine mondiale anche
all'interno delle nostre società.
C'è un grande bisogno di riformismo e quindi un grande bisogno di noi
perché questo nuovo ordine possa realizzarsi. Il mondo, le nostre società
lasciate a se stesse, tendono in realtà al disordine, al conflitto, a far
riemergere gli squilibri che decenni di impegno riformista erano riusciti
in qualce modo a bilanciare almeno all'interno delle società più
sviluppate. Non c'è un pensiero unico che si affermi nel mondo. Non c'è
un McDonald's che da solo riesca a far pensare tutti allo stesso modo,
anche se tutti mangiano lo stesso hamburger. È una stupidaggine
ideologica di proporzioni colossali quella che vede un'uniformità di
pensiero in ragione della globalizzazione. In questo mondo invece, l'una
accanto all'altra, contestualizzate come mai erano state nella storia
precedente, ci sono diversità che non hanno ancora trovato il modo di
comporsi, di intendersi, di avere una comune piattaforma di valori. È
questo il cuore del problema che il mondo ha davanti, questa enorme
diversità che non sono solo quelle tremende tra ricchi e poveri, perché
continuano ad esserci troppo troppo ricchi, e troppi quelli che muoiono
perché addirittura non hanno il cibo.
Oggi siamo circa 6 miliardi, e siamo un miliardo, più o meno, quelli che
mangiamo tutti i giorni, contro cinque miliardi che sono a livelli di
assoluta povertà. Ebbene tra alcuni anni saremo 9 miliardi e i ricchi
continueranno ad essere un miliardo. E i poveri saranno diventati 8. Ma,
attenzione, non c'è solo questo. Ci sono differenze profonde, di culture,
di accettazione dei valori di convivenza e di tolleranza che sono
essenziali.
Come si fa a vivere in un mondo ormai così aperto se non si è disposti a
trovare forme di reciproca tolleranza che ci permettano di convivere e di
cooperare? Questo è il mondo che molti cercano.
Noi abbiamo una raggiunto un equilibrio nei principi di libertà e nei
diritti di tutti. Ma questo cammino, in altre parti del mondo, è un
cammino contestato, è un cammino difficile, che porta allo scontro tra
fondamentalisti ed riformatori. È uno scontro che abbiamo avuto anche
noi, e non è detto che non lo riavremo anche nel futuro. Noi non siamo
figli di una civiltà che è stata per definizione tollerante. La nostra
civiltà ha imparato a diventarlo convivendo con altri e apprendendo la
ricchezza che ci poteva venire dallo stare con altri, e dallo starci
pacificamente. Ma se noi stessi fossimo rimasti quello che inizialmente
eravamo, forse avremmo ancora i roghi dove si bruciavano i libri, e anche
le persone. Non possiamo dimenticare questo quando affermiamo principi che
sono stati per noi una conquista e non un dono acquisito alla nascita,
mentre in altre parti del mondo questa lotta è tuttora in corso, e
occorre che vi sia una piattaforma comune tra coloro che credono nella
libertà, nella tolleranza e nella convivenza. Occorre fermare chi nel
mondo vuole affermare principi opposti. In un bell'articolo Jean Daniel,
su Repubblica, osservava giustamente che la questione non è quella della
povertà; la povertà non è la ragione dell'intolleranza, è l'alibi
dell'intolleranza. È l'alibi che viene usato da un mondo chiuso e
conservatore che vuole imporre intolleranza, dispotismo, negazione dei
diritti.
La ragione è un'altra e la conosciamo perché fa parte della nostra
stessa storia. È nel totalitarismo culturale, nell'avere delle verità
che non possono essere contraddette, in un'interpretazione del Corano che
è attribuisce ad alcuni il diritto di stabilire chi ha la verità in
mano.
Provate a pensare: addestrare dei giovani ad accettare di morire per
portare la morte ad altri. Pensate quale negazione c'è in questo proprio
del profondo dell'animo umano; noi esistiamo per vivere, non per morire.
Nessuna divinità è mai stata ragionevolmente pensata come fonte di
morte. Questo è esattamente ciò che si pensa anche nei Paesi del Corano.
Oggi vediamo armi e bombe in campo e non vorremmo vederle. Ma cari
compagni, abbiamo vissuto nella nostra storia guerre di liberazione e se
non si ha il coraggio di affrontare le dure necessità della liberazione,
questa non avviene e invece accade piuttosto il contrario. Il terrorismo
vi può sembrare un fatto lontano, ma le sue conseguenze si sono avute in
un Paese vicino, negli Stati Uniti di America, che è una nostra creatura,
una creatura dell'Europa. Negli Stati Uniti d'America ci siamo noi, gli
italiani, e anche gli irlandesi, gli scozzesi, i portoricani, i messicani
che sono andati a cercare una vita migliore in un Paese diverso. Molti
hanno portato con sé i principi che avevano acquisito in Europa, hanno
trasferito là quei principi di libertà e di convivenza reciproca che
avevano appreso di qua, da questa parte dell'Oceano. Piuttosto ci dovremmo
domandare: che cosa avremmo fatto se fosse accaduto qua, avremmo gli
stessi dubbi? Le stesse perplessità?
Io direi di sì, ma nel senso che per tutti noi non è una decisione
gioiosa quella di andare a combattere, di usare strumenti di distruzione
come sono gli strumenti della guerra nei confronti di chiunque; ma è
stato fatto.
È stato fatto nella seconda guerra mondiale, nella guerra di Spagna e
anche prima. Dobbiamo saper distinguere. Io non accetto lezioni di
pacifismo da chi è o si professa comunista, perché se questo fosse vero,
allora il comunismo non avrebbe mai potuto esistere.
Capisco i sentimenti per esempio dei Verdi, perché in quei sentimenti che
sono autenticamente pacifici io ritrovo le ragioni di un dubbio, di una
divisione che appartiene storicamente anche al mio partito, che si divise
già nel 1915, perché tutti vorremmo la pace. Eppure quando è necessario
per difendere la libertà, è bene che le operazioni militari le faccia
chi vuole la pace non chi vuole la guerra, perché solo così ci sarà la
garanzia che c'è un senso del limite, che si fa ciò che è assolutamente
necessario, che si fa quanto è possibile per risparmiare vittime civili.
Trovo che sia terrificante che vengano dimenticate le 4-5000 persone
innocenti uccise deliberatamente nelle Twin Towers quando per errore,
perché di errore si tratta, una bomba degli Stati Uniti uccide qualche
civile. Quello di bin Laden e dei suoi amici non fu un errore, fu una
scelta criminale. E allora può capitare che nella reazione contro scelte
criminali si facciano errori, ma dobbiamo mantenere questa capacità di
distinguere. Se non lo facciamo e se non sappiamo avere la responsabilità
della giustizia, allora domani un altro nazismo può impadronirsi del
mondo. E noi inermi lasceremmo che il mondo cadesse sotto un nuovo
nazismo? Che cosa ci direbbero i nostri figli e i nostri nipoti?
Ci direbbero quello che noi diciamo e cioè che ci furono dei vili nei
confronti del nazismo. E questo non deve accadere.
Io so che si vorrebbe essere soltanto buoni, e sono critico contro chi
critica il buonismo e penso che sia importante che vi siano sentimenti
altruisti in un mondo che corre verso un terrificante egoismo. Non
approfittiamo dunque di una situazione disgraziata per fare del sarcasmo
su chi pensa in primo luogo che sia necessario mantenere vivi i sentimenti
di solidarietà verso gli altri ma in determinate circostanze bisogna
sapere essere anche giusti. Vi ricordate ce lo hanno insegnato al liceo:
"Umano sei, non giusto". Questo è drammatico, a volte dover
essere anche giusti ma la giustizia è necessaria perché una società
funzioni, perché sopravviva. E l'intervento militare in Afghanistan è
un'operazione di giustizia resa necessaria da un atto di somma ingiustizia
che testimonia un fenomeno che sta crescendo e che deve essere fermato,
affermando contemporaneamente le ragioni che questa ingiustizia nega: le
ragioni della tolleranza, della convivenza, dell'essere diversi e sapere
stare insieme tra diversi.
E a proposito di tolleranza, se avessi un Dio al quale rivolgermi vorrei
pregare perché al più presto possibile palestinesi ed israeliani
sapessero dimostrare che si può convivere in quel fazzoletto di terra in
cui abitano. Ma pensate che assurdità; si conoscono tutti, famiglia per
famiglia. Quando Peres ed Arafat s'incontrano, si chiedono reciprocamente
notizie dei loro familiari, perché vivono in un fazzoletto di terra.
Questa può essere la prova del cambiamento del mondo, se in quel
fazzoletto di terra si riesce a dimostrare che uomini e donne di
religioni, etnie diverse, riescono a trovare un approdo di pace, di
convivenza perché la nostra sfida è questa, è fermare il terrorismo, ma
anche dimostrare contemporaneamente che ha un senso il mondo nel quale noi
crediamo, un mondo nel quale si può essere diversi ma si può vivere
insieme.
L'Europa è stata grande nella storia fino ad ora perché è stata il
punto di incontro delle civiltà del mondo, via via che queste si
sviluppavano da un secolo all'altro, e messe insieme queste civiltà in
Europa partorivano nuove unità spirituali. Io sono personalmente
l'espressione di questa vicenda della storia d'Europa; avevo uno zio che,
come capita a volte nelle culture meridionali, - la mia è una famiglia
siciliana - voleva sapere le origini della sua famiglia e fece una ricerca
dalla quale riuscì ad risalire ad un punto ma senza superarlo, e cioè
che la nostra famiglia era venuta dalla Spagna alla fine del XV secolo.
Perciò non abbiamo mai saputo se la nostra famiglia fosse di origine
araba o ebrea, ed io sono felice di non sapere se nelle mie vene scorre
sangue arabo o ebreo; c'è sangue siciliano e io mi sento un perfetto
europeo.
Questo è l'impegno al quale ci dobbiamo dedicare in un mondo che deve
fare molto per rendere la convivenza possibile, perché se la povertà non
è la ragione del terrorismo è tuttavia la ragione di profonde divisioni
che sono di per sé intollerabili ed è nostra primaria responsabilità,
attenuarle, ridurle, cambiarle. In una parola fare in modo che i nostri
diritti di cittadinanza diventino i diritti di cittadinanza di chiunque a
cui capiti di nascere in qualche parte di questo mondo e non soltanto
perché lo assistiamo ogni tanto, ma perché contribuiamo a far sì che in
ogni parte del mondo sia possibile crescere senza essere esclusi per il
solo fatto che ci si è nati. Questa fu la missione alla quale il
socialismo corrispose alla fine del secolo diciannovesimo. Anche allora è
capitato a molti bambini che sono stati i nostri bisnonni di nascere in
luoghi dove per il sol fatto di esserci nati, si era già potenzialmente
degli esclusi. Ebbene l'orgoglio dei socialisti è di averli resi
cittadini, di aver dato dei diritti a chi non li aveva.
Ora dobbiamo trasferire questa missione su scala mondiale perché è
questa la domanda che viene dal mondo, alla quale possiamo rispondere se
siamo un grande e forte movimento.
E per questo vorrei che fossimo attenti davanti alle divisioni in
relazione alla guerra, ricordando che le abbiamo già vissute e che
dobbiamo smascherare quelle che non sono autentiche, ma dobbiamo invece
considerare come parte di noi quelle autentiche. In fondo ogni giorno in
Afghanistan è una parte di noi che viene messa in gioco, dobbiamo esserne
consapevoli. Si deve essere giusti non guerrafondai; queste sono due cose
profondamente diverse.
I grandi cambiamenti oltre che nel mondo sono avvenuti anche all'interno
delle nostre società. Anche qui come nel mondo, non è un nuovo ordine
quello che si è venuto affermando, ma è un potenziale disordine che ha
bisogno di un'azione riformista per trasformarsi in ordine.
Quando dico queste cose le dico consapevole del fatto che non è mai
accaduto nella storia che senza che uomini e donne di buona volontà
accadesse qualcosa di buono. La manna dal cielo forse è caduta una volta
sola, ma il resto è stato guadagnato dal cervello, dalle braccia, dalla
fatica, dalle lotte di uomini e donne per un mondo migliore. Quando dico
questo, e parlo del disordine internazionale, lo dico perché penso che un
nuovo ordine è possibile, perché le risorse le abbiamo per fare in modo
che nessun bambino muoia di fame, per evitare che l'Aids si trascini via
intere popolazioni. Abbiamo le risorse perché i ragazzi e le ragazze
egiziani e algerini che non riescono ad andare a scuola, abbiano una
scuola nella quale studiare. È possibile questo, naturalmente deve essere
realizzato ma in questo mondo senza confini è meravigliosa la prospettiva
di una convivenza tra diversi, contestualizzata senza confini e senza
intolleranze. È molto più bella di quanto non fosse la storia di un
mondo in cui ciascuno viveva il suo capitolo di storia ignorando quello
che accadeva fuori dalle mura domestiche.
Anche qui oggi vediamo i segni del disordine. Vediamo una società nella
quale è finito il riformismo e nella quale non c'è il posto di lavoro
fisso; una società che presenta delle cause di infelicità e di ansietà
molto superiori a quelle di prima. E' una società in cui ai giovani viene
riservato un lavoro sempre mobile, sempre a tempo definito, sempre a tempo
parziale. Hanno ragione; sono infelicità che noi non avevamo, e questo può
portare al disordine le nostre società. E ricordate, non è che perché
siccome noi dobbiamo essere innovatori, perché i riformisti sono
innovatori allora noi stiamo con D'Amato. E no, voi siete socialisti,
dovete tener conto delle ragioni di D'Amato, perché i socialisti hanno
sempre saputo interpretare un interesse generale, ma tutto questo calore
per licenziare il prossimo, da parte vostra non me lo aspetterei, ed è
importante che non me lo aspetti.
Ricostruire un ordine possibile in una situazione nuova, significa
prendere atto che se noi vogliamo rappresentare in primo luogo il mondo
del lavoro, ed io voglio farlo perché il mio partito è sempre stato con
il mondo del lavoro e in quello si è riconosciuto. Ma devo sapere anche
che il mondo del lavoro è cambiato molto, che i modi tradizionali di
rappresentare il lavoro impediscono oggi di farlo adeguatamente. Se io
oggi vedo un lavoratore dipendente licenziato, messo a lavorare in sub
fornitura per l'impresa di cui prima era dipendente e che poi poco alla
volta diventa egli stesso un piccolo imprenditore autonomo, questi non è
diventato un mio nemico, ma è uno di quelli che io devo saper continuare
a rappresentare: Insomma continua ad essere "uno dei miei" e in
effetti ha soltanto cambiato il modo di lavorare.
Devo sapere rappresentare i lavoratori i quali mi chiedono la flessibilità
sul lavoro, perché hanno una professionalità che si esprime e può
essere gratificata e fatta valere soltanto attraverso forme di lavoro
flessibile nel lavoro, altrimenti si sentono assoggettati ad una sorta di
autoritarismo padronale perché oggi ci sono nuove professionalità. Ma
detto questo devo saper rappresentare anche qui i falsi co. co. co. - i
lavoratori delle collaborazioni coordinate e continuative - che sono dei
lavoratori che dovrebbero essere dipendenti ma non lo sono più e a cui si
dà invece un lavoro precario al solo scopo di pagarli di meno. E questo
non va bene. Questa non è la mia flessibilità.
Ve lo dico perché a volte uno pensa che per essere riformista, deve
essere innovatore, andateci piano perché il più grande innovatore negli
ultimi anni è stata una signora che si chiamava Margaret, il premier
britannico conservatore Margaret Thatcher, a cui nessuno può negare di
essere stata una grande innovatrice. Ma questo lo dico non per conservare
l'esistente, ma per conservare le mie radici, la mia missione. Mi devo
preoccupare di far crescere il lavoratore che è in condizioni di
crescere, devo fare in modo che cresca il lavoratore che è in condizioni
di precarietà indifesa, devo parlare a tutti, agli inclusi e agli esclusi
del mondo del lavoro.
È per questo che devo cambiare il mio sistema di tutela, non per ridurre
le protezioni, ma per spostarle dove sono più necessarie. Così un
sistema pensionistico esiste per assicurare trattamenti dignitosi di
vecchiaia ai pensionati e da questo non possiamo derogare.
Oggi, uno dei maggiori problemi per il futuro è quello di
"liberare" le donne dal lavoro. Troppe donne giovani oggi si
trovano di fronte a questo drammatico conflitto: fare figli oppure andare
a lavorare. Questo è un conflitto che non dovrebbe esistere e il nostro
è un Paese che insieme alla Spagna ha il più basso tasso di natalità e
il più basso tasso di occupazione femminile.
I Paesi nordici che sono a più alta occupazione femminile hanno anche il
più alto tasso di natalità. Perché accade questo? Perché noi non
abbiamo servizi che permettono alla donna di lavorare e fare figli, perché
continuiamo a pagare la donna che lavora la metà quando dovrebbe essere
pagata il doppio, perché a parità di condizioni è la segretaria che
viene presa col contratto co. co. co., mentre il maschio viene assunto. E
lei, la donna, è doppiamente precarizzata e questo condanna il Paese, ad
un circolo vizioso: meno donne che lavorano, meno figli che si fanno, meno
pensioni che saranno pagabili alle future generazioni.
Occorre spostare risorse verso servizi alla famiglia e alla persona,
quello che abbiamo cominciato a fare nella scorsa legislatura, ma avevamo
appena cominciato, e ora il lavoro si sta interrompendo. Avevamo approvato
una legge quadro sull'assistenza e già prima avevamo cominciato a fare
interventi per i servizi domiciliari, che sono uno strumento fondamentale.
Il tasso di occupazione italiano è più basso di altri Paesi. Questo è
dovuto in parte al perdurare di difficoltà occupazionali, ma in parte
anche al problema donna, per il livello più basso dell'occupazione
femminile.
Il welfare deve assumere anche questo obiettivo. Questo è un cambiamento
per un partito che vuole essere socialista; questo è un cambiamento
riformista, non il solo naturalmente.
Dai dati di una ricerca Spi-Cgil-Cer, sulla redistribuzione della
ricchezza in Italia, operata dal Welfare, si può ricavare un dato
importante. In Italia, nel '96, le persone che stavano sotto il 60% del
reddito medio pro capite - bisogna assumere questo come un metro di
relativa povertà - erano il 21% del totale della popolazione, mentre la
media europea era il 26%. Il che significa che l'Italia stava meglio perché
aveva sotto il 60% del reddito medio meno gente della media europea.
Questo però al netto dei trasferimenti operati dalle politiche e dagli
strumenti assistenziali pubblici. Inserendo l'effetto di questi ultimi
invece, accade che il 21% italiano diventava il 19% - provocando quindi
un'ulteriore redistribuzione del reddito a favore dei più deboli di due
punti - , mentre il 26% della media europea diventava il 17% e quindi la
redistribuzione era di ben 9 punti percentuali. Insomma mentre ignorando
le politiche di welfare l'Italia era più egualitaria degli altri Paesi,
innestando gli effetti delle politiche redistributive pubbliche, la media
europea diventava migliore dell'Italia.
Ecco, questo è un "mio" problema; utilizzare diversamente le
politiche dell'intervento pubblico per fare in modo che chi ha più
bisogno sia messo in condizioni di avere qualcosa. Noi abbiamo oggi un
welfare laburistico, non universalistico. Se tu hai avuto un lavoro avrai
una cassa integrazione, se non lo hai mai avuto sei trattato peggio.
Questo è un dato di fatto. Allora è di un'innovazione di cui ho bisogno.
Non devo abbattere il welfare ma renderlo universalistico, che è quello
che avevamo cominciato a fare con quel reddito di inserimento che
purtroppo abbiamo sperimentato solo in una quota di Comuni che, se non
sbaglio, la Finanziaria 2002 ha totalmente cancellato.
Io non vedo questi interventi come una questione di profili assistenziali,
li vedo come strumentali a rendere possibile a ciascuno di farsi valere
meglio, di non essere escluso, emarginato, schiacciato. Questo è ciò a
cui dobbiamo aspirare. Perché qual è il punto del nuovo disordine che va
sostituito con il nuovo ordine? Il vecchio ordine era rappresentato da
economie che bene o male stavano dentro i confini nazionali mentre oggi
sono esplose al di là dei confini nazionali. Il vecchio ordine era
rappresentato da un fordismo che in fondo il lavoro nella fabbrica lo
trovava a quasi tutti e quindi si trattava di farci entrare il numero più
ampio di persone possibili. Nella situazione di disordine nella quale
versa oggi il mondo e le nostre società, si può ricostruire lo stesso
fenomeno, con gli effetti unilaterali, squilibranti e devastanti del
potere economico, nei confronti del quale operò il riformismo del
ventesimo secolo. Non avete bisogno di essere marxisti per capire che se
viene lasciato a se stesso il meccanismo economico capitalista è un
meccanismo che tende ad essere devastante e che ha bisogno di essere
riequilibrato.
Il riequilibrio del potere economico è stato possibile grazie al lavoro
che ha fatto crescere il sindacato, che ha fatto crescere la legislazione
sociale. Nella situazione attuale di disordine, l'unilateralità può
riemergere senza bilanciamenti e tende a riemergere. Perché ha avuto
successo il co. co. co.? Perché era un modo di pagare meno e in modo più
precario una buona parte di lavoratori che prima erano a tempo
indeterminato con un rapporto di lavoro dipendente.
Ma allora che cosa dobbiamo fare? È un problema nuovo che ci deve
probabilmente far modificare alcune caratteristiche del rapporto di lavoro
dipendente a tempo indeterminato per evitare che ci sia una rincorsa
all'arbitrio. Questa è la missione. Quello che deve essere chiaro è che
noi abbiamo avuto un ruolo storico e che questo è di nuovo necessario in
condizioni diverse. È necessario in sede di global governance, è
necessario all'interno delle nostre società perché nessuna società
riesce ad essere democratica se non c'è equilibrio tra le parti sociali.
Certo dobbiamo saper adattare al ventunesimo secolo la qualità di un
equilibrio che partendo dagli interessi del mondo del lavoro, che è la
nostra culla e la nostra matrice, sia in grado di apparire tale
all'insieme degli interessi sociali.
Se ci dessimo una missione diversa, non ci sarebbe bisogno di noi; altri
possono avere il nostro ruolo. Questa missione è la missione del partito
socialista europeo e di chi si riconosce in esso.
Noi abbiamo avuto per anni difficoltà enormi, giustamente motivate, a
ipotizzare una riunificazione dei diversi rami della famiglia che ha
comunque lo stesso nonno, piaccia o non piaccia, quello del 1892. Poi dopo
la separazione il figlio prodigo diventò un pretenzioso fratello maggiore
e questo creò non pochi problemi, Ma alla fin fine sempre figlio prodigo
era e a questo punto si pone un problema: io mi aspetto che si faccia il
possibile per risolvere la separazione.
Sono convinto che il ventesimo secolo sia finito e che abbia portato via
con se le ragioni di una divisione a sinistra e quindi vorrei che nel
ventunesimo secolo questa divisione non sopravvivesse. Naturalmente
ciascuno deve fare la sua parte perché questo non accada e quindi mi
aspetto che dal congresso dei Ds vengano posti in discussione i profili,
espliciti ed impliciti, di una diversità che davvero non saprei con quali
argomenti si potrebbe oggi giustificare. Perché proclamare o far valere
una diversità verso chi è sempre stato socialista, da parte di chi trova
oggi la propria principale legittimazione nel fatto di appartenere al
socialismo europeo, è la cosa più singolare che si possa immaginare. Mi
auguro che di questo ci sia consapevolezza perché certo poteva avere un
senso fino a quando il riferimento era l'Unione Sovietica, anche se noi
eravamo diversi. La diversità autoreferenziale alla ricerca di una
collocazione differente era già un passo nella giusta direzione ed è
quello che è stato fatto da Berlinguer a Occhetto, e noi aspettavamo su
questa sponda. Ma da questa parte non si può arrivare andando più in
alto nel fiume affermando che si è socialisti europei, perché oggi siamo
finalmente dalla stessa parte.
Mi auguro che questa riunificazione accada per una ragione che ho detto più
volte. Credo fortissimamente all'Ulivo - se c'è una cosa su cui do
ragione a Roberto Villetti è questa ma siccome lui è l'autentico Dottor
Sottile, io sono solo un apprendista, e lui ne inanella talmente tante che
uno non riesce a ricordarsi tutte quelle su cui può essere d'accordo o
meno ma su una sono sicuramente d'accordo: ci possiamo stracciare le vesti
e possiamo trovare tutte le ragioni per le quali il voto della sinistra è
sceso da una media 44%, 45% a sotto il 25%, ma è un dato di fatto che
l'Ulivo, e cioè il centro sinistra, oggi copre esattamente quello spazio
elettorale del 45%. Questo significa che attraverso un lento processo che
ha distillato tanti fattori, i diversi riformismi della storia d'Italia,
si sono messi insieme e si stanno cementando,. E vicende gravi e
difficili, come quella che viviamo, finiscono per cementarli ancora di più.
E io che sono, se volete, esponente insieme come voi del padre di tutti i
riformismi, perché mai dovrei avere qualcosa da obiettare al fatto che è
sempre più omogeneo con me il riformismo cattolico-popolare o
liberal-democratico?
A me va bene lo stesso perché così si crea un tessuto più largo in cui
si ritrovano interessi sociali e culture che possono stare insieme, perché
sappiamo che in un Paese complicato come l'Italia una maggioranza non è
solo un assemblaggio di interessi sociali, ma anche un assemblaggio di
culture. E in questo tessuto c'è bisogno di una sinistra riformista
guidata dai riformisti perché l'Ulivo non deve essere indebolito nella
sua sinistra. Dico questo perché non penso che spetti alla sinistra
dell'Ulivo rappresentare i pensionati di provenienza operaia, mentre la
Margherita di Rutelli e Castagnetti deve rappresentare i pensionati ex
avvocati o ragionieri, ma perché penso che l'area di rappresentanza di
cui noi per la nostra storia siamo portatori e il modo in cui siamo capaci
di innovare tenendo conto insieme di giustizia sociale e di equilibri
generali, è qualcosa di irrinunciabile in una coalizione politica, che
aspiri a divenire maggioritaria.
L'Ulivo sarà alle prese domani col problema con cui siamo stati alle
prese noi socialisti per decenni. Quello del conflitto tra chi vuole solo
rappresentare e chi si assume la responsabilità di governare. In fondo la
divisione con i nostri autentici pacifisti è largamente questa in questo
momento. Ma è una divisione tradizionale, tra posizioni che tra l'altro
messe insieme hanno delle sinergie reciproche. Questo non mi spaventa. Ciò
che mi spaventerebbe - e l'ho detto più volte - è che il futuro
dell'Ulivo, che potrà diventare molto più omogeneo e molto più compatto
di quanto oggi non sia, sia un futuro di "margheritone", perché
un "margheritone" non fa maggioranza, non rappresenta
interamente il Paese. C'è bisogno di una sinistra profondamente radicata
nell'area degli interessi sociali e della cultura socialista. Ecco, ho
capito il senso in cui giorni addietro Enrico Boselli disse che al fianco
di una Margherita di centro poteva servire una Margherita di sinistra. Non
obbietto a questo che lui ha detto in quell'occasione, ma retorica
floreale per retorica floreale, per me accanto a una margherita ci vuole
una rosa, una robusta rosa europea, e quella sarà poi la forza motrice
del collegamento tra l'Ulivo e il socialismo europeo. E sarà quella che
mi consentirà di dire che la fine delle divisioni ha generato qualcosa di
davvero nuovo, che non è la somma degli ex-comunisti e degli
ex-socialisti ma è un Ulivo forte, fortemente radicato che potrà
riprendere, io mi auguro al più presto possibile, la maggioranza di un
Paese che ha bisogno di noi.
top
Enrico Boselli
"Dalla
nostra Conferenza esce piena la consapevolezza del ruolo che l'Italia si
prepara a svolgere, con una partecipazione militare attiva nella
operazione "Libertà duratura". Noi socialisti ci siamo
impegnati, all'interno dell'Ulivo e direttamente nell'azione parlamentare,
perché si arrivasse ad una risoluzione comune sul nostro intervento
militare. Abbiamo sentito questa necessità politica, soprattutto perché
fosse chiaro il pieno appoggio del Parlamento alle nostre forze armate che
saranno impegnate in compiti particolarmente difficili e rischiosi.
Il nostro obiettivo è stato in larga parte raggiunto con una votazione
delle Camere, con un consenso molto ampio, di un dispositivo comune ad
entrambe le risoluzioni che maggioranza e Ulivo avevano presentato.
Tuttavia, al fine di rafforzare ulteriormente l'appoggio alle nostre forze
armate, i deputati e i senatori socialisti hanno votato per intero
entrambe le risoluzioni. Ci siamo mossi tenendo conto unicamente
dell'interesse nazionale senza guardare ad alcun vantaggio di parte, che
in questa circostanza non avrebbe avuto ragion d'essere.
La scelta dell'intervento militare non era facile da assumere. Tutti si
rendono ben conto della gravità della situazione. L'Italia non poteva
restare passiva, o peggio indifferente alla minaccia che pende non solo
sugli Stati Uniti, ma su tutto il mondo, compreso quello arabo moderato,
da parte di reti terroristiche annidate all'interno del nostro stesso
paese. Non avremmo potuto delegare ad altri il compito di contrastare il
terrorismo, senza assumerci per intero le nostre responsabilità. L'Italia
deve dare il proprio contributo su tutti i piani, quello politico e quello
diplomatico, ma anche quello militare. La partecipazione diretta
dell'Italia era inevitabile, perché nell'attuale scenario l'Europa non si
può sottrarre dalla partecipazione ad azioni che sono indispensabili per
tutelare la convivenza civile.
Non è la prima volta che all'Italia è richiesta una partecipazione
diretta. Siamo interventi, a fianco degli Stati Uniti e degli altri nostri
alleati, già in occasione dell'azione militare contro l'Iraq che aveva
invaso Kuwait; siamo intervenuti nella ex Jugoslavia contro il regime di
Milosevic che si era reso responsabile di una vera e propria pulizia
etnica; abbiamo assicurato una nostra presenza militare nel lontano Timor
Est. Tuttavia, dobbiamo sapere che il nostro intervento militare oggi
contro il terrorismo ha caratteristiche ben diverse dal passato.
Il terrorismo è stato sempre presente nella realtà internazionale, con
focolai assai pericolosi che traevano ragion d'essere da circostanze
specifiche e nazionali, come sono i casi dei paesi baschi, dell'Irlanda,
delle Filippine o dell'Algeria o come quello del Medio Oriente. In
Germania si sono sviluppate azioni armate da parte di gruppi rivoluzionari
che non è stato facile neutralizzare. In Italia abbiamo, purtroppo,
conosciuto diverse forme di terrorismo e di stragismo, nero e rosso, il
cui contrasto è stato particolarmente impegnativo e drammatico. Su alcuni
episodi avvenuti nel passato ancora oggi non si è né appurata la verità,
né fatta giustizia. Abbiamo, comunque, imparato grazie ad esperienze
tragiche che il terrorismo per svilupparsi ha bisogno di supporti
logistici, di risorse finanziarie e informative e di un ambiente
circostante, se non favorevole, almeno disattento. Sappiamo che il
terrorismo, che abbiamo conosciuto direttamente, nasceva in una realtà
del mondo divisa in blocchi contrapposti ed era reso possibile da una
guerra fredda, mai interrotta, tra l'impero sovietico e le grandi
democrazie occidentali.
Oggi la situazione è profondamente cambiata. Dopo la caduta dei regimi
dell'Est europeo, si è attivata una cooperazione tra gli Stati Uniti, gli
altri paesi della Nato e la Russia. Con la Cina sono stati stabiliti
complessi e significativi rapporti che, a partire da quelli economici, si
sono estesi al campo politico. L'occidente democratico e il Giappone hanno
strette relazioni con la stragrande parte dei paesi di tutti i continenti.
Essenziale è mantenere il carattere più ampio della coalizione mondiale
antiterrorismo alla quale ciascun paese possa dare, nel forme che
autonomamente sceglie, il proprio contributo.
Il contrasto del terrorismo ha poco a che vedere con le guerre
tradizionali che abbiamo sinora conosciuto. La sua caratterista principale
è stata riconosciuta nel suo carattere "asimmetrico": i fronti
di questa guerra, perché di guerra si tratta, non sono geograficamente
delimitati e individuati preventivamente; non esiste un antagonista unico
e facilmente identificabile; i mezzi militari usati dall'una e dall'altra
parte sono profondamente diversi; non esiste un codice etico riconoscibile
e accettato da tutti nell'uso della forza; il nemico è spesso invisibile
e può essere insediato all'interno dei nostri stessi paesi. La differenza
principale è che non esiste una diversità marcata tra fronte e retrovie.
Anzi, dobbiamo sapere che siamo particolarmente vulnerabili piuttosto che
nei fronti di guerra che possiamo decidere di aprire, come sta accadendo
in Afganistan, in quelli che i terroristi possono creare improvvisamente
all'interno delle nostre società. Abbiamo visto l'11 settembre che il
raggio d'azione del terrorismo è praticamente illimitato. Gli attacchi
possono assumere forme micidiali, dai sequestri di aerei di linea per
trasformarli missili umani sino al bioterrorismo. La vigilanza sul
territorio diventa un fattore essenziale, come è facile comprendere.
Siamo entrati in una nuova epoca che è drammaticamente segnata dai
rapporti tra il Nord e il Sud del mondo. Poco più di un decennio ha retto
l'idea che si potesse pacificamente diffondere nel nostro pianeta
l'economia di mercato come veicolo neutro del benessere e della democrazia
liberale. E' stata l'illusione di fine secolo, nata dal crollo dell'impero
comunista sovietico. Willy Brand, allora presidente dell'Internazionale
socialista, con un suo famoso rapporto, in un epoca che era ancora
dominata dal contrasto con il comunismo sovietico, lanciò un allarme
sullo stato delle relazioni Nord-Sud del mondo, che non è stato per tempo
accolto. L'idea che possano convivere pacificamente paesi che hanno
elevati gradi di benessere e paesi nei quali si muore letteralmente di
fame e si è colpiti da malattie che sarebbe facili da curare è del tutto
fallace. Il rischio che i tradizionali antagonismi di classe, ora
fortemente attenuati nei paesi ricchi, possano trasferirsi su scala
planetaria, esiste ed è bene valutarne i possibili sviluppi. Del resto,
da tempo sono emersi ideologi di vaia estrazione che predicano la lotta di
classe su scala mondiale tra ricchi e poveri.
Non è vero, tuttavia, come si è pure sostenuto, che l'attacco
terroristico al cuore degli Stati Uniti serva a risvegliare le coscienze
addormentate dell'occidente sullo stato di povertà e di sofferenza del
terzo mondo, come una volta si definiva il complesso dei paesi
sottosviluppati. Se mai Billaden, solo per citare l'uomo che è diventato
il simbolo del terrore, può essere l'espressione di tante frustrazioni,
sofferte da chi non ha che da perdere se non le proprie catene al pari,
però, - come è stato già osservato - di ciò che rappresentò Hitler
per la Germania sconfitta ed afflitta dai debiti di guerra dopo la prima
guerra mondiale.
L'esplosione del terrorismo non aiuterà la marcia dei principi di libertà
e di uguaglianza nel mondo, ma costringerà innanzi tutto i paesi
democratici a concentrarsi nella difesa delle proprie condizioni di
sicurezza. Le alleanze, necessarie per fronteggiare il pericolo, non
potranno essere ritagliate su discriminanti che abbiano alla base i
diritti umani. In questa fase è, infatti, essenziale sul piano politico,
diplomatico e militare costruire una grande e forte coalizione mondiale
contro il terrorismo. Minoranze che pure lottano per giusti diritti,
gruppi che agitano la bandiera della libertà, popoli che si battono per
veder riconosciuta la propria identità soffriranno sotto la cappa che ha
imposto il terrorismo e dalla quale ci si dovrà, prima o poi, sottrarre.
E' del tutto evidente che i pericoli incombenti accentuino l'esigenza
della sicurezza. Ci vuole poco per capire che quanto più misure di
sicurezza si prendono, tanto più si restringono gli spazi di libertà. E
non si tratta solo dell'azione di polizia che si fa necessariamente più
invadente nella sfera privata, poiché il nemico è anche in mezzo a noi,
pronto a colpire. In queste circostanze si crea un clima di sospetto, che
può indurre a gravi errori, coinvolgendo persone che non c'entrano nulla
con il terrorismo, magari solo perché hanno la pelle scura, sono arabi o
di origine araba. Nell'ansia di assicurare con ogni mezzo la sicurezza si
può dare adito persino a veri e propri abusi. I diritti s'affievoliscono
attraverso le leggi d'emergenza. Ne sappiamo qualche cosa noi in Italia al
tempo del terrorismo.
I limiti alla nostra libertà possono farsi sentire anche indirettamente
nella vita di tutti i giorni. Accade già negli aeroporti di dover
sottoporsi a controlli lunghi e fastidiosi, ma anche in autostrada si può
essere costretti, per fare verifiche, indotte da allarmi più o meno
fondati, a bloccare o comunque a rallentare il traffico per ragioni di
sicurezza. Lo hanno sperimentato gli automobilisti sull'autostrada del
Sole durante il ponte di Ognissanti, quando il timore di un attentato ha
indotto a fare severi controlli che hanno paralizzato in alcuni tratti la
circolazione.
Il regresso, che sta avvenendo nella nostra vita quotidiana, provocato dal
terrorismo, è del tutto evidente. L'ansia e la paura si sono diffusi
negli Stati Uniti. Il rischio è quello di non riuscire a sottrarsi
all'incubo dell'attentato, ogni volta che si entra in una metropolitana,
si prende un aereo o si va più semplicemente a fare delle spese in un
grande magazzino. Si tratta, comunque, di evitare che questo stato
d'animo, che ancora non si è diffuso in Europa, a parte la Grande
Bretagna dove è già presente, provochi una spirale che si avviti in
forme più o meno autoritarie. Lo studioso nippo-americano Francis
Fukuyama, il famoso autore del saggio "La fine della storia",
ancora colpito dall'esperienza negli Stati Uniti, fatta dalla sua famiglia
che fu internata durante la seconda guerra mondiale solo perché d'origine
giapponese, teme - come ha dichiarato sul Corriere della Sera - che venga
messa in discussione la convivenza multietnica. Già in diversi paesi
sviluppati esistevano forti e pericolosi sentimenti di xenofobia, se non
apertamente razzisti, senza l'incombere di attentati. Figuriamoci ora
quale può essere l'effetto che il pericolo terroristico può suscitare in
persone già impaurite dal diffondersi della criminalità. Il rischio, da
tutti temuto, è che l'attacco al cuore degli Stati Uniti possa essere una
miccia che accenda uno scontro tra civiltà, come era stato ipotizzato in
un famoso saggio dallo studioso americano, Samuel Huntington.
La lotta al terrorismo deve essere condotta innanzi tutto a livello
politico. Tutti i mezzi, da quello dell'intervento militare, alle misure
di polizia e d'intelligence fino ai controlli finanziaria, devono essere
indirizzate da una comune ispirazione politica. Sappiamo, infatti, che i
santuari del terrorismo non sono limitati solo all'Afganistan. Altri
paesi, come l'Iraq, il Sudan, lo Yemen e la stessa Algeria ospitano molto
probabilmente centrali terroristiche. Solo un mix di pressioni politiche e
militari può farci evitare un'estensione della guerra a tutto raggio, che
sarebbe difficile da gestire politicamente, se - com'è necessario - si
vuole mantenere l'ampiezza attuale della coalizione antiterroristica,
Gli attentati dell'11 settembre non possono essere dimenticati. Ha ragione
Tony Blair quando ammonisce: "Never forget". L'imperativo
principale è, dopo l'11 settembre, battere il nemico n. 1, costituito dal
terrorismo. Si tratta di una causa giusta, sacrosanta e vitale. Nessuno,
di fronte a quanto è successo, si può sottrarre da questa sfida. Si può
discutere sui mezzi da adottare, ma nessuno nega che bisogna neutralizzare
le basi del terrorismo. Non è un caso che una recente presa di posizione
che chiede la sospensione dei bombardamenti in Afganistan - solo per
prendere un esempio - cioè l'appello che ha come primo firmatario lo
scrittore Antonio Tabucchi, pubblicato in prima pagina da "il
Manifesto", inizi così: "Occorre sconfiggere il terrorismo. Ed
è indispensabile catturare e punire i responsabili dell'atroce attentato
dell'11 settembre, per il quale ribadiamo con la massima convinzione la
nostra solidarietà, piena, sincera e fattiva, agli Stati Uniti, tuttora
colpiti dal vile ricorso alla guerriglia batteriologica."
Il confronto, quindi, non è se si debbano combattere i terroristi ma come
combatterli meglio. Mi chiedo se, dopo quanto è accaduto, era possibile
rimanere inerti. Non lo credo proprio. Non penso affatto che la risposta
militare sia stata data per soddisfare le attese dell'opinione pubblica
americana. L'amministrazione americana ha, infatti, aspettato prima di
muovere la macchina militare di costruire un quadro politico e diplomatico
di sostegno e di appurare, attraverso iniziative d'intelligence, le
responsabilità di Billaden.
Il regime dei taleban è stato messi sotto osservazione perché si è
trincerato a difesa di Billaden: le offerte di trattative sono state solo
un diversivo propagandistico. Comprendo bene che i bombardamenti americani
in Afganistan per colpire i taleban apportino anche a un popolo già
provato ulteriori sofferenze. Le poche immagini, che giungono da quel
lontano paese, non possono lasciare indifferenti nessuno. La propaganda
dei taleban ha parlato almeno sino a pochi giorni fa di 1500 civili
uccisi, ma anche se il loro numero fosse minore di dieci volte
l'impressione e il dolore sarebbe sempre grande. Tuttavia sappiamo che,
per quanto si cerchi di evitare di puntare solo ad obiettivi militari, è
difficile non colpire per errore anche qualche sito civile. Dobbiamo,
comunque, fare ogni sforzo per evitare che ci siano vittime tra le donne e
i bambini. Temiamo, purtroppo, che il regime dei taleban se ne facciano
scudo per dare copertura a centrali terroristiche. Gli americani sanno per
esperienza, meglio di noi, come la guerra si combatta non solo nei campi
di battaglia ma anche nel mondo dell'informazione. La lezione del Vietnam
è ben presente. L'opinione pubblica, a cominciare da quella degli Stati
Uniti, reagirebbe negativamente sia a enormi perdite di militari
americani, sia a vere e proprie stragi di civili nel teatro di guerra.
L'immagine della bambina nuda che scappava da sola da un villaggio
vietnamita incendiato dalle truppe d'assalto americane, fece il giro del
mondo, commuovendo tutta l'opinione pubblica mondiale. Il motto "no
more Vietnam", non più Vietnam, è chiaro agli americani come agli
europei. Bisogna, quindi, sapere che l'azione militare, tanto più si
protrarrà nel tempo, tanto più deve essere sorretta dal consenso
dell'opinione pubblica. Va mantenuto un dialogo continuo con le
istituzioni umanitarie, con gli ambienti pacifisti responsabili, con l'ONU
e le sue agenzie perché anche nei momenti di dissenso sia mantenuta una
comprensione reciproca. Ogni volta che sia di fronte a un'inasprirsi delle
tensioni internazionali, ripensiamo alle Nazioni Unite che purtroppo non
sono in grado d'intervenire come sarebbe pure necessario. L'ONU, comunque,
deve restare un riferimento di fondo, particolarmente in questo frangente
della lotta al terrorismo.
Questa nostra Conferenza serve anche a dare un contributo alla politica
estera italiana. Ne ha bisogno il Governo, ne ha bisogno l'Ulivo. Come è
stato detto da Ugo Intini, nella sua relazione introduttiva, la situazione
internazionale impone scelte nette, non ammette giri di valzer, richiede
precise e piene assunzioni di responsabilità. L'Italia lo ha fatto
decidendo in questa occasione l'intervento militare. Il nostro paese nel
corso della sua storia repubblicana, ha mantenuto un coerente asse della
sua politica estera, basato su due essenziali pilastri: la collocazione in
Europa e la partnership tra l'Europa e gli USA. Lo ha ricordato con la sua
grande autorevolezza il presidente della Repubblica Ciampi e lo ha
ricordato il presidente della Commissione europea, Romano Prodi. Tra i
grandi leader che hanno contribuito a costruire le fondamenta della
politica estera italiana, dall'adesione al Patto Atlantico sino all'unione
europea, c'è - come ha ricordato Gianfranco Schietroma - un grande
socialdemocratico italiano, Giuseppe Saragat.. E' alle grandi figure del
nostro paese che hanno aperto la strada della nostra politica estera e di
quella europea dobbiamo fare riferimento.
Dobbiamo ricordare che fu proprio la politica estera a determinare scelte
drammatiche nella sinistra italiana, tali da pesare a lungo nel futuro.
Non si sarebbe creato in Italia per così lungo tempo un sistema politico
senza alternanza, se la sinistra fosse stata democratica, riformista ed
occidentale; si sarebbe determinato, comunque, un rapporto di pari dignità
tra socialisti e democristiani se i socialisti avessero scelto, sin dal
dopoguerra, l'Ovest invece che l'Est, come fecero tutte le
socialdemocrazie europee. Nenni, per la verità, riparò al suo errore a
partire dal '56. La storia non si fa con i "se". Le riflessioni
critiche, invece, hanno bisogno dei "se" ed anche dei
"ma".
Ci si può chiedere quale sia il rapporto tra il nuovo scenario di
apertura del secolo, che si è affermato, e il contesto della politica
italiana. L'Italia è stata sempre influenzata, più di altri paesi
europei, dai grandi eventi della politica internazionale. Ciò è comunque
valso nei decenni che hanno seguito il dopoguerra. Noi non siamo stati un
paese europeo come gli altri. Non c'è stata una democrazia compiuta,
fondata sull'alternanza tra schieramenti o partiti contrapposti,
identificati comunque nel riconoscimento dei principi democratici.
L'Italia si è divisa sulle discriminanti che dividevano il mondo tra
democratici e comunisti. Il gioco democratico è stato sempre condotto
nella consapevolezza che tutti i pericoli, pur esistenti, di una guerra
civile dovevano essere governati e neutralizzati. La sinistra italiana -
parlo del Pci ma anche del Psi almeno fino alla revisione del '56 - è
stata la causa delle tante anomalie italiane. Quando riflettiamo
amaramente sul restringimento dei confini della sinistra tradizionale,
ridotta a poco più o poco meno del 25% dei voti, ci dobbiamo
interroghiamo su quanto il passato remoto e meno recente possa ancora
influenzare il nostro destino futuro.
Il sondaggio pubblicato sul "Corriere della Sera", fatto da
Renato Manneimer, nel quale si rileva che vi è una percentuale di non
poco conto nell'opinione pubblica che comprende le "ragioni" di
Billaden (più a sinistra che a destra ma anche a destra) desta allarme.
Si è parlato molto di un radicato antiamericanismo che sarebbe derivato
dalla velenosa eredità culturale lasciata sia dal comunismo sia dal
fascismo. Non c'è dubbio che Giuliano Ferrara ha avuto una buona
intuizione propagandistica nel lanciare l'idea di una manifestazione, da
parte del centro destra, di solidarietà verso gli Stati Uniti. Tuttavia,
non può sfuggirci che per quanto questa iniziativa sia legittima, essa
non è stata concepita per unire ma per dividere gli italiani. Ben altra
preparazione sarebbe dovuta essere fatta per ottenere una manifestazione
che sancisse l'unità nazionale cui c'è bisogno per dare pieno sostegno
alle nostre forze armate. In tanti campi abbiamo l'impressione che la
coalizione di governo si comporti ancora come se fosse all'opposizione,
tenendo poco conto che quando si governa bisogna cercare di rappresentare
anche gli elettori che hanno votato l'opposizione e che bisogna farsi
carico per primi dell'esigenza di unità nazionale. Ciò non è avvenuto
quando si è lanciato l'allarme sul buco che ci sarebbe stato nei conti
pubblici (ora scomparso nella nota d'aggiornamento del Documento di
Programmazione Economica e Finanziaria del paese): ciò non ha danneggiato
l'opposizione ma l'Italia. Accade purtroppo la stessa cosa, oggi, con la
manifestazione di Roma. Le forze di maggioranza si confrontano Roma,
manifestazione contro manifestazione, con i "no global", mentre
l'opposizione ha responsabilmente deciso di non fare un controcorteo nella
capitale.
Noi socialisti non abbiamo partecipato neppure alla marcia di Assisi perché
non erano affatto chiari quali ne fossero gli obiettivi. Non è un caso
che da parte di certi settori del fondamentalismo islamico si sia
strumentalizzata la marcia descrivendola come una manifestazione che
chiedeva la fine dei bombardamenti in'Afganistan. Non si può in queste
occasioni così gravi dare un'immagine dell'Italia avvolta da ambiguità
ed incertezze. Se il centro sinistra vuole essere forza di governo anche
dall'opposizione, il terreno della politica estera è decisivo.
L'alternanza deve valere nei contenuti della politica interna, mentre
nella politica estera deve esserci una sostanziale continuità.
Le scelte che ha fatto l'Italia sono giuste. Il legame tra l'Europa e gli
Stati Uniti si è rafforzato in questa fase così delicata. Ricorderemo
sempre l'apporto decisivo degli americani per sconfiggere i nazifascismo e
aiutare la Resistenza in Italia e in Europa. I nostri sentimenti verso il
popolo americano sono di stima e di solidarietà. Sappiamo quanto ha
contato positivamente, nelle relazioni tra l'Italia e gli Stati Uniti, la
comunità italo-americana. Gli americani di origine italiana sono
orgogliosi sia per la propria cittadinanza negli Stati Uniti sia per la
propria ascendenza dall'Italia. Del resto, il sindaco uscente di New York,
Rudolf Giuliani, che è stato il simbolo di forza e di coraggio, ha
origini italiane. Da Fiorello La Guardia a Rudolf Giuliani gli
italo-americani hanno sempre dimostrato il legame che c'è tra gli Stati
Uniti e l'Italia. Con questa nostra manifestazione, i socialisti vogliono
inviare al popolo americano un messaggio di profonda amicizia. Il destino
degli Stati Uniti e quello dell'Europa sono comuni.
L'Italia, che è stata sempre protagonista dell'Unione Europea, si sente
parte fondamentale di questo nuovo rapporto tra l'Europa e gli Stati
Uniti. Sono le grandi socialdemocrazie europee, che governano in Gran
Bretagna, in Francia e in Germania, ad aver dato l'impronta a questa nuova
solidarietà tra Europa e Stati Uniti. Sappiamo che nella sinistra
europea, come in quella italiana, vi sono gruppi pacifisti verso i quali
va il nostro rispetto. Abbiamo considerato di cattivo gusto l'iniziativa
fatta dal giornale "Libero" di pubblicare le foto dei deputati e
dei senatori che non hanno condiviso le scelte che abbiamo fatto sotto
mostruosi titoli quali "Ecco chi sta con Billaden" o
"Verdi, comunisti e sinistra Ds stanno con il nemico". Non ci è,
però, neppure piaciuto il titolo, "La Camerata", con il quale
"il Manifesto" - riferendosi al voto dato dal Parlamento - ha
sottilmente alluso, - nonostante Parlato spieghi che il paragone è con la
"stanza dei soldati" - a una decisione di tipo fascista. Siamo
contrari ad ogni forma d'intolleranza o, peggio, in altri casi di censura.
Rispettiamo chi fa scelte diverse o contrarie alle nostre nel comune
quadro democratico, a cominciare dal Parlamento.
La tolleranza e la libertà non sono affatto di ostacolo al raggiungimento
della chiarezza nei rapporti con le forze politiche. Del resto, tanto più
ci si trova di fronte a scelte impegnative, tanto più ci deve essere
chiarezza. Dentro l'Ulivo noi abbiamo invitato tutti alla chiarezza.
Questa nostra opera, che ha dato risultati, non si fonda sul fatto che a
noi socialisti non preme l'unità dell'Ulivo. Solo che l'unità, ottenuta
pagando un prezzo alla chiarezza, non rafforza la coalizione di centro
sinistra, come alternativa credibile e potenzialmente vincente al governo
Berlusconi. La confusione indebolisce l'Ulivo e può metterlo ai margini.
Ho sinceramente apprezzato gli sforzi che ha fatto Rutelli per raggiungere
insieme unità e chiarezza.
Tuttavia, dobbiamo prendere atto con rammarico che, su importanti scelte
strategiche di politica internazionale, i Verdi e i Comunisti Italiani non
sono d'accordo. Questo tipo di dissensi non sono presenti solo in Italia.
Non bisogna scandalizzarsi, ma rispettarli. Si verificano anche altrove,
dove esistono coalizioni plurali di governo, come in Francia, A garantire,
però, la chiarezza degli indirizzi di governo c'è nella sinistra un
partito socialista o socialdemocratico che dà l'impronta alla coalizione.
In Italia questo ruolo deve essere svolto dall'Ulivo.
Tante volte abbiamo detto che l'Ulivo deve essere qualcosa di meno di un
partito, ma qualche cosa di più di una pura e semplice alleanza. Date le
posizioni espresse, dovrebbe risultare ormai evidente che non si può
costruire il progetto dell'Ulivo con formazioni che dissentono sulle linee
fondamentali della nostra politica. L'Ulivo, così come è composto, non
potrà essere mai qualche cosa di più di una semplice alleanza. Dato che
sta a cuore anche a noi socialisti l'unità, ho proposto che l'Ulivo si
sviluppasse a due velocità: un nucleo più ristretto, formato dallo SDI,
dalla Margherita e dai DS, cioè da quelli che sono d'accordo sulle linee
principali sia di politica estera e sia di politica interna; e un'alleanza
più larga di centro sinistra, comprendente tutti quelli che nel centro
sinistra vogliono costruire un'alternativa di governo al centro destra. Mi
sembra una proposta realistica che si fa carico in positivo delle
differenze che si sono create.
L'Ulivo, del resto, è l'unico soggetto che può contendere autorevolmente
il governo al centro destra. Siamo tutti convinti che la sinistra storica
in Italia non sia e non possa essere anche in futuro autosufficiente. Non
voglio qui riaprire vecchie ferite. Voi sapete bene le cause perché la
sinistra riformista (ma anche la sinistra in generale) è così deboli.
Noi, come socialisti, siamo preoccupati dell'attuale situazione di
debolezza della sinistra e siamo impegnati, assieme a Giuliano Amato, a
costruire anche in Italia una grande socialdemocrazia di tipo europeo.
Abbiamo seguito con interesse e rispetto l'andamento del congresso dei DS,
poiché sappiamo quanto il futuro della sinistra dipende dall'esito
dell'Assise di Pesaro.
Noi abbiamo detto al nostro Consiglio nazionale di luglio che siamo
interessati a partecipare al disegno di costruzione di una grande
socialdemocrazia di tipo europeo. Tanto più i Ds vanno avanti nel darsi
principi ed obiettivi simili alle altre socialdemocrazie, tanto più il
processo di costruzione di un partito socialdemocratico di tipo europeo
andrà avanti. Abbiamo colto sino a poco tempo fa un certo oscuramento del
tema socialista nel dibattito dei DS. Ultimamente se ne è tornato a
parlare. Non vorremmo, però, che fosse un argomento per i giorni di
festa, mentre in tutti gli altri giorni si parla di altro. Sicuramente
negli ultimi tempi si sono fatti passi in avanti in una direzione che
consideriamo positiva. Fassino, in colloquio sul "Foglio" con
Giuliano Ferrara e Emanuele Macaluso, ha fatto una riflessione critica
importante sul drammatico periodo di Tangentopoli. Non considero cosa di
poco conto che il leader della maggioranza dei Ds (e conseguentemente il
segretario in pectore) dichiari che l'ormai famoso discorso di Craxi alla
Camera, dove ammise che esisteva un sistema universale di finanziamento
illegale ed irregolare della politica e dei partiti, "fu
coraggioso". Abbiamo dovuto aspettare quasi un decennio per
sentircelo dire e siamo soddisfatti che finalmente sia stato detto
autorevolmente dai DS. Consideriamo, comunque, sempre necessaria la
costituzione di una Commissione di inchiesta su Tangentopoli, per la quale
ci siamo sempre battuti. Siamo nettamente contrari a fare un processo ai
magistrati, mentre crediamo che il Parlamento debba indagare su una pagina
drammatica del nostro paese allo scopo di adottare misure che pongano fine
a un capitolo della nostra storia che diffonde ancora veleni. Rimaniamo
dell'idea, coraggiosamente avanzata da Ottaviano Del Turco in piena
Tangentopoli, che si debba arrivare ad un'amnistia sui reati connessi al
finanziamento illegali ed irregolari alla politica e ai partiti, come del
resto si era fatto altre volte in Italia. Siamo stati, però, nettamente
contrari alle misure volute dalla maggioranza su falso in bilancio e
rogatorie, perché abbiamo avuto l'impressione che si volesse così
risolvere, con un'amnistia ad personam, i problemi del presidente del
Consiglio e di una sua ristretta cerchia di amici. Abbiamo sufficiente
autorevolezza per fare questa affermazione perché abbiamo sempre
contrastato qualsiasi tentativo di combattere Berlusconi per via
giudiziaria, sia nel paese sia in Parlamento. Siamo preoccupati per la
mancata soluzione del conflitto d'interessi: Berlusconi, quando sarà
cambiato il consiglio di amministrazione della RAI, avrà il monopolio
politico, di fatto e di diritto, su ben sei reti televisive con un
evidente restringimento della libertà.
E' da tempo che noi socialisti portiamo avanti una riflessione autocritica
sul modo in cui il Psi si comportò a livello di potere. Noi abbiamo
sempre sostenuto l'onorabilità dei socialisti e l'onore che spetta a
Craxi nella storia della sinistra italiana. Nello stesso tempo abbiamo
chiaramente criticato ciò che era sbagliato nella politica del Psi e del
Psdi e non abbiamo mai difeso ciò che era purtroppo disonorevole come i
casi, molto meno di quanto si pensi, in cui si sono registrati
arricchimenti personali, clientelismo e uso disinvolto del potere.
Tuttavia, voglio fare ulteriore chiarezza sul problema del rapporto tra
politica e legalità. Noi non siamo affatto per una politica che sia
tollerante con l'illegalità. Noi siamo perché ovunque la legalità sia
difesa scrupolosamente e chi la viola sia giustamente, equamente e
rapidamente sanzionato. Sul terreno della moralità pubblica bisogna
voltare definitivamente pagina. Noi siamo convinti che sia indispensabile
nella gestione della cosa pubblica comportamenti rigorosi ed ineccepibili.
Dopo Tangentopoli non ci deve essere, magari in altre forme, una nuova
Tangentopoli. I controlli necessari devono essere, innanzi tutto, interni
all'amministrazione pubblica. La politica deve essere limpida, trasparente
ed onesta.
La nostra difesa dei diritti e delle garanzie dei cittadini non va confusa
con il lassismo nell'ordine pubblico. Abbiamo da tempo imparato che la
sicurezza è importante soprattutto per gli strati sociali più deboli,
come gli anziani, i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze. Di
fronte alle scuole, nei mercati, nelle strade dove vi sono più negozi,
ovunque vi sia un concentramento d'attività e di persone, vi deve essere
una presenza efficace delle forze dell'ordine, La lotta alla micro e alla
macro criminalità è essenziale soprattutto oggi che si possono creare
accordi di convenienza tra mafie internazionali e terroristici islamici.
Le politiche pubbliche costituiscono il terreno sul quale le grandi
socialdemocrazie europee fanno sentire di più l'esigenza d'innovazione.
Parole come privatizzazione, flessibilità, concorrenza, economia di
mercato non appartengono al vocabolario della destra. Certo, la
socialdemocrazia, a differenza della destra, si preoccupa che
l'innovazione e la modernizzazione non comportino esclusione,
emarginazione e disoccupazione cronica.
Con i Ds si deve sviluppare, una volta che potremo giudicare l'esito del
Congresso di Pesaro, un confronto a tutto campo, dalle politiche
pubbliche, con particolare riferimento alla politica della sicurezza e
della giustizia, a quella dei diritti e dell'ambiente, fino alle scelte
fondamentali di politica estera. E' soprattutto dalle nuove generazioni
che viene una domanda di novità e di sicurezza, nella famiglia come nel
lavoro, che va raccolta e sviluppata. Nel campo della giustizia,
insistiamo perché si arrivi a una netta distinzione delle carriere tra la
magistratura inquirente e i giudici terzi e neutrali, come avviene in
quasi tutte le democrazie liberali. Diritti, politiche di sviluppo e
politiche di coesione sociale, federalismo e sburocratizzazione, sicurezza
sociale ed individuale, nuovo sistema previdenziale su due pilastri, l'uno
pubblico e l'altro privato, istruzione e formazione permanente,
flessibilità nel mercato del lavoro e nuovi ammortizzatori sociali che
non consentano l'effetto dipendenza dallo Stato sociale devono essere i
cardini della politica dell'Ulivo e di un nuovo grande partito
socialdemocratico.
Tra i DS e lo Sdi sono nel tempo molto migliorati i rapporti. Abbiamo, in
questo contesto, considerato fondamentale l'indicazione di Giuliano Amato
come presidente del Consiglio. Non ci dimentichiamo certo che il
contributo dato nel miglioramento dei rapporti dall'allora segretario dei
DS Walter Veltroni, ora sindaco di Roma.
Una grande e moderna socialdemocrazia non può nascere dal solo ceppo dei
Ds, ma deve formarsi attraverso apporti diversi. Se si arrivasse a formare
un nuovo partito che, alla stregua della Cosa 2, fosse e apparisse al
Paese solo come i Ds, pur con un altro nuovo nome, non avremmo portato
avanti un grande disegno, cui crediamo, ma saremmo al punto di prima, anzi
peggio perché avremmo così fatto passi indietro.
Vedete, noi socialisti siamo importanti nella sinistra, nonostante le
nostre ridotte dimensioni di voti (cui però corrisponde una presenza
diffusa nel territorio), al fine di costruire un nuovo partito
socialdemocratico. Ciò accade perché noi, sin dallo scioglimento del Psi
e successivamente dello Psdi, abbiamo portato avanti una missione di
grande contenuto ideale e siamo stati sempre convinti e determinati ad
assolvere ai nostri compiti. Non è un caso che nella miriade di
formazioni socialiste, cui ha purtroppo dato vita la diaspora, solo noi
dello SDI siamo riusciti a mantenere una continuità d'iniziativa, di
proposta e di organizzazione. Gli altri gruppi hanno avuto, tutte, una
vita piuttosto effimera.
Noi ci eravamo proposti, sin dall'inizio di raccogliere il grande
patrimonio del socialismo italiano affinché non andasse disperso. Non ci
eravamo posti, invece, l'obiettivo di ricostruire il Psi, come altri hanno
successivamente tentato, con fallimenti ripetuti. Noi sapevamo e sappiamo
che questo patrimonio dovrà essere consegnato a una formazione socialista
molto più ampia che sappia raccogliere innanzitutto l'eredità del
socialismo italiano, prim'ancora di quello europeo. In questa opera noi
abbiamo nutrito un giusto orgoglio perché abbiamo superato, pur tra
alcune delusioni, difficoltà enormi in un ambiente politico piuttosto
diffidente, se non ostile. Sappiamo che altre difficoltà ancora dovremo
affrontare.
Per svolgere il nostro ruolo a pieno, pur sapendo che il nostro obiettivo
è più ampio, dobbiamo avere continuamente la consapevolezza di non
essere un partito precario e a termine, cui si fissa, magari dall'esterno,
la data del suo scioglimento. Di fronte a qualsiasi tentativo di operare
con intenti costrittivi nei nostri confronti, la nostra naturale reazione
sarà la strenua difesa della nostra autonomia. Nessuno si può fare
illusioni. In democrazia i partiti si sciolgono quando lo decidono coloro
che vi sono iscritti.
Ho fatto questa premessa per arrivare a dire che noi siamo disposti a dare
vita a un grande partito socialdemocratico, se questo coinciderà con la
fine della nostra missione. Noi abbiamo escluso ed escludiamo una pura e
semplice confluenza nei DS. Altrettanto ci siamo opposti e continueremo ad
opporci a forme federative tra i DS, lo Sdi e i comunisti italiani. Non ci
interessano aggiustamenti, semplificazioni o integrazioni. Ci interessa lo
sviluppo di un grande disegno. Altre volte ho accennato all'ipotesi di
costruire a sinistra un nuovo soggetto politico che abbia le
caratteristiche di novità, che ha offerto la Margherita. Mi riferisco
soprattutto al modo in cui la Margherita è riuscita a presentarsi alle
ultime elezioni politiche e ad avere un buon successo. Ciò è avvenuto
poiché questa nuova formazione non è apparsa agli elettori la pura e
semplice continuazione della Democrazia Cristiana o del partito popolare.
Ciò è avvenuto perché su un corpo che era ed è postdemocristiano si è
innestata una leadership, quella di Rutelli, che è tutto fuorché
postdemocristiana. Analogamente, si deve sviluppare un processo a
sinistra, che dia vita alla Rosa socialista attraverso l'innesto sul corpo
postcomunista di una leadership che sia tutto fuorché riconducibile ai
postcomunisti.
Ho molto apprezzato le aperture che Fassino ha fatto, in una non molto
recente intervista al "Corriere della Sera", sulla sua volontà
di marciare sulla strada della socialdemocrazia. Si tratta di una
affermazione che noi socialisti abbiamo accolto molto positivamente. La
strada quindi sembra ben tracciata, ma non è ancora chiaro se sarà
accettata dai DS in futuro quella novità di leadership, che è condizione
essenziale per creare un nuovo partito socialdemocratico che non sia
coincidente con i postcomunisti.
Sappiamo bene che la Rosa socialista, se sarà costituita, neppure nel
caso in cui avesse un buon risultato elettorale, cosa che è la prova
della riuscita dell'operazione, non potrà affrontare da sola la
competizione con il centro destra. La Rosa e la Margherita devono essere
le due faccia di un'unica medaglia che è rappresentata dall'Ulivo. Il
disegno dell'Ulivo, che indicò Prodi al Convegno di Formia, mi sembra
ancora di grande attualità. Del resto, la sinistra italiana arriva a mala
pena a un quarto dell'elettorato e quella riformista non ne è neppure un
quinto. l'Ulivo, invece, rappresenta il 40-45% che è stato sempre il
livello della sinistra storica durante la cosiddetta prima repubblica.
I due disegni, quello della Rosa e quello della Margherita, devono potersi
trovare compimento finale nell'Ulivo, come nuovo soggetto politico. Il
processo di europeizzazione dell'Italia, che avrà un ulteriore impulso
con la circolazione della moneta unica e dal prossimo varo di una
Convenzione per una nuova carta costitutiva (spero presieduta da Giuliano
Amato), farà sempre più diventare i grandi spartiacque politici
dominanti nel parlamento europeo i punti essenziali di riferimento anche
in Italia per la ristrutturazione del centro sinistra e di tutte le altre
forze politiche. A ciò si aggiunge che la logica del maggioritario e
dell'alternanza è destinata a favorire grandi aggregazioni, Noi non solo,
come socialisti, non ci sottraiamo a queste tendenze, ma lavoriamo perché
si costruisca in Italia una nuova geografia politica, fatta da grandi
forze politiche.
La forte incidenza, che hanno oggi e sicuramente avranno per un lungo
periodo le scelte di politica internazionale, ci porterà ad una
chiarificazione politica dopo l'altra, tra i partiti e dentro i partiti.
L'unità nazionale deve essere il contesto nel quale sinistra e destra,
finalmente reciprocamente legittimate, si confronteranno, si divideranno e
si contrapporranno. Dire unità nazionale - voglio ricordarlo qui a Napoli
- significa dire anche superamento di un'Italia, nella quale ci sia ancora
un così grande divario tra il Nord e il Sud del Paese. Il popolo
meridionale, che tanto ha dato in termini d'intelligenza e di lavoro, deve
essere positivamente integrato ai livelli economici e civili dell'Europa.
Noi socialisti consideriamo, nella nostra agenda politica, l'impegno
meridionalista come principale. Sul Sud ci proponiamo di convocare un
seminario di studio e di riflessione, possibilmente prima del nostro
Congresso nazionale, che vogliamo convocare nel marzo del prossimo anno.
Sarà il Congresso a dare una valutazione sul cammino che si è fatto e
sui tempi e i modi della nostra iniziativa politica.
L'incertezza delle prospettive, derivata dalla tragedia dell'11 settembre,
si faranno sentire sempre più. Tutto - si è detto - non sarà come
prima. Le nostre economie dipendono sempre più dalle attese, razionali ed
irrazionali che si determinano. La paura e l'ansia deprimono i mercati. I
rischi di una recessione mondiale, che comporti crisi della coesione
sociale, sono purtroppo ancora forti. Non vorremmo che si assommasse
recessione e guerra. Noi vogliamo perseguire sviluppo e pace.
La politica non è più la stessa di prima. Nel mondo globale devono
cambiare le forme di organizzazione, il linguaggio, i soggetti e i temi di
riferimento. Parliamo sempre più delle donne, degli anziani, dei giovani
e dei bambini, perché è in atto una rivoluzione del costume e della
cultura e una rivoluzione demografica. Le donne avranno un grande ruolo in
questo nuovo secolo che si è aperto e noi socialisti dobbiamo fare in
modo che ciò avvenga più rapidamente possibile. Non parlo solo delle
questioni dell'aborto o degli asili nido. Mi riferisco innanzi tutto alla
formazione e all'istruzione come la chiave di volta di un nuovo ruolo
della donna. Anche per questo difendiamo la centralità della scuola
laica. Le donne arabe, in un ambiente che è tra i più difficili, hanno
capito che il primo diritto da rivendicare è l'accesso all'istruzione.
Dalle donne musulmane potrà venire, come si è detto, un importante
contributo alla pace.
La nostra manifestazione, come si è visto e come ci era chiaro sin
dall'inizio, non ha nulla a che vedere con un inno alla guerra. Abbiamo
visto l'intervento militare italiano come una necessità inevitabile e
dolorosa per difendere le nostre società dal terrorismo. Da Napoli
vogliamo rivolgere, innanzi tutto, un deferente saluto al Capo dello Stato
e alle nostre forze armate di cui il presidente Ciampi è la suprema
guida. Coloro che hanno la fede pregheranno per i nostri soldati. Chi non
è credente s'impegnerà affinché essi sentano la solidarietà
dell'Italia intera. Noi socialisti speriamo che la pace torni di nuovo e
presto. L'Italia si deve impegnare fortemente perché in Medio Oriente
possano convivere, in una condizione di reciproca sicurezza, lo Stato
israeliano e un nuovo Stato palestinese. La pace deve essere raggiunta con
il rispetto di ciascuna religione. Europa e mondo arabo hanno tradizioni
che spesso hanno avuto collisioni nel corso della storia, ma che sono
destinate a cooperare insieme. L'Italia può svolgere un ruolo di grande
rilievo nel Mediterraneo.
I socialisti hanno una grande tradizione di pace, ma hanno preso anche le
armi per difendere la Repubblica spagnola dal nazifascismo e l'Italia
democratica nella Resistenza. Hanno combattuto avendo sempre sulle labbra
due parole che a noi stanno ancora a cuore: pace e libertà. Questi sono
ancora i nostri sentimenti che sono ben radicati nelle coscienze di tutti
i socialisti".
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