La guerra, la sinistra e l'Ulivo dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre e prima del congresso dei Ds.

Giuliano Amato ed Enrico Boselli hanno affrontato soprattutto queste due questioni concludendo sabato 10 novembre i lavori della Conferenza Nazionale di Napoli. In tutti gli interventi è stata riconosciuta l'inevitabilità dell'intervento militare per sconfiggere il terrorismo, la necessità di affrontare le grandi questioni aperte che minano alla base la pace come il conflitto tra israeliani e palestinesi, e la speranza che la sinistra riformista nel nostro Paese si rafforzi assieme all'Ulivo per proporsi come reale alternativa di governo.

 

Pubblichiamo la sintesi degli interventi di Pia Locatelli, Gianfranco Schietroma, Roberto Villetti, Ottaviano del Turco, Enrique Baron Crespo.

 

Pubblichiamo inoltre le relazioni integrali di Ugo Intini, Enrico Morando (candidato alla segreteria DS), Enrico Boselli e Giuliano Amato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ugo Intini

 

Il Professor Fukujama, dalla California, ci aveva spiegato che, finita la guerra tra Est ed Ovest, tra comunismo e anticomunismo, erano morte la politica e persino la storia. E invece, si erano soltanto addormentate. Sono state svegliate  nel modo più atroce, dall’attacco al cuore di New York, ovvero al cuore della civiltà moderna. Siamo in guerra. Ma in una guerra mai vista nella storia dell’umanità. Per almeno sei motivi fondamentali.

In questa guerra,non ci sono due comandi tradizionali contrapposti. E d’altronde,qualunque estremista da bazar, nel mondo arabo, crede che non Bin Laden, ma un complotto israeliano sia all’origine dell’attacco a New York.

In questa guerra, i soldati nemici sono al tempo stesso combattenti e suicidi.

In questa guerra, il nemico non considera la strage dei civili innocenti come un obbiettivo marginale o come un effetto indesiderato,ma al contrario come il suo unico scopo militare.

In questa guerra, non esiste un solo angolo del mondo che non sia un possibile bersaglio.

In questa guerra non c’è un territorio conteso(almeno apparentemente).Neppure l’Afganistan.

Questa guerra non è stata dichiarata. Mai nessuno ammetterà perciò la sconfitta e nessuno offrirà finalmente la resa.

Adesso, dobbiamo vincere questa guerra mai vista, sapendo che dobbiamo ricorrere pertanto a idee  altrettanto mai viste. Che dobbiamo compiere un salto di qualità e di fantasia.A fronte di un nemico fanatico e visionario, dobbiamo avere anche noi quello che gli americani chiamano “vision”. Combatteremo sul piano politico ed economico, propagandistico e militare. Cominciamo da quest’ultimo, che è il più urgente e obbligato, ma non necessariamente il più importante.

Bisogna liquidare il regime talebano,bonificare l’Afganistan e creare così le condizioni per catturare o uccidere Bin Laden.Oggi bisogna reprimere. Forse anche perchè, non so se per superficialità o egoismo, non si è voluto prevenire. Sono stati infatti compiuti grandi errori nel passato in Afganistan. Soprattutto da parte americana. Lo dico per esperienza diretta.Perché l’Italia ha avuto la sorte curiosa di essere nell’ultimo anno al centro degli sforzi di pace.Ospitavamo l’ex re Zahir. Anche grazie al dott. Strada, e ad Emergency International, aiutavamo con l’assistenza ospedaliera (soprattutto ai bambini feriti dalle mine) gli afgani governati dall’Alleanza del Nord nel Panshir e quelli governati dai talebani a Kabul. Potevamo parlare( e abbiamo parlato) pertanto con tutti. Con i ministri talebani e con il  generale Massud , il capo carismatico dell’Alleanza del Nord, l’uomo che ha sconfitto l’Armata Rossa con il sostegno degli Stati Uniti e che gli Stati Uniti hanno lasciato solo, senza aiuto militare, senza neppure una decisa pressione sul Pakistan( una pressione fatta prima del disastro, non dopo) affinchè il Pakistan smettesse di sostenere l’esercito talebano contro di lui. Abbiamo rilanciato la Loya Jirga proposta dall’ex re ( la grande assemblea del popolo afgano) che non per caso si chiama internazionalmente “ processo di Roma”. Abbiamo chiesto un intervento limitato e umanitario di truppe dell’ONU. Abbiamo promosso azione diplomatica e aiuto , appoggiati con entusiasmo da Prodi e dall’Unione europea. E anche dall’Internazionale socialista, che ha affidato al mio coordinamento una commissione sull’Afganistan. Perché vedevamo bene che l’Afganistan costituiva la incubatrice e il principale esportatore di tre grandi mali, che potevano infettare il mondo: fanatismo islamico, terrorismo, droga. Lo hanno infettato. A dimostrazione quasi simbolica e terribile che il globo è diventato troppo piccolo. Che nessuna malattia può essere trascurata, neppure nel luogo più remoto, povero o desolato del mondo. Perché quella malattia può portare devastazione e morte sino al luogo più centrale, ricco e affollato del mondo: appunto, sino alle twin towers di New York.

Adesso, tardi, l’infezione afgana sarà curata, con un prezzo altissimo. Ma non basterà insediare in Afganistan un governo affidabile sotto il controllo delle Nazioni Unite. Dicevo all’inizio che non è l’Afganistan il territorio conteso e che in questa guerra non vi è, apparentemente un territorio conteso. Non vi è appunto, apparentemente. Non usiamo per i capi del terrorismo e i loro disegni la retorica che usavamo per le Brigate rosse, non definiamoli “deliranti” “criminali e basta”, “farneticanti”. No. Sono degli strateghi e dei giocatori di scacchi con un disegno lucido. Come i rivoluzionari europei del primo novecento, credono nella “violenza levatrice della storia”. Sperano che gli americani reagiscano in modo spropositato, che uccidano quanti più innocenti e civili possibili. Che aggrediscano non i singoli terroristi e i loro diretti fiancheggiatori, ma l’Islam. Sperano che ne consegua una ondata di odio anti occidentale fra le masse nei tre punti caldi dove il troppo materiale infiammabile può esplodere.E dove, in mezzo al materiale infiammabile, ci sono le armi atomiche di tre potenze nucleari:Pakistan, India e Israele.

La prima esplosione può travolgere il Pakistan e produrre quello che si può chiamare l’effetto “Gran Mogol”. Due degli ultimi  tre comandanti della ISI, il servizio segreto pakistano (l’ Interforce Security Agency) erano fondamentalisti islamici . Si tratta di uno Stato nello Stato. E anche l’ultimo suo comandante è stato licenziato senza spiegazione dopo l’11 settembre. Il 30% degli ufficiali  è dichiaratamente fondamentalista. Ancor più lo sono le masse pakistane. L’impero del Gran Mogol esisteva soltanto quattro secoli fa. Aveva la sua capitale nel mitico palazzo di Taj Mahal accanto a New Delhi. Abbracciava, cementato dalla fede islamica, Pakistan, Afganistan, le Repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, il Xing Yang cinese, il Kashmir, il Nord dell’India, dove vivono più di 200 milioni di musulmani. La propaganda fascista sognava l’impero romano, che è  1200 anni più lontano nel tempo di quello del Mogol. Anche molti generali pakistani sognano. Sognano che il Pakistan del 2000 sia la Prussia o il Piemonte dell’800, il nucleo duro per la costruzione  di una grande nazione, o di un impero, o di un Commonwealth  o di una “unione  islamica asiatica” simile all’Unione Europea. Alimentata dal petrolio dell'Asia ex sovietica. Circondata, a cornice, dall’Indonesia (che è il più popoloso stato musulmano del mondo), dalla Malaysia e dalle aree musulmane delle Filippine. Se il Pakistan cade, l’effetto Mogol diventerà non più un incubo, ma  una reale possibilità.

La seconda esplosione può travolgere innanzitutto l’Arabia Saudita e produrre l’effetto disastro energetico per l’Occidente. La maggior parte del petrolio sta nei paesi musulmani. I giacimenti più vasti stanno nella penisola araba, dove la ricchezza spropositata e immane, sotto il deserto, è a disposizione di pochi. Per noi questo è un caso .Per i fondamentalisti islamici no: è un disegno di Dio. E Dio indica a questi pochi, destinatari di un incredibile dono, ovvero agli sceicchi e agli emiri arabi, il loro compito: usare questo petrolio, questa grazia di Dio per umiliare l’arroganza dell’Occidente, per costruire la nazione islamica. O seguiranno il volere di Dio o saranno travolti dalla collera dei fedeli. Per questo, l’Arabia Saudita è una polveriera. Lì la dinastia regnante dei Saud è sorta e si è retta grazie al sostegno della setta musulmana  wahabita , una delle più rigide. Lì si tagliano teste e mani secondo la legge coranica esattamente come a Kabul.  Non dimentichiamo che Bin Laden è saudita, come quasi tutti gli attentatori di New York. Bin Laden fu inventato dai due capi dei servizi segreti: quello pakistano e quello saudita, destituito senza spiegazioni dopo l’11 settembre. Un decennio fa, dovevano trovare un principe saudita da trasformare in un capo delle brigate internazionali, provenienti da tutti i Paesi islamici, che combattevano contro i russi in Afganistan. Per sottolineare anche simbolicamente l’impegno dell’Arabia Saudita . Non trovarono un principe, ma l’erede di una grande famiglia si: appunto Bin Laden. Stiamo attenti perché alcuni concetti si adattano non solo alla storia nostra ma anche a quella del mondo musulmano. I servizi segreti deviati probabilmente non sono esistiti soltanto da noi. Le Brigate internazionali della guerra di Spagna hanno costituito un mito duraturo ed un brodo di cultura che ha esportato combattenti della sinistra nelle guerre partigiane di tutto il mondo occidentale. Le Brigate internazionali islamiche nella guerra di Afganistan, finanziate dal Pakistan e dalla CIA, hanno avuto la stessa funzione in tutto il mondo islamico: dalla Cecenia alle Filippine, dall’Indonesia all’Algeria, dall’Egitto allo Xing Yang cinese. Il mondo islamico si è legato così, nel fuoco di quella guerra, all’Afganistan e l’Afganistan è scivolato in un profondo pozzo di fondamentalismo. O il mondo islamico moderato riuscirà ad estrarre dal pozzo l’Afganistan, o ne verrà trascinato dentro, con conseguenze catastrofiche per tutti noi.

La terza esplosione può travolgere Arafat e i palestinesi moderati provocando pertanto un nuovo conflitto arabo israeliano . L’intransigenza di Israele, le provocazioni di Sharon , l’assenza dell’Europa e la passività dell’America di fronte a Tel Aviv  ci hanno portato molto vicini a questo disastro.  La CNN araba (Al Jaazira diventata oggi famosa anche qui) da anni inonda ogni sera le case arabe con il sangue, le urla strazianti di madri e di vedove palestinesi. Il risultato sarà devastante se l’Occidente non dimostrerà di saper imporre il rispetto dei diritti umani e dei diritti dei popoli a tutti: non a senso unico,non solo agli arabi, ma anche agli israeliani.

Questi sono i fronti della guerra mai vista prima che apre il millennio.

La lotta  contro il terrorismo – dice Bush – sarà lunga . Temo che non immaginiamo ancora quanto lunga .

Guardiamo la nostra storia recente. Il terrorismo delle Brigate rosse cominciò ad uccidere in Italia   per la prima volta nel 1972. Nel 1999 le BR hanno ucciso ancora. Il terrorismo può non finire mai. Sicuramente, pone ai socialisti e ai liberali, tra gli altri, un compito che già abbiamo assolto nei nostri anni di piombo. Il terrorismo globale ripropone infatti in grande i problemi di quello nazionale. E allora sappiamo bene che la necessità della prevenzione e della repressione rischia di rendere ciascuno meno libero. Per sperare di bloccare una persona sospetta, si devono sottoporre a controlli decine di milioni di persone. Le tecniche per farlo, con la rivoluzione informatica, possono ormai preparare scenari da grande fratello orwelliano. Su Newsweek di questa settimana ci si interroga se e come in una democrazia possa essere consentita, come d’altronde avviene in Israele, la tortura degli arrestati. Noi dobbiamo saper chiedere a livello universale una società più sicura e pagare un prezzo,certo. Ma non il prezzo di un Occidente meno libero e più barbaro. Esattamente come abbiamo fatto, a livello nazionale, ai tempi delle Brigate rosse.

Guardiamo una storia più vasta. La rivolta contro l’Occidente, contro il nostro sistema di vita, contro la distanza fra povertà e ricchezza, un tempo alzava la bandiera rossa del comunismo. Ciò valeva per Mao e Ho Chi Min, per Castro e per Che Guevara . Ma sotto la bandiera marxista si riparavano anche Nasser in Egitto e Ben Bella in Algeria, Sukarno in Indonesia, Lumumba e Mandela in Africa, i partiti filomarxisti Baath e Baash, all’origine degli attuali regimi in Siria e in Irak. Anche l’OLP di Arafat. La rivolta contro il sistema occidentale alza oggi non più la bandiera rossa, ma quella verde dell’Islam. Gli studenti rivoluzionari del terzo mondo non mostrano più il pugno chiuso ma, sopra i blue jeans, la kafia o il velo. La guerra contro il comunismo è durata quasi mezzo secolo . Questa guerra è molto diversa, perché per il momento qui manca all’ Islam il sostegno di una grande potenza militare come era Mosca. E’ molto diversa perché l’area tendenzialmente interessata è soltanto quella che ospita popolazioni islamiche (dalla costa atlantica del Marocco allo Xing Yang cinese, lungo la cosiddetta mezzaluna di Allah, che comunque abbraccia o sfiora, tre continenti). Ma ancor più che la guerra contro il comunismo,si può dire che questa guerra sarà prima politica che militare. I talebani saranno liquidati. Bin Laden morirà, ma la vittoria o la sconfitta dell’Occidente sarà misurata dal numero di ragazzi islamici che, nel 2020, porteranno la maglietta di Bin Laden così come da noi oggi si porta quella di Che Guevara. Vinceremo allora se sapremo rispondere con le armi tradizionali, ma anche con l’arma della cooperazione internazionale, della giustizia, dell’equità. Altrimenti, l’Occidente diventerà una immensa Israele, per decenni in lotta con il terrorismo. Il mondo diventerà un immenso Sud Africa, con i nostri figli asserragliati nei fortini della  ricchezza bianca.

Noi capivamo meglio la rivoluzione rossa, perché nasceva da una ideologia (marxismo-leninismo) e da lotte sociale non estranee alla nostra cultura. Ma dobbiamo adesso cercare di capire anche le radici della rivoluzione verde. Che non sono poi completamente diverse . Le dobbiamo capire per poterle recidere. Cerchiamo di collocarci psicologicamente nelle aree dove sventola la bandiera verde. Domandiamoci. Perché società tradizionalmente laiche, come ad esempio quella algerina, turca, egiziana, nigeriana, indonesiana o pakistana vedono diffondersi l’islamismo?

La volpe ha visto e desiderato l’uva del consumismo occidentale. Gli schermi del “villaggio globale televisivo” gliela hanno sventolata sotto il naso. Ma non l’ha mai raggiunta. La volpe, ovvero il popolo dei paesi musulmani, ha perciò cominciato ad odiare l’uva e a dire che non le piace. Peggio, ai tempo di Nasser l’uva sembrava più a portata di mano e quindi la frustrazione era meno grande.

L’eccesso di materialismo e cinismo disturba spesso persino i nostri religiosi cristiani e i nostri giovani. Solleva dunque, come è perfettamente comprensibile, reazioni immensamente più dure in religiosi e giovani che vengono da società molto più arretrate. 

I rivoluzionari comunisti pensavano che la povertà dei loro popoli derivasse dallo sfruttamento capitalista. I rivoluzionari verdi pensano lo stesso, ma con una carica di odio in più, perché quello che vedono come lo sfruttatore non è un loro simile, ma il rappresentante di una razza diversa: una razza che spesso non nasconde il suo sprezzante complesso di superiorità.
Nei Paesi musulmani, le classi di governo laiche sono spesso al collasso per la loro corruzione e litigiosità. Lo Stato non si occupa più dei bambini e dei poveri . Anziché le istituzioni pubbliche ormai degradate, se ne occupano i religiosi, finanziati generosamente dagli Stati arabi petroliferi. Nelle loro scuole , alle periferie di Istanbul e del Cairo, di Algeri e di Mogadiscio,crescono i fondamentalisti di domani. Le mamme di questi ragazzi ( e i ragazzi sono spesso la metà dell’intera popolazione) indossano spesso da poco il chador sulla base di uno scambio che nei nostri villaggi poveri non era un tempo sconosciuto: carità in cambio di sottomissione religiosa.

Dobbiamo capire le radici della rivoluzione verde come capimmo quelle della rivoluzione rossa e dobbiamo contrastare le due rivoluzioni in parte allo stesso modo.Dobbiamo però innanzitutto essere chiari. Noi capivamo, si, i motivi sociali che alimentavano il terrorismo delle Brigate rosse , ma le combattevamo militarmente in modo spietato. Per arrestare i  brigatisti, non aspettavamo di aver prima risolto il problema del disagio proletario o del sottosviluppo del Mezzogiorno.

L’Occidente contrastava l’aggressione militare del comunismo. Reprimeva il terrorismo comunista. Ma isolava i militaristi e i terroristi. Trattava e cooperava invece con i comunisti non ostili, quelli che credevano nella coesistenza pacifica. Lo stesso si deve fare  con la parte non aggressiva del fondamentalismo islamico, ovvero con la sua stragrande maggioranza. Gli imprudenti, come Berlusconi, dichiarano allora che l’Occidente è superiore all’Islam. Gli impudenti, come Bossi, insultano i musulmani. Bush invece va a pregare in moschea. Blair dice al congresso del Labour Party: “ I veri seguaci dell’Islam sono affratellati a noi in questa lotta.  E’ tempo per il mondo occidentale di affrontare la sua ignoranza riguardo all’ Islam. Gli ebrei, i musulmani e i cristiani sono tutti figli di Abramo. E’ giunto il momento di riavvicinare queste religioni nell’accettazione dei comuni valori di origine, fonte di unità e forza”.

Questa è la risposta propagandistica. Ma come la rivoluzione rossa, anche la rivoluzione verde  è stata innanzitutto provocata dalla povertà e dal sottosviluppo. L’Occidente ha vinto il comunismo non perché ha saputo produrre più missili, ma perché ha saputo produrre più ricchezza e più giustizia sociale per tutti. La stessa sfida dobbiamo accettare adesso. In mezzo a mille esagerazioni e torti, i ragazzi che manifestavano contro questa globalizzazione, come quelli del ’68, ci hanno dato la sveglia ,molto prima dell’11 settembre.

Il mondo ha conosciuto tante rivoluzioni che lo hanno cambiato. La leva, la ruota, il motore. Il motore oltre un secolo fa ha prodotto la rivoluzione industriale, ha moltiplicato la forza fisica degli uomini, ha ridotto le distanze. La rivoluzione del computer, che ha prodotto la globalizzazione, è molto più importante.  Ha moltiplicato non la   forza fisica, ma la forza del pensiero. Ha non  ridotto, ma  cancellato le distanze. Dobbiamo allora fare come i primi socialisti di allora. I socialisti non gridavano abbasso la macchina, ma viva la macchina, perché vedevano che produceva ricchezza. Non volevano però che intorno alla macchina i bambini lavorassero sedici ore al giorno. Volevano governare politicamente, secondo principi di umanità e giustizia, la rivoluzione industriale. Lo stesso dobbiamo fare noi con la rivoluzione della globalizzazione. Dobbiamo allora essere più coraggiosi. Oggi le 200 persone più ricche del mondo hanno un patrimonio pari al reddito annuo del 40% dell’umanità, la parte più povera. Non un rivoluzionario, ma l’ex vice presidente della Banca federale americana Alan Blinder , dice : “ quando gli storici guarderanno indietro all’ultimo quarto del ventesimo secolo, diranno che la caratteristica principale è stata lo spostamento senza precedenti di denaro e di potere dal lavoro verso il capitale, dal basso verso l’alto della piramide sociale”.

Per vincere questa guerra è dunque il momento di un grande piano di aiuto dell’Occidente verso il terzo mondo. L’Europa è stata salvata dal comunismo non soltanto dai carri armati della NATO, ma grazie al piano Marshall che ne ha rilanciato lo sviluppo.Grazie alle nuove istituzioni monetarie internazionali nate a Bretton Woods . Non un socialista, ma il finanziere George Soros, scrive : “ la guerra alla povertà è divenuta sempre più urgente dopo l’11 settembre.  Vale la pena di ricordare che la conferenza di Bretton Woods, che ha aperto la strada alla prosperità del dopoguerra, si è svolta nel giugno 1944, più di nove mesi prima della vittoria. Anche nel calore della battaglia, i leader delle potenze alleate hanno riconosciuto che la vittoria militare non sarebbe bastata ad assicurare una duratura pace successiva. Io auspico che i leader della guerra contro il terrorismo oggi abbiano la stessa coraggiosa e lucida visione”.

Come sempre nella vita, non tutto il male viene per nuocere. Lo shock dell’11 settembre ha accelerato la storia e l’ha spinta in direzioni incoraggianti, con rapidità inimmaginabile. Bush sembrava deciso a costruire uno scudo spaziale contro i missili in chiave anti cinese e anti russa. Sembrava vedere l’Europa non più  come un alleato, ma come un concorrente economico. Adesso, a Shangai, Bush , Putin e Jang Zemin stanno a braccetto, si creano le condizioni di una grande partnership universale tra Stati Uniti, Europa, Russia e Cina , tale da ricostruire la via della seta: una via della seta alimentata dal petrolio dell’Asia ex sovietica.

Bush sembrava considerare le Nazioni Unite una inutile burocrazia parassitaria e negava loro persino il pagamento della quota associativa dovuta dall’America. Stanziava un quinto di quello che le Nazioni Unite richiedono a ciascun Paese sviluppato per l’aiuto al terzo mondo.

Tutto questo avveniva  perché l’America, invulnerabile da sempre, si sentiva ricca, sicura e bisognosa solo di se stessa. Si andava chiudendo nell’isolazionismo,mentre oggi capisce che ha bisogno del mondo come il mondo ha bisogno di lei.

Finita la guerra tra Est ed Ovest, sembrava l’ora dei ragionieri della politica, che definiscono le nazioni “aziende”. Sembrava che servissero soltanto i tecnici dell’economia : per interpretare le leggi del mercato. Che servissero soltanto i tecnici del diritto( magistrati e poliziotti) : per imporre il rispetto dell’ordine pubblico e dei contratti. Sembrava che i politici, inquisiti e delegittimati , dovessero fare il meno possibile. Questo appariva il volto vincente del moderno autoritarismo. Un autoritarismo che la sinistra italiana degli anni ’90 (e solo quella italiana) neofita del liberismo e del dipietrismo, ha la colpa storica di non aver saputo riconoscere. Ma di avere anzi assecondato. Adesso è invece suonata di nuovo l’ora dei politici con la P maiuscola.

Ieri sembrava invincibile il predominio dell’individualismo e del liberismo, Oggi ritorna l’esigenza della solidarietà e della socialità. Non vorrei essere cinico. Ma sempre, a ridosso delle guerre, quando c’è bisogno del popolo per vincere un pericolo, ci si ricorda del popolo. E’ accaduto così durante e dopo la prima e seconda guerra mondiale, durante la guerra fredda e quella del Vietnam. Le ragioni del mercato sono invece diventate l’unico metro di azione politica soltanto dopo che è finita la terza guerra mondiale fra Est e Ovest, dopo che è sparita per Wall Street e la City di Londra la sfida  del comunismo.

E ancora, la guerra e lo spettro della  recessione richiedono pianificazione, politica, spesa pubblica. Se ne va in soffitta Fridman e ritorna Keynes. Se ne vanno lo Stato minimo e la politica minima: ritornano lo Stato e la politica protagonisti.

Soprattutto, i fatti crudi e spietati impongono ciò che l’idealismo dei giovani ( o la lungimiranza delle elites ) sino a ieri non avevano la forza di imporre. Che il mondo sia piccolo, fragile, interdipendente, e ormai sotto gli occhi di tutti. Avevamo la finanza globale, l’economia globale, lo spettacolo globale, il crimine globale. Con l’esplosione del terrorismo, si è finalmente capito che è giunta l’ora della politica globale. Di un coordinamento sempre più stretto tra le politiche economiche, di sicurezza, di immigrazione, militari di tutto il mondo. La sfida mortale portata dal terrorismo costringe finalmente i tanti e i potenti a costruire quel nuovo ordine mondiale che i pochi e i sognatori impotenti predicavano da anni.

A maggior ragione la sfida ci costringe a costruire più presto il nuovo ordine europeo, pena la nostra emarginazione.  Il primo gennaio, avremo in tasca l’Euro, ma mai si è vista una moneta appesa al nulla.  Bisogna appoggiarla a uno Stato federale, a una politica estera ,  a una politica militare comune. Perché se già l’esercito europeo di 60 mila uomini (ormai deciso) fosse pronto, se già fosse trasportato con l’airbus (l’airbus che Berlusconi non vorrebbe) l’Europa non sarebbe militarmente assente come tale, non avremmo l’umiliazione  (e il rischio per l’unità europea) di vedere , sino a questo momento, in azione le sole truppe inglesi.E di vedere protagonista la sola Gran Bretagna.

In questo contesto, la politica provinciale, quella delle risse,  delle recriminazioni sul passato, degli egoismi personali, appare d’improvviso non solo sbagliata, ma ridicola. Le nuove sfide impongono un salto di qualità, una internazionalizzazione crescente, una semplificazione estrema. Impongono di chiudere un libro e di aprirne un altro.

La guerra impone di stare di qua o di là. Non c’è più posto per pacifismi, ecumenismi, prediche. O di qua o di là. Di qua, dalla parte della nostra civiltà, si confrontano tre aree di pensiero politico. L’area liberista. Di coloro i quali ancora pensano che il mercato debba essere lasciato completamente libero e che la politica debba interferire il meno possibile. Poi, l’area di coloro, come i cristiani (o anche i buddisti o gli islamici razionali) che contestano gli eccessi liberisti sulla base di un principio spirituale. Poi, l’area di coloro (e noi siamo qui) che li contestano sulla base di un principio sociale, di una tradizione e radice socialista. L’intesa tra queste ultime due aree ha fatto passi avanti in Italia, attraverso l’alleanza dell’Ulivo, che è innanzitutto alleanza tra cattolici e socialisti. Fa passi avanti nel mondo quando, ad esempio, si ascolta il Presidente della Internazionale Socialista e il Papa dire cose non dissimili, in nome dell’umanesimo cristiano e di quello socialista.

La politica italiana appare ridicola . Le opposte marce di queste settimane, alle quali ci siamo rifiutati di partecipare, sono due facce della stessa medaglia, di una Italia irrimediabilmente inadeguata e anomala. Mentre i leaders della sinistra europea, a cominciare da Blair, guidavano la guerra, i leaders della sinistra italiana marciavano per la pace. E oggi i no global marciano addirittura, in parte, contro l'America.Intendiamoci, si può e forse si deve criticare la politica e la strategia americana. Ma prima si sta sulla stessa barca,  con lealtà, e si rema, poi si ha diritto di dare consigli sul ritmo della remata e sulla rotta. Come fa Tony Blair. Intendiamoci. In tutte le coalizioni di Governo della sinistra europea,  in tutti i partiti socialdemocratici, ci sono posizioni come quelle della sinistra dell'Ulivo. Rispettabili e rispettate. Ma partiti socialisti al governo da cinquant'anni possono permettersele. Possono permettersele partiti guidati da dirigenti nati e cresciuti socialisti, non comunisti. Guidati da maggioranze riformiste del 95%. Noi non possiamo permettercelo. Noi non possiamo permettercelo perché spesso quelli  che  marciano oggi per la pace, mentre si combatte contro la rivoluzione verde, marciavano ieri per la pace mentre si combatteva contro la rivoluzione rossa. Marciavano, ma stavano in pratica dalla parte di Stalin prima e di Breznev dopo. La sinistra italiana non può permettere che i suoi cani di Pavlov abbiano sempre gli stessi riflessi condizionati, la stessa reazione inevitabilmente e continuamente ambigua o ostile verso l’Occidente.

Una sinistra unica in Europa marciava ad Assisi. Una estrema sinistra ancor più unica marcia oggi a Roma. Una destra unica in Europa si raduna in queste ore sotto la bandiera americana. E' incredibile, perché mai un governo democratico europeo chiama a raccolta la piazza. Perché un governo che guida una guerra non organizza una manifestazione di parte, che divide la Nazione, ma cerca l'unità della Nazione intorno alle sue Forze Ar mate. Quelle Forze Armate, quei ragazzi in divisa, quel tricolore ai quali noi oggi ci stringiamo con affetto. Non solo da socialisti, ma da italiani.  A Washington, si scherza. Un tempo –si dice- i governanti fascisti marciavano per le Piazze di Roma contro l’America. Adesso i loro eredi governanti ex fascisti marciano per l’America. In Europa si ride, perchè tutta l’Europa è solidale con gli Stati Uniti ( ovvio) ma in nessuna capitale europea si è non dico realizzata, ma neppure immaginata una simile manifestazione. Non è soltanto folklore della eterna Italia da operetta . Nè strumentalizzazione politica contro la marcia d’Assisi, tale da dare irresponsabilmente al mondo l’idea falsa, devastante per gli interessi nazionali, di un’Italia divisa a metà tra filoamericani e antiamericani. Può diventare peggio. E’ il segnale simbolico di una destra italiana che viene sempre più emarginata in Europa e che quindi ha la tentazione di allontanaresne. Berlusconi, ultimo della classe agli occhi dell’Europa, vuole apparire il primo della classe agli occhi dell’America. Mai come oggi invece c’è bisogno di una Europa alleata degli Stati Uniti, leale sino in fondo, ma autonoma dagli Stati Uniti e perciò politicamente e militarmente unita. Se dovessimo sfilare per solidarietà all’America, dovremmo oggi farlo con la bandiera europea . Sarebbe bene. Perché tutta la politica di Berlusconi, a cominciare da quella economica, è sotto il segno del “facciamo come in America”. La costruzione dell’unità europea richiede invece, al contrario, di credere non solo nella nostra moneta nuova, ma nei nostri valori storici, di credere in una cultura e una idea unificante, che è simile a quella dell’America, ma non identica. La diversità  è, per l’Europa, più solidarietà e meno individualismo. Più tolleranza e meno durezza. L’Europa del Welfare State e non della pena di morte, l’Europa dove la sinistra si chiama non liberal, ma, con orgoglio, socialista, è diversa dall’America. Può forse, grazie alla sua diversità, influenzarla e consigliarla positivamente, da amica e alleata. Ma da alleata autonoma, in una alleanza tra uguali.

Oggi si dice che l’unità europea è in una fase difficile, a una svolta. Che l’Europa degli economisti e dei burocrati si allontana dal popolo. Certo.Si allontana perché non ha un’anima. E l’anima dell’Europa è questa. E’ l’anima costruita, nei decenni e nei secoli, dall’incontro di due umanesimi: l’umanesimo cristiano e l’umanesimo socialista.

Stati Uniti del mondo. Contro il terrorismo, il coraggio dei riformisti. Questo è oggi il nostro slogan. Dice molto. Più di quanto sembri a prima vista. Indica il fondamento di una politica economica ed estera. Il coraggio dei riformisti è quello di stare contro il terrorismo non a parole, ma con le armi e sino alle estreme conseguenze. E’ anche quello di starci però non da conservatori ma, appunto, da  riformisti. Di starci sapendo che il riformismo nazionale deve essere sostituito sempre più da quello globale, con la costruzione di un nuovo ordine economico mondiale, con l’avvio di riforme profonde che sradichino la povertà e il sottosviluppo, che colpiscano così la più duratura fonte del terrorismo. Stati Uniti del mondo significa che gli Stati Uniti sono un valore immenso per il mondo, che il mondo oggi si stringe tutto agli Stati Uniti. Ma Stati Uniti del mondo significa anche che di fronte a una sfida terribile e globale, occorre finalmente costruire una grande e vera organizzazione politica altrettanto globale: appunto,gli Stati Uniti del mondo. Anche se è un obbiettivo purtroppo ancora lontano.

Le guerre, insieme ai lutti, spesso portano il seme di un futuro migliore, di una cultura nuova. Spesso aprono la strada ai sognatori. Al termine della seconda guerra mondiale, nell’Europa distrutta, piangendo i morti e chiedendo “mai più una guerra in Europa”, i sognatori che sono i nostri padri politici, i Nenni e i Mendes France,i Saragat e i Bevin,gli Spinelli e gli Henry Spaak, hanno immaginato l’Europa unita. Che i Craxi, i Mitterrand, i Brandt , i Prodi hanno costruito  e che si deve ultimare. Oggi, quando sarà finita la guerra contro il terrorismo (anzi, prima) dobbiamo cominciare a sognare anche noi. Dobbiamo sognare quegli Stati Uniti del mondo, quella autorità politica universale che i nostri figli e i nostri nipoti saranno chiamati a realizzare.

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Pia Locatelli


La settimana che ho trascorso in Pakistan, ai confini con l'Afghanistan, mi ha consentito di vedere da vicino il dramma di quella regione e di avere conferma di tutte le atrocità che in questi anni abbiamo sentito raccontare. Ormai conosciamo tutti le tragiche condizioni di quel Paese da quando i talebani hanno imposto la loro versione della Sharia, il canone della legge islamica. Pochi invece sanno che le disgrazie di quel Paese sono iniziate molti anni prima, con l'invasione sovietica dell'Afghanistan nel '79, proseguite con la resistenza dei mujiaeddin che hanno costretto alla ritirata l'orso sovietico, con gli anni di guerra civile tra le varie fazioni dei mujiaeddin ed infine con l'arrivo dei taleban che nel settembre '96 entrano a Kabul, controllando gran parte del territorio afgano. Più di vent'anni di guerra hanno distrutto il Paese e la società civile.
La guerra che non piace a nessuno, nemmeno a noi che abbiamo votato a favore dell'intervento armato. Questa guerra al terrorismo è chiara negli obiettivi ma gestita in modo clandestino e confuso e può finire in una catastrofe o essere risolutiva non solo per l'Afghanistan ma per l'intera regione. Dipende molto dalla capacità dei riformisti nel mondo dare un forte impulso ad un processo politico che può far tacere le armi. Il pacifismo riformista ritiene che la guerra debba essere gestita dalla politica. Si può volere intervenire militarmente senza troppi distinguo oppure si può volere intervenire secondo parametri e obiettivi di costruzione di un sistema di pace migliore di quello di oggi.
Per questo bisogna confrontarsi con gli Stati Uniti ed avere una gestione politica dell'intera situazione. Non va bene aderire alla guerra e lasciare tutte le decisioni ad altri. Il rischio che corriamo è di essere dentro le cose, dentro la guerra, senza poter partecipare alle decisioni.
Prima di questo viaggio in Pakistan, sono stata in Nicaragua, dove si è svolta una riunione dell'Internazionale Socialista per sostenere Daniel Ortega ed i Sandinisti alle elezioni che purtroppo hanno perso. C'erano poche presenze a questa riunione dell'Internazionale Socialista, organizzata anche per far vedere il loro non isolamento internazionale. Dall'Europa due presenze in tutto, una francese ed una italiana, la mia in rappresentanza delle Sdi. I conservatori invece il loro sostegno l'hanno fatto sentire, eccome, in forme molto diverse, comprese le facilitazioni per l'arrivo di tanti nicaraguensi che da anni vivono in Florida.
In questa guerra invece si sente soprattutto la voce americana, non si sente la voce dell'Europa che è la regione del riformismo, del riformismo socialista. Se riteniamo che le guerre debbano essere gestite dalla politica, la voce dell'Europa deve farsi sentire. Se vogliamo essere alleati e non sudditi degli Usa dobbiamo dare a questo rapporto dignità e coerenza, dando impulso alla costruzione politica dell'Europa.
Per concludere vorrei aggiungere che ho letto con sollievo che insieme ai soldati italiani si invierà nella regione un piccolo esercito formato da ostetriche e ginecologhe per combattere il dramma delle condizioni sanitarie della popolazione afgana, a partire dalle morti da parto. È una nota positiva in mezzo a tante note tristi. Non posso non costatare però che è stridente il rapporto tra il costo dell'operazione militare, 2700 miliardi, e i 28 miliardi degli aiuti umanitari che l'Italia, seconda nel mondo dopo gli USA, ha stanziato.

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Enrico Morando

 

Care compagni e cari compagni, vi ringrazio per l’invito che mi avete rivolto a partecipare a questa che è una grande manifestazione di noi socialisti nella mobilitazione contro il terrorismo internazionale. Vi ringrazio anche per l’attenzione con cui avete seguito, credo di poter dire anche per la simpatia con cui avete seguito la battaglia congressuale che ho cercato, assieme ad altri compagni, alcuni dei quali sono qui, di sviluppare all’interno dei congressi dei Ds. Vi ringrazio soprattutto perché in questi novanta giorni in cui sono stato in giro per l’Italia, non mi è mai successo di andare in una città a presentare la mozione, a fare un dibattito, una discussione, se era un’iniziativa pubblica, senza che mancasse a quella discussione il segretario provinciale dello Sdi, il segretario cittadino dello Sdi.

Vengo subito alla questione che vorrei affrontare. Secondo me, ha torto, chi minimizza la portata della rottura che è intervenuta nell’Ulivo sul tema dell’intervento militare in Afghanistan, e sull’impegno del nostro Paese in quell’intervento. Molto semplicemente io la vedo così: ogni cittadino italiano, dopo quella rottura, quella di qualche giorno fa, ma anche quella che era intervenuta all’inizio venti giorni fa, è autorizzato a pensare che se l’Ulivo avesse vinto le elezioni e stesse governando l’Italia non avrebbe avuto la forza politica e la maggioranza parlamentare necessaria per collocare l’Italia nella crisi internazionale aperta dagli attentati dell’11 settembre. E se ogni cittadino italiano è autorizzato da quella rottura a pensare questo allora se ne deve dedurre che il progetto politico dell’Ulivo, come credibile soggetto portatore dell’alternativa di governo al centro destra, ha subito con quella rottura un colpo durissimo.

Chi minimizza, chi invita a passare oltre, chi invita ad non esagerare, non crede al progetto politico dell’Ulivo, non crede dunque alla possibilità di una rivincita nei confronti del centro destra e del governo Berlusconi. Considera, chi ragiona così, l’Ulivo una semplice alleanza elettorale, priva di un’anima politica e di una sua automa identità politica e programmatica e questa è la domanda che ci dobbiamo porre; è questo durissimo colpo, un colpo mortale che ci lascia privi di un progetto politico per l’alternativa di governo a Berlusconi? Io rispondo a questa domanda sì e no. Sì, è un colpo mortale se si cercherà di “metterci una pezza”, come si dice dalle mie parti, tornando alla situazione di prima della rottura poiché proprio nella debolezza dell’impalcatura politico-programmatica dell’Ulivo, sono maturate le condizioni della decisione nel voto in Parlamento sulla guerra al terrorismo e al regime talebano che lo protegge. No, non sarà un colpo mortale, se la salvezza dell’Ulivo verrà perseguita attraverso uno sforzo per riconoscere finalmente dico io, all’Ulivo, quell’autonoma soggettività politica che gli è stata pervicacemente negata in questi anni, anni nei quali i partiti (tutti) ma naturalmente i maggiori partiti dell’Ulivo, portano una maggiore responsabilità per quest’errore. Hanno sbagliato non perché non hanno investito a sufficienza sull’Ulivo, non perché hanno sottovalutato l’importanza dell’Ulivo, non hanno commesso un errore determinato da omissione, hanno commesso un errore ben più grave, hanno fatto un’altra scelta politica.

La crisi di oggi, deriva dall’idea che si dovesse affermare la supremazia, il primato dei partiti sulla coalizione. È quella che nel gergo politico abbiamo chiamato, e tutti chiamano, l’ansia della visibilità dei singoli al posto del primato della proposta di governo. Questa scelta ha progressivamente indebolito l’Ulivo e nell’Ulivo questo è quello che ci deve preoccupare - almeno a me preoccupa - ha impedito la costruzione di una solida convergenza dei più coerenti riformisti che stanno dentro tutti i partiti dell’Ulivo.

Prendiamo il tema della lotta al terrorismo, quello di cui si discute stamattina. Prendiamo il tema dell’intervento armato in atto in Afghanistan contro il regime dei talebani. Ebbene in tutte le formazioni politiche dell’Ulivo, ci sono forze che ragionano più o meno così: certo, l’attentato dell’11 settembre è un crimine contro l’umanità, certo bisogna costruire una reazione attraverso un’ampia alleanza internazionale contro il terrorismo, gli Stati Uniti hanno deciso di intervenire, facciano, dicono queste forze, poiché hanno diritto in buona sostanza all’autodifesa, ma noi della sinistra, in particolare, non possiamo che essere contrari a questo intervento perché esso comporta vittime tra i civili perché esso comporta nuove sofferenze per il popolo afgano che sta soffrendo da tanti anni. Ma soprattutto, sostiene questa parte della sinistra e non solo delle forze presenti nell’Ulivo, il nostro lavoro è un altro, non è quello di organizzare l’intervento militare in Afghanistan; è quello della lotta alla miseria, alla fame, alle malattie, per la pace nel Medioriente, contro l’inquinamento globale… è una posizione forte, diffusa, che spesso è motivata da quel pacifismo intransigente a cui la sinistra da sempre giustamente dedica e attribuisce grande rispetto. È una posizione che specie nella sinistra di ispirazione socialista, per esempio nel mio partito si accompagna e si alimenta talvolta di un sentimento anti-americano, che nasce nella fase della guerra fredda, ma adesso trova ulteriori fonti di rinvigorimento, diciamo, nella cosiddetta contrapposizione frontale alla globalizzazione in quanto tale, non contro gli effetti negativi che ci sono e sono drammatici della globalizzazione in quanto tale. Ebbene, nella sinistra socialista e nell’Ulivo prevale un’altra posizione non questa, prevale la posizione di chi dice, proprio perché noi della sinistra vogliamo essere protagonisti della lotta alla fame, alla miseria, contro le malattie, contro l’inquinamento globale, proprio perché vogliamo essere protagonisti dell’iniziativa per affrontare e risolvere finalmente la crisi mediorientale, proprio per questo noi vogliamo essere protagonisti dell’iniziativa della lotta contro il terrorismo internazionale.

Per noi è una priorità, perché noi siamo sinistra e vogliamo una società ancora più aperta di quella che abbiamo. Proprio per questo noi vediamo la radicalità della minaccia che viene portata contro le nostre società e contro la sinistra, dal terrorismo internazionale. Parliamoci chiaro: contro la minaccia del terrorismo, una parte della nostra opinione pubblica, se la minaccia non verrà rapidamente rimossa, reagirà chiedendo ai governi, toglieteci la libertà o il grado di libertà sufficiente purché ci diate la sicurezza della vita. Ma la sinistra cari compagni è incompatibile con questa risposta al terrorismo, perché la destra tutto sommato in quella prospettiva, sarebbe capace di ritagliarsi uno spazio, dentro una società più chiusa, ma la sinistra della pari opportunità, dell’uguaglianza, della giustizia sociale, delle libertà civili, la sinistra che siamo noi, la sinistra è incompatibile con la chiusura delle società per reagire alla minaccia del terrorismo. Ecco qual è la ragione specifica dell’impegno in prima fila della sinistra contro il terrorismo internazionale.

Ora, nell’Ulivo come nelle altre forze del socialismo europeo, questa posizione che io ho appena enunciato è largamente prevalente sull’altra, eppure c’è, è forte, è solida, ha un suo fondamento, nell’analisi della società, nella storia della sinistra italiana ed europea. Ma qui c’è un problema della sinistra italiana e dell’Ulivo ma poiché l’Ulivo non ha sedi di elaborazioni comune, non ha gruppi parlamentari federati, non ha un governo ombra con cui questi stessi gruppi abbiano contratto un rapporto di fiducia analogo, per qualità politica, lasciamo stare la qualità politica, a quello che sia col governo quando si è maggioranza, nell’Ulivo il confronto tra queste due posizioni che ci sono dovunque in Europa, produce esiti devastanti e porta dinanzi al Paese non la forza della posizione prevalente, quella che qui stamattina è stata illustrata e che ha animato gli ordini del giorno, le risoluzioni che abbiamo votato assieme in stragrande maggioranza nell’Ulivo in Parlamento. Ma porta di fronte agli italiani soltanto l’immagine della divisione e della rottura, qui sta il problema. Ha dunque un rilievo strategico per noi, la scelta di strutturare l’Ulivo. Certo, i gruppi federati di Camera e Senato e tutte le altre istituzioni in cui si offre a tutte le posizioni la possibilità di manifestarsi e lo spazio per diventare maggioranza, ma poi ci si danno le regole per decidere a maggioranza e so che c’è una diffidenza tra di voi su questo punto, ma proprio per questa ragione lo voglio dire chiaramente, e secondo me, ci si danno le regole perché ci sia una disciplina di maggioranza nel voto parlamentare, perché dobbiamo ragionare come se, votando contro in Parlamento, per difendere una posizione che abbiamo tutto il diritto di cercare di far valere nelle riunioni, diciamo interne alla coalizione, è come se ci fosse il governo dell’Ulivo e noi decidessimo di metterlo in crisi. Questa è la qualità politica della scelta di votare contro il Parlamento, non possiamo nasconderci dietro astratti principi di tutela della lbierttà di coscienza, si tratta di scelte politiche in relazione alla credibilità del progetto di cui noi siamo portatori e del soggetto che porta dinanzi al Paese la proposta di governo alternativa al centro destra.

Capisco i vostri dubbi sulla disciplina di coalizione, ma vedete, cari compagni io penso che bisogna che noi socialisti riformisti dell’Ulivo, abbandoniamo ogni complesso di minorità. Dobbiamo farlo, non pretendendo, come abbiamo fatto nel passato in particolare noi del Pds, di ricavare dalla nostra collocazione nel riformismo socialista europeo nel Pse, le risorse per vincere la competizione per la leadership in Italia, no, noi dobbiamo guardare al rapporto alla collocazione che abbiamo nel socialismo europeo, come a una risorsa decisiva perché si riesca a far valere la nostra posizione nell’Ulivo come asse della costruzione di un’alternativa politica e programmatica al centro destra. È questo tipo di risorsa che noi dobbiamo cercare nella nostra collocazione internazionale, non la risorsa che ci consente di vincere la competizione per la premiership o per la leadership nell’Ulivo. Ecco, una decisiva funzione di coagulo nell’Ulivo, noi possiamo svolgerla perché la nostra cultura riformista nell’Ulivo si incontra con quel riformismo cattolico con quel riformismo di ispirazione liberal-democratica che è l’anima del riformismo nel modello europeo, e che negli altri partiti socialisti d’Europa più fortunati e capaci di noi, per ora bisogna dire così, ha trovato casa comune in un partito del socialismo europeo.

In Italia la strada è può tortuosa, ma la sostanza politica non può che essere la stessa e la nostra funzione politica dei riformisti di ispirazione socialista non può che essere questa, almeno sotto il profilo dell’ambizione. Ebbene, per svolgere questa funzione politica, decisiva per rilanciare il progetto dell’Ulivo e quindi per dare al Paese la speranza di un’alternativa a questo governo. Noi socialisti ci dobbiamo unire, subito, in un unico partito del socialismo europeo in Italia, nell’Ulivo e per l’Ulivo.

Non dobbiamo guardare a questa prospettiva di unità come a qualcosa che sana le divisioni, le ferite del passato che non hanno più ragione di essere. Certo, c’è questo nel nostro disegno che è un comune disegno di unità, ma c’è molto di più. C’è la possibilità per il riformismo di ispirazione socialista, di essere protagonista con altri, con la Margherita in primo luogo, nella costruzione del futuro per l’Italia.

Non soltanto per noi nella casa comune dei riformisti l’Ulivo come federazione stabile di partiti politici, di movimenti, di associazioni, di singoli cittadini che sono impegnati nella costruzione di un’alternativa di governo di tipo europeo ad un centro destra che purtroppo per noi di europeo non ha granché.

Ebbene, lo voglio dire chiaramente, se il socialismo riformista italiano, non esce definitivamente da una connotazione partitica, dominata da ciò che deriva dal grande scontro nel secolo che abbiamo alle spalle tra comunisti e socialisti, non c’è futuro di governo né per l’Ulivo né per noi. La Costituente nell’Ulivo e per l’Ulivo, di un nuovo partito del riformismo socialista in Italia, secondo il progetto  proposto da Giuliano Amato, questo è l’obiettivo. Un progetto che in Giuliano Amato, può trovare il suo centro motore e di aggregazione, e può trovare la personalità decisiva per dare al nuovo partito, bisogna chiamare le cose col loro nome, una leadership che sia finalmente fuori, dalla storia del Pci. Lo dico pur essendo io tra quelli che sono stati dirigenti del Pci. Io non appartengo però alla schiera di quanti affermano “io non sono mai stato comunista”. Io sono stato comunista, ho fatto tutta una carriera dentro il Pci, e non me ne vergogno. Ma so che il nuovo partito del riformismo socialista in Italia nasce soltanto se anche nella costruzione della leadership collettiva, di quel nuovo partito che vogliamo fare, c’è una rottura di continuità rispetto alla leadership del partito comunista italiano, che ha avuto un rapporto di continuità anche nella esperienza successiva. E lo dico consapevole che questo naturalmente ha delle conseguenze anche per il sottoscritto. Non si può trattare di una federazione di partiti della sinistra socialista; no, la federazione è l’Ulivo. Non ci dobbiamo accontentare di un obiettivo misero.

Mantenere l’attuale nomenclatura partitica, quella che affonda le radici nel conflitto tra comunismo e socialismo, nel secolo democratico del ‘900 e pretendere che non possiamo stare là dentro, ancora dentro quella logica e poi pensare che..., beh insomma, basta fare una federazione per affrontare il problema qualitativamente chiaro che abbiamo di fronte.

No, nel 2000 il riformismo socialista europeo anche in Italia si deve organizzare in un unico partito che sta nell’Ulivo ed è protagonista della costruzione del consolidamento dell’Ulivo. Un partito del quale facciano parte, come accade in tutti i partiti socialisti, social-democratici e laburisti d’Europa. Anche le componenti più radicali della sinistra socialista. Quando sento parlare di dividere ulteriormente ciò che c’è, sento una stretta al cuore, perché è una maledizione questa della sinistra italiana, e cioè quella di pensare che l’identità socialista non sia sufficientemente ampia per raccogliere tutti quelli che da posizioni più radicali o da posizioni di socialismo riformista più conseguente e coerente, a quella grande tradizione fanno riferimento ma si pensa nel futuro e non in funzione di ciò che sono stati nel passato.

In quel nuovo partito io penso che i socialisti liberali, potranno trovare il modo di realizzare una convergenza del loro impegno nella costruzione di una maggioranza ampiamente compatibile con la presenza delle posizioni più radicali, ma capace di dare a quel partito stesso, una direzione politica univoca e coerente con quella che è attualmente in corso nei grandi partiti del socialismo democratico europeo.

Ebbene è un processo costituente quello a cui noi vogliamo lavorare e che deve fare i conti anche con il fallimento della Cosa 2 di Firenze. Un fallimento determinato da due errori fondamentali: a Firenze non c’era l’Ulivo. Abbiamo pensato di costruire un partito unitario del riformismo socialista a prescindere dall’Ulivo. Il riformismo socialista non ha funzione di governo, non è socialismo europeo.

In secondo luogo noi del Pds, noi che avevamo e abbiamo alle nostre radici come Pds, il partito comunista italiano, abbiamo preteso di procedere per cooptazione verticistica dall’alto di quelli che del Pds non facevano parte. Questo non era un nuovo partito, era il partito vecchio che pensava di allargarsi. Non era una nuova casa, era una casa che c’era già e di cui alcuni di noi ne tenevano le chiavi.

Così non nasce nessun nuovo partito del riformismo socialista in Italia, perché nasce soltanto attraverso un processo costituente che è chiaro nel progetto finale, quindi è dall’alto ma è capace di realizzare la costituente dal basso attraverso un rapporto di pari presenza diciamo dentro il processo costituente di tutti quelli che condividono il nostro obiettivo.

Noi al congresso dei Ds della prossima settimana, chiederemo che ci si impegni con un voto a partecipare senza pretese egemoniche alla costituente di questo nuovo partito e non ci accontenteremo di niente di meno di una decisione sulla costituente del tipo di quella che io ho qui descritto. Spero care compagne e cari compagni, che a voi stessi e a noi tutti non chiederete niente di meno.

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Gianfranco Schietroma

Credo sia interessante sviluppare la discussione anche con qualche riferimento di carattere storico, ricordando cioè, sia pure brevemente, la politica estera di un grande maestro del socialismo democratico, Giuseppe Saragat. In un passo tratto da un discorso di 50 anni fa, pronunciato cioè il 9 ottobre 1951 alla Camera dei Deputati sul tema "Il Patto Atlantico per una politica di pace" Saragat si chiede: "Qual è la politica estera che dobbiamo seguire? I criteri che noi pensiamo debbano presiedere al giudizio sulla situazione internazionale per la scelta della strada che dovrà seguire il nostro Paese sono, a mio avviso, sostanzialmente tre: il primo è una fede profonda, profondissima nella libertà politica, nella democrazia politica; il secondo è l'amore per l'indipendenza del nostro Paese; il terzo è il desiderio profondo, sincero, schietto di mantenere la pace. Tutto questo va bene - si dice - ma perché l'Italia deve mettere il naso in faccende che non la riguardano? Perché non si accetta la tesi della neutralità? La tesi sarebbe: "avvenga quello che può nel mondo e l'Italia rimanga fuori".
Questa tesi neanche al giorno d'oggi è stata definitivamente accantonata, e mantiene sempre autorevoli sostenitori.
Al riguardo, però, già nel 1951 Saragat osserva giustamente che questa tesi è estremamente ingenua. "Se un conflitto dovesse scoppiare" - spiega Saragat- "purtroppo l'Italia, sia essa neutrale o non neutrale, sarebbe fatalmente travolta".
Come è ben noto, queste affermazioni di Saragat sono diventate storia perché le barriere tra l'Occidente e l'Est europeo sono cadute.
E veramente significativo è anche il discorso pronunciato al Senato dal Presidente Saragat il 16 marzo 1978 in occasione del dibattito parlamentare sulla fiducia al Governo che si svolse sotto il peso della grande emozione arrecata dalla drammatica notizia del rapimento di Aldo Moro. Quella di oggi è una situazione molto più delicata e complessa, anche se taluni pensano, sbagliando, che il terrorismo odierno sia più lontano dall'Italia rispetto a quello di trent'anni fa.
Il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha risposto alla nuova minaccia del terrorismo predicando la superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica.
Noi Socialisti democratici riteniamo, invece, essenziale la solidarietà e la fratellanza del mondo occidentale con quello islamico nonché il comune impegno dell'Islam e dell'Occidente contro i terroristi da qualunque parte essi provengano. Non stiamo dicendo cose nuove perché si tratta di punti fondamentali della politica estera attuata in Italia proprio dai tanto vituperati governi di centro-sinistra del passato.
Tutto ciò significa innanzitutto colpire con durezza i terroristi, ma nel contempo perseguire fortemente la pace coltivando ogni prospettiva di collaborazione con gli arabi moderati.
In questa guerra il ruolo dell'Italia potrebbe essere fondamentale, ovviamente non dal punto di vista bellico, ma sotto il profilo diplomatico per la credibilità acquisita in anni di dialogo e di cooperazione con l'islamismo moderato. Una credibilità che, purtroppo, è stata gravemente compromessa dalle avventate dichiarazioni dell'attuale Presidente del Consiglio.
È importante che l'Italia ritorni ad essere protagonista in politica estera; ancor più importante è il ruolo dell'Europa. Molto opportunamente il Presidente dell'Unione Europea, Romano Prodi ha rilanciato il dialogo dell'Europa con i paesi arabi. Occorre isolare politicamente i fondamentalisti islamici per sconfiggere il terrorismo e raggiungere l'obiettivo della pace.
Un altro aspetto da perseguire è quello di governare bene la globalizzazione che, del resto, non può essere fermata proprio perché non si può bloccare il progresso; d'altra parte, l'alternativa alla globalizzazione è l'isolamento. Bisogna, dunque, battersi affinché la globalizzazione proceda di pari passo con la giustizia sociale, evitando che essa porti benefici ed opportunità soltanto a pochi.
Ma il discorso sulla globalizzazione è un discorso strettamente collegato al tema della giustizia e della libertà. Giustizia non significa solo punire i colpevoli. Giustizia significa anche portare i valori di democrazia e di libertà a tutti i popoli del mondo, a tutti gli uomini e a tutte le donne, comprese quelle dell'Afghanistan. Libertà, ovviamente, nel senso più ampio di libertà personale, economica e sociale. Oggi, nella misura in cui non ci dimenticheremo dei milioni di affamati e disperati nel mondo, creeremo non solo le basi per la prosperità di tutti, ma soprattutto eviteremo all'umanità di autodistruggersi.

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Roberto Villetti

La nostra Conferenza vuole esprimere, innanzi tutto, la consapevolezza che noi socialisti abbiamo dei cambiamenti che si sono determinati dopo l'11 settembre, con l'attacco terroristico alle Twin Towers e al Pentagono. Di fronte ad un terrorismo, che usa armi estreme, dagli aerei di linea come bombe esplosive al bioterrorismo, nessuno può rimanere inerte, dagli Stati Uniti all'Europa. La decisione, che il Parlamento ha assunto, di far intervenire le forze armate nel contrastare il terrorismo è stata inevitabile. Nell'entrare nel teatro di guerra non manca, certo, la preoccupazione per i rischi cui vanno incontro i nostri soldati. Né entusiasmo né retorica accompagnano una scelta che è e resta drammatica. Dovremo convivere - e non sappiamo per quanto tempo - con la guerra al terrorismo. Il confronto con il terrorismo non deve prendere le vesti di una "guerra tra civiltà", di uno scontro tra religioni, di un conflitto tra ricchi e poveri: se ciò avvenisse, l'esito sarebbe catastrofico. L'Italia già risente negativamente della tensione internazionale nelle sue possibilità di sviluppo. La previsione di una crescita attorno al 2% del PIL, prospettata dal Governo nella nota di aggiornamento del Dpef, è già considerata ottimistica dai principali istituti di ricerca. Il Governo Berlusconi non sembra aver tenuto sufficientemente in conto la necessità di mettere in opera al più presto politiche espansive. La finanziaria, che sta percorrendo il suo iter parlamentare, appare mediocre, insufficiente ed inadeguata. Il governo, dopo aver rinviato le promesse di sgravi fiscali, sembra essere rimasto senza bussola. Aver svalorizzato la concertazione sindacale è stato un grave errore che apparirà ancora più grave se la nostra economia batterà colpi e si avvierà in una fase recessiva.
Le difficoltà non esimono il centro sinistra a comportarsi da forza di governo, anzi richiedono ancor più l'indicazione di soluzioni concrete per risolvere i gravi problemi aperti, sia in Parlamento sia nel Paese.Tutto deve essere fatto per contrastare le spinte recessive, mantenendo in equilibrio i conti pubblici. Ciò comporta scelte che il Governo non sembra in grado di fare. Il centro sinistra deve incalzare il governo con politiche di sviluppo realistiche ed adeguate.
La situazione internazionale comporta chiarezza sia in politica estera sia in politica interna. Ciò vale anche per gli orientamenti strategici che vogliamo portare avanti. Serve al nostro paese la creazione di un grande partito socialdemocratico di tipo europeo. Ciò è possibile se si farà a sinistra un'operazione simile a quella che è avvenuta nella Margherita: su un corpo postdemocristiano si è innestata una leadership, come quella di Rutelli, che non è riconducibile alla storia della DC. Analogamente a sinistra su un corpo postcomunista deve essere innestata una leadership che non sia rapportabile alla storia del Pci, com'è quella di Amato. Contemporaneamente va rafforzato il nucleo omogeneo dell'Ulivo, che - come si è visto nelle scelte di politica estera - esiste tra Ds, Sdi e Margherita, in modo tale da far crescere sempre più un nuovo soggetto politico.
Ho l'impressione che l'acuirsi della tensione internazionale comporterà un'accelerazione del chiarimento che si è avviato. L'Ulivo si svilupperà - come ha detto Enrico Boselli prendendo una metafora dall'Europa - a due velocità. Non so, invece, prevedere quale sarà la disponibilità dei Ds a portare avanti un'operazione simile a quella della Margherita. Aspettiamo con interesse le conclusioni del Congresso di Pesaro.

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Ottaviano Del Turco

Oggi siamo a Napoli. Molti di voi ricordano quel film meraviglioso di Nanni Loi, "Le quattro giornate di Napoli", e la scena di quel bambino che affronta un carro armato tedesco con una bottiglia molotov. Provate a immaginare un'immagine di quella forza riproposta ogni giorno e rapportata a centinaia di bambini che scagliano sassi contro i carri armati israeliani. Anche così si è costruito nei Paesi arabi un sentimento drammatico. Paesi moderati, soprattutto penso all'Egitto, non sono in grado di andare oltre la generica comprensione delle ragioni degli Stati Uniti, perché è forte in quei Paesi un sentimento di solidarietà con i ragazzi di Gaza, di Ramallah, di Betlemme.
La guerra non finirà con la conquista di Kabul ma con la fine dell'Intifada. Quel giorno finirà un focolaio di infezione in Medioriente e nel mondo. Questo è il problema che gli Stati Uniti d'Europa devono porre con forza agli alleati americani.
Ho trovato straordinario il passo avanti fatto da Berlusconi in Parlamento, quando ha parlato della necessità di un piano Marshall per i territori arabi sotto il protettorato delle autorità palestinesi. Trovo singolare che usi, come fa nella sua azienda, l'idea della costruzione dello "Stato chiavi in mano", ma l'idea politica è importante.
Oggi avete le notizie dai giornali del sequestro di un po' di conti bancari legati al terrorismo. Se posso esprimermi con una frase non proprio istituzionale, direi che è "robetta". In tutti i pacchetti di sigarette che vengono venduti nei vicoli di Napoli, che vengono portati qui dal Montenegro, che passano qualche volta per Cipro, c'è una tassa che non si paga solo alla criminalità organizzata. C'è una tassa che si paga anche a coloro che usano i territori di passaggio e concedono il passaggio di sigarette, armi, droga, alla condizione che si dia un obolo per la lotta contro il nemico, contro gli Stati Uniti. Si usano, le sigarette della Philip Morris per organizzare gli attentati. E questo avviene in Europa non nella Svizzera, che fra cinquant'anni si pentirà per la copertura che ha dato a troppi conti che riguardano questo infame commercio. Questo avviene in Paesi che fanno parte della comunità europea come l'Austria. Con otto milioni di abitanti le banche austriache hanno 28 milioni di correntisti; per ogni cittadino austriaco ci sono più di tre conti in banca, un po' troppi. In molti paesi europei, in alcune piazze finanziarie in particolare a Londra e a Francoforte, circolano conti che appartengono a quel filone che alimenta il terrorismo. Di questo l'Europa si deve occupare. Per questo il coraggio dei riformisti è anche il coraggio di saper parlare questo linguaggio. La nostra differenza, non nasce dal fatto che abbiamo opinioni diverse sulla guerra. Io rispetto moltissimo coloro che dicono, "né un soldo né un uomo per la guerra"; io questo slogan lo conosco perché appartiene al mio dna, appartiene alla mia storia politica personale. La differenza è un'altra. La differenza è che nel nostro Paese si è divisi non da un'idea forte di questo tipo ma da una generica contraddizione, da un "mal di pancia". A me è già capitato una volta di vedere la politica morire per atteggiamenti arroganti di una parte della sinistra; ma morire per dei mal di pancia, mi sembra francamente un'esagerazione. Questa volta quest'errore non dobbiamo farlo.

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Enrique Baron Crespo

Innanzitutto voglio rivolgervi il saluto non soltanto del gruppo del partito socialista europeo nel Parlamento europeo, ma anche il saluto del presidente del Pse, il compagno Robin Cook. E sulle vostre vicende italiane io ho un messaggio molto breve e preciso: in Europa stiamo costruendo il partito socialista europeo come una forza, la forza decisiva della sinistra democratica, e per noi è molto importante avere in Italia una sinistra che sia una forza socialdemocratica unita.
Qual è l'impegno dei socialisti europei? Il nostro impegno è di costruire una unione europea che sia forte, che sia unita e democratica e in questo momento abbiamo due processi importantissimi, uno l'allargamento, l'altro il dibattito sul futuro dell'Europa nel 2004, e allo stesso tempo dobbiamo occuparci di rendere più forte la nostra casa, e uno dei primi punti sarà l'introduzione dell'euro.
Dunque questo è un passo avanti, ma la domanda che si pone in questo momento è una domanda angosciosa per quello che è accaduto l'11 settembre. Io direi che prima bisogna ricordare che abbiamo fatto un'unione europea tra nemici da secoli, per avere la pace e in questo momento abbiamo la pace. Abbiamo avuto una prosperità senza precedenti e abbiamo anche fatto la prima esperienza regionale di un modello in cui la globalizzazione è una globalizzazione civilizzata. Questo è molto importante.
L'11 settembre è il passo anche verso il terrorismo globalizzato, tutto si globalizza e anche il terrorismo. Quel fanatismo unito all'utilizzazione di tecnologia avanzata, ha prodotto l'11 settembre e io credo che bisogna incominciare ricordando che la sfida di quel terrorismo in questo momento è una sfida che attende una risposta a partire dall'Onu. E non è un caso che l'ultimo messaggio di bin Laden su Al Jazira sia stato un attacco all'Onu, perché è la base della grande coalizione che abbiamo fatto e che non è una coalizione per far la guerra all'Afghanistan ma per lottare contro il terrorismo. Voglio ricordare che una settimana prima dell'11 settembre, al parlamento europeo, abbiamo approvato un rapporto, il rapporto Watson sul terrorismo. A quel momento il terrorismo era un problema solo nel Regno Unito, nell'Irlanda del Nord e bisogna dire che nell'Irlanda del Nord non sono i musulmani che attaccano le bambine che vanno a scuola, sono i cristiani. Questo vuol dire che il fanatismo non è monopolio di nessuna religione. Anche nel mio Paese, proprio questa settimana, soffriamo ancora la maledizione del terrorismo, una maledizione che ha accompagnato grande parte della mia vita politica. Anche in questo caso non sono musulmani che fanno i terroristi. E anche voi che avete vissuto gli anni di piombo sapete questo.
Ci sono anche altri terroristi in Europa ma il salto che si è prodotto l'11 settembre è una sfida a tutto un sistema di valori, non al valore di una religione o di un'altra. È il fatto di considerare che attraverso il ricatto e attraverso l'utilizzazione di mezzi tecnologici avanzati, si può imporre la volontà di qualche fanatico. Questo è il fatto decisivo. È per ciò che bisogna dire che non siamo in guerra contro un Paese: noi siamo in lotta contro il terrorismo, perché è una minaccia per il nostro sistema di valori e per tutta l'umanità. E questo è il primo punto da ricordare quando si dice che bisogna fermare i bombardamenti.
Una riflessione su una questione molto molto bruciante: il nostro ruolo internazionale come europei nella crisi del Medioriente, cioè nel processo, spero di pace, arabo-israeliano. Io direi anzitutto che per la prima volta, e questo si è visto a Sharm el Sheik e a Taiwan, l'Unione europea come tale, è presente in questo processo politico.
Cosa bisogna dire? Bisogna dire che non c'è un'altra soluzione e che il riconoscimento del diritto a esistere dello stato di Israele, dentro frontiere sicure; ma allo stesso tempo anche che ci deve essere uno Stato palestinese accanto allo Stato di Israele.
Concluderei dicendovi di andare andate avanti sul processo di unità che sarà molto duro e che sarà molto travagliato, ma io credo che si può ricordare un principio elementare: l'unità fa la forza; noi aspettiamo e come socialisti europei siamo desiderosi di avere un partner, in Italia, che sia capace di portare avanti con noi, con forza e con coraggio, questa lotta per un'Europa unita, un'Europa più solidale, più giusta e anche un mondo più libero.

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Giuliano Amato

È stato giusto rivedere il filmato della tragedia dell'11 settembre. È stato un evento assolutamente al di là di ogni immaginazione e tuttavia è accaduto. A rifletterci sopra si deve constatare che si è trattato ahimè di una tragica conferma di una cosa che molti di noi per la verità avevano già detto e pensato, e cioè che la fine del ventesimo secolo e la fine del comunismo, non rappresentavano la fine della storia e non rappresentavano l'inizio di un nuovo ordine mondiale che si sarebbe naturalmente instaurato da solo, grazie alla contemporanea diffusione della democrazia e della globalizzazione. Questa fu un'illusione che prese corpo all'inizio degli anni novanta, e che non permise di valutare correttamente cosa significava il mondo globalizzato e quanto lavoro politico fosse necessario perché si instaurasse un nuovo ordine mondiale anche all'interno delle nostre società.
C'è un grande bisogno di riformismo e quindi un grande bisogno di noi perché questo nuovo ordine possa realizzarsi. Il mondo, le nostre società lasciate a se stesse, tendono in realtà al disordine, al conflitto, a far riemergere gli squilibri che decenni di impegno riformista erano riusciti in qualce modo a bilanciare almeno all'interno delle società più sviluppate. Non c'è un pensiero unico che si affermi nel mondo. Non c'è un McDonald's che da solo riesca a far pensare tutti allo stesso modo, anche se tutti mangiano lo stesso hamburger. È una stupidaggine ideologica di proporzioni colossali quella che vede un'uniformità di pensiero in ragione della globalizzazione. In questo mondo invece, l'una accanto all'altra, contestualizzate come mai erano state nella storia precedente, ci sono diversità che non hanno ancora trovato il modo di comporsi, di intendersi, di avere una comune piattaforma di valori. È questo il cuore del problema che il mondo ha davanti, questa enorme diversità che non sono solo quelle tremende tra ricchi e poveri, perché continuano ad esserci troppo troppo ricchi, e troppi quelli che muoiono perché addirittura non hanno il cibo.
Oggi siamo circa 6 miliardi, e siamo un miliardo, più o meno, quelli che mangiamo tutti i giorni, contro cinque miliardi che sono a livelli di assoluta povertà. Ebbene tra alcuni anni saremo 9 miliardi e i ricchi continueranno ad essere un miliardo. E i poveri saranno diventati 8. Ma, attenzione, non c'è solo questo. Ci sono differenze profonde, di culture, di accettazione dei valori di convivenza e di tolleranza che sono essenziali.
Come si fa a vivere in un mondo ormai così aperto se non si è disposti a trovare forme di reciproca tolleranza che ci permettano di convivere e di cooperare? Questo è il mondo che molti cercano.
Noi abbiamo una raggiunto un equilibrio nei principi di libertà e nei diritti di tutti. Ma questo cammino, in altre parti del mondo, è un cammino contestato, è un cammino difficile, che porta allo scontro tra fondamentalisti ed riformatori. È uno scontro che abbiamo avuto anche noi, e non è detto che non lo riavremo anche nel futuro. Noi non siamo figli di una civiltà che è stata per definizione tollerante. La nostra civiltà ha imparato a diventarlo convivendo con altri e apprendendo la ricchezza che ci poteva venire dallo stare con altri, e dallo starci pacificamente. Ma se noi stessi fossimo rimasti quello che inizialmente eravamo, forse avremmo ancora i roghi dove si bruciavano i libri, e anche le persone. Non possiamo dimenticare questo quando affermiamo principi che sono stati per noi una conquista e non un dono acquisito alla nascita, mentre in altre parti del mondo questa lotta è tuttora in corso, e occorre che vi sia una piattaforma comune tra coloro che credono nella libertà, nella tolleranza e nella convivenza. Occorre fermare chi nel mondo vuole affermare principi opposti. In un bell'articolo Jean Daniel, su Repubblica, osservava giustamente che la questione non è quella della povertà; la povertà non è la ragione dell'intolleranza, è l'alibi dell'intolleranza. È l'alibi che viene usato da un mondo chiuso e conservatore che vuole imporre intolleranza, dispotismo, negazione dei diritti.
La ragione è un'altra e la conosciamo perché fa parte della nostra stessa storia. È nel totalitarismo culturale, nell'avere delle verità che non possono essere contraddette, in un'interpretazione del Corano che è attribuisce ad alcuni il diritto di stabilire chi ha la verità in mano.
Provate a pensare: addestrare dei giovani ad accettare di morire per portare la morte ad altri. Pensate quale negazione c'è in questo proprio del profondo dell'animo umano; noi esistiamo per vivere, non per morire. Nessuna divinità è mai stata ragionevolmente pensata come fonte di morte. Questo è esattamente ciò che si pensa anche nei Paesi del Corano.
Oggi vediamo armi e bombe in campo e non vorremmo vederle. Ma cari compagni, abbiamo vissuto nella nostra storia guerre di liberazione e se non si ha il coraggio di affrontare le dure necessità della liberazione, questa non avviene e invece accade piuttosto il contrario. Il terrorismo vi può sembrare un fatto lontano, ma le sue conseguenze si sono avute in un Paese vicino, negli Stati Uniti di America, che è una nostra creatura, una creatura dell'Europa. Negli Stati Uniti d'America ci siamo noi, gli italiani, e anche gli irlandesi, gli scozzesi, i portoricani, i messicani che sono andati a cercare una vita migliore in un Paese diverso. Molti hanno portato con sé i principi che avevano acquisito in Europa, hanno trasferito là quei principi di libertà e di convivenza reciproca che avevano appreso di qua, da questa parte dell'Oceano. Piuttosto ci dovremmo domandare: che cosa avremmo fatto se fosse accaduto qua, avremmo gli stessi dubbi? Le stesse perplessità?
Io direi di sì, ma nel senso che per tutti noi non è una decisione gioiosa quella di andare a combattere, di usare strumenti di distruzione come sono gli strumenti della guerra nei confronti di chiunque; ma è stato fatto.
È stato fatto nella seconda guerra mondiale, nella guerra di Spagna e anche prima. Dobbiamo saper distinguere. Io non accetto lezioni di pacifismo da chi è o si professa comunista, perché se questo fosse vero, allora il comunismo non avrebbe mai potuto esistere.
Capisco i sentimenti per esempio dei Verdi, perché in quei sentimenti che sono autenticamente pacifici io ritrovo le ragioni di un dubbio, di una divisione che appartiene storicamente anche al mio partito, che si divise già nel 1915, perché tutti vorremmo la pace. Eppure quando è necessario per difendere la libertà, è bene che le operazioni militari le faccia chi vuole la pace non chi vuole la guerra, perché solo così ci sarà la garanzia che c'è un senso del limite, che si fa ciò che è assolutamente necessario, che si fa quanto è possibile per risparmiare vittime civili.
Trovo che sia terrificante che vengano dimenticate le 4-5000 persone innocenti uccise deliberatamente nelle Twin Towers quando per errore, perché di errore si tratta, una bomba degli Stati Uniti uccide qualche civile. Quello di bin Laden e dei suoi amici non fu un errore, fu una scelta criminale. E allora può capitare che nella reazione contro scelte criminali si facciano errori, ma dobbiamo mantenere questa capacità di distinguere. Se non lo facciamo e se non sappiamo avere la responsabilità della giustizia, allora domani un altro nazismo può impadronirsi del mondo. E noi inermi lasceremmo che il mondo cadesse sotto un nuovo nazismo? Che cosa ci direbbero i nostri figli e i nostri nipoti?
Ci direbbero quello che noi diciamo e cioè che ci furono dei vili nei confronti del nazismo. E questo non deve accadere.
Io so che si vorrebbe essere soltanto buoni, e sono critico contro chi critica il buonismo e penso che sia importante che vi siano sentimenti altruisti in un mondo che corre verso un terrificante egoismo. Non approfittiamo dunque di una situazione disgraziata per fare del sarcasmo su chi pensa in primo luogo che sia necessario mantenere vivi i sentimenti di solidarietà verso gli altri ma in determinate circostanze bisogna sapere essere anche giusti. Vi ricordate ce lo hanno insegnato al liceo: "Umano sei, non giusto". Questo è drammatico, a volte dover essere anche giusti ma la giustizia è necessaria perché una società funzioni, perché sopravviva. E l'intervento militare in Afghanistan è un'operazione di giustizia resa necessaria da un atto di somma ingiustizia che testimonia un fenomeno che sta crescendo e che deve essere fermato, affermando contemporaneamente le ragioni che questa ingiustizia nega: le ragioni della tolleranza, della convivenza, dell'essere diversi e sapere stare insieme tra diversi.
E a proposito di tolleranza, se avessi un Dio al quale rivolgermi vorrei pregare perché al più presto possibile palestinesi ed israeliani sapessero dimostrare che si può convivere in quel fazzoletto di terra in cui abitano. Ma pensate che assurdità; si conoscono tutti, famiglia per famiglia. Quando Peres ed Arafat s'incontrano, si chiedono reciprocamente notizie dei loro familiari, perché vivono in un fazzoletto di terra.
Questa può essere la prova del cambiamento del mondo, se in quel fazzoletto di terra si riesce a dimostrare che uomini e donne di religioni, etnie diverse, riescono a trovare un approdo di pace, di convivenza perché la nostra sfida è questa, è fermare il terrorismo, ma anche dimostrare contemporaneamente che ha un senso il mondo nel quale noi crediamo, un mondo nel quale si può essere diversi ma si può vivere insieme.
L'Europa è stata grande nella storia fino ad ora perché è stata il punto di incontro delle civiltà del mondo, via via che queste si sviluppavano da un secolo all'altro, e messe insieme queste civiltà in Europa partorivano nuove unità spirituali. Io sono personalmente l'espressione di questa vicenda della storia d'Europa; avevo uno zio che, come capita a volte nelle culture meridionali, - la mia è una famiglia siciliana - voleva sapere le origini della sua famiglia e fece una ricerca dalla quale riuscì ad risalire ad un punto ma senza superarlo, e cioè che la nostra famiglia era venuta dalla Spagna alla fine del XV secolo. Perciò non abbiamo mai saputo se la nostra famiglia fosse di origine araba o ebrea, ed io sono felice di non sapere se nelle mie vene scorre sangue arabo o ebreo; c'è sangue siciliano e io mi sento un perfetto europeo.
Questo è l'impegno al quale ci dobbiamo dedicare in un mondo che deve fare molto per rendere la convivenza possibile, perché se la povertà non è la ragione del terrorismo è tuttavia la ragione di profonde divisioni che sono di per sé intollerabili ed è nostra primaria responsabilità, attenuarle, ridurle, cambiarle. In una parola fare in modo che i nostri diritti di cittadinanza diventino i diritti di cittadinanza di chiunque a cui capiti di nascere in qualche parte di questo mondo e non soltanto perché lo assistiamo ogni tanto, ma perché contribuiamo a far sì che in ogni parte del mondo sia possibile crescere senza essere esclusi per il solo fatto che ci si è nati. Questa fu la missione alla quale il socialismo corrispose alla fine del secolo diciannovesimo. Anche allora è capitato a molti bambini che sono stati i nostri bisnonni di nascere in luoghi dove per il sol fatto di esserci nati, si era già potenzialmente degli esclusi. Ebbene l'orgoglio dei socialisti è di averli resi cittadini, di aver dato dei diritti a chi non li aveva.
Ora dobbiamo trasferire questa missione su scala mondiale perché è questa la domanda che viene dal mondo, alla quale possiamo rispondere se siamo un grande e forte movimento.
E per questo vorrei che fossimo attenti davanti alle divisioni in relazione alla guerra, ricordando che le abbiamo già vissute e che dobbiamo smascherare quelle che non sono autentiche, ma dobbiamo invece considerare come parte di noi quelle autentiche. In fondo ogni giorno in Afghanistan è una parte di noi che viene messa in gioco, dobbiamo esserne consapevoli. Si deve essere giusti non guerrafondai; queste sono due cose profondamente diverse.
I grandi cambiamenti oltre che nel mondo sono avvenuti anche all'interno delle nostre società. Anche qui come nel mondo, non è un nuovo ordine quello che si è venuto affermando, ma è un potenziale disordine che ha bisogno di un'azione riformista per trasformarsi in ordine.
Quando dico queste cose le dico consapevole del fatto che non è mai accaduto nella storia che senza che uomini e donne di buona volontà accadesse qualcosa di buono. La manna dal cielo forse è caduta una volta sola, ma il resto è stato guadagnato dal cervello, dalle braccia, dalla fatica, dalle lotte di uomini e donne per un mondo migliore. Quando dico questo, e parlo del disordine internazionale, lo dico perché penso che un nuovo ordine è possibile, perché le risorse le abbiamo per fare in modo che nessun bambino muoia di fame, per evitare che l'Aids si trascini via intere popolazioni. Abbiamo le risorse perché i ragazzi e le ragazze egiziani e algerini che non riescono ad andare a scuola, abbiano una scuola nella quale studiare. È possibile questo, naturalmente deve essere realizzato ma in questo mondo senza confini è meravigliosa la prospettiva di una convivenza tra diversi, contestualizzata senza confini e senza intolleranze. È molto più bella di quanto non fosse la storia di un mondo in cui ciascuno viveva il suo capitolo di storia ignorando quello che accadeva fuori dalle mura domestiche.
Anche qui oggi vediamo i segni del disordine. Vediamo una società nella quale è finito il riformismo e nella quale non c'è il posto di lavoro fisso; una società che presenta delle cause di infelicità e di ansietà molto superiori a quelle di prima. E' una società in cui ai giovani viene riservato un lavoro sempre mobile, sempre a tempo definito, sempre a tempo parziale. Hanno ragione; sono infelicità che noi non avevamo, e questo può portare al disordine le nostre società. E ricordate, non è che perché siccome noi dobbiamo essere innovatori, perché i riformisti sono innovatori allora noi stiamo con D'Amato. E no, voi siete socialisti, dovete tener conto delle ragioni di D'Amato, perché i socialisti hanno sempre saputo interpretare un interesse generale, ma tutto questo calore per licenziare il prossimo, da parte vostra non me lo aspetterei, ed è importante che non me lo aspetti.
Ricostruire un ordine possibile in una situazione nuova, significa prendere atto che se noi vogliamo rappresentare in primo luogo il mondo del lavoro, ed io voglio farlo perché il mio partito è sempre stato con il mondo del lavoro e in quello si è riconosciuto. Ma devo sapere anche che il mondo del lavoro è cambiato molto, che i modi tradizionali di rappresentare il lavoro impediscono oggi di farlo adeguatamente. Se io oggi vedo un lavoratore dipendente licenziato, messo a lavorare in sub fornitura per l'impresa di cui prima era dipendente e che poi poco alla volta diventa egli stesso un piccolo imprenditore autonomo, questi non è diventato un mio nemico, ma è uno di quelli che io devo saper continuare a rappresentare: Insomma continua ad essere "uno dei miei" e in effetti ha soltanto cambiato il modo di lavorare.
Devo sapere rappresentare i lavoratori i quali mi chiedono la flessibilità sul lavoro, perché hanno una professionalità che si esprime e può essere gratificata e fatta valere soltanto attraverso forme di lavoro flessibile nel lavoro, altrimenti si sentono assoggettati ad una sorta di autoritarismo padronale perché oggi ci sono nuove professionalità. Ma detto questo devo saper rappresentare anche qui i falsi co. co. co. - i lavoratori delle collaborazioni coordinate e continuative - che sono dei lavoratori che dovrebbero essere dipendenti ma non lo sono più e a cui si dà invece un lavoro precario al solo scopo di pagarli di meno. E questo non va bene. Questa non è la mia flessibilità.
Ve lo dico perché a volte uno pensa che per essere riformista, deve essere innovatore, andateci piano perché il più grande innovatore negli ultimi anni è stata una signora che si chiamava Margaret, il premier britannico conservatore Margaret Thatcher, a cui nessuno può negare di essere stata una grande innovatrice. Ma questo lo dico non per conservare l'esistente, ma per conservare le mie radici, la mia missione. Mi devo preoccupare di far crescere il lavoratore che è in condizioni di crescere, devo fare in modo che cresca il lavoratore che è in condizioni di precarietà indifesa, devo parlare a tutti, agli inclusi e agli esclusi del mondo del lavoro.
È per questo che devo cambiare il mio sistema di tutela, non per ridurre le protezioni, ma per spostarle dove sono più necessarie. Così un sistema pensionistico esiste per assicurare trattamenti dignitosi di vecchiaia ai pensionati e da questo non possiamo derogare.
Oggi, uno dei maggiori problemi per il futuro è quello di "liberare" le donne dal lavoro. Troppe donne giovani oggi si trovano di fronte a questo drammatico conflitto: fare figli oppure andare a lavorare. Questo è un conflitto che non dovrebbe esistere e il nostro è un Paese che insieme alla Spagna ha il più basso tasso di natalità e il più basso tasso di occupazione femminile.
I Paesi nordici che sono a più alta occupazione femminile hanno anche il più alto tasso di natalità. Perché accade questo? Perché noi non abbiamo servizi che permettono alla donna di lavorare e fare figli, perché continuiamo a pagare la donna che lavora la metà quando dovrebbe essere pagata il doppio, perché a parità di condizioni è la segretaria che viene presa col contratto co. co. co., mentre il maschio viene assunto. E lei, la donna, è doppiamente precarizzata e questo condanna il Paese, ad un circolo vizioso: meno donne che lavorano, meno figli che si fanno, meno pensioni che saranno pagabili alle future generazioni.
Occorre spostare risorse verso servizi alla famiglia e alla persona, quello che abbiamo cominciato a fare nella scorsa legislatura, ma avevamo appena cominciato, e ora il lavoro si sta interrompendo. Avevamo approvato una legge quadro sull'assistenza e già prima avevamo cominciato a fare interventi per i servizi domiciliari, che sono uno strumento fondamentale.
Il tasso di occupazione italiano è più basso di altri Paesi. Questo è dovuto in parte al perdurare di difficoltà occupazionali, ma in parte anche al problema donna, per il livello più basso dell'occupazione femminile.
Il welfare deve assumere anche questo obiettivo. Questo è un cambiamento per un partito che vuole essere socialista; questo è un cambiamento riformista, non il solo naturalmente.
Dai dati di una ricerca Spi-Cgil-Cer, sulla redistribuzione della ricchezza in Italia, operata dal Welfare, si può ricavare un dato importante. In Italia, nel '96, le persone che stavano sotto il 60% del reddito medio pro capite - bisogna assumere questo come un metro di relativa povertà - erano il 21% del totale della popolazione, mentre la media europea era il 26%. Il che significa che l'Italia stava meglio perché aveva sotto il 60% del reddito medio meno gente della media europea. Questo però al netto dei trasferimenti operati dalle politiche e dagli strumenti assistenziali pubblici. Inserendo l'effetto di questi ultimi invece, accade che il 21% italiano diventava il 19% - provocando quindi un'ulteriore redistribuzione del reddito a favore dei più deboli di due punti - , mentre il 26% della media europea diventava il 17% e quindi la redistribuzione era di ben 9 punti percentuali. Insomma mentre ignorando le politiche di welfare l'Italia era più egualitaria degli altri Paesi, innestando gli effetti delle politiche redistributive pubbliche, la media europea diventava migliore dell'Italia.
Ecco, questo è un "mio" problema; utilizzare diversamente le politiche dell'intervento pubblico per fare in modo che chi ha più bisogno sia messo in condizioni di avere qualcosa. Noi abbiamo oggi un welfare laburistico, non universalistico. Se tu hai avuto un lavoro avrai una cassa integrazione, se non lo hai mai avuto sei trattato peggio. Questo è un dato di fatto. Allora è di un'innovazione di cui ho bisogno. Non devo abbattere il welfare ma renderlo universalistico, che è quello che avevamo cominciato a fare con quel reddito di inserimento che purtroppo abbiamo sperimentato solo in una quota di Comuni che, se non sbaglio, la Finanziaria 2002 ha totalmente cancellato.
Io non vedo questi interventi come una questione di profili assistenziali, li vedo come strumentali a rendere possibile a ciascuno di farsi valere meglio, di non essere escluso, emarginato, schiacciato. Questo è ciò a cui dobbiamo aspirare. Perché qual è il punto del nuovo disordine che va sostituito con il nuovo ordine? Il vecchio ordine era rappresentato da economie che bene o male stavano dentro i confini nazionali mentre oggi sono esplose al di là dei confini nazionali. Il vecchio ordine era rappresentato da un fordismo che in fondo il lavoro nella fabbrica lo trovava a quasi tutti e quindi si trattava di farci entrare il numero più ampio di persone possibili. Nella situazione di disordine nella quale versa oggi il mondo e le nostre società, si può ricostruire lo stesso fenomeno, con gli effetti unilaterali, squilibranti e devastanti del potere economico, nei confronti del quale operò il riformismo del ventesimo secolo. Non avete bisogno di essere marxisti per capire che se viene lasciato a se stesso il meccanismo economico capitalista è un meccanismo che tende ad essere devastante e che ha bisogno di essere riequilibrato.
Il riequilibrio del potere economico è stato possibile grazie al lavoro che ha fatto crescere il sindacato, che ha fatto crescere la legislazione sociale. Nella situazione attuale di disordine, l'unilateralità può riemergere senza bilanciamenti e tende a riemergere. Perché ha avuto successo il co. co. co.? Perché era un modo di pagare meno e in modo più precario una buona parte di lavoratori che prima erano a tempo indeterminato con un rapporto di lavoro dipendente.
Ma allora che cosa dobbiamo fare? È un problema nuovo che ci deve probabilmente far modificare alcune caratteristiche del rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato per evitare che ci sia una rincorsa all'arbitrio. Questa è la missione. Quello che deve essere chiaro è che noi abbiamo avuto un ruolo storico e che questo è di nuovo necessario in condizioni diverse. È necessario in sede di global governance, è necessario all'interno delle nostre società perché nessuna società riesce ad essere democratica se non c'è equilibrio tra le parti sociali.
Certo dobbiamo saper adattare al ventunesimo secolo la qualità di un equilibrio che partendo dagli interessi del mondo del lavoro, che è la nostra culla e la nostra matrice, sia in grado di apparire tale all'insieme degli interessi sociali.
Se ci dessimo una missione diversa, non ci sarebbe bisogno di noi; altri possono avere il nostro ruolo. Questa missione è la missione del partito socialista europeo e di chi si riconosce in esso.
Noi abbiamo avuto per anni difficoltà enormi, giustamente motivate, a ipotizzare una riunificazione dei diversi rami della famiglia che ha comunque lo stesso nonno, piaccia o non piaccia, quello del 1892. Poi dopo la separazione il figlio prodigo diventò un pretenzioso fratello maggiore e questo creò non pochi problemi, Ma alla fin fine sempre figlio prodigo era e a questo punto si pone un problema: io mi aspetto che si faccia il possibile per risolvere la separazione.
Sono convinto che il ventesimo secolo sia finito e che abbia portato via con se le ragioni di una divisione a sinistra e quindi vorrei che nel ventunesimo secolo questa divisione non sopravvivesse. Naturalmente ciascuno deve fare la sua parte perché questo non accada e quindi mi aspetto che dal congresso dei Ds vengano posti in discussione i profili, espliciti ed impliciti, di una diversità che davvero non saprei con quali argomenti si potrebbe oggi giustificare. Perché proclamare o far valere una diversità verso chi è sempre stato socialista, da parte di chi trova oggi la propria principale legittimazione nel fatto di appartenere al socialismo europeo, è la cosa più singolare che si possa immaginare. Mi auguro che di questo ci sia consapevolezza perché certo poteva avere un senso fino a quando il riferimento era l'Unione Sovietica, anche se noi eravamo diversi. La diversità autoreferenziale alla ricerca di una collocazione differente era già un passo nella giusta direzione ed è quello che è stato fatto da Berlinguer a Occhetto, e noi aspettavamo su questa sponda. Ma da questa parte non si può arrivare andando più in alto nel fiume affermando che si è socialisti europei, perché oggi siamo finalmente dalla stessa parte.
Mi auguro che questa riunificazione accada per una ragione che ho detto più volte. Credo fortissimamente all'Ulivo - se c'è una cosa su cui do ragione a Roberto Villetti è questa ma siccome lui è l'autentico Dottor Sottile, io sono solo un apprendista, e lui ne inanella talmente tante che uno non riesce a ricordarsi tutte quelle su cui può essere d'accordo o meno ma su una sono sicuramente d'accordo: ci possiamo stracciare le vesti e possiamo trovare tutte le ragioni per le quali il voto della sinistra è sceso da una media 44%, 45% a sotto il 25%, ma è un dato di fatto che l'Ulivo, e cioè il centro sinistra, oggi copre esattamente quello spazio elettorale del 45%. Questo significa che attraverso un lento processo che ha distillato tanti fattori, i diversi riformismi della storia d'Italia, si sono messi insieme e si stanno cementando,. E vicende gravi e difficili, come quella che viviamo, finiscono per cementarli ancora di più. E io che sono, se volete, esponente insieme come voi del padre di tutti i riformismi, perché mai dovrei avere qualcosa da obiettare al fatto che è sempre più omogeneo con me il riformismo cattolico-popolare o liberal-democratico?
A me va bene lo stesso perché così si crea un tessuto più largo in cui si ritrovano interessi sociali e culture che possono stare insieme, perché sappiamo che in un Paese complicato come l'Italia una maggioranza non è solo un assemblaggio di interessi sociali, ma anche un assemblaggio di culture. E in questo tessuto c'è bisogno di una sinistra riformista guidata dai riformisti perché l'Ulivo non deve essere indebolito nella sua sinistra. Dico questo perché non penso che spetti alla sinistra dell'Ulivo rappresentare i pensionati di provenienza operaia, mentre la Margherita di Rutelli e Castagnetti deve rappresentare i pensionati ex avvocati o ragionieri, ma perché penso che l'area di rappresentanza di cui noi per la nostra storia siamo portatori e il modo in cui siamo capaci di innovare tenendo conto insieme di giustizia sociale e di equilibri generali, è qualcosa di irrinunciabile in una coalizione politica, che aspiri a divenire maggioritaria.
L'Ulivo sarà alle prese domani col problema con cui siamo stati alle prese noi socialisti per decenni. Quello del conflitto tra chi vuole solo rappresentare e chi si assume la responsabilità di governare. In fondo la divisione con i nostri autentici pacifisti è largamente questa in questo momento. Ma è una divisione tradizionale, tra posizioni che tra l'altro messe insieme hanno delle sinergie reciproche. Questo non mi spaventa. Ciò che mi spaventerebbe - e l'ho detto più volte - è che il futuro dell'Ulivo, che potrà diventare molto più omogeneo e molto più compatto di quanto oggi non sia, sia un futuro di "margheritone", perché un "margheritone" non fa maggioranza, non rappresenta interamente il Paese. C'è bisogno di una sinistra profondamente radicata nell'area degli interessi sociali e della cultura socialista. Ecco, ho capito il senso in cui giorni addietro Enrico Boselli disse che al fianco di una Margherita di centro poteva servire una Margherita di sinistra. Non obbietto a questo che lui ha detto in quell'occasione, ma retorica floreale per retorica floreale, per me accanto a una margherita ci vuole una rosa, una robusta rosa europea, e quella sarà poi la forza motrice del collegamento tra l'Ulivo e il socialismo europeo. E sarà quella che mi consentirà di dire che la fine delle divisioni ha generato qualcosa di davvero nuovo, che non è la somma degli ex-comunisti e degli ex-socialisti ma è un Ulivo forte, fortemente radicato che potrà riprendere, io mi auguro al più presto possibile, la maggioranza di un Paese che ha bisogno di noi.

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Enrico Boselli

"Dalla nostra Conferenza esce piena la consapevolezza del ruolo che l'Italia si prepara a svolgere, con una partecipazione militare attiva nella operazione "Libertà duratura". Noi socialisti ci siamo impegnati, all'interno dell'Ulivo e direttamente nell'azione parlamentare, perché si arrivasse ad una risoluzione comune sul nostro intervento militare. Abbiamo sentito questa necessità politica, soprattutto perché fosse chiaro il pieno appoggio del Parlamento alle nostre forze armate che saranno impegnate in compiti particolarmente difficili e rischiosi.
Il nostro obiettivo è stato in larga parte raggiunto con una votazione delle Camere, con un consenso molto ampio, di un dispositivo comune ad entrambe le risoluzioni che maggioranza e Ulivo avevano presentato. Tuttavia, al fine di rafforzare ulteriormente l'appoggio alle nostre forze armate, i deputati e i senatori socialisti hanno votato per intero entrambe le risoluzioni. Ci siamo mossi tenendo conto unicamente dell'interesse nazionale senza guardare ad alcun vantaggio di parte, che in questa circostanza non avrebbe avuto ragion d'essere.
La scelta dell'intervento militare non era facile da assumere. Tutti si rendono ben conto della gravità della situazione. L'Italia non poteva restare passiva, o peggio indifferente alla minaccia che pende non solo sugli Stati Uniti, ma su tutto il mondo, compreso quello arabo moderato, da parte di reti terroristiche annidate all'interno del nostro stesso paese. Non avremmo potuto delegare ad altri il compito di contrastare il terrorismo, senza assumerci per intero le nostre responsabilità. L'Italia deve dare il proprio contributo su tutti i piani, quello politico e quello diplomatico, ma anche quello militare. La partecipazione diretta dell'Italia era inevitabile, perché nell'attuale scenario l'Europa non si può sottrarre dalla partecipazione ad azioni che sono indispensabili per tutelare la convivenza civile.
Non è la prima volta che all'Italia è richiesta una partecipazione diretta. Siamo interventi, a fianco degli Stati Uniti e degli altri nostri alleati, già in occasione dell'azione militare contro l'Iraq che aveva invaso Kuwait; siamo intervenuti nella ex Jugoslavia contro il regime di Milosevic che si era reso responsabile di una vera e propria pulizia etnica; abbiamo assicurato una nostra presenza militare nel lontano Timor Est. Tuttavia, dobbiamo sapere che il nostro intervento militare oggi contro il terrorismo ha caratteristiche ben diverse dal passato.
Il terrorismo è stato sempre presente nella realtà internazionale, con focolai assai pericolosi che traevano ragion d'essere da circostanze specifiche e nazionali, come sono i casi dei paesi baschi, dell'Irlanda, delle Filippine o dell'Algeria o come quello del Medio Oriente. In Germania si sono sviluppate azioni armate da parte di gruppi rivoluzionari che non è stato facile neutralizzare. In Italia abbiamo, purtroppo, conosciuto diverse forme di terrorismo e di stragismo, nero e rosso, il cui contrasto è stato particolarmente impegnativo e drammatico. Su alcuni episodi avvenuti nel passato ancora oggi non si è né appurata la verità, né fatta giustizia. Abbiamo, comunque, imparato grazie ad esperienze tragiche che il terrorismo per svilupparsi ha bisogno di supporti logistici, di risorse finanziarie e informative e di un ambiente circostante, se non favorevole, almeno disattento. Sappiamo che il terrorismo, che abbiamo conosciuto direttamente, nasceva in una realtà del mondo divisa in blocchi contrapposti ed era reso possibile da una guerra fredda, mai interrotta, tra l'impero sovietico e le grandi democrazie occidentali.
Oggi la situazione è profondamente cambiata. Dopo la caduta dei regimi dell'Est europeo, si è attivata una cooperazione tra gli Stati Uniti, gli altri paesi della Nato e la Russia. Con la Cina sono stati stabiliti complessi e significativi rapporti che, a partire da quelli economici, si sono estesi al campo politico. L'occidente democratico e il Giappone hanno strette relazioni con la stragrande parte dei paesi di tutti i continenti. Essenziale è mantenere il carattere più ampio della coalizione mondiale antiterrorismo alla quale ciascun paese possa dare, nel forme che autonomamente sceglie, il proprio contributo.
Il contrasto del terrorismo ha poco a che vedere con le guerre tradizionali che abbiamo sinora conosciuto. La sua caratterista principale è stata riconosciuta nel suo carattere "asimmetrico": i fronti di questa guerra, perché di guerra si tratta, non sono geograficamente delimitati e individuati preventivamente; non esiste un antagonista unico e facilmente identificabile; i mezzi militari usati dall'una e dall'altra parte sono profondamente diversi; non esiste un codice etico riconoscibile e accettato da tutti nell'uso della forza; il nemico è spesso invisibile e può essere insediato all'interno dei nostri stessi paesi. La differenza principale è che non esiste una diversità marcata tra fronte e retrovie. Anzi, dobbiamo sapere che siamo particolarmente vulnerabili piuttosto che nei fronti di guerra che possiamo decidere di aprire, come sta accadendo in Afganistan, in quelli che i terroristi possono creare improvvisamente all'interno delle nostre società. Abbiamo visto l'11 settembre che il raggio d'azione del terrorismo è praticamente illimitato. Gli attacchi possono assumere forme micidiali, dai sequestri di aerei di linea per trasformarli missili umani sino al bioterrorismo. La vigilanza sul territorio diventa un fattore essenziale, come è facile comprendere.
Siamo entrati in una nuova epoca che è drammaticamente segnata dai rapporti tra il Nord e il Sud del mondo. Poco più di un decennio ha retto l'idea che si potesse pacificamente diffondere nel nostro pianeta l'economia di mercato come veicolo neutro del benessere e della democrazia liberale. E' stata l'illusione di fine secolo, nata dal crollo dell'impero comunista sovietico. Willy Brand, allora presidente dell'Internazionale socialista, con un suo famoso rapporto, in un epoca che era ancora dominata dal contrasto con il comunismo sovietico, lanciò un allarme sullo stato delle relazioni Nord-Sud del mondo, che non è stato per tempo accolto. L'idea che possano convivere pacificamente paesi che hanno elevati gradi di benessere e paesi nei quali si muore letteralmente di fame e si è colpiti da malattie che sarebbe facili da curare è del tutto fallace. Il rischio che i tradizionali antagonismi di classe, ora fortemente attenuati nei paesi ricchi, possano trasferirsi su scala planetaria, esiste ed è bene valutarne i possibili sviluppi. Del resto, da tempo sono emersi ideologi di vaia estrazione che predicano la lotta di classe su scala mondiale tra ricchi e poveri.
Non è vero, tuttavia, come si è pure sostenuto, che l'attacco terroristico al cuore degli Stati Uniti serva a risvegliare le coscienze addormentate dell'occidente sullo stato di povertà e di sofferenza del terzo mondo, come una volta si definiva il complesso dei paesi sottosviluppati. Se mai Billaden, solo per citare l'uomo che è diventato il simbolo del terrore, può essere l'espressione di tante frustrazioni, sofferte da chi non ha che da perdere se non le proprie catene al pari, però, - come è stato già osservato - di ciò che rappresentò Hitler per la Germania sconfitta ed afflitta dai debiti di guerra dopo la prima guerra mondiale.
L'esplosione del terrorismo non aiuterà la marcia dei principi di libertà e di uguaglianza nel mondo, ma costringerà innanzi tutto i paesi democratici a concentrarsi nella difesa delle proprie condizioni di sicurezza. Le alleanze, necessarie per fronteggiare il pericolo, non potranno essere ritagliate su discriminanti che abbiano alla base i diritti umani. In questa fase è, infatti, essenziale sul piano politico, diplomatico e militare costruire una grande e forte coalizione mondiale contro il terrorismo. Minoranze che pure lottano per giusti diritti, gruppi che agitano la bandiera della libertà, popoli che si battono per veder riconosciuta la propria identità soffriranno sotto la cappa che ha imposto il terrorismo e dalla quale ci si dovrà, prima o poi, sottrarre.
E' del tutto evidente che i pericoli incombenti accentuino l'esigenza della sicurezza. Ci vuole poco per capire che quanto più misure di sicurezza si prendono, tanto più si restringono gli spazi di libertà. E non si tratta solo dell'azione di polizia che si fa necessariamente più invadente nella sfera privata, poiché il nemico è anche in mezzo a noi, pronto a colpire. In queste circostanze si crea un clima di sospetto, che può indurre a gravi errori, coinvolgendo persone che non c'entrano nulla con il terrorismo, magari solo perché hanno la pelle scura, sono arabi o di origine araba. Nell'ansia di assicurare con ogni mezzo la sicurezza si può dare adito persino a veri e propri abusi. I diritti s'affievoliscono attraverso le leggi d'emergenza. Ne sappiamo qualche cosa noi in Italia al tempo del terrorismo.
I limiti alla nostra libertà possono farsi sentire anche indirettamente nella vita di tutti i giorni. Accade già negli aeroporti di dover sottoporsi a controlli lunghi e fastidiosi, ma anche in autostrada si può essere costretti, per fare verifiche, indotte da allarmi più o meno fondati, a bloccare o comunque a rallentare il traffico per ragioni di sicurezza. Lo hanno sperimentato gli automobilisti sull'autostrada del Sole durante il ponte di Ognissanti, quando il timore di un attentato ha indotto a fare severi controlli che hanno paralizzato in alcuni tratti la circolazione.
Il regresso, che sta avvenendo nella nostra vita quotidiana, provocato dal terrorismo, è del tutto evidente. L'ansia e la paura si sono diffusi negli Stati Uniti. Il rischio è quello di non riuscire a sottrarsi all'incubo dell'attentato, ogni volta che si entra in una metropolitana, si prende un aereo o si va più semplicemente a fare delle spese in un grande magazzino. Si tratta, comunque, di evitare che questo stato d'animo, che ancora non si è diffuso in Europa, a parte la Grande Bretagna dove è già presente, provochi una spirale che si avviti in forme più o meno autoritarie. Lo studioso nippo-americano Francis Fukuyama, il famoso autore del saggio "La fine della storia", ancora colpito dall'esperienza negli Stati Uniti, fatta dalla sua famiglia che fu internata durante la seconda guerra mondiale solo perché d'origine giapponese, teme - come ha dichiarato sul Corriere della Sera - che venga messa in discussione la convivenza multietnica. Già in diversi paesi sviluppati esistevano forti e pericolosi sentimenti di xenofobia, se non apertamente razzisti, senza l'incombere di attentati. Figuriamoci ora quale può essere l'effetto che il pericolo terroristico può suscitare in persone già impaurite dal diffondersi della criminalità. Il rischio, da tutti temuto, è che l'attacco al cuore degli Stati Uniti possa essere una miccia che accenda uno scontro tra civiltà, come era stato ipotizzato in un famoso saggio dallo studioso americano, Samuel Huntington.
La lotta al terrorismo deve essere condotta innanzi tutto a livello politico. Tutti i mezzi, da quello dell'intervento militare, alle misure di polizia e d'intelligence fino ai controlli finanziaria, devono essere indirizzate da una comune ispirazione politica. Sappiamo, infatti, che i santuari del terrorismo non sono limitati solo all'Afganistan. Altri paesi, come l'Iraq, il Sudan, lo Yemen e la stessa Algeria ospitano molto probabilmente centrali terroristiche. Solo un mix di pressioni politiche e militari può farci evitare un'estensione della guerra a tutto raggio, che sarebbe difficile da gestire politicamente, se - com'è necessario - si vuole mantenere l'ampiezza attuale della coalizione antiterroristica,
Gli attentati dell'11 settembre non possono essere dimenticati. Ha ragione Tony Blair quando ammonisce: "Never forget". L'imperativo principale è, dopo l'11 settembre, battere il nemico n. 1, costituito dal terrorismo. Si tratta di una causa giusta, sacrosanta e vitale. Nessuno, di fronte a quanto è successo, si può sottrarre da questa sfida. Si può discutere sui mezzi da adottare, ma nessuno nega che bisogna neutralizzare le basi del terrorismo. Non è un caso che una recente presa di posizione che chiede la sospensione dei bombardamenti in Afganistan - solo per prendere un esempio - cioè l'appello che ha come primo firmatario lo scrittore Antonio Tabucchi, pubblicato in prima pagina da "il Manifesto", inizi così: "Occorre sconfiggere il terrorismo. Ed è indispensabile catturare e punire i responsabili dell'atroce attentato dell'11 settembre, per il quale ribadiamo con la massima convinzione la nostra solidarietà, piena, sincera e fattiva, agli Stati Uniti, tuttora colpiti dal vile ricorso alla guerriglia batteriologica."
Il confronto, quindi, non è se si debbano combattere i terroristi ma come combatterli meglio. Mi chiedo se, dopo quanto è accaduto, era possibile rimanere inerti. Non lo credo proprio. Non penso affatto che la risposta militare sia stata data per soddisfare le attese dell'opinione pubblica americana. L'amministrazione americana ha, infatti, aspettato prima di muovere la macchina militare di costruire un quadro politico e diplomatico di sostegno e di appurare, attraverso iniziative d'intelligence, le responsabilità di Billaden.
Il regime dei taleban è stato messi sotto osservazione perché si è trincerato a difesa di Billaden: le offerte di trattative sono state solo un diversivo propagandistico. Comprendo bene che i bombardamenti americani in Afganistan per colpire i taleban apportino anche a un popolo già provato ulteriori sofferenze. Le poche immagini, che giungono da quel lontano paese, non possono lasciare indifferenti nessuno. La propaganda dei taleban ha parlato almeno sino a pochi giorni fa di 1500 civili uccisi, ma anche se il loro numero fosse minore di dieci volte l'impressione e il dolore sarebbe sempre grande. Tuttavia sappiamo che, per quanto si cerchi di evitare di puntare solo ad obiettivi militari, è difficile non colpire per errore anche qualche sito civile. Dobbiamo, comunque, fare ogni sforzo per evitare che ci siano vittime tra le donne e i bambini. Temiamo, purtroppo, che il regime dei taleban se ne facciano scudo per dare copertura a centrali terroristiche. Gli americani sanno per esperienza, meglio di noi, come la guerra si combatta non solo nei campi di battaglia ma anche nel mondo dell'informazione. La lezione del Vietnam è ben presente. L'opinione pubblica, a cominciare da quella degli Stati Uniti, reagirebbe negativamente sia a enormi perdite di militari americani, sia a vere e proprie stragi di civili nel teatro di guerra. L'immagine della bambina nuda che scappava da sola da un villaggio vietnamita incendiato dalle truppe d'assalto americane, fece il giro del mondo, commuovendo tutta l'opinione pubblica mondiale. Il motto "no more Vietnam", non più Vietnam, è chiaro agli americani come agli europei. Bisogna, quindi, sapere che l'azione militare, tanto più si protrarrà nel tempo, tanto più deve essere sorretta dal consenso dell'opinione pubblica. Va mantenuto un dialogo continuo con le istituzioni umanitarie, con gli ambienti pacifisti responsabili, con l'ONU e le sue agenzie perché anche nei momenti di dissenso sia mantenuta una comprensione reciproca. Ogni volta che sia di fronte a un'inasprirsi delle tensioni internazionali, ripensiamo alle Nazioni Unite che purtroppo non sono in grado d'intervenire come sarebbe pure necessario. L'ONU, comunque, deve restare un riferimento di fondo, particolarmente in questo frangente della lotta al terrorismo.
Questa nostra Conferenza serve anche a dare un contributo alla politica estera italiana. Ne ha bisogno il Governo, ne ha bisogno l'Ulivo. Come è stato detto da Ugo Intini, nella sua relazione introduttiva, la situazione internazionale impone scelte nette, non ammette giri di valzer, richiede precise e piene assunzioni di responsabilità. L'Italia lo ha fatto decidendo in questa occasione l'intervento militare. Il nostro paese nel corso della sua storia repubblicana, ha mantenuto un coerente asse della sua politica estera, basato su due essenziali pilastri: la collocazione in Europa e la partnership tra l'Europa e gli USA. Lo ha ricordato con la sua grande autorevolezza il presidente della Repubblica Ciampi e lo ha ricordato il presidente della Commissione europea, Romano Prodi. Tra i grandi leader che hanno contribuito a costruire le fondamenta della politica estera italiana, dall'adesione al Patto Atlantico sino all'unione europea, c'è - come ha ricordato Gianfranco Schietroma - un grande socialdemocratico italiano, Giuseppe Saragat.. E' alle grandi figure del nostro paese che hanno aperto la strada della nostra politica estera e di quella europea dobbiamo fare riferimento.
Dobbiamo ricordare che fu proprio la politica estera a determinare scelte drammatiche nella sinistra italiana, tali da pesare a lungo nel futuro. Non si sarebbe creato in Italia per così lungo tempo un sistema politico senza alternanza, se la sinistra fosse stata democratica, riformista ed occidentale; si sarebbe determinato, comunque, un rapporto di pari dignità tra socialisti e democristiani se i socialisti avessero scelto, sin dal dopoguerra, l'Ovest invece che l'Est, come fecero tutte le socialdemocrazie europee. Nenni, per la verità, riparò al suo errore a partire dal '56. La storia non si fa con i "se". Le riflessioni critiche, invece, hanno bisogno dei "se" ed anche dei "ma".
Ci si può chiedere quale sia il rapporto tra il nuovo scenario di apertura del secolo, che si è affermato, e il contesto della politica italiana. L'Italia è stata sempre influenzata, più di altri paesi europei, dai grandi eventi della politica internazionale. Ciò è comunque valso nei decenni che hanno seguito il dopoguerra. Noi non siamo stati un paese europeo come gli altri. Non c'è stata una democrazia compiuta, fondata sull'alternanza tra schieramenti o partiti contrapposti, identificati comunque nel riconoscimento dei principi democratici. L'Italia si è divisa sulle discriminanti che dividevano il mondo tra democratici e comunisti. Il gioco democratico è stato sempre condotto nella consapevolezza che tutti i pericoli, pur esistenti, di una guerra civile dovevano essere governati e neutralizzati. La sinistra italiana - parlo del Pci ma anche del Psi almeno fino alla revisione del '56 - è stata la causa delle tante anomalie italiane. Quando riflettiamo amaramente sul restringimento dei confini della sinistra tradizionale, ridotta a poco più o poco meno del 25% dei voti, ci dobbiamo interroghiamo su quanto il passato remoto e meno recente possa ancora influenzare il nostro destino futuro.
Il sondaggio pubblicato sul "Corriere della Sera", fatto da Renato Manneimer, nel quale si rileva che vi è una percentuale di non poco conto nell'opinione pubblica che comprende le "ragioni" di Billaden (più a sinistra che a destra ma anche a destra) desta allarme. Si è parlato molto di un radicato antiamericanismo che sarebbe derivato dalla velenosa eredità culturale lasciata sia dal comunismo sia dal fascismo. Non c'è dubbio che Giuliano Ferrara ha avuto una buona intuizione propagandistica nel lanciare l'idea di una manifestazione, da parte del centro destra, di solidarietà verso gli Stati Uniti. Tuttavia, non può sfuggirci che per quanto questa iniziativa sia legittima, essa non è stata concepita per unire ma per dividere gli italiani. Ben altra preparazione sarebbe dovuta essere fatta per ottenere una manifestazione che sancisse l'unità nazionale cui c'è bisogno per dare pieno sostegno alle nostre forze armate. In tanti campi abbiamo l'impressione che la coalizione di governo si comporti ancora come se fosse all'opposizione, tenendo poco conto che quando si governa bisogna cercare di rappresentare anche gli elettori che hanno votato l'opposizione e che bisogna farsi carico per primi dell'esigenza di unità nazionale. Ciò non è avvenuto quando si è lanciato l'allarme sul buco che ci sarebbe stato nei conti pubblici (ora scomparso nella nota d'aggiornamento del Documento di Programmazione Economica e Finanziaria del paese): ciò non ha danneggiato l'opposizione ma l'Italia. Accade purtroppo la stessa cosa, oggi, con la manifestazione di Roma. Le forze di maggioranza si confrontano Roma, manifestazione contro manifestazione, con i "no global", mentre l'opposizione ha responsabilmente deciso di non fare un controcorteo nella capitale.
Noi socialisti non abbiamo partecipato neppure alla marcia di Assisi perché non erano affatto chiari quali ne fossero gli obiettivi. Non è un caso che da parte di certi settori del fondamentalismo islamico si sia strumentalizzata la marcia descrivendola come una manifestazione che chiedeva la fine dei bombardamenti in'Afganistan. Non si può in queste occasioni così gravi dare un'immagine dell'Italia avvolta da ambiguità ed incertezze. Se il centro sinistra vuole essere forza di governo anche dall'opposizione, il terreno della politica estera è decisivo. L'alternanza deve valere nei contenuti della politica interna, mentre nella politica estera deve esserci una sostanziale continuità.
Le scelte che ha fatto l'Italia sono giuste. Il legame tra l'Europa e gli Stati Uniti si è rafforzato in questa fase così delicata. Ricorderemo sempre l'apporto decisivo degli americani per sconfiggere i nazifascismo e aiutare la Resistenza in Italia e in Europa. I nostri sentimenti verso il popolo americano sono di stima e di solidarietà. Sappiamo quanto ha contato positivamente, nelle relazioni tra l'Italia e gli Stati Uniti, la comunità italo-americana. Gli americani di origine italiana sono orgogliosi sia per la propria cittadinanza negli Stati Uniti sia per la propria ascendenza dall'Italia. Del resto, il sindaco uscente di New York, Rudolf Giuliani, che è stato il simbolo di forza e di coraggio, ha origini italiane. Da Fiorello La Guardia a Rudolf Giuliani gli italo-americani hanno sempre dimostrato il legame che c'è tra gli Stati Uniti e l'Italia. Con questa nostra manifestazione, i socialisti vogliono inviare al popolo americano un messaggio di profonda amicizia. Il destino degli Stati Uniti e quello dell'Europa sono comuni.
L'Italia, che è stata sempre protagonista dell'Unione Europea, si sente parte fondamentale di questo nuovo rapporto tra l'Europa e gli Stati Uniti. Sono le grandi socialdemocrazie europee, che governano in Gran Bretagna, in Francia e in Germania, ad aver dato l'impronta a questa nuova solidarietà tra Europa e Stati Uniti. Sappiamo che nella sinistra europea, come in quella italiana, vi sono gruppi pacifisti verso i quali va il nostro rispetto. Abbiamo considerato di cattivo gusto l'iniziativa fatta dal giornale "Libero" di pubblicare le foto dei deputati e dei senatori che non hanno condiviso le scelte che abbiamo fatto sotto mostruosi titoli quali "Ecco chi sta con Billaden" o "Verdi, comunisti e sinistra Ds stanno con il nemico". Non ci è, però, neppure piaciuto il titolo, "La Camerata", con il quale "il Manifesto" - riferendosi al voto dato dal Parlamento - ha sottilmente alluso, - nonostante Parlato spieghi che il paragone è con la "stanza dei soldati" - a una decisione di tipo fascista. Siamo contrari ad ogni forma d'intolleranza o, peggio, in altri casi di censura. Rispettiamo chi fa scelte diverse o contrarie alle nostre nel comune quadro democratico, a cominciare dal Parlamento.
La tolleranza e la libertà non sono affatto di ostacolo al raggiungimento della chiarezza nei rapporti con le forze politiche. Del resto, tanto più ci si trova di fronte a scelte impegnative, tanto più ci deve essere chiarezza. Dentro l'Ulivo noi abbiamo invitato tutti alla chiarezza. Questa nostra opera, che ha dato risultati, non si fonda sul fatto che a noi socialisti non preme l'unità dell'Ulivo. Solo che l'unità, ottenuta pagando un prezzo alla chiarezza, non rafforza la coalizione di centro sinistra, come alternativa credibile e potenzialmente vincente al governo Berlusconi. La confusione indebolisce l'Ulivo e può metterlo ai margini. Ho sinceramente apprezzato gli sforzi che ha fatto Rutelli per raggiungere insieme unità e chiarezza.
Tuttavia, dobbiamo prendere atto con rammarico che, su importanti scelte strategiche di politica internazionale, i Verdi e i Comunisti Italiani non sono d'accordo. Questo tipo di dissensi non sono presenti solo in Italia. Non bisogna scandalizzarsi, ma rispettarli. Si verificano anche altrove, dove esistono coalizioni plurali di governo, come in Francia, A garantire, però, la chiarezza degli indirizzi di governo c'è nella sinistra un partito socialista o socialdemocratico che dà l'impronta alla coalizione. In Italia questo ruolo deve essere svolto dall'Ulivo.
Tante volte abbiamo detto che l'Ulivo deve essere qualcosa di meno di un partito, ma qualche cosa di più di una pura e semplice alleanza. Date le posizioni espresse, dovrebbe risultare ormai evidente che non si può costruire il progetto dell'Ulivo con formazioni che dissentono sulle linee fondamentali della nostra politica. L'Ulivo, così come è composto, non potrà essere mai qualche cosa di più di una semplice alleanza. Dato che sta a cuore anche a noi socialisti l'unità, ho proposto che l'Ulivo si sviluppasse a due velocità: un nucleo più ristretto, formato dallo SDI, dalla Margherita e dai DS, cioè da quelli che sono d'accordo sulle linee principali sia di politica estera e sia di politica interna; e un'alleanza più larga di centro sinistra, comprendente tutti quelli che nel centro sinistra vogliono costruire un'alternativa di governo al centro destra. Mi sembra una proposta realistica che si fa carico in positivo delle differenze che si sono create.
L'Ulivo, del resto, è l'unico soggetto che può contendere autorevolmente il governo al centro destra. Siamo tutti convinti che la sinistra storica in Italia non sia e non possa essere anche in futuro autosufficiente. Non voglio qui riaprire vecchie ferite. Voi sapete bene le cause perché la sinistra riformista (ma anche la sinistra in generale) è così deboli. Noi, come socialisti, siamo preoccupati dell'attuale situazione di debolezza della sinistra e siamo impegnati, assieme a Giuliano Amato, a costruire anche in Italia una grande socialdemocrazia di tipo europeo. Abbiamo seguito con interesse e rispetto l'andamento del congresso dei DS, poiché sappiamo quanto il futuro della sinistra dipende dall'esito dell'Assise di Pesaro.
Noi abbiamo detto al nostro Consiglio nazionale di luglio che siamo interessati a partecipare al disegno di costruzione di una grande socialdemocrazia di tipo europeo. Tanto più i Ds vanno avanti nel darsi principi ed obiettivi simili alle altre socialdemocrazie, tanto più il processo di costruzione di un partito socialdemocratico di tipo europeo andrà avanti. Abbiamo colto sino a poco tempo fa un certo oscuramento del tema socialista nel dibattito dei DS. Ultimamente se ne è tornato a parlare. Non vorremmo, però, che fosse un argomento per i giorni di festa, mentre in tutti gli altri giorni si parla di altro. Sicuramente negli ultimi tempi si sono fatti passi in avanti in una direzione che consideriamo positiva. Fassino, in colloquio sul "Foglio" con Giuliano Ferrara e Emanuele Macaluso, ha fatto una riflessione critica importante sul drammatico periodo di Tangentopoli. Non considero cosa di poco conto che il leader della maggioranza dei Ds (e conseguentemente il segretario in pectore) dichiari che l'ormai famoso discorso di Craxi alla Camera, dove ammise che esisteva un sistema universale di finanziamento illegale ed irregolare della politica e dei partiti, "fu coraggioso". Abbiamo dovuto aspettare quasi un decennio per sentircelo dire e siamo soddisfatti che finalmente sia stato detto autorevolmente dai DS. Consideriamo, comunque, sempre necessaria la costituzione di una Commissione di inchiesta su Tangentopoli, per la quale ci siamo sempre battuti. Siamo nettamente contrari a fare un processo ai magistrati, mentre crediamo che il Parlamento debba indagare su una pagina drammatica del nostro paese allo scopo di adottare misure che pongano fine a un capitolo della nostra storia che diffonde ancora veleni. Rimaniamo dell'idea, coraggiosamente avanzata da Ottaviano Del Turco in piena Tangentopoli, che si debba arrivare ad un'amnistia sui reati connessi al finanziamento illegali ed irregolari alla politica e ai partiti, come del resto si era fatto altre volte in Italia. Siamo stati, però, nettamente contrari alle misure volute dalla maggioranza su falso in bilancio e rogatorie, perché abbiamo avuto l'impressione che si volesse così risolvere, con un'amnistia ad personam, i problemi del presidente del Consiglio e di una sua ristretta cerchia di amici. Abbiamo sufficiente autorevolezza per fare questa affermazione perché abbiamo sempre contrastato qualsiasi tentativo di combattere Berlusconi per via giudiziaria, sia nel paese sia in Parlamento. Siamo preoccupati per la mancata soluzione del conflitto d'interessi: Berlusconi, quando sarà cambiato il consiglio di amministrazione della RAI, avrà il monopolio politico, di fatto e di diritto, su ben sei reti televisive con un evidente restringimento della libertà.
E' da tempo che noi socialisti portiamo avanti una riflessione autocritica sul modo in cui il Psi si comportò a livello di potere. Noi abbiamo sempre sostenuto l'onorabilità dei socialisti e l'onore che spetta a Craxi nella storia della sinistra italiana. Nello stesso tempo abbiamo chiaramente criticato ciò che era sbagliato nella politica del Psi e del Psdi e non abbiamo mai difeso ciò che era purtroppo disonorevole come i casi, molto meno di quanto si pensi, in cui si sono registrati arricchimenti personali, clientelismo e uso disinvolto del potere. Tuttavia, voglio fare ulteriore chiarezza sul problema del rapporto tra politica e legalità. Noi non siamo affatto per una politica che sia tollerante con l'illegalità. Noi siamo perché ovunque la legalità sia difesa scrupolosamente e chi la viola sia giustamente, equamente e rapidamente sanzionato. Sul terreno della moralità pubblica bisogna voltare definitivamente pagina. Noi siamo convinti che sia indispensabile nella gestione della cosa pubblica comportamenti rigorosi ed ineccepibili. Dopo Tangentopoli non ci deve essere, magari in altre forme, una nuova Tangentopoli. I controlli necessari devono essere, innanzi tutto, interni all'amministrazione pubblica. La politica deve essere limpida, trasparente ed onesta.
La nostra difesa dei diritti e delle garanzie dei cittadini non va confusa con il lassismo nell'ordine pubblico. Abbiamo da tempo imparato che la sicurezza è importante soprattutto per gli strati sociali più deboli, come gli anziani, i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze. Di fronte alle scuole, nei mercati, nelle strade dove vi sono più negozi, ovunque vi sia un concentramento d'attività e di persone, vi deve essere una presenza efficace delle forze dell'ordine, La lotta alla micro e alla macro criminalità è essenziale soprattutto oggi che si possono creare accordi di convenienza tra mafie internazionali e terroristici islamici.
Le politiche pubbliche costituiscono il terreno sul quale le grandi socialdemocrazie europee fanno sentire di più l'esigenza d'innovazione. Parole come privatizzazione, flessibilità, concorrenza, economia di mercato non appartengono al vocabolario della destra. Certo, la socialdemocrazia, a differenza della destra, si preoccupa che l'innovazione e la modernizzazione non comportino esclusione, emarginazione e disoccupazione cronica.
Con i Ds si deve sviluppare, una volta che potremo giudicare l'esito del Congresso di Pesaro, un confronto a tutto campo, dalle politiche pubbliche, con particolare riferimento alla politica della sicurezza e della giustizia, a quella dei diritti e dell'ambiente, fino alle scelte fondamentali di politica estera. E' soprattutto dalle nuove generazioni che viene una domanda di novità e di sicurezza, nella famiglia come nel lavoro, che va raccolta e sviluppata. Nel campo della giustizia, insistiamo perché si arrivi a una netta distinzione delle carriere tra la magistratura inquirente e i giudici terzi e neutrali, come avviene in quasi tutte le democrazie liberali. Diritti, politiche di sviluppo e politiche di coesione sociale, federalismo e sburocratizzazione, sicurezza sociale ed individuale, nuovo sistema previdenziale su due pilastri, l'uno pubblico e l'altro privato, istruzione e formazione permanente, flessibilità nel mercato del lavoro e nuovi ammortizzatori sociali che non consentano l'effetto dipendenza dallo Stato sociale devono essere i cardini della politica dell'Ulivo e di un nuovo grande partito socialdemocratico.
Tra i DS e lo Sdi sono nel tempo molto migliorati i rapporti. Abbiamo, in questo contesto, considerato fondamentale l'indicazione di Giuliano Amato come presidente del Consiglio. Non ci dimentichiamo certo che il contributo dato nel miglioramento dei rapporti dall'allora segretario dei DS Walter Veltroni, ora sindaco di Roma.
Una grande e moderna socialdemocrazia non può nascere dal solo ceppo dei Ds, ma deve formarsi attraverso apporti diversi. Se si arrivasse a formare un nuovo partito che, alla stregua della Cosa 2, fosse e apparisse al Paese solo come i Ds, pur con un altro nuovo nome, non avremmo portato avanti un grande disegno, cui crediamo, ma saremmo al punto di prima, anzi peggio perché avremmo così fatto passi indietro.
Vedete, noi socialisti siamo importanti nella sinistra, nonostante le nostre ridotte dimensioni di voti (cui però corrisponde una presenza diffusa nel territorio), al fine di costruire un nuovo partito socialdemocratico. Ciò accade perché noi, sin dallo scioglimento del Psi e successivamente dello Psdi, abbiamo portato avanti una missione di grande contenuto ideale e siamo stati sempre convinti e determinati ad assolvere ai nostri compiti. Non è un caso che nella miriade di formazioni socialiste, cui ha purtroppo dato vita la diaspora, solo noi dello SDI siamo riusciti a mantenere una continuità d'iniziativa, di proposta e di organizzazione. Gli altri gruppi hanno avuto, tutte, una vita piuttosto effimera.
Noi ci eravamo proposti, sin dall'inizio di raccogliere il grande patrimonio del socialismo italiano affinché non andasse disperso. Non ci eravamo posti, invece, l'obiettivo di ricostruire il Psi, come altri hanno successivamente tentato, con fallimenti ripetuti. Noi sapevamo e sappiamo che questo patrimonio dovrà essere consegnato a una formazione socialista molto più ampia che sappia raccogliere innanzitutto l'eredità del socialismo italiano, prim'ancora di quello europeo. In questa opera noi abbiamo nutrito un giusto orgoglio perché abbiamo superato, pur tra alcune delusioni, difficoltà enormi in un ambiente politico piuttosto diffidente, se non ostile. Sappiamo che altre difficoltà ancora dovremo affrontare.
Per svolgere il nostro ruolo a pieno, pur sapendo che il nostro obiettivo è più ampio, dobbiamo avere continuamente la consapevolezza di non essere un partito precario e a termine, cui si fissa, magari dall'esterno, la data del suo scioglimento. Di fronte a qualsiasi tentativo di operare con intenti costrittivi nei nostri confronti, la nostra naturale reazione sarà la strenua difesa della nostra autonomia. Nessuno si può fare illusioni. In democrazia i partiti si sciolgono quando lo decidono coloro che vi sono iscritti.
Ho fatto questa premessa per arrivare a dire che noi siamo disposti a dare vita a un grande partito socialdemocratico, se questo coinciderà con la fine della nostra missione. Noi abbiamo escluso ed escludiamo una pura e semplice confluenza nei DS. Altrettanto ci siamo opposti e continueremo ad opporci a forme federative tra i DS, lo Sdi e i comunisti italiani. Non ci interessano aggiustamenti, semplificazioni o integrazioni. Ci interessa lo sviluppo di un grande disegno. Altre volte ho accennato all'ipotesi di costruire a sinistra un nuovo soggetto politico che abbia le caratteristiche di novità, che ha offerto la Margherita. Mi riferisco soprattutto al modo in cui la Margherita è riuscita a presentarsi alle ultime elezioni politiche e ad avere un buon successo. Ciò è avvenuto poiché questa nuova formazione non è apparsa agli elettori la pura e semplice continuazione della Democrazia Cristiana o del partito popolare. Ciò è avvenuto perché su un corpo che era ed è postdemocristiano si è innestata una leadership, quella di Rutelli, che è tutto fuorché postdemocristiana. Analogamente, si deve sviluppare un processo a sinistra, che dia vita alla Rosa socialista attraverso l'innesto sul corpo postcomunista di una leadership che sia tutto fuorché riconducibile ai postcomunisti.
Ho molto apprezzato le aperture che Fassino ha fatto, in una non molto recente intervista al "Corriere della Sera", sulla sua volontà di marciare sulla strada della socialdemocrazia. Si tratta di una affermazione che noi socialisti abbiamo accolto molto positivamente. La strada quindi sembra ben tracciata, ma non è ancora chiaro se sarà accettata dai DS in futuro quella novità di leadership, che è condizione essenziale per creare un nuovo partito socialdemocratico che non sia coincidente con i postcomunisti.
Sappiamo bene che la Rosa socialista, se sarà costituita, neppure nel caso in cui avesse un buon risultato elettorale, cosa che è la prova della riuscita dell'operazione, non potrà affrontare da sola la competizione con il centro destra. La Rosa e la Margherita devono essere le due faccia di un'unica medaglia che è rappresentata dall'Ulivo. Il disegno dell'Ulivo, che indicò Prodi al Convegno di Formia, mi sembra ancora di grande attualità. Del resto, la sinistra italiana arriva a mala pena a un quarto dell'elettorato e quella riformista non ne è neppure un quinto. l'Ulivo, invece, rappresenta il 40-45% che è stato sempre il livello della sinistra storica durante la cosiddetta prima repubblica.
I due disegni, quello della Rosa e quello della Margherita, devono potersi trovare compimento finale nell'Ulivo, come nuovo soggetto politico. Il processo di europeizzazione dell'Italia, che avrà un ulteriore impulso con la circolazione della moneta unica e dal prossimo varo di una Convenzione per una nuova carta costitutiva (spero presieduta da Giuliano Amato), farà sempre più diventare i grandi spartiacque politici dominanti nel parlamento europeo i punti essenziali di riferimento anche in Italia per la ristrutturazione del centro sinistra e di tutte le altre forze politiche. A ciò si aggiunge che la logica del maggioritario e dell'alternanza è destinata a favorire grandi aggregazioni, Noi non solo, come socialisti, non ci sottraiamo a queste tendenze, ma lavoriamo perché si costruisca in Italia una nuova geografia politica, fatta da grandi forze politiche.
La forte incidenza, che hanno oggi e sicuramente avranno per un lungo periodo le scelte di politica internazionale, ci porterà ad una chiarificazione politica dopo l'altra, tra i partiti e dentro i partiti. L'unità nazionale deve essere il contesto nel quale sinistra e destra, finalmente reciprocamente legittimate, si confronteranno, si divideranno e si contrapporranno. Dire unità nazionale - voglio ricordarlo qui a Napoli - significa dire anche superamento di un'Italia, nella quale ci sia ancora un così grande divario tra il Nord e il Sud del Paese. Il popolo meridionale, che tanto ha dato in termini d'intelligenza e di lavoro, deve essere positivamente integrato ai livelli economici e civili dell'Europa. Noi socialisti consideriamo, nella nostra agenda politica, l'impegno meridionalista come principale. Sul Sud ci proponiamo di convocare un seminario di studio e di riflessione, possibilmente prima del nostro Congresso nazionale, che vogliamo convocare nel marzo del prossimo anno. Sarà il Congresso a dare una valutazione sul cammino che si è fatto e sui tempi e i modi della nostra iniziativa politica.
L'incertezza delle prospettive, derivata dalla tragedia dell'11 settembre, si faranno sentire sempre più. Tutto - si è detto - non sarà come prima. Le nostre economie dipendono sempre più dalle attese, razionali ed irrazionali che si determinano. La paura e l'ansia deprimono i mercati. I rischi di una recessione mondiale, che comporti crisi della coesione sociale, sono purtroppo ancora forti. Non vorremmo che si assommasse recessione e guerra. Noi vogliamo perseguire sviluppo e pace.
La politica non è più la stessa di prima. Nel mondo globale devono cambiare le forme di organizzazione, il linguaggio, i soggetti e i temi di riferimento. Parliamo sempre più delle donne, degli anziani, dei giovani e dei bambini, perché è in atto una rivoluzione del costume e della cultura e una rivoluzione demografica. Le donne avranno un grande ruolo in questo nuovo secolo che si è aperto e noi socialisti dobbiamo fare in modo che ciò avvenga più rapidamente possibile. Non parlo solo delle questioni dell'aborto o degli asili nido. Mi riferisco innanzi tutto alla formazione e all'istruzione come la chiave di volta di un nuovo ruolo della donna. Anche per questo difendiamo la centralità della scuola laica. Le donne arabe, in un ambiente che è tra i più difficili, hanno capito che il primo diritto da rivendicare è l'accesso all'istruzione. Dalle donne musulmane potrà venire, come si è detto, un importante contributo alla pace.
La nostra manifestazione, come si è visto e come ci era chiaro sin dall'inizio, non ha nulla a che vedere con un inno alla guerra. Abbiamo visto l'intervento militare italiano come una necessità inevitabile e dolorosa per difendere le nostre società dal terrorismo. Da Napoli vogliamo rivolgere, innanzi tutto, un deferente saluto al Capo dello Stato e alle nostre forze armate di cui il presidente Ciampi è la suprema guida. Coloro che hanno la fede pregheranno per i nostri soldati. Chi non è credente s'impegnerà affinché essi sentano la solidarietà dell'Italia intera. Noi socialisti speriamo che la pace torni di nuovo e presto. L'Italia si deve impegnare fortemente perché in Medio Oriente possano convivere, in una condizione di reciproca sicurezza, lo Stato israeliano e un nuovo Stato palestinese. La pace deve essere raggiunta con il rispetto di ciascuna religione. Europa e mondo arabo hanno tradizioni che spesso hanno avuto collisioni nel corso della storia, ma che sono destinate a cooperare insieme. L'Italia può svolgere un ruolo di grande rilievo nel Mediterraneo.
I socialisti hanno una grande tradizione di pace, ma hanno preso anche le armi per difendere la Repubblica spagnola dal nazifascismo e l'Italia democratica nella Resistenza. Hanno combattuto avendo sempre sulle labbra due parole che a noi stanno ancora a cuore: pace e libertà. Questi sono ancora i nostri sentimenti che sono ben radicati nelle coscienze di tutti i socialisti".

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