Introduzione
generale
alla poetica
di
Luigi Pirandello
6. Il personaggio pirandelliano
Occorre innanzitutto fare una distinzione fra persona e personaggio.
a) - La persona è
l'individuo libero, non ancora sottoposto alle norme di qualsiasi
provenienza esse siano; vede la realtà in maniera oggettiva e fonda la propria
vita sulla convinzione, o perlomeno sull'opinione, che la realtà stessa venga
vista e sentita allo stesso modo anche dagli altri. La persona, libera ed
informe, può assumere una forma, costretta dall'esterno o spinta da un
impellente bisogno interno. Una caduta da cavallo provocata da un rivale
(costrizione esterna) fa assumere a una persona, senza nome nella realtà, la
figura di Enrico IV, ch'essa stava accidentalmente rappresentando durante una
festa carnevalesca in costume medievale; una volta guarita, rendendosi conto
della realtà e del comportamento di coloro che aveva ritenuto amici e che
avevano agito e tramato contro di lui, assume definitivamente e volontariamente
la figura di Enrico IV (bisogno interno), non tanto per sfuggire alle norme e
alla comune giustizia (dopo aver smascherato e ucciso Belcredi, suo rivale in
amore ma anche amico di gioventù e di bagordi), quanto per vivere un'esistenza
finalmente in linea con i bisogni del suo spirito, dopo il riconoscimento del
fallimento e del tramonto stesso della sua esistenza.
b) - Il personaggio, invece, nella vita come nella
fantasia creatrice dello scrittore, è l'individuo fissato in
una forma, che compie sempre gli stessi gesti per l'eternità o finché
non entra in un'altra forma. Il personaggio, sottoposto a norme
fisse ed inderogabili, porta una tragica maschera, recita sempre le
stesse battute, portando un mondo di sentimenti che gli altri non avranno mai la
forza di penetrare e di rivelare: sono i personaggi vivi della
fantasia creatrice. Sulla creazione del personaggio, così dice il
dott. Fileno al Pirandello nella novella La tragedia di un
personaggio:
Nessuno può sapere meglio di lei che noi siamo esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni; forse meno reali, ma più veri! Si nasce alla vita in tanti modi, caro signore; e lei sa bene che la natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione. E chi nasce mercé di quest'attività che ha sede nello spirito dell'uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale d'una donna. Chi nasce personaggio, chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte. Non muore più! Morrà l'uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più. E per vivere eterna non ha mica bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Mi dica lei chi era Sancho Panza! Mi dica lei chi era don Abbondio! eppure vivono eterni, perché - nati vivi germi - ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l'eternità.
Dal discorso di Fileno possiamo capire due cose:
1) - la vera forma
dell'esistenza è quella del personaggio, anche se nell'opera pirandelliana
abbiamo un fluire continuo dalla persona al personaggio e viceversa. Tipico
esempio è il dramma Sei personaggi in cerca d'autore, nel quale troviamo
la netta distinzione tra i sei personaggi e gli attori, persone che non sono
ancora entrati nella parte, che nulla rappresentano e che, soprattutto, non
hanno alcuna forma. In generale possiamo affermare, anche se un po'
schematicamente, che nell'opera pirandelliana a una prima parte in cui vediamo
agire individui che sono ancora persone, corrisponde una seconda parte, in cui
le persone assumono tutte le caratteristiche dei personaggi;
2) - La fantasia creatrice dello scrittore domina sui
personaggi, e non viceversa, come la natura domina sugli esseri umani e crea
uomini e cose. Per questo molti critici hanno parlato di una ostilità di
Pirandello nei confronti dei suoi personaggi, come se questi gli scatenassero
dentro un senso di ripugnanza, perché visti nelle loro miserie e debolezze.
Il contrasto fra Pirandello e i suoi personaggi nasce dalla volontà dello scrittore di mettere a nudo l'anima dei personaggi, di scomporne l'apparente impassibilità e indifferenza di fronte ai casi della vita e di capirne l'intima composizione per metterne in mostra la loro vera forma che si concretizzerà una volta per tutte. Ed è contro questo atteggiamento dell'artista che i personaggi tendono a ribellarsi, a mostrarsi insofferenti, per impedire la spietata analisi che inevitabilmente ne metterà a nudo miserie e grandezze, ma anche per essere descritti così come essi si sentono e sono veramente dentro.
L'uomo non ha della vita un'idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi la fortuna. Ora la logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che è relativo. E aggrava un male già grave per se stesso. Perché la prima radice del nostro male è appunto in questo sentimento che noi abbiamo della vita. (154)
Pirandello ha colto questa illusione e la mette a nudo, scatenando non di rado vive reazioni nei suoi personaggi e nei suoi lettori, che in alcuni casi diventeranno aperta contestazione durante le rappresentazioni teatrali.
7. Rapporti tra personaggi
Il
personaggio non ha nessun'àncora di salvezza, nessuno scoglio cui aggrapparsi
per mutare la propria maschera o per andare oltre i limiti imposti dalla
fantasia creatrice dello scrittore: non ha nessuna possibilità di
instaurare rapporti umani con gli altri personaggi, perché ciascuno è obbligato
a recitare la sua parte indefinitamente e indipendentemente da quella
rappresentata dagli altri: deve accontentarsi, rassegnarsi a recitare la
propria parte e capire che solo nella rappresentazione della propria parte può
diventare personaggio vivo.
Proprio sul piano di questo rapporto si verifica la disintegrazione fisica e
spirituale dei personaggi che possiamo riassumere in tre punti essenziali che
sono la teoria della triplicità esistenziale:
1) - come il personaggio vede se
stesso;
2) - come il personaggio è visto dagli
altri;
3) - come il personaggio crede di essere
visto dagli altri.
Le conseguenze della triplicità sono tre:
1) - il personaggio è uno
quando viene messa in evidenza la realtà-forma che lui si dà;
2) - è centomila quando viene messa in evidenza la
realtà-forma che gli altri gli danno;
3)- è
nessuno quando si accorge che ciò che lui pensa e ciò che gli
altri pensano non è la stessa cosa, quando la propria realtà-forma
non è valida sia per sé che per gli altri, ma assume una dimensione per sé e
un'altra per ciascuno degli altri
La triplicità è un elemento tecnico che serve al Pirandello per esaminare come i personaggi sono fatti veramente dentro e capire come essi si vedono. } UNO-CENTOMILA-NESSUNO~ sono le tre dimensioni dell'essere e della realtà del personaggio, nelle quali possiamo trovare l'origine dell'alienazione e della forma:
¨ - abbiamo
l'alienazione quando la dimensione UNO lascia
il posto alla dimensione NESSUNO, e il personaggio si rende
conto di dover vivere non per come si crede di essere ma per come gli altri
credono che lui sia;
¨ - abbiamo
la forma quando la dimensione UNO si
concretizza in una delle CENTOMILA dimensioni che gli altri
danno al personaggio.
La conseguenza
della disintegrazione del personaggio nelle tre dimensioni è la profonda
coscienza nel personaggio sia di non poter conoscere se stesso e gli altri, sia
di non poter superare la condizione di solitudine, determinata dall'evidente
impossibilità di comunicazione, in quanto ognuno possiede non solo UNA ma
CENTOMILA dimensioni, non solo UNA ma CENTOMILA forme,
nelle quali realizzare il gioco delle
parti.
La molteplicità
delle condizioni esistenziali si presenta al personaggio come una drammatica
scoperta, nella quale tutto diventa inutile, perché il personaggio non è più
UNO, ma tanti quanti sono quelli che lo vedono, addirittura tanti quanti
sono gli stati d'animo di coloro che lo vedono, lo conoscono o credono di
conoscerlo; ed è anche NESSUNO, perché nessuna di quelle forme che gli
altri gli danno corrisponde a quellla che lui si dà. E il dramma diventa ancor
più profondo quando ci si rende conto che ciascuna di quelle forme è come
un'ombra estranea, e come le ombre provengono dal corpo ma non sono il corpo,
così le forme ci fanno vedere il personaggio ma non sono il personaggio
stesso.
8. I personaggi e la forma
La
forma è la maschera, l'aspetto esteriore che
l'individuo-persona assume all'interno dell'organizzazione sociale per
propria volontà (come Enrico IV nell'epilogo del dramma) o perché gli altri così
lo vedono e lo giudicano: è nella forma che l'individuo-persona
diventa personaggio.
La forma è determinata dalle convenzioni sociali, dalla ipocrisia, che è
alla base dei rapporti umani, regolati più dall'egoistica valutazione di
vantaggi e svantaggi o da meschine preoccupazioni per i propri interessi, che da
un vero attaccamento ai grandi valore. L'illusione nella quale vivono i
personaggi viene scoperta e messa a nudo attraverso una riflessione che
scompone ogni cosa fin nei suoi aspetti più nascosti e che i personaggi stessi
non oserebbero confessare.
Più rigida è la forma-maschera, più l'uomo si allontana dalla verità,
dalla realtà, dalla normalità. Esiste una forma, nella tematica
pirandelliana, che
a) - l'individuo-personaggio dà a se
stesso;
b) - gli altri danno all'individuo-personaggio;
c) -
l'individuo-personaggio crede che gli altri gli diano;
d) - gli altri
danno all'individuo-personaggio
e) - ciascuno individuo e ciascun
personaggio crede di darsi nei rapporti con gli altri.
È questo il ragionamento di Moscarda in Uno nessuno centomila:
In astratto non si è. Bisogna che s'intrappoli l'essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là, così o così. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena d'essere così, e di non poter più essere altrimenti...
E come le forme gli atti.
Quando un atto è compiuto, è quello; non si cangia più. Quando uno, comunque, abbia agito, anche senza che poi si senta e si ritrovi negli atti compiuti, ciò che ha fatto resta: come una prigione per lui. Se avete preso moglie, o anche materialmente, se avete rubato e siete stato scoperto; se avete ucciso, come spire e tentacoli vi avviluppano le conseguenze delle vostre azioni; e vi grava sopra, attorno, come un'aria densa, irrespirabile, la responsabilità che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non previste, vi siete assunta.
Quando il personaggio scopre di essere calato in una forma determinata da un atto accaduto una sola volta e di essere riconosciuto attraverso quell'atto e identificato in esso, come può essere identificato in centomila altri atti diversi ma tutti ugualmente soffocanti, cade in una condizione angosciosa senza fine, perché si rende conto che
¨ - la realtà di
un momento è destinata a cambiare nel momento successivo,
¨ - la realtà è un'illusione perché non si identifica
in nessuna delle forme che gli altri gli hanno dato.
Accanto alle
centomila forme, che cambiano in continuazione, a seconda delle
circostanze nelle quali agisce, esiste una forma che incatena il
personaggio per tutta la vita determinandone gli atti: una forma che non
cambia mai se non quando scompare il personaggio
stesso.
È quanto accade, ad
esempio, nella novella La carriola al personaggio principale, del quale
l'autore non ci dice nemmeno il nome, perché potrebbe essere chiunque,
caratterizzato soltanto dai suoi titoli onorifici, scientifici e professionali.
Un giorno, mentre torna a casa in treno, stanco e un po' annoiato, si appisola e
comincia a sentire piano piano che gli è estraneo tutto ciò che fino a quel
momento ha vissuto, tutto ciò che ha creato e gli altri hanno creato per lui
sulla base delle convenzioni che legano i rapporti sociali.
Scopre all'improvviso di
non aver mai vissuto per sé e di non poter riconoscere come sua quella vita; il
suo spirito non si ritrova più in colui che tutti ricercano, rispettano,
ammirano, "di cui tutti volevan l'opera, il consiglio, l'assistenza, senza mai
dargli un momento di requie". Scopre, insomma, la forma, quel modo di
vivere che si era trascinato dietro fino a quel momento senza saperlo, subendolo
come una cosa morta.
Perché ogni cosa è una morte.
Pochissimi lo sanno; i più, quasi tutti lottano, s'affaticano per farsi, come dicono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala credono d'aver conquistato la loro vita, e cominciato invece a morire. Non lo sanno, perché non si vedono; perché non riescono a staccarsi più da quella forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono d'essere vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è più in essa... Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire.
Quando si conosce il personaggio si sente soffocato e schiacciato dalla forma, da questo modo di essere che noi chiamiamo vita e che, invece, rappresenta la morte.
9. Forma uguale maschera
Abbiamo già
detto che i concetti di forma nelle novelle e nei romanzi e di
maschera nella produzione teatrale sono
equivalenti.
È nella
maschera che ritroviamo un contrasto più profondo fra illusione e
realtà, fra l'illusione che la propria realtà sia uguale per tutti e la
realtà che si vive in una forma, dalla quale il personaggio non
potrà mai salvarsi.
La
maschera è la rappresentazione più evidente della condanna dell'individuo
a recitare sempre la stessa parte, imposta dall'esterno, sulla base di
convenzioni che reggono l'esistenza della
massa.
Nella società l'unico
modo per evitare l'isolamento è il mantenimento della maschera: quando un
personaggio cerca di rompere la forma, o quando ha capito il gioco,
inevitabilmente viene allontanato, rifiutato, non può più trovare posto nella
massa in quanto si porrebbe come elemento di disturbo in seno a quel vivere
apparentemente rispettabile, in quanto sottomesso alle norme, ma
fondamentalmente condannabile, in quanto affossatore dei bisogni basilari
dell'uomo.
La maschera,
comunque non può essere presa come un elemento negativo in modo assoluto, perché
come rileva anche C. Alvaro, sotto di essa il personaggio cerca di } riguadagnare il senso vero della personalità umana, e
qualcosa che supera la stessa personalità e volontà dell'uomo~ .
La
maschera è il simbolo, in negativo del rifiuto delle false
convenzioni sociali, dello sfruttamento dei pochi sulle masse e della schiavitù
dell'uomo sottomesso a norme che lo costringono a un'esistenza disumanizzata;
in positivo del tentativo di un ritorno alla verità, riconquistata dopo
averla sezionata nelle sue mille sfaccettature e nelle mille impressioni che da
essa ciascuno riceve. Sotto la maschera l'uomo si rivolta, come Enrico
IV, come tutti i personaggi che, sfuggendo alle norme, vogliono riconquistare un
proprio spazio vitale e un valore morale dei sentimenti.
10. La forma e l'accidente
Sia nella
struttura dell'opera teatrale che in quella narrativa, troviamo spesso un
elemento tecnico di grande importanza che tende a rompere la
forma.
La rottura
della forma, se da un lato ridona nuova vita al personaggio, dall'altro
provoca la perdita di quella rispettabilità di cui aveva goduto fino a quel
momento agli occhi della massa che compone il mondo variopinto e indistinto
delle persone che credono di vivere e invece non sanno che anch'esse
recitano una parte.
Nella
novella Il treno ha fischiato Pirandello rappresenta con chiarezza
entrambi i concetti:
forma
Circoscritto... sì; chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni... casellario ambulante: o piuttosto vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno, almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com'era da anni e anni alle continue e solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'un'improvvisa alienazione mentale.
accidente
Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato seguitai a riflettere per conto mio:
- A un che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè con una vita 'impossibile', la cosa più ovvia, l'incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è 'impossibile'. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara.
Nella poetica
pirandelliana l'accidente serve a distruggere la forma, che fa
esistere il personaggio nell'alienazione e a fargli riscoprire l'originaria
personalità repressa.
L'accidente è usato soprattutto nella novella a struttura binaria
aperta, e serve a ristabilire, secondo norme di giustizia derivanti dalla
Natura, quell'equilibrio spirituale nell'uomo e nell'organizzazione sociale e
statuale, che è stata messa in crisi da un'errata valutazione delle qualità
umane.
L'elemento
dell'accidente è rappresentato da qualsiasi cosa: il fischio d'un treno;
un sasso urtato per via, che all'improvviso si trasforma in un mondo pieno di
vita e di creatività; la frase di una donna (come nel romanzo Uno nessuno
centomila, la rivelazione del naso che pende verso destra fatta a Moscarda
dalla moglie Dida); lo strappo di un filo d'erba nella novella Canta
l'epistola:
Ora, da circa un mese egli aveva seguito giorno per giorno la breve storia d'un filo d'erba, appunto: d'un filo d'erba tra due grigi macigni tigrati di musco, dietro la chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto.
Lo aveva seguito, quasi con tenerezza materna, nel crescer lento tra altri più bassi che gli stavano attorno, e lo aveva veduto sorgere dapprima timido, nella sua tremula esilità, oltre i due macigni ingrommati, quasi avesse paura e insieme curiosità d'ammirar lo spettacolo che si spalancava sotto, della verde, sconfinata pianura; poi, su, su, sempre più alto, ardito, baldanzoso, con un pennacchietto rossigno in cima, come una cresta di galletto.
E ogni giorno, per una o due ore, contemplandolo e vivendone la vita, aveva con esso tentennato a ogni più lieve alito d'aria; trepidando era accorso in qualche giorno di forte vento, o per paura di non arrivare a tempo a proteggerlo da una greggiola di capre...
Ebbene, quel giorno venendo alla solita ora per vivere un'ora con quel suo filo d'erba, quand'era già a pochi passi dalla chiesetta, aveva scorto dietro a questa, seduta su uno di quei due macigni, la signorina Olga Fanelli... La signorina era sorta in piedi, forse seccata di vedersi spiata da lui: s'era guardata un po' attorno: poi, distrattamente, allungando la mano, aveva strappato giusto quel filo d'erba e se l'era messo tra i denti col pennacchietto ciondolante.
Tommasino Unzio s'era sentito strappar l'anima e irresistibilmente le aveva gridato: - Stupida! -.
L'accidente serve a portare l'individuo-personaggio alla scoperta dell'originario se stesso e trasforma il personaggio circoscritto nella forma in persona libera che la massa non può più comprendere né accogliere, perché questa crea una propria mutevole condizione di vita, mutevole come l'aria, il vento: tutto ciò che non si rapprende o assume forma, libera da ogni aspetto di quell'alienazione che abbrutisce.
11. Follia e alienazione
Ogni personaggio ha una sua realtà dipendente fondamentalmente da tre fattori:
1) - tempo,
2) - ambiente geografico,
3) - rapporto con
gli altri personaggi, coi quali si crea spesso un insanabile contrasto.
La
forma rappresenta la realtà fissata per sempre, tanto che quando
interviene l'accidente che libera il personaggio, tutti pensano che la
diversità di comportamento sia dovuta all'improvvisa alienazione mentale del
personaggio, a una sua forma di follia che scatena in tutti il riso, perché non
è comprensibile da parte della
massa.
La follia, o
alienazione mentale, è la condizione nella quale i fatti commessi sono
caratterizzati dalla a-normalità, dall'uscire dalle norme che regolano i
comportamenti della massa.
Solo la follia o la a-normalità assoluta, e incomprensibile per la
massa, permette al personaggio il contatto vero con la natura, (quel
mondo esterno alle vicende umane nel quale si può trovare la pace dello spirito)
e la possibilità di scoprire che rifiutando il mondo si può scoprire se stessi.
Ma questi contatti sono solo momenti passeggeri, spesso irripetibili perché
troppo forte il legame con le norme della
società.
Così accade a
Belluca, quando si ribella al capufficio in modo tanto furioso, pronunciando
parole sconnesse, poetiche e incomprensibili, da essere portato all'ospizio per
i matti.
Così accade a
Enrico IV, un nobile del primo Novecento fissato per sempre nella
rappresentazione del personaggio storico da cui prende il nome, dopo aver
battuto la testa per una caduta da cavallo. In Enrico IV troviamo
l'esasperazione del conflitto fra apparenza e realtà, fra normalità e
a-normalità, fra il personaggio e la massa, fra l'interiorità e
l'esteriorità. Per superare questo conflitto il personaggio tende sempre più a
chiudersi in se stesso, per cui la a-normalità diventa sistema di vita.
Enrico IV è il personaggio
più disperato e tragico di Pirandello, e racchiude i temi di una poetica e di
una visione della vita che porta all'isolamento e alla disgregazione, alla
rottura drammatica e totale non solo con la storia contemporanea e con la
cronaca quotidiana, ma anche con la realtà del passato e con l'illusione del
futuro. È il personaggio-maschera che personifica la scoperta del
grigiore e dell'invecchiamento delle cose e dell'uomo, insieme alla coscienza
dell'irrecuperabilità del tempo passato, che non può più ritornare neppure nello
spazio riservato alla fantasia, perché la vigile e riflessiva ragione avverte
che le cose mutano e non ritornano mai ad essere le stesse di una
volta.
La guarigione di
Enrico IV dalla pazzia, improvvisa e fisicamente inspiegabile, proietta il
personaggio nelle vicende quotidiane, ma lo rende anche consapevole di non poter
più recuperare i 12 anni vissuti 'fuori di mente', per cui non gli resta che
fingersi ancora pazzo dopo aver constatato che nulla era rimasto ormai della sua
gioventù, del suo amore, e che molti lo avevano
tradito.
È in questa
consapevolezza che la persona diventa personaggio e prende
definitivamente le sembianze di Enrico IV, assumendo una forma immutabile agli
occhi di tutti, ma non di se stesso, rifugiandosi nel già vissuto, dove ogni
effetto obbediente la sua causa, con perfetta logica, nella quale ogni
avvenimento si svolge 'preciso e coerente' in ogni suo particolare, proprio
perché, essendo già vissuto, non può più mutare.
Ogni uomo nasce dotato di una personalità che la Natura gli ha
dato:
¨ - è normale quando
questa personalità si sviluppa secondo le norme della Natura stessa;
¨ - è a-normale, invece, quando,
attraverso le norme sociali, l'uomo non sviluppa più la sua originaria
personalità, ma ne acquista un'altra, secondo le norme che la società si è
imposta per sopravvivere.
L'alienazione, quindi, è composta da una personalità espressa non secondo
natura, ma secondo le regole della società, e può essere identificata con la
maschera-forma, l'esistenza nelle centomila forme che si creano nel corso
dell'esistenza; l'accidente, distruggendo la maschera-forma,
distrugge l'alienazione, riportando il personaggio alla sua
condizione originaria, ma impedisce alla massa di capire il personaggio e le fa
pensare che questi è uscito di
senno.
D'altra parte,
proprio nell'alienazione, come nel caso di Belluca, e in quello più
tragico di Enrico IV, il personaggio riesce a risolvere la condizione
esistenziale, mentre la riflessione serve per mettere a nudo le
contraddizioni del mondo nel quale si trova a vivere, a mettere in risalto quel
senso di solitudine che un mondo fatto di finzioni, e ormai anche di macchine,
porta con sé.
Alienazione,
quindi, non tanto come elemento negativo, ma come elemento fondamentale della
condizione umana, nella quale, appunto stemperare la propria angoscia e il
proprio dramma. Per questo, Pirandello cerca nella propria opera il continuo
contatto con i lettori, e approda al teatro come definitiva ricerca del dialogo
con gli spettatori, un dialogo senz'altro più immediato e caldo di quello che si
può realizzare con i lettori, coi quali il contatto è più artificioso ed
incontrollabile, anche perché mentre il lettore si può rifiutare di continuare a
leggere, chiudendo il libro, lo spettatore è costretto a restare seduto sulla
propria poltrona fino alla fine della rappresentazione, se non altro per
educazione verso gli altri
spettatori.
Ma proprio in
questo contatto, l'autore scopre l'ennesima e più grande delusione, perché
l'atto della parola diventa solo una forma di confessione e di espiazione dei
propri errori. I drammi si compiono parlando, ma l'intima essenza di ciascuno
rimane sepolta nella coscienza e nella consapevolezza di una incomunicabilità di
natura esistenziale per la quale egli non sa né può trovare una soluzione che
dia alla sua arte il carattere di compiutezza e di definitiva riabilitazione
dell'uomo, al di là di un profondo senso di
condanna.
Alienazione,
quindi, come soluzione estrema e follia come estremo rifugio, per potersi
salvare dal dramma dell'esistenza.